Scienza greco-romana. Pensiero medico e pratica della medicina nei trattati ippocratici

Storia della Scienza (2001)

Scienza greco-romana. Pensiero medico e pratica della medicina nei trattati ippocratici

Armelle Debru

Pensiero medico e pratica della medicina nei trattati ippocratici

Nelle circostanze politiche e sociali della Grecia del V sec. a.C., epoca in cui fioriscono arti quali l’architettura, la scultura o la retorica, la medicina si sviluppa con straordinaria vitalità, e il suo raggiungimento di un elevato livello culturale è uno dei fatti più ragguardevoli del periodo. Questo processo può essere seguito in gran parte grazie agli scritti successivamente raccolti nel Corpus Hippocraticum, molti dei quali risalgono a tale periodo e documentano non soltanto la novità di questa produzione, ma anche la sua qualità e la sua diversità. I loro autori, genericamente detti ‘ippocratici’, vi esprimono l’ambizione di elaborare un’autentica arte (téchnē). Pur essendoci giunti soltanto in parte, i trattati redatti in quest’epoca testimoniano quanto meno l’alto valore conseguito sia sul piano concettuale sia su quello letterario; il loro successo è indubbiamente servito ad attribuire nel corso del tempo alla sola figura di Ippocrate l’autorità di un ‘primo inventore’, di un ‘padre della medicina’ che all’improvviso avrebbe portato l’arte medica praticamente alla perfezione. Lo stesso Galeno, meno critico di molti autori antichi, doveva contribuire a questa visione, lui che avrebbe ripreso, arricchito e trasmesso gran parte della sua eredità. Anche in epoca moderna, il solo nome di Ippocrate è talvolta sufficiente a evocare l’immagine della razionalità alla base di ogni procedimento scientifico, il rifiuto delle superstizioni e l’importanza accordata all’osservazione, una concezione complessa dell’uomo e del suo ambiente, un umanesimo che riassume l’intero ideale della medicina.

Ciononostante, il punto di vista odierno sull’epoca ippocratica è radicalmente mutato. Sotto l’influenza di nuove discipline, come l’antropologia, si è imparato a tenere in considerazione l’osservatore e i suoi presupposti nella visione delle cose; inoltre, una dimensione comparata degli studi corregge una visione troppo ellenocentrica della scienza e della razionalità, il progresso di discipline quali l’archeologia, la filologia o la storia dei testi ne lasciano apparire un’immagine allo stesso tempo più precisa e più varia, oltre ad aspetti in precedenza trascurati. Una delle principali caratteristiche messe in luce da questa nuova impostazione storiografica è la varietà del campo medico nell’antichità. Là dove si privilegiava l’immagine di un’arte dai contorni ben riconoscibili e una figura emblematica, quella di Ippocrate o del medico ippocratico, si scopre ora una molteplicità di protagonisti di statuto diverso e in competizione l’uno con l’altro: esorcisti, ‘tagliatori di radici’ (rhizotómoi), ‘venditori di farmaci’ (pharmacopōlai), sacerdoti, levatrici, medici pubblici o privati, e così via. Non ci si sofferma più sull’aspetto unitario della dottrina ippocratica, bensì sul suo carattere intrinsecamente pluralistico e agonistico: la discussione e il disaccordo pubblico, infatti, ne erano gli ingredienti essenziali. Allo stesso modo, al di sotto della razionalità compare una certa permeabilità della medicina nei confronti delle superstizioni maggiore di quanto si credesse in passato, in particolare nel caso della medicina delle donne.

La stessa genesi dell’arte medica sembra indissolubilmente legata a un quadro culturale più vasto, di cui fanno parte la diffusione della scrittura e il tipo di elaborazione e di scambi che questa ha consentito. Oggi, dunque, nuove prospettive storiografiche correggono una concezione troppo semplicistica della scienza medica di questo periodo e le problematiche si modificano rinnovando senza sosta la ‘questione ippocratica’. Alla luce di queste tendenze interpretative, occorre quindi considerare gli scritti ippocratici nel loro contesto e guardare alla coesistenza di modelli in competizione nella rappresentazione della medicina e nella concezione dell’arte medica, dei suoi metodi e della sua etica, nonché – cosa non meno importante – ai mutati rapporti della medicina con le altre scienze naturali e con la filosofia.

Ippocrate e i suoi scritti

La costruzione della vita di Ippocrate

La costruzione della figura di Ippocrate su un piano sia storico sia ideale ha avuto inizio nell’antichità, in parte sotto l’influenza di chi, come gli empirici, necessitava di un’autorità per legittimare la propria posizione in medicina, e in parte attraverso la prospettiva del genere letterario biografico. Pressoché interamente inventata, la biografia ippocratica è stata dunque arricchita di falsificazioni, aneddoti e lettere spurie, il cui fine era quello di ricostruire una vita conforme ai valori attribuiti a questo personaggio. Le prime testimonianze letterarie, ciono - no stan te, sono sobrie. La più antica a noi nota è quella di Platone, il quale nel Protagora, che risale all’inizio del IV sec., cita Ippocrate come esempio del migliore specialista cui rivolgersi per apprendere l’arte della medicina (311 b-c). Anche nel Fedro Ippocrate è menzionato per il suo metodo esemplare: studiare la natura «del tutto» per conoscere quella del corpo. Alcuni decenni più tardi, l’opera di Aristotele, profondamente informata sugli scritti medici e sui dibattiti sulla medicina, non aggiunge altro alla conoscenza storica di Ippocrate; varie testimonianze archeologiche ed epigrafiche permettono però di precisare alcuni eventi della storia di Coo, insieme ad altre questioni quali il legame tra la famiglia degli Asclepiadi e Delfi, oppure la pratica della medicina a Coo in epoca posteriore.

Il primo scritto destinato a illustrare il pensiero di Ippocrate risale probabilmente all’epoca ellenistica: si tratta del Presbeuticos o Discorso d’ambasciata, attribuito al figlio Tessalo; al corpus furono inoltre aggiunte altre opere spurie, tra le quali un gruppo di Lettere pseudoepigrafiche. Come si faceva per gli uomini celebri, si redassero anche alcune Vite, la più importante delle quali è attribuita a Sorano di Efeso (prima metà del II sec. d.C.). A queste notizie se ne possono aggiungere altre di epoca bizantina: un breve articolo nella Suda, enciclopedia del X sec., i versi di Giovanni Tzetze del XII sec. e una Vita di Ippocrate in un manoscritto latino di Bruxelles, anch’esso del XII sec.; tutti questi documenti provengono forse da una grande opera biografica perduta (Vite dei medici ) di Sorano.

La presenza di elementi leggendari nelle narrazioni sull’origine della medicina greca si mostra in primo luogo nella filiazione mitica stabilita tra la famiglia di Ippocrate e il dio Asclepio, filiazione alla quale è attribuito peraltro un ruolo centrale nell’immagine del personaggio e della professione medica. In Omero, i due figli di Asclepio – Podalirio e Macaone – erano medici e combattevano sul campo di battaglia. Secondo altre epopee, mentre Macaone fu ucciso durante la presa di Troia, Podalirio fece ritorno in patria; costretto a fermarsi in Caria, vi curò la figlia del re, la sposò e fondò in suo nome la città di Syrnos; da qui, secondo la leggenda, i suoi discendenti si divisero in due rami, uno dei quali si stabilì nell’isola di Coo e l’altro sul promontorio di Cnido, di fronte a Coo (Galeno menziona un terzo insediamento temporaneo a Rodi). Un’altra leggenda genealogica, attestata da alcune monete, associa invece Ippocrate – attraverso la madre – alla figura eroica di Eracle.

Altrettanto importante per la futura immagine della medicina è l’idea della trasmissione familiare nell’ambito di questo quadro aristocratico; per esempio, uno degli antenati di Ippocrate, Nebros, anch’egli medico come i suoi discendenti, si sarebbe reso famoso nel VI sec. insieme a uno dei figli durante una guerra sacra in favore del santuario di Apollo a Delfi. Alcuni racconti di missioni fittizie e di ambascerie presso vari re concretizzano nella vita di Ippocrate l’idea che il valore del medico facesse di lui un degno interlocutore di principi e governanti, e nello stesso tempo si elabora l’immagine di un sapere trasmesso nell’ambito di un lignaggio. Lo stesso Ippocrate, secondo alcuni racconti, avrebbe sposato una donna anch’ella di origine aristocratica, dalla quale avrebbe avuto tre figli: Tessalo e Dracone, divenuti medici, e una figlia che avrebbe sposato Polibo, discepolo del padre e futuro autore del trattato La natura dell’uomo.

Sulla vita di Ippocrate, tuttavia, non ci è pervenuta alcuna notizia certa: non sappiamo se egli sia effettivamente partito per la Tessaglia, lasciando il genero Polibo a Coo; se fosse un medico privato o pubblico; se abbia davvero visitato tutti i luoghi menzionati ne Le epidemie (i cui Libri I e III risalgono al V-IV sec.), vale a dire varie città della Tessaglia, l’isola di Taso e anche Abdera dove si trovava il filosofo Democrito; non sappiamo, infine, quando e dove sia realmente morto, prima che ne nascesse un culto come eroe guaritore a Coo (fatto attestato).

È invece certo che molti aneddoti spuri contengono tracce di un giudizio di valore, a volte ambivalente come quello che nel corso della storia sarà attribuito alla stessa medicina (per es., Ippocrate avrebbe incendiato il tempio di Asclepio a Coo per cancellare le tracce delle fonti sulle quali si basavano le sue conoscenze cliniche, oppure quelle dei rivali di Cnido). È prevalsa comunque di gran lunga la tendenza alla glorificazione, che si trattasse sia dell’invito da parte dei cittadini di Abdera a curare il filosofo Democrito da essi creduto colto da follia, sia della guarigione del re Perdicca di Macedonia da una ‘malattia d’amore’. Più politiche sono le narrazioni riguardanti le richieste di re nemici di guarire da pestilenze, come quella del re persiano Artaserse I, che Ippocrate si sarebbe rifiutato di aiutare per amore della propria patria, oppure quella dei re di un territorio barbaro, che avrebbero invano sollecitato il suo aiuto durante il soggiorno in Tessaglia. Grazie alle sue conoscenze, inoltre, Ippocrate si sarebbe reso benefattore del proprio paese aiutando i Greci ad allontanare il flagello della peste, oppure, secondo un’altra tradizione, facendo accendere grandi fuochi per purificare l’aria, ottenendo con ciò la riconoscenza degli abitanti di Atene.

Questi sono i principali elementi leggendari che hanno incantato eruditi e poeti sino al Medioevo, ma dei quali i medici dell’antichità classica non avevano realmente bisogno, neanche quando cercavano di assicurarsi una legittimazione da parte del più grande tra i medici antichi.

Il Corpus Hippocraticum

Molto più del personaggio, gli scritti ippocratici sono divenuti fonte di importanti interrogativi. La critica ha tentato di riconoscere all’interno del corpus le opere attribuibili alla mano di Ippocrate; la ‘questione ippocratica’, però, è divenuta sempre più complessa, tra convinzioni ragionate e uno scetticismo corrosivo. Oggi l’attenzione non è più rivolta all’attribuzione dei vari scritti, ma alla modalità di costituzione del corpus, questione di grande importanza per la storia del pensiero medico.

Ciò che si definisce Corpus Hippocraticum è in realtà una raccolta di una sessantina di scritti medici che nel corso della storia sono stati collegati in modo diretto o indiretto all’ambiente di Ippocrate. I trattati più antichi risalgono a un periodo situato tra la metà del V e la metà del IV sec. a.C.; molti altri vanno al di là di questo quadro cronologico e sono databili intorno agli inizi della nostra era. La raccolta è stata costituita durante il III sec. a.C., allorché le varie opere furono riunite presso la biblioteca di Alessandria e iniziarono a essere oggetto di studio.

Un discepolo di Erofilo, Bacchio di Tanagra, elaborò – come si faceva anche per altre opere – un glossario dei termini difficili o arcaici, e a quell’epoca si attribuivano a Ippocrate una ventina di testi; nel I sec. d.C., un altro erudito, Erotiano, riprese il suo lavoro, ma l’elenco delle opere ippocratiche si era già ampliato e conteneva circa quaranta trattati. Altri vi sono stati aggiunti in data più recente, tanto che l’edizione (1839-1861) di Émile Littré raccoglie una sessantina di scritti considerati ippocratici. Ci si trova dunque di fronte a questo fenomeno: una letteratura medica di origine disparata divenuta, con l’andar del tempo, ‘ippocratica’.

Una breve descrizione del corpus può servire a illustrarne la varietà. Un insieme di trattati sembra formare il nucleo più antico per le idee che vi sono dibattute e per l’innegabile cura della forma letteraria, la ricchezza delle informazioni e la potenza del pensiero: i trattati chirurgici; la parte più antica de Le epidemie (Libri I e III); il Prognosticon, che insegna al medico attraverso quali segni prevedere l’esito della malattia; il grande trattato intitolato De aëre, aquis, locis; il De morbo sacro, in cui l’autore denuncia i ciarlatani che attribuiscono la causa dell’epilessia agli dèi e pretendono di guarirla con metodi magici; infine, L’antica medicina, un trattato che si oppone alle ipotesi filosofiche ed è famoso per il racconto della scoperta dell’arte medica.

Altri trattati sono più tecnici, in particolare Sul regime delle malattie acute, in cui si espongono le scoperte sul regime che meglio aiuterà il malato a superare le malattie più pericolose. A queste opere ne sono state aggiunte altre maggiormente orientate verso l’insegnamento: i famosi Aforismi, che raccolgono un gran numero di brevi enunciati e presentano alcune sintesi dottrinali finalizzate alla pratica, facili da memorizzare, e che godettero di immenso successo (come testimonia lo straordinario numero di edizioni e di commenti prodotti nell’antichità e nel Medioevo in greco, in arabo o in latino), e le Praenotiones Coacae, posteriori agli Aforismi, che raccolgono enunciati riguardanti la prognosi.

Altre opere riguardano campi particolari, come quelle sulla generazione e la crescita dell’embrione. È inoltre possibile distinguere alcuni trattati basati su postulati filosofici, per esempio Sul regime (in quattro libri, l’ultimo dei quali è dedicato ai sogni), Sui venti, e – ancora più filosofico – il De carnibus. Altri, al contrario, sono di contenuto strettamente medico, come i libri Le malattie e Le affezioni, o l’importante gruppo di trattati Sulle malattie delle donne. Resterebbero da elencare ancora molte altre opere di questa parte del corpus, tutte di grande interesse, e infine quelle che la storia della medicina ha sempre messo in evidenza, malgrado il loro relativo isolamento nell’ambito della produzione complessiva, vale a dire Il giuramento e alcuni trattati deontologici: La legge, Il medico, Le buone maniere e I precetti.

Se si considera semplicemente la forma di questi scritti, il carattere vario della raccolta appare sotto numerosi aspetti: i testi sono di lunghezza e di stile diverso; alcuni sono dotati di notazioni poco elaborate sul piano letterario, altri sono perfettamente costruiti e molto curati; alcuni si rivolgono esclusivamente a medici per il loro carattere tecnico, altri a un pubblico più ampio e di alto livello culturale, interessato a questioni riguardanti la medicina (questo carattere è stato ulteriormente accentuato dalle vicissitudini della trasmissione testuale). Alcuni testi sono disposti in una sequenza arbitraria, come i quattro libri de Le malattie o i sette libri de Le epidemie, che generalmente si raggruppano in tre insiemi di data diversa; alcuni trattati formavano originariamente un’unica opera e, viceversa, a volte due sono stati riuniti in uno.

Non sempre ci si è posto il problema di quali fossero le vere opere di Ippocrate all’interno di questa vasta letteratura. Per Galeno il problema dell’autenticità era ovviamente importante, visto che egli faceva coincidere la verità in medicina con quanto si poteva attribuire allo stesso Ippocrate. La questione è stata però a lungo lasciata in disparte ed è stata risollevata soltanto in epoca moderna, in particolare quando É. Littré intraprese la grande opera di edizione del citato Corpus Hippocraticum; sua intenzione era quella di aiutare i medici del tempo a migliorare, attraverso il ritorno alla fonte ippocratica, soprattutto in materia di osservazione e di pratica clinica. Ha così avuto inizio la ‘questione ippocratica’, nel cui ambito le ipotesi sulla datazione delle varie opere e l’identificazione di quelle attribuibili a Ippocrate sono state considerate inizialmente come probabili e poi con un atteggiamento sempre più prudentemente scettico.

Si è creduto che la testimonianza del Fedro di Platone potesse aiutare a ricostruire il nucleo autentico del corpus, ma recentemente un’altra testimonianza antica ha provocato lo scompiglio. Nell’Anonymus Londiniensis, un papiro greco risalente al I sec. d.C. in cui sono riassunte varie dottrine mediche, si trova in particolare un saggio sulle malattie secondo Ippocrate, ove si attribuisce la loro causa primaria ai «venti» prodotti nel corpo dagli alimenti; ciò ha provocato un lungo dibattito sull’autenticità del trattato Sui venti, l’unico che fosse vicino a questa tesi senza essere manifestamente di mano di Ippocrate. Inoltre, tra le questioni più discusse vi è quella dell’appartenenza di alcuni trattati a un centro medico diverso da Coo, ovvero quello di Cnido: entrambi sono stati a volte definiti con il termine poco felice di ‘scuola’, attribuendo loro un’unità di dottrina e una forma istituzionale eccessive; del resto oggi sappiamo che in quell’epoca l’insegnamento della medicina avveniva anche altrove. Dal punto di vista storico, i legami tra i due centri medici sono attestati da un’iscrizione contenente un decreto promulgato dall’associazione (koinón) degli Asclepiadi di Coo e Cnido.

Allo stesso modo, non possiamo dubitare dell’esistenza di medici illustri a Cnido, come Ctesia, che allude al modo in cui il padre e il nonno usavano l’ellèboro come purgante senza troppo padroneggiarne le dosi, o Eurifonte, che avrebbe curato un poeta comico colpito da pleurite provocandogli numerose escare. L’Anonymus Londiniensis cita un altro medico, Eurodico di Cnido, che sarebbe stato autore di una teoria sull’origine delle malattie, e a questi nomi di medici va aggiunto anche il titolo di una raccolta, le Sentenze cnidie, citate nel trattato ippocratico Sul regime delle malattie acute. L’autore di questa opera accusa i medici di Cnido di limitare eccessivamente il numero di medicinali – utilizzando soltanto purganti, latticello e latte – e ne critica il regime, e per questo motivo si è creduto di riconoscere il carattere ‘cnidio’ di certi trattati del corpus (ovvero quelli detti ‘nosologici’ e alcuni trattati ginecologici); per altri versi, però, queste opere testimoniano un atteggiamento medico allo stesso tempo ardito ed efficace, come mostrano per esempio la pratica dell’auscultazione immediata, della succussione e di interventi come la perforazione della pleura per evacuare il pus in caso di ascesso.

La trasmissione delle conoscenze

L’insegnamento della medicina ippocratica avveniva in origine nell’ambito familiare; lo stesso Ippocrate, di famiglia medica, avrebbe trasmesso la propria arte ai due figli prima di allargare il cerchio della famiglia ammettendovi il genero Polibo. Il modello esclusivamente familiare cedette difatti progressivamente e all’insegnamento furono ammessi membri esterni, a condizione però che stabilissero legami di natura familiare con i propri maestri. Il giuramento riflette questa apertura, assegnando nel contempo ai nuovi discepoli doveri quasi filiali verso i maestri: «Riterrò chi mi ha insegnato quest’arte pari ai miei stessi genitori, e metterò i miei beni in comune con lui, e quando ne abbia bisogno lo ripagherò del mio debito e i suoi discendenti considererò alla stregua di miei fratelli».

Malgrado questi cambiamenti, tuttavia, l’insegnamento medico dovette conservare a lungo caratteristiche tradizionali. Si trattava di un insegnamento precoce, progressivo ed essenzialmente orale; la precocità era considerata necessaria, e il medico detto opsimathḗs, ossia quello che si dedicava tardi alla medicina, non era considerato affidabile. Riguardo alla progressività, il breve trattato Il medico mostra che l’insegnamento iniziava in laboratorio con la piccola chirurgia: incisioni, cauterizzazioni, cura di ferite, bendaggi. Lo studente fungeva da aiutante e profittava di lezioni pratiche; soltanto in seguito poteva dedicarsi al difficile campo delle malattie interne, e a tal fine accompagnava il medico nelle visite e si tratteneva spesso accanto al malato, annotando giorno per giorno i segni della malattia. Era inoltre suo compito vegliare affinché il malato obbedisse alle prescrizioni, preoccupazione costante dei medici ippocratici che si assumevano la responsabilità dello stato del malato. In ultima istanza, lo studente prendeva familiarità con le medicine, la loro natura e le loro dosi. Questa era la parte di gran lunga più delicata della formazione: in dosi forti, molte di queste droghe (in particolare i purganti come l’ellèboro) erano veleni che soltanto un lungo uso e molti errori potevano insegnare a padroneggiare (l’autore del Libro V de Le epidemie riconosce infatti che l’uso dell’ellèboro è stato a volte fatale per i suoi malati). Dell’oralità dell’insegnamento, infine, si conservano tracce nei brevi aforismi, nelle formule ben ritmate, molto condensate e numerate (nelle quali vi sono sempre tre elementi in causa: il medico, il malato e la malattia), negli elenchi e in altri dettagli che definiscono uno stile di spiegazione sintetico e adattato alla memorizzazione.

Ciononostante, la trasmissione orale non escludeva l’uso della scrittura: nei trattati, infatti, si alternano spesso i verbi ‘dire’ e ‘scrivere’. Gli scritti servivano da supporto a discorsi tenuti in pubblico, come il trattato De arte o Sui venti, ma non si trattava di un sostegno secondario. Gli studiosi hanno notato come la scrittura abbia trasformato il contenuto della medicina antica modificando l’informazione di cui i testi erano portatori. L’annotazione scritta dei fatti osservati e delle riflessioni, infatti, ha indubbiamente favorito l’emergere di un sapere critico, suscettibile di evoluzione; i casi di malati scelti potevano servire da riferimento in casi analoghi, e costituivano un insieme di dati che poteva essere ampliato, classificato in modo diverso e trasmesso altrove.

Gli stessi medici ippocratici distinguevano tra leggere e scrivere, e stimavano particolarmente degni di scrittura i principî di metodo e le riflessioni generali. Con la diffusione dei testi scritti si superava la limitazione della necessaria presenza fisica del medico, anche se questi disponeva comunque di un’autorità che gli piaceva sottolineare, come mostra il fatto che alcuni medici si esprimessero nei propri scrit - ti con un ‘io’ caratteristico: «Io ho scoperto i segni diagnostici che mostrano cosa prevale all’interno del corpo, gli esercizi sugli alimenti o gli alimenti sugli esercizi», scrive l’autore del testo Sul regime (3, 67). La scoperta, però, non è stata sempre rivendicata e a volte è rimasta collettiva (per es., la raccolta di Sentenze cnidie è stata oggetto di revisione collettiva, e lo stile di alcuni scritti non lascia spazio a un singolo autore), ma, nel complesso, i medici ippocratici erano caratterizzati da una forma di espressione molto personale.

Una letteratura medica così variegata si rivolgeva a un pubblico altrettanto vario. I testi più tecnici riguardanti la malattia e la sua cura erano destinati principalmente ai medici, i più retorici – come il trattato De arte o quello Sui venti – si indirizzavano soprattutto ai ‘profani’ (idiõtai) o non medici. Attraverso l’uso di figure stilistiche, di una costruzione curata, di elaborate transizioni e di immagini, l’autore voleva piacere e persuadere, come un retore; egli era però anche certo di apportare idee nuove e giuste. La retorica era solamente uno dei veicoli del pensiero medico; la qualità letteraria, insieme all’interesse delle idee dibattute – con le quali la filosofia era già familiare – assicurava a questi testi una diffusione tra i non specialisti; ciò spiega come autori quali Aristofane, Platone o Aristotele, e molti altri dopo di loro, abbiano dimostrato tanto interesse per le dottrine ippocratiche.

Che trattassero della natura dell’arte, del rapporto tra salute e ambiente, della parte del divino nella malattia, di embriologia, o riguardassero le malattie della donna, già in epoca ippocratica queste opere erano infatti diffuse molto al di là del circolo dei medici, negli ambienti filosofici o ‘sofistici’ o semplicemente colti; a ciò hanno contribuito grandemente sia la loro alta qualità letteraria, sia le dimostrazioni pubbliche, o epideíxeis, per le persone colte delle città.

La medicina ippocratica nel suo contesto: medicina e religione

La leggenda di Asclepio e la medicina religiosa

La figura di Asclepio, al quale si riteneva che la famiglia di Ippocrate fosse legata per discendenza maschile, è importante per comprendere i rapporti della medicina antica con la medicina religiosa. Come molte figure divine nella storia della mitologia, Asclepio era asceso dallo stato di uomo a quello di dio, attraverso quello di semidio. Omero lo designa padre di Podalirio e di Macaone, provenienti dalla città di Tricca (Triccala), in Tessaglia, di cui Asclepio sembra fosse principe. Pindaro ha narrato il processo di trasformazione in semidio; il grande successo come dio guaritore ha avuto luogo, invece, a partire dalla fine del V sec., quando i santuari a lui dedicati iniziarono a moltiplicarsi. Il più importante era quello di Epidauro; successivamente il culto di Asclepio si diffuse nel resto della Grecia, a Creta (Lebena), in Asia Minore (Pergamo) e a Roma, dove Asclepio divenne Esculapio.

Era venerato ovunque per il suo potere di guarigione, che si manifestava durante l’incubazione nel suo tempio. Già Aristofane, all’inizio del IV sec., nella commedia intitolata Pluto descriveva come il cieco e ingiusto dio della ricchezza, accompagnato da un contadino in un tempio di Asclepio, avesse ritrovato la vista, e con essa la capacità di aiutare con discernimento i poveri, dopo aver passato la notte nel tempio. La scena della guarigione, in cui il dio interveniva accompagnato da serpenti che leccavano le pupille al malato, ricorda altre testimonianze su questo genere di guarigioni. Le più dirette sono alcune iscrizioni del tempio di Epidauro, già rivelate da Pausania e in parte ritrovate dagli archeologi; si tratta di circa settanta brevi racconti di guarigioni miracolose, caratteristiche dei modi della medicina divina, che sono particolarmente interessanti in quanto sono incentrati sui malati, con la narrazione attribuita loro in modo quanto meno fittizio (era infatti il personale del tempio a redigere questi testi).

In generale, il malato si recava al tempio sperando nella guarigione, credendo fermamente nel potere del dio di procurargliela, ed era invitato a trascorrervi la notte; il dio interveniva durante un sogno, direttamente o per il tramite di animali. Nella maggior parte delle visioni riferite, egli si mostrava in persona: «le sembrò che il dio, in piedi dinanzi a lei, [...]» (visione numero 4); «gli sembrò che il dio si trovasse dinanzi a lui» (8). Spesso il dio parlava al malato dandogli un ordine, come all’uomo paralizzato al quale Asclepio ordinò di portare al santuario la più grossa pietra che poteva, e che si rialzò guarito (15). La cosa più interessante è il fatto che il dio si comportasse come un medico, operando talvolta in modo vicino alla realtà come quando effettuava coscientemente incisioni e suture; tranne il metodo, però, il resto non aveva alcunché di paragonabile con quanto descritto nei testi medici ed era frutto d’immaginazione: in sogno, libero da qualsiasi reale pericolo, il dio incideva il ventre, estraeva un tumore o un verme e ricuciva; in modo ancora più simbolico, poteva tagliare una testa o un organo vitale e rimetterli a posto.

In questi racconti si visualizza il male insieme all’operazione che da esso libererà il malato, e altrettanto notevole è l’assenza di dolore: qualunque sia la natura del gesto compiuto, gli scritti non accennano ad alcuna sofferenza; ciò distingue questa medicina ‘di sogno’ dalla realtà medica del tempo di Ippocrate, quando si utilizzavano spesso ferro, fuoco e medicinali ulceranti. D’altra parte, come accadeva ai suoi con fratelli umani, la questione del salario non era certo elusa da parte del dio, il quale non curava gratuitamente. La sfortuna avrebbe colpito chi non voleva pagare il giusto prezzo ed egli sarebbe tornato allo stato precedente. Soltanto il povero e il bambino trovavano grazia agli occhi di Asclepio, come ricorda questo affascinante dialogo inscritto su pietra: «‘Cosa mi darai se ti restituisco la salute?’ Il bambino rispose: ‘Dieci dadi’. Il dio si mise a ridere e promise di guarirlo» (8).

Dal Peloponneso alle regioni più lontane della Grecia e sino all’Asia Minore, i malati accorrevano dopo essere stati a volte abbandonati da medici che preferivano non rischiare la reputazione con casi che disperavano di guarire, o dopo aver rinunciato a cure che giudicavano inefficaci, troppo dolorose o pericolose; i ricordi scritti, come gli ex voto, mostrano sempre soddisfatta la loro speranza, salvo qualora avessero offeso il dio. Le iscrizioni passano direttamente dai sintomi alla guarigione: questa medicina era infatti immediata, mentre quella di Ippocrate era intimamente legata alla storia della malattia e del malato. Era una medicina completa ma priva di postumi; non era sempre diretta ma metteva in scena, sotto forma di una visione, il «dialogo singolare» del malato e del suo dio guaritore. Quest’ultimo, infine, era onnipotente. Gli insuccessi erano dovuti al malato, al suo scetticismo o alla sua avarizia, e vi si poteva facilmente porre rimedio; come in tutte le medicine miracolose, l’impossibile non esisteva, né vi era spazio per l’approssimazione, il ragionamento, i rischi terapeutici, i difficili gradi della prognosi. È dunque possibile capire l’immenso e durevole successo di Asclepio, che associava causa e rimedio e che soprattutto era sostenuto dal sentimento religioso e dalla fede nel miracolo, a fronte degli sforzi spesso vani di una medicina umana nella quale la fiducia tra la persona che curava e quella curata restava sempre fragile o era smentita dai fatti o dai comportamenti.

La medicina ippocratica e il divino

Come si poneva la medicina ‘razionale’ di fronte al divino? Non ci sono testimonianze di una rivalità tra medici e partigiani del dio guaritore. Gli Asclepiadi pretendevano di discendere da Asclepio, e già questo era un buon motivo per non dichiarare loro guerra; gli ippocratici ponevano anzi il dio al primo posto all’inizio de Il giuramento: «Giuro per Asclepio, Igea e Panacea [...]». Per il resto, però, erano molto attenti a distinguere: il sacro faceva parte della Natura, e i medici non erano atei, ma la loro medicina escludeva qualsiasi confusione. Essa poggiava su una base interamente diversa dalla medicina dei templi per quanto riguardava alcuni punti essenziali: la causa delle malattie, il ruolo degli uomini, le basi della terapia.

Vi era poi un’altra linea di confine che, paradossalmente, contribuiva a mantenere i buoni rapporti degli ippocratici con gli dèi: il rifiuto di ogni forma di magia nella medicina, o della pseudomagia praticata dai guaritori-ciarlatani. Questa opposizione assoluta è espressa con argomentazioni forti a proposito dell’epilessia nel trattato De morbo sacro, opera nella quale – anche se il tema è appena affrontato in modo diretto – si percepisce lo sforzo compiuto dagli ippocratici per estirpare una delle credenze più diffuse riguardo alla malattia: quella che fosse conseguenza di un errore commesso nei confronti della divinità. Se ne parla anche nel De aëre, aquis, locis, a proposito dell’impotenza degli sciti ‘anariei’, che «ritengono di aver commesso qualche peccato verso la divinità» (22); di questo disturbo si propone un’analisi del tutto naturale e se ne attribuisce la causa a un eccesso di equitazione. Al contrario della concezione popolare, si argomenta: «Quanto a me, penso che questo male sia divino, e così tutti gli altri, e che nessuno sia più divino o più umano di un altro, ma che tutti siano simili e tutti divini. Ognuno di essi invero ha una struttura naturale sua propria e nessuno accade fuori della Natura» (ibidem). Contro la convinzione che esista una responsabilità individuale, l’autore di quest’opera insiste su fattori patogeni quali la costituzione, l’eredità e il clima; facendo del divino una circostanza generale e non specifica delle malattie, egli lascia spazio a una ‘causa’ propria per ognuna di esse.

Identica convinzione è espressa nel De morbo sacro: l’epilessia non è né più né meno divina delle altre malattie e il concetto di causa naturale ha uno spazio proprio. Oltre a ciò si compie un secondo capovolgimento argomentativo: proprio coloro che vogliono agire attraverso metodi magici, purificazioni e incantesimi – dice il medico – sono empi e impuri, perché considerare la malattia una lordura inviata dagli dèi significa attribuire a questi ultimi l’impurità; al contrario, come testimoniano le abluzioni rituali, la divinità non conosce altro che purezza e santificazione. Questo abile ragionamento rinvia al ciarlatano i suoi maneggi immondi. In breve, i rapporti della medicina ippocratica con la religione erano basati sul rifiuto del ricorso al magico-religioso nella spiegazione delle malattie specifiche e nella terapia, sulla pacifica accettazione del sacro rappresentato dalla religione riconosciuta e su una grande considerazione degli dèi, ai quali era lecito rivolgere preghiere. Nel trattato Sul regime i due livelli sono associati pur senza essere confusi: «È necessario seguire un regime e pregare gli dèi». Eppure, qualcosa sfuggiva a questo schema ben ordinato, soprattutto nella medicina delle donne.

La medicina ippocratica nel suo contesto: medicina e filosofia

I filosofi

La medicina ippocratica si è sviluppata in stretto contatto con un ambito di riflessione familiare ai filosofi presocratici; del resto, alcuni filosofi (fra i quali Empedocle e Melisso di Samo) sono direttamente menzionati dai medici e, anche se il tono è spesso polemico, è possibile riconoscere una comunanza di preoccupazioni su molti punti riguardanti la costituzione e la formazione dell’uomo.

La filosofia della Natura era in piena fioritura fra il VI e il V sec., e le questioni da essa dibattute non riguardavano soltanto l’origine del Cosmo ma anche il modo in cui l’uomo si era formato a partire dagli elementi primari. Secondo Platone, Socrate ne custodiva un ricordo entusiasta: «quand’ero giovane ero straordinariamente attratto da quel sapere che chiamano indagine della Natura: mi sembrava splendido conoscere le cause di ogni cosa, perché ciascuna cosa nasce, perché muore e perché esiste» (Phaedo, 96 a).

Tra i filosofi più importanti in questo campo si cita spesso Alcmeone di Crotone; menzionato da Aristotele come discepolo di Pitagora, si ritiene che egli sia stato un medico e, malgrado la povertà di testimonianze certe, gli si attribuiscono apporti importanti nel campo della medicina, tra i quali una concezione della salute come risultato dell’equilibrio e della mescolanza delle qualità costitutive dell’uomo (umido, secco, caldo, freddo, amaro, dolce, ecc.), mentre una condizione contraria avrebbe provocato la malattia. Questo modello ispirato all’isonomía politica, che si opponeva al dominio da parte di un unico elemento, fu ripreso dagli ippocratici, che vi aggiunsero l’idea della «buona mescolanza» (krāsis).

Alcmeone è considerato un precursore anche nel campo della dissezione; inoltre, come altri filosofi del suo tempo, egli si sarebbe tra l’altro interessato alla questione della percezione, scoprendo la struttura interna dell’occhio e l’esistenza di condotti molto più tardi riconosciuti come nervi. In modo più certo, altri filosofi – Empedocle, Anassagora, Diogene di Apollonia, Filolao di Crotone e Democrito – mostrarono profondo interesse per le questioni della vita e per quelle di ordine medico. Una parte del poema di Empedocle Sulla natura è dedicata ai grandi problemi fisiologici, come la digestione, la respirazione, la percezione, la generazione e il sonno; il suo sistema di quattro elementi assunse un’importanza fondamentale in medicina, e lo stesso Empedocle (con modi un po’ da ‘mago’) avrebbe praticato la medicina, guarito da pestilenze, salvato malati e prescritto rimedi.

Anassagora fu l’autore della distinzione tra parti ‘omeomere’, ovvero costituite da elementi uguali, e altre parti che più tardi avrebbero preso il nome di ‘anomeomere’; la sua teoria embriologica della ‘preformazione’ nel seme, che conterrebbe indistintamente tutte le omeomerìe prima della loro separazione, trova eco nel Corpus Hippocraticum. Sembra, inoltre, che Anassagora non avrebbe esitato a far aprire un cranio per spiegare l’anomalia morfologica di un animale che un indovino attribuiva alla religione. Quanto a Diogene di Apollonia, si pensa che fosse vicino al pensiero medico sia per la scelta a favore dell’aria come elemento esplicativo della sensazione e del pensiero, sia per l’interesse nei riguardi del corpo umano e in particolare del suo sistema vascolare: interesse che verrà citato anche da Aristotele. Secondo uno schema d’insieme, in stretto rapporto con il suo progetto filosofico, Diogene faceva derivare tutti i vasi sanguigni da due grossi vasi del tronco, lo splēnītis (dal lato della milza) e l’hēpatītis (dal lato del fegato).

Tra gli altri filosofi più interessati alla medicina, secondo l’Anonymus Londiniensis Filolao di Crotone è parso a Menone degno di essere citato per la sua teoria fisiologica e la sua teoria delle malattie. Queste ultime erano causate – a suo avviso – da tre umori (il sangue, la bile e il flegma) ed erano favorite da ogni squilibrio, in particolare il caldo. Il personaggio più vicino a Ippocrate per pensiero e personalità, nonostante la sua immensa opera sia andata perduta, era tuttavia Democrito, la cui notevole influenza sulla medicina non si è limitata certo all’atomismo (di cui si sono già rilevate le tracce nel Corpus Hippocraticum). Il catalogo delle sue opere, stabilito da Trasillo e trasmesso da Diogene Laerzio, ne conteneva almeno cinque o sei interamente dedicate alla biologia e alla medicina, senza contare quelle che riguardavano queste tematiche in modo indiretto; ciò testimonia la sua importanza in questo campo soprattutto per quanto riguarda la sensazione e la riproduzione.

Influenze o sviluppi paralleli

Fra le notevoli somiglianze esistenti tra scritti filosofici e medici, non soltanto sul piano degli interessi ma anche su quello delle teorie, una delle questioni principali è proprio quella relativa alla generazione. In proposito sono state accostate in particolare la tesi sviluppata nel trattato ippocratico De genitura e quella attribuita a Democrito, vale a dire la teoria della pangenesi o formazione del seme a partire dalla totalità del corpo, ma anche della fecondazione a partire da due semi – maschile e femminile – o della differenziazione sessuale per la dominanza di un seme sull’altro. Ciononostante, l’idea di una precisa influenza delle tesi filosofiche su quelle mediche è recentemente arretrata in favore di una visione più equilibrata, secondo la quale i due campi avrebbero potuto interagire e svilupparsi in modo indipendente. Del resto, l’autore dei trattati De genitura e De natura pueri fa più volte appello all’osservazione concreta e a una certa forma di esperienza provocata. L’osservazione, per esempio, è quella di un «embrione di sei giorni» che egli poté effettuare dopo aver provocato, a suo avviso, un aborto precoce in una cortigiana (De natura pueri, 13); l’esperienza è quella dell’aver seguito la cova contemporanea di una serie di venti uova che si sarebbero schiuse a un giorno di intervallo una dall’altra (29).

In altre occasioni i rapporti tra medicina e filosofia sono stati esplicitati in modo più evidente. L’opposizione a una medicina che si vorrebbe fondata su principî filosofici è infatti espressa con molta chiarezza nel Corpus Hippocraticum; ne L’antica medicina, per esempio, si attacca l’obbligo di basare la medicina su una conoscenza della natura umana fondata sulla cosmologia. Il trattato prende di mira Empedocle e «altri che hanno scritto ‘sulla Natura’, descrivendo ‘dal principio’ ciò che è l’uomo e come in origine è apparso e di quali elementi è formato» (De vetere medicina, 20). A questo si oppone l’idea secondo la quale «una scienza in qualche modo certa della Natura non possa derivare da nient’altro se non dalla medicina, e che sarà possibile acquisirla soltanto quando la medicina stessa sarà stata tutta quanta esplorata con metodo corretto» (ibidem). Tale conoscenza proviene dall’osservazione dell’uomo reale nella sua vita concreta: da ciò che per lui è buono o cattivo nel suo rapporto con gli alimenti e le bevande, e da tutte le reazioni che egli prova nel suo modo di vita; ciò che il medico scopre così facendo non è la natura umana in generale, ma le nature degli uomini nelle loro diversità. A questo va poi aggiunta una ricerca approfondita sulle strutture interne del corpo, la forma delle quali svolge un ruolo nella patologia umorale specifica.

Vi è poi un’altra critica, che riguarda il ricorso non tanto a presupposti genericamente filosofici quanto alle teorie moniste. Essa si trova ne La natura dell’uomo, il cui autore dichiara: «Io non affermo infatti assolutamente che l’uomo sia aria, o fuoco, o acqua, o terra» (De natura hominis, 1), prima di citare come esempio Melisso di Samo. Ciononostante, egli è abbastanza vicino a questi filosofi quando espone la propria teoria, secondo la quale la natura umana comprenderebbe quattro umori, cioè sangue, flegma, bile gialla e bile nera; le sue critiche non sono dunque rivolte alla filosofia, ma al monismo. Accanto a queste critiche, tuttavia, il Corpus Hippocraticum contiene altri trattati decisamente filosofici; ne è un esempio perfetto Sul regime, che parte da una cosmologia dualista prima di giungere alle prescrizioni. In questo caso si sostiene una posizione opposta a quella de L’antica medicina: «Io affermo dunque che chi intende scrivere correttamente sul regime dell’uomo deve anzitutto conoscere e discernere la natura dell’uomo in generale» (2). Alla base di quest’ultima si troverebbero l’acqua e il fuoco insieme ai loro attributi: caldo, secco, freddo e umido. A questi elementi l’autore riconduce l’anima e le diverse funzioni, come la generazione, la sensazione, la nutrizione e così via.

Ancora più vicino alla cosmologia, l’autore del trattato De carnibus dà un esempio dell’interesse provato da certi medici per una spiegazione complessiva della formazione degli esseri viventi. Il suo trattato di medicina si apre infatti con una breve cosmologia in cui è descritta l’origine dell’Universo attraverso la separazione di tre elementi: il caldo, la terra e l’aria. A partire dal caldo contenuto nella terra si formano delle «putrefazioni»; di qui, due tipi di materia, quella grassa e quella glutinosa, formano gli elementi del corpo vivente: ossa, vasi, carne e poi parti e organi, sino al più piccolo elemento del corpo. La fisiologia deriva da questa composizione primitiva. In ogni caso, il corpus contiene altri esempi di questa feconda interazione fra medicina e filosofia.

La medicina sulla scena pubblica

Alcuni scritti ippocratici erano chiaramente destinati a essere pronunziati di fronte a un vasto pubblico, altri di fronte a un pubblico più ristretto e professionale. I primi erano il prodotto di accurate ricerche stilistiche destinate a piacere al pubblico e a persuaderlo; il trattato più caratteristico di questo stile è Sui venti, ove si è potuta scorgere l’influenza dei sofisti, tra cui quella del celebre Gorgia. La tesi di questo trattato è però interamente medica: tutte le malattie hanno una sola causa, ovvero l’aria. Al di fuori del corpo e, soprattutto, al suo interno l’aria è onnipotente e le malattie sono provocate da disturbi legati alla sua produzione o alla sua circolazione. Eloquio, ritmi, figure, tutto evoca in questo discorso una prestazione da oratore, ma nulla si oppone al fatto che l’autore fosse un medico: il legame fra medicina e oratoria è, d’altronde, caratteristico di quest’epoca.

Per alcuni medici, la posta in gioco era ottenere un incarico pubblico. Attestato da numerose testimonianze letterarie ed epigrafiche a partire dal VI sec., l’uso di assumere medici pubblici doveva rispondere al bisogno delle città di assicurarsi, se ne era priva, i servizi e le competenze di un medico in cambio di remunerazione. Nel Corpus Hippocraticum, però, nulla traspare dei discorsi che i candidati a questi posti dovevano tenere, generalmente dinanzi all’assemblea del popolo che poteva così compiere la propria scelta in base a vari criteri. Gare oratorie che avevano come protagonisti i medici esistevano però anche al di fuori di questi concorsi, e il vincitore di esse, designato dal pubblico, poteva cambiare da un giorno all’altro. In pubblico si esponevano questioni importanti o anche fondamentali; per esempio, l’autore de La natura dell’uomo espone pubblicamente la propria teoria degli elementi costitutivi dell’uomo, che a suo avviso sono molteplici, e lo fa servendosi di argomenti e prove che restano nell’ambito del ragionamento e della persuasione. In queste controversie pubbliche il medico doveva imparare a rispondere correttamente o a fare lui stesso da contraddittore; come molti altri settori della vita intellettuale e politica del tempo, la scena medica era dunque in gran parte pubblica e le idee e le teorie si confrontavano apertamente.

Uno dei temi delle gare pubbliche era la questione dell’esistenza stessa di un’arte medica, questione che va considerata alla luce tanto della forza quanto della fragilità della medicina del periodo: essa era forte, perché si basava su una concezione più generale della téchnē, fatta di conoscenza e di pratica metodica, ma nello stesso tempo era fragile, perché i risultati che conseguiva non dimostravano in modo chiaro l’efficacia delle cure praticate. Il pubblico di questi discorsi era generalmente favorevole alla medicina, ma vi erano anche detrattori dotati di argomenti temibili. La difesa della medicina è il tema principale del trattato De arte, il cui autore combatteva contro avversari secondo i quali non esisteva una vera e propria arte medica perché essa non procurava con certezza la guarigione e perché d’altronde si poteva guarire senza medicina. L’autore attribuisce i fallimenti della medicina non al medico e alla sua arte, ma alle malattie particolarmente difficili da curare o agli stessi malati, colpevoli sotto vari punti di vista (e questo sguardo sospettoso sul malato si ritroverà nella riflessione deontologica).

La medicina non era però pubblica soltanto attraverso la parola; la sua stessa pratica comprendeva a volte la presenza di spettatori oltre ai malati, e non ci si riferisce agli inservienti che circondavano il medico, ai discepoli che lo accompagnavano o agli aiutanti che lo assistevano in laboratorio per le operazioni chirurgiche. Esistono testimonianze inquietanti su cure spettacolari alle quali assisteva la folla, come nel caso delle ‘succussioni mediante scala’, destinate a far scomparire le deformazioni della colonna vertebrale (si attaccava il povero malato a una scala, a testa in giù, prima di lasciarlo cadere rudemente da una certa altezza). Nell’esprimere la sua riprovazione, l’autore del trattato Sulle articolazioni (De articulis) conferma l’esistenza di queste pratiche: «È una vergogna per qualsiasi arte e soprattutto per la medicina fare un gran clamore, una grande scena, un gran parlare, e poi non fare alcunché di utile» (De articulis, 44).

Il medico doveva trovarsi in presenza di un certo pubblico anche nelle normali visite e nei consulti: vi assistevano infatti parenti, vicini, e matrone per le donne. La sua prognosi era senza dubbio tenuta particolarmente in considerazione, essa era anzi il suo punto di forza quando si dimostrava corretta: la reputazione aveva questo prezzo. Era necessario convincere il maggior numero possibile di persone, perché la carriera di un medico dipendeva dai suoi successi. Alcuni trattati ippocratici contengono un’eco di queste prognosi spettacolari che a volte assumevano l’aria misteriosa di ‘divinazioni’: «Da parte mia, non farò mai queste divinazioni» (Prorrheticon, II, 1). In ogni caso, al di là dei successi terapeutici reali, a quel tempo aleatori, il modo di comportarsi in pubblico o agli occhi dell’ambiente privato del malato contava enormemente per l’acquisizione di questa dóxa, questa reputazione che il medico doveva guadagnarsi e che rischiava a ogni istante di perdere.

Concetti e metodi ippocratici

Natura e causa

I concetti di ‘Natura’ e di ‘causa’ erano strettamente legati nel pensiero ippocratico ed erano d’altronde ben presenti nella filosofia e nella scienza del tempo. Pur facendone grande uso, gli autori ippocratici non li definivano però positivamente ma soltanto in rapporto a ciò che essi non erano (ovvero, di origine divina), oppure rivendicavano per entrambi un carattere comune.

Nel quadro medico svolgeva un ruolo capitale la nozione di Natura (phýsis), alla quale gli ippocratici ricorrevano spesso. Essa veicolava l’idea secondo la quale tutti i fenomeni erano regolari e appartenevano a un medesimo ordine che ne determinava le relazioni. In questa sfera nulla poteva giungere dall’esterno, come, per esempio, un intervento degli dèi sotto forma di una particolare malattia: il corso naturale delle cose non conosceva sospensioni né eccezioni. Le malattie erano l’effetto di cause naturali e compito del medico, soprattutto quando si opponeva a una concezione sovrannaturale o divina della malattia, era mostrare come l’uno o l’altro disturbo, per quanto spaventoso, fosse naturale, avesse cause naturali e si producesse con sintomi naturali.

L’autore del trattato De morbo sacro scrive sull’epilessia: «Per nulla – mi sembra – è più divina delle altre malattie o più sacra, ma ha struttura naturale e cause razionali» (1), e si sforza di dimostrarlo spiegando in base a tale principio i sintomi e la loro causa fisiologica. Allo stesso modo, il medico itinerante del De aëre, aquis, locis inizia elencando i fattori naturali propri di ciascun territorio per giungere ai fenomeni patologici che possono derivarne. Dimostrare che un avvenimento era naturale significava descriverlo e spiegarlo in termini di meteorologia per quanto riguardava l’ambiente, di anatomia e di fisiologia per quanto riguardava il corpo umano; questa era la scelta implicita cui si attenevano gli ippocratici. Il concetto di causa è stato fondamentale nell’emergere stesso del pensiero medico. Esso era vicino all’origine della nozione di responsabilità (aítion), familiare al mondo giudiziario o politico, ma fu notevolmente sviluppato da parte degli ippocratici sulla base di tre principî. In primo luogo tutti i fenomeni patologici avevano una causa naturale, cioè si ponevano interamente nell’ambito dei fenomeni fisici. In secondo luogo la conoscenza della causa portava alla cura: «Se si conosce la causa della malattia, si sarà in grado di somministrare al corpo quanto a esso è utile, partendo dai contrari per opporsi alla malattia» (De flatibus, 1). Il terzo principio fondamentale era che il medico sapeva discriminare tra cause diverse; erano possibili, per esempio, una causa apparente e una autentica: «Tutto ciò che il paziente fa in questo periodo è ritenuto la causa di questi disturbi senza esserlo realmente» (De diaeta, 3, 70). I medici notavano la discordanza tra la causa apparente (una coincidenza o il caso) e la causa reale, che richiedeva un’interpretazione. L’errore si produceva per lo più quando vi erano cambiamenti nelle abitudini; allora si incolpava «un bagno o una passeggiata o un pranzo un po’ diverso» (De vetere medicina, 21), e in questo errore incorrevano sia i malati sia gli stessi medici.

Si è molto dibattuto, a tale proposito, sul senso dei termini aitía e próphasis utilizzati da questi autori nel contesto causale. Il primo sembra designasse la vera causa, il secondo una causa complementare o una concomitanza; l’assenza di un linguaggio standardizzato ha offuscato spesso queste distinzioni, che non erano però inutili. Alcuni autori si avvicinavano alla nozione di condizione necessaria: «Dobbiamo in verità ritenere che la causa di ogni singola malattia consista in quei fattori che, se presenti, ne determinano l’insorgere necessariamente e in un modo ben preciso; se invece trasmutano in un’altra combinazione, ne consentono la cessazione» (De vetere medicina, 19).

È ovvio che a partire da questi presupposti fosse difficile riconoscere la o le vere cause, la speculazione, infatti, riprendeva presto il sopravvento: la crisi epilettica, per esempio, era spiegata in base a un’anatomia sommaria delle ‘cavità’ e a una strana fisiologia del respiro e del flegma. Questa complessa visione della causa della malattia è però interessante: vi concorrevano condizioni generali, circostanze favorevoli (età, costituzione) e cause scatenanti (alternanza di caldo e freddo, venti, emozioni, ecc.).

Gli uomini e le loro nature: l’anatomia e la fisiologia

A differenza di quanto accadeva nella filosofia naturale, dove l’uomo era soltanto un elemento del quadro complessivo, la natura umana era l’oggetto principale della medicina ippocratica. Il medico si concentrava su ciò che era pertinente dal suo punto di vista, un punto di vista utilitaristico. In questo atteggiamento nei confronti della natura umana, l’anatomia e la fisiologia generali non erano considerate preliminari, tranne che nei trattati più filosofici; l’approccio dei medici ippocratici era più personalizzato, ciononostante, nella loro arte essi tenevano conto anche di queste conoscenze.

Il termine ‘anatomia’ denota propriamente un’incisione compiuta sul corpo per giungere alla conoscenza delle sue parti interne; lo stesso termine designa anche la corrispondente disciplina e, infine, i fatti in tal modo riconosciuti, insegnati o descritti. In Ippocrate anatomia e dissezione non erano però ancora legate e le anomalie constatate da alcuni medici all’interno di animali sembravano loro dotate di valore eziologico in certe affezioni umane. L’autore del De morbo sacro scrive sull’epilessia: «Se apri la testa e la osservi, troverai che il cervello è molle, pieno di liquido, e che ha cattivo odore» (11). Un altro autore ha osservato tumefazioni nel polmone di certi animali deducendone l’esistenza nell’uomo (De affectionibus interioribus, 23); la dissezione non andava però oltre questi riferimenti occasionali, ed era lungi dall’essere sistematica (come diverrà in epoca ellenistica).

Si trovano comunque spesso descrizioni più precise e ordinate di altre, soprattutto a proposito delle ossa e dei vasi; la conoscenza delle ossa, infatti, era considerata utile per i medici: «Occorre in primo luogo conoscere la natura della colonna vertebrale, quale essa sia: per molte malattie ciò è infatti opportuno» (De articulis, 45). Una descrizione sistematica è presente all’inizio del breve trattato intitolato La leva (Mochlikón), trattato nel quale l’ordine della descrizione scorre dal basso verso l’alto, partendo dal piede per giungere alla testa. In testi più recenti si trova invece l’ordine discendente «dal capo al piede». Partire dal piede riflette un antichissimo interesse per la posizione eretta, proprio dell’epoca arcaica, per il cammino e per la realizzazione degli altri movimenti, in particolare quello del guerriero; al contrario, l’ordine a capite ad calcem, anch’esso molto antico poiché compare nei testi medici egizi, sembra generalizzarsi negli scritti ippocratici con la teoria patologica dei flussi umorali che scendono dal capo (teoria che guida la descrizione delle malattie). Anche l’anatomia delle membra è basata sulla forma delle ossa, sulle articolazioni (ginocchio, gomito), sui legamenti e sui tendini; in proposito il linguaggio ippocratico presenta una grande profusione di termini, proporzionale all’importanza reale o simbolica attribuita all’argomento.

Anche l’anatomia dei vasi è esposta in maniera relativamente sistematica. Nelle brevi descrizioni d’insieme che si trovano nel Corpus Hippocraticum (per es., all’inizio del testo Sulla natura delle ossa) è possibile distinguere due tipi di rappresentazioni, la prima delle quali prende come punto di partenza un vaso principale nel corpo; ne Le epidemie (II, 4, 1), per esempio, si tratta dell’hepatítis, il grande vaso che attraversa il fegato. L’autore ne segue il tragitto partendo dalle anche; poi, con qualche esitazione («non so dove essi vadano a partire di qui»), tenta di seguire altri vasi prendendo come riferimento parti del corpo, come le clavicole, i fianchi o il diaframma. L’altro tipo di rappresentazione pone l’origine dei vasi nel capo: secondo La natura dell’uomo (11), infatti, quattro paia di grossi vasi partono dal capo e giungono alle parti inferiori del corpo, e a essi se ne aggiungono altri che vanno dal ventre alle altre parti del corpo per portarvi nutrimento. Nel trattato Sulla natura delle ossa (10), invece, tutti i vasi partono da un unico vaso situato nel capo, che forma una sorta di cerchio; altri testi presentano la disposizione incrociata di due grandi vasi che dagli occhi si dirigono verso le parti opposte del corpo.

Mentre Aristotele riprese alcuni di questi testi in una prospettiva allo stesso tempo filosofica e legata al suo interesse per l’anatomia e la dissezione (Historia animalium, III), il punto di vista ippocratico era essenzialmente utilitaristico: mirato a sapere dove praticare i salassi e a comprendere gli spostamenti degli umori, i loro flussi e i loro blocchi. Giustificare la patologia dei flussi umorali era anche l’interesse dell’autore del De morbo sacro nella sua breve descrizione del cervello: organo doppio, esso è infatti rappresentato come punto di arrivo di due grossi vasi, uno dei quali nasce nel fegato e l’altro nella milza. Anche ne L’antica medicina gli organi sono menzionati soltanto in funzione della loro forma (larga, rotonda, spiegata, a forma di ventosa, e così via) e per la loro capacità di aspirare e fissare o meno gli umori. Questa anatomia era di un forte interesse pratico per il medico e la localizzazione dello spazio interno del corpo restava comunque all’interno di questi limiti, quando non era trascinata dagli interessi della filosofia.

Allo stesso modo, nel pensiero ippocratico non era presente, naturalmente, una ‘fisiologia’ nel senso in cui noi l’intendiamo, cioè come un’analisi oggettiva delle grandi funzioni dell’organismo. Le nozioni di ‘organo’ e di ‘funzione’ sono estranee al corpus, dove si pensa invece in termini di ‘parti’ (mória) del corpo; del resto, la nozione unitaria di ‘corpo’ (sōma) dapprima è stata utilizzata soltanto per designare il cadavere – come in Omero e anche dopo di lui – e si è poi progressivamente estesa a indicare il corpo vivente. I medici ippocratici condividevano alcune questioni importanti con la tradizione filosofica, tra le quali la formazione del corpo, l’embriologia, il funzionamento dei sensi e del pensiero. Altre questioni erano invece affrontate nel quadro medico: la digestione, la respirazione e, in generale, tutto ciò che riguardava gli umori. Il medico era attento soprattutto a quanto indicava un disturbo; cercava segni quali una respirazione difficile o rapida, oppure – attraverso secrezioni esterne – gli indizi di una disfunzione interna.

Nelle teorie umorali ippocratiche, che sono diverse e variamente finalizzate, se vi è una rappresentazione comune è dettata dal bisogno per il corpo che nulla al suo interno ostacoli i necessari movimenti dei fluidi. Il corpo deve essere «dappertutto aperto». In dettaglio, le idee sugli umori variano da un trattato all’altro: in alcuni testi, la bile nera è una varietà di bile, altrove essa è un umore interamente distinto dalla bile gialla. La distinzione dei quattro umori compiuta ne La natura dell’uomo, tuttavia, fisserà per i secoli futuri la tradizione detta ippocratica (sebbene il trattato fosse del genero Polibo).

Al di là di tutto questo, parlare di fisiologia ippocratica significa fare riferimento a rappresentazioni diverse, alcune delle quali hanno dato luogo a controversie come quelle sul numero e la natura degli umori, sull’idea che un po’ di bevanda passasse nel polmone (dottrina molto diffusa che l’autore de Le malattie IV si sforzava vivamente di confutare), o sulla critica contenuta nel trattato De carnibus della teoria attestata nel De locis in homine secondo cui il cervello era l’organo dell’udito. Meno numerose in questo ambito rispetto alla patologia e alla terapia, tali polemiche tendeva-no a riflettere comunque i contrasti presenti in questo tipo di letteratura.

Mentre la parte fisiologica della medicina si atteneva a queste indicazioni, la riflessione era molto sviluppata nella considerazione delle nature umane, viste al plurale. Uno dei temi portanti di questi scritti era infatti quello delle differenze fra gli individui nella costituzione e nella reazione alle malattie, secondo i diversi territori e secondo la variazione delle condizioni climatiche. Per non smarrirsi nell’osservazione di tali differenze, il medico doveva avere in mente una sorta di tipologia e, a tal fine, si serviva di una combinatoria sviluppata su due assi linguistici: quello paradigmatico (‘o... o...’) e quello sintagmatico (‘e... e...’). La base teorica più generale era costituita da freddo, caldo, secco, umido e dalle loro combinazioni; essa si applicava sia alle cose sia agli esseri viventi: «Quanto al suolo, va considerato se è spoglio e arido oppure fertile di boschi e di acque, se è basso e soffocante oppure elevato e freddo» (De aëre, aquis, locis, 1).

In funzione di questi parametri, gli individui variavano anche a seconda della costituzione e dell’alimentazione, e ai dati fisici si aggiungevano le abitudini individuali e i costumi etnici. L’arte del medico consisteva in gran parte nel «conoscere in anticipo» l’esistenza di queste possibili differenze e nell’identificarle in ogni caso specifico. La sua formazione e la sua preparazione erano dunque particolarmente importanti. Si è pensato che una simile attenzione per le differenze sia stata favorita dalla natura geograficamente e politicamente frammentata del mondo greco del tempo; resta il fatto che la medicina ippocratica eccelleva nello studio dei segni, nell’analisi delle differenze e, in accordo con le sue finalità, nel prevedere in tal modo il decorso degli eventi. Questo atteggiamento è alla base de Le epidemie, i cui due libri più antichi (I e III) descrivono l’attività di un medico che aveva trascorso vari anni nell’isola di Taso e che s’interessava alle malattie locali in due forme, quella collettiva e quella individuale. Nelle grandi tavole nosologiche da lui presentate, le Costituzioni, procedeva differenziando le malattie secondo vari criteri: il momento della loro comparsa, quante persone, e di che tipo, ne erano colpite, per quanto tempo, con quale gravità, e in che modo la malattia evolveva. Si poneva poi la questione più generale di sapere perché alcuni individui fossero colpiti dalle malattie più comuni e altri no; i concetti utilizzati in proposito, in particolare quando si trattava delle pestilenze, erano quelli di ‘differenza’, di cosa fosse ‘appropriato’ per alcuni e non per altri, o di ciò che si dimostrava ‘ostile’. Così, lo sviluppo del pensiero medico andava di pari passo con queste riflessioni sulle differenze di reazione: ‘le’ nature degli uomini erano l’oggetto da scoprire al manifestarsi della malattia ed erano queste nature a svolgere il ruolo del medico. Secondo un lapidario aforisma del Libro VI de Le epidemie, costruito su questi tre termini giustapposti, «le nature (sono) i medici delle malattie».

Nosologia

Una famosa formula ippocratica vuole che «l’arte [medica] si compone di tre termini: la malattia, il malato e il medico» (Epidemiae, I, 2, 6). La lingua medica di quel tempo conteneva un notevole numero di nomi di malattie, molti dei quali erano stati ereditati dall’epoca precedente, e gran parte di questa terminologia ci è ancora familiare, essendo stata conservata dalla tradizione medica, che peraltro spesso ne ha radicalmente cambiato il contenuto. Decine di termini come apoplessia, ittero, dissenteria, sciatica, cancro, tisi, pleurite, idropisia, oftalmia, nefrite, tetano, litiasi, ecc., senza contare le febbri dette terzane, quartane, intermittenti o continue, ci rimandano a una nosologia definitasi nell’antichità. Gli stessi scritti ippocratici mostrano atteggiamenti differenti riguardo a queste entità nosologiche: trattati come il Prognosticon, il Prorrheticon e i libri de Le epidemie, pur riconoscendole perfettamente, vi ricorrono sporadicamente, e gli autori raccomandano di passare direttamente dall’osservazione del malato alla prognosi poiché l’insieme dei sintomi e il loro decorso erano considerati più istruttivi che non la nomenclatura: «La conclusione tratta dai segni sarà molto più spesso giusta che errata, se attraverso lo studio si apprende a capirli e a calcolarne il valore» (Prognosticon, 25). Ricorrere alla diagnosi era in qualche modo un segno di debolezza intellettuale e si preferivano categorie più ampie – come, per esempio, quella delle «malattie acute» – che comprendevano tipi diversi di affezioni con febbre, gravi e di rapida evoluzione. L’altra tendenza era invece più pragmatica: i sintomi si classificavano in entità nosologiche a loro volta suddivise in diverse varietà. Questo atteggiamento si esprime nei trattati nosologici come Le malattie o Le affezioni interne. In realtà, però, in queste opere si trovano gli stessi ingredienti dei trattati precedenti: descrizione dei sintomi e prognosi («il malato muore in venti giorni; se supera questa soglia, guarisce», De morbis, II, 46).

Anche nella rappresentazione della malattia vi sono alcuni tratti comuni: elementi costanti ne sono infatti la durata e lo sviluppo. La durata è calcolata in giorni; lo sviluppo è analizzato in fasi, a partire dall’inizio sino al termine. Esso può assumere varie forme: o la malattia porta con sé rapidamente il malato, oppure essa «invecchia e muore con lui», espressione che sottintende la nozione, più tardi resa esplicita, di malattia cronica. La cosa cui i medici prestavano maggiore attenzione era il momento in cui la malattia mutava il suo corso, verso il bene o verso il male: quel che si chiamava ‘crisi’, o momento decisivo. A volte i medici interpretavano ciò nel quadro della teoria umorale, ritenendo che vi fosse un qualche dislocamento oppure un ‘deposito’. A questo punto sembrava intervenire un altro processo: la maturazione o «cozione» delle sostanze nocive, e alla base di queste rappresentazioni si trovavano l’opposizione tra crudo, cotto e modello di cucina, con le sue cotture favorevoli all’uomo.

La vita personale del malato era esaminata perché si riteneva che anch’essa avesse forti ricadute terapeutiche; se, infatti, si curava un malato troppo presto o troppo tardi, e in modo errato rispetto al decorso della malattia, si potevano ostacolare le capacità riparatrici della sua natura. Per l’autore del testo Sul regime delle malattie acute, era dunque necessario osservare rigide regole nella somministrazione dell’alimento che raccomandava, la tisana d’orzo, la somministrazione della quale nel momento giusto e per il tempo necessario dopo la crisi allontanava i pericoli. L’individuazione dei «giorni critici» attraverso la ricerca di segni visibili era dunque un aspetto importante dell’attività del medico; al di là della cura, anch’essa serviva a stabilire la prognosi.

Pur basandosi su segni riconoscibili e su considerazioni relative alla durata della malattia, l’analisi non era del tutto empirica e diversi autori, influenzati da speculazioni aritmologiche di origine probabilmente pitagorica, sceglievano unità di tempo basate su numeri simbolici, tra cui l’ebdomade (della durata di sette giorni). Pur senza giungere alla concezione sistematica espressa nel trattato Sulle settimane, basata sul predominio assoluto del numero sette sia sul mondo sia sulla vita umana, numerosi autori se ne servirono di preferenza in ambito embriologico, fissando le tappe dello sviluppo embrionale e le date del parto. Una sensibilità simile nei confronti della periodicità si manifesta anche nella patologia, e in questo caso sembra che il motivo fosse in parte legato alla realtà nosologica del tempo, dominata dalle febbri e da una forte incidenza della malaria; ciò spiega, per esempio, perché l’autore del Prognosticon si servisse sistematicamente del periodo di quattro giorni o tetrade, anch’esso familiare alla tradizione matematica. In questo quadro, inoltre, non va sottovalutato il ruolo svolto dal pari e dal dispari: che si trattasse della crisi o del momento della cura, entrambi potevano avere una valenza positiva, negativa o neutra a seconda dei casi.

Nell’insieme, l’aritmologia era particolarmente congeniale a questa medicina – con la sua peculiare combinazione di osservazione e di calcolo, di empirismo e di simbolismo – e la distingueva dalle altre scienze dell’epoca, che basavano invece i propri esempi sulla biologia.

Rappresentazioni arcaiche

Il sapere medico è sempre stato caratterizzato dal legame con il pensiero ‘popolare’ e anche la concezione ippocratica della malattia non sfuggiva all’uso di figure molto arcaiche, quale, per esempio, quella che rappresentava il male come un animale selvaggio. Con aggressività, potenza e rapidità, il male ‘si gettava’ sul malato, lo ‘attaccava’, se ne impadroniva e lo teneva saldamente; la malattia andava in collera e ‘si esasperava’ nuovamente in caso di recidiva. A volte l’immagine era quella di un male ‘divorante’ (come l’ulcera fagedenica o le febbri) e l’attacco era rappresentato come bellicoso. Il male era ‘vittorioso’ e dominava il malato quando questi non riusciva ad avere il sopravvento: il medico doveva dunque ‘lottare’ insieme a lui, aiutandolo a resistere e a trionfare prima che fosse la malattia a farlo. Anche la rapidità era un fattore carico di immagini. Era necessario precedere il male in una sorta di corsa, agire prima di esso: «Se la malattia parte insieme alla cura, non è più rapida di essa; ma se parte prima, è più rapida» (De arte, 11). Altrettanto frequente era l’immagine della tempesta o del temporale, che evocava concretamente il disordine fisico e mentale provocato dalla malattia; a queste immagini del disordine naturale corrispondeva quella del medico, quale alleato militare del malato, o buon pilota nella tempesta.

Terapie

Negli scritti ippocratici è scomparso il riferimento, presente in testimonianze più antiche, per esempio in quelle di Omero e di Pindaro, alle cure e alle parole o agli incantesimi destinati a calmare il malato e, ancor più, ad agire magicamente sul male per allontanarlo; restano tuttavia tracce di vari altri metodi utilizzati in precedenza, come i rimedi esterni o le incisioni, ai quali si aggiungevano le dolorose cauterizzazioni o i medicamenti interni.

La Natura come guida: la chirurgia

In campo chirurgico, il medico ippocratico ereditava una lunga tradizione trasmessa dal proprio maestro: egli partecipava infatti prestissimo alle prime cure e si cimentava a sua volta nelle pratiche più difficili. Si hanno, per esempio, numerose descrizioni di ferite al capo e delle relative cure, in particolare la trapanazione (Sulle ferite della testa); tali descrizioni sono contenute soprattutto nei trattati Sulle fratture e Sulle articolazioni, che in origine formavano una sola opera. Nel primo testo, il medico espone le pratiche di riduzione e il bendaggio delle membra, passando dalle fratture semplici a quelle complesse o pericolose; nel secondo, si tratta di lussazioni ma anche di fratture, a volte molto gravi come quelle della colonna vertebrale.

Gli scritti ippocratici mostrano però una riflessione più generale sulla ‘giustezza’ dei gesti nel quadro più ampio della natura dell’uomo: giusto era il gesto fondato sulla conoscenza della Natura, lungi dall’imporre una posizione rigida o una ‘rettitudine’ contraria al movimento naturale, per esempio nel caso delle fratture. Il principio fondamentale era che la Natura dovesse essere il punto di riferimento della pratica medica, oltre alla necessità di evitare errori che potessero nuocere al malato. Era necessario conoscere la disposizione regolare delle ossa e gli atteggiamenti caratteristici del movimento e del riposo; era dunque indispensabile l’osservazione preliminare e sistematica delle membra, oltre alla considerazione della natura del malato, che un regime appropriato doveva aiutare e non danneggiare nel suo lavoro di ‘riparazione’.

La chirurgia non era certamente una disciplina dolce: tutte le pratiche di riduzione delle fratture e delle lussazioni – compiute a mano o con una macchina – erano compiute a prezzo di grandi dolori, ma, come si insegna nel De officina medici, andava prestata la massima attenzione ai dettagli che assicuravano conforto al malato (la posizione, l’uso di cuscini o la rapidità dei gesti); le sofferenze inutili erano segno di incompetenza medica. Su questo punto – come si è osservato – sembra che motivo di preoccupazione da parte del medico ippocratico non fosse tanto la compassione quanto l’etica professionale.

Ideologia e cura delle donne

Le cure dedicate alle donne erano invece più strane; ciononostante, la comparsa di una letteratura medica riguardante le malattie femminili è una delle grandi innovazioni della medicina ippocratica, di cui erano coscienti gli stessi autori dei trattati. Nell’insistere sulla necessità di questi studi, non ne nascondevano la novità e le difficoltà: vittime di un sentimento sociale di vergogna e di pudore, le pazienti, infatti, non si rivolgevano ai medici, e prima che si decidessero a farlo il male era giunto spesso a uno stadio troppo avanzato. Il mondo delle donne, inoltre, era molteplice, e il loro rapporto con le malattie femminili era ambiguo.

Nella medicina ippocratica, la nosologia delle donne era molto particolare; ogni disturbo si organizzava infatti intorno alla funzione specifica della donna, quella di procreare, e tutte le malattie venivano raggruppate intorno a questa funzione e al suo impedimento (ne Le epidemie, per es., si trovano casi di dolori all’utero, perdite, parti difficili o aborti). Che si trattasse di costituzione o di casi clinici individuali, le osservazioni a proposito delle donne riguardavano anche le malattie generali; il sesso femminile o maschile era soltanto una delle categorie – insieme all’età o al passato nosologico – attraverso le quali il medico disegnava le linee della sua interpretazione, classificava sintomi ed esiti, ipotizzava le correlazioni tra stagioni e malattie.

Nei trattati ginecologici, invece, sono raggruppate e sistematizzate le malattie propriamente femminili, e il principale organo intorno al quale ruotavano tutte le cure era l’utero (hystérē) e il suo collo; i mali ai quali andava incontro – infiammazione, durezza, freddezza, umidità e così via – mettevano in pericolo la fecondità e dunque la salute della donna. Va poi rilevata la peculiarità dell’esame ginecologico, nel quale il medico-uomo interveniva soltanto in modo indiretto: le donne erano infatti invitate a partecipare al proprio esame, da sole o con l’intermediazione di un’altra donna che avesse una certa competenza in medicina.

Anche la terapia esposta nei trattati ginecologici è sorprendente. Innanzitutto, il numero dei medicinali prescritti è altissimo e la lista degli ingredienti di origine vegetale, minerale o animale, destinati a favorire il concepimento o ad assicurare il ritorno delle mestruazioni sembra infinita (è spesso previsto l’uso di sostanze esotiche, provenienti dal mondo greco – come il grano di Cnido – o da paesi più lontani, come la Cirenaica per il silfio, l’Egitto, l’Etiopia o l’India). In secondo luogo, la natura di questi ingredienti spesso curiosi, come il grasso di serpente o il cervello di tartaruga marina, è spesso abbinata a una gran quantità di prodotti legati alla sessualità (testicolo di castoro, pene di cervo, ecc.) ma, soprattutto, alla presenza di escrementi, di animale o d’uomo, non riscontrata altrove nel corpus.

Lordura contro lordura; questa terapia ‘impura’ implicava che la donna fosse intrinsecamente portatrice di impurità. Per i medici ippocratici, una rappresentazione del genere non pregiudicava in alcun modo i fondamenti della loro arte; queste rappresentazioni, probabilmente legate alle credenze riguardanti il sacro, interferivano però silenziosamente con la loro volontà di precisione e di chiarezza, esattamente quanto l’idea di un utero animale che vagasse dal l’alto al basso nel corpo femminile. Altro tratto caratteristico era poi la brutalità e l’estrema durata delle cure: agli emetici e ai purganti abituali si aggiungevano infatti regimi di eccessivo rigore, come la cura di latte di quarantacinque giorni; più in particolare, la medicina ginecologica si serviva di alcune drastiche cure locali, a base di pessari medicamentosi, fumigazioni e iniezioni. Le sostanze erano spesso pungenti, acri e volontariamente patogene: «Se l’orifizio uterino è troppo umido, la matrice non può attirare il seme. Si utilizzeranno pessari acri» (De morbis mulierum, I, 18).

Nei trattati ginecologici non si ha alcuna testimonianza del caso in cui un medico si fosse pentito di avere utilizzato terapie di questo genere (come avviene invece in Le epidemie V e VII). La medicazione – come si è detto – era lunga, e durante le fumigazioni intrauterine la donna da curare doveva restare seduta, avvolta da tessuti, immobile e sottoposta a interminabili sedute che ne stroncavano le forze. I giorni di trattamento si accumulavano e alle cure si accompagnava un regime minuzioso: «Quando sono passati venticinque giorni di questo regime, ella continua allo stesso modo, sal-vo che prima di mangiare e al momento di mangiare trita quattro spicchi di aglio, grandi come un dado di formaggio acre» (De morbis mulierum, II, 133).

L’unico campo in cui questa medicina agiva in modo ai nostri occhi ragionevole era l’ostetricia, e questo anche perché le cure durante il parto erano affidate alle mani delle levatrici: apertura con dolcezza del collo dell’utero e operazione di rivolgimento del neonato in caso di presentazione anomala. Nei casi di embriotomia, cioè di mutilazione del corpo di un feto morto allo scopo di poterlo estrarre dall’utero, sembra invece che intervenisse il medico stesso a causa della gravità dell’operazione.

A ferro e fuoco

Nella terapia si faceva un uso drastico del ‘ferro’ e del ‘fuoco’. Esistevano vari tipi di incisioni, tra le quali quelle destinate a evacuare il pus e quelle che accompagnavano il salasso o flebotomia. Quest’ultimo intervento, praticato di frequente anche prima di Ippocrate, era legato all’idea di un eccesso di sangue o di umori accumulati in un punto sbagliato, spesso accompagnato da un’infiammazione o da dolore; perciò era necessario scegliere bene il punto dell’incisione: braccia o gambe, bocca o testa. Spesso il salasso sostituiva una purga, che aveva la stessa funzione e che, tradizionalmente subita dal paziente, non suscitava lo stesso spavento della tecnica precedente e, sebbene fosse meno dolorosa, aveva comunque l’effetto di indebolire il malato. Frequentemente il medico raccomandava di salassare i pazienti senza andare oltre un certo limite, in funzione della loro natura e della loro resistenza, e tuttavia spesso anche sino allo svenimento. Quando le mestruazioni si arrestavano, nella donna si sospettava un eccesso di sangue e in genere era sottoposta a questo trattamento.

Di altri tipi di incisione si parla invece nei trattati nosologici, insieme alle cauterizzazioni. Si trattava di una medicina audace e brutale ma in certi casi efficace, per esempio quando occorreva eliminare gli ascessi. Ne è un chiaro esempio l’operazione toracica descritta ne Le malattie: «L’incisione sarà praticata tra le costole, prima con un bisturi convesso per la pelle, poi con un bisturi appuntito» (II, 47); il medico lasciava quindi colare il pus, e terminava il trattamento applicando un dispositivo di drenaggio che era progressivamente accorciato.

Le ‘scarificazioni’ erano altre incisioni che erano praticate un po’ ovunque nel corpo per eliminare l’acqua o gli umori; esse avevano molte altre funzioni, ed erano considerate tanto più efficaci quanto più erano numerose, profonde e ben localizzate. Nel caso di una malattia della testa, l’autore de Le malattie (II) raccomanda, per esempio, numerose cauterizzazioni al capo e al viso, e nel trattato Le affezioni interne se ne consiglia una decina. Il fine era quello di sbarrare la via al male in modo simbolico: quanto più era forte la cura, tanto più forte si riteneva che fosse la sua azione contro la malattia. In questo accanito testa a testa poteva avvenire che il malato non resistesse e soccombesse alla cura, come si rimprovera l’autore de Le epidemie (V) che non esita a criticarsi in molte circostanze. A suo avviso, il malato moriva «a causa del taglio e del numero di piaghe e per la debolezza del corpo » (7); questo indica che egli credeva di poter curare il malato e non direttamente la malattia, e la considerazione della natura del malato mediava in qualche modo l’azione bellicosa. Integrando questo parametro, l’immagine perdeva senza dubbio di forza; in ogni caso, anche se gli spiriti ne restavano segnati, era questo il tipo di cura che, per quanto possibile, i medici ippocratici apprezzavano di più.

La scoperta dietetica

I medici ippocratici ritenevano di avere compiuto le migliori scoperte terapeutiche nell’arte della dietetica. Innanzitutto proprio in questo campo, secondo l’autore de L’antica medicina, si era costituita la medicina come disciplina; inoltre, l’ambito di competenza della dietetica si estendeva dalla malattia alla salute. Infine, del regime non faceva parte soltanto il cibo ma anche il modo di vita nel suo complesso, cioè l’attività fisica, il sonno, la vita sessuale, i costumi e così via. Ciò è evidente nel trattato Sul regime, dove le prescrizioni raggiungono un grado di precisione che Platone criticherà nel Libro III della Repubblica – contestando in particolare il medico Erodico di Selimbria – ritenendo che tutto ciò distraesse il cittadino dai suoi doveri più importanti.

Nei trattati ippocratici che riguardano, in senso lato, il regime – L’antica medicina, il trattato Sul regime, Sul regime delle malattie acute e la sua Appendice – la teoria, pur se in varia misura, è sempre molto presente; tutti questi scritti, infatti, presuppongono l’idea che la buona salute dipenda dall’equilibrio dei costituenti del corpo, sia che si tratti di elementi, sia che si tratti di umori o qualità, in numero limitato o illimitato. Il fine del regime era quello di contribuire a mantenere la loro corretta proporzione o ‘mescolanza’, e si riteneva che le malattie si manifestassero quando l’equilibrio si perdeva a favore di uno di essi. Era dunque necessario agire sui fattori che potessero ristabilire quell’equilibrio, e anzitutto sulla quantità e sulla natura degli alimenti; restava tuttavia da scoprire come si potesse concretamente realizzare questo equilibrio e quando si dovesse intervenire. Mentre nelle altre terapie il medico aveva l’impressione di applicare conoscenze trasmesse ed ereditate, sia pur migliorandole, a proposito di queste egli parlava di una ‘scoperta’: «Questa scoperta, bella per me che l’ho fatta e utile a coloro che l’apprendono» (De diaeta, III, 69). L’impressione per chi legge è però strana: mentre altrove si parla in termini di quantità e di misura, di precisione e di esattezza, di proporzioni, il mondo delle prescrizioni alimentari sembra essere all’opposto. Esso è interamente qualitativo, ora empirico ora simbolico, con l’arcaismo di elenchi interminabili e uno stile minuzioso e capriccioso, perentorio e senza prova; eppure, come sappiamo, i ‘regimi di salute’ e le regole dietetiche oltrepasseranno la soglia dei secoli e si trasmetteranno ben oltre l’antichità. Resta il fatto che la dietetica, la quale rispetta la natura umana pur agendo su essa per migliorarla, è senza dubbio l’invenzione più autenticamente ippocratica.

L’Arte medica e la sua etica

A eccezione de Il giuramento, che è opera a sé stante nel corpus, l’etica non è oggetto di scritti specifici: considerazioni e consigli sono sparsi nei testi, e la riflessione sui doveri del medico come argomento di trattati specifici prenderà forma solamente più tardi. Nel soffermarsi sull’arte medica, tutte le ri flessioni ippocratiche alludono però a una medesima funzione: quella di essere utile. Il vantaggio del malato, come tema ricorrente, ha infatti caratterizzato il definirsi della disciplina medica nella sua autonomia, fungendo da criterio per valutare il valore e le azioni di chi la praticava; e questa riflessione costituiva l’oggetto principale dell’etica ippocratica.

Il giuramento

Ritoccato, cristianizzato, modernizzato, Il giuramento è stato trasmesso da generazioni di medici come simbolo del proprio impegno e per il suo tono religioso e un po’ arcaico, per la qualità morale degli impegni, per il rispetto del malato come quello del segreto professionale, esso si è imposto come incontestabile segno di riconoscimento. Il suo valore universale, tuttavia, contrasta con il carattere in qualche misura strano e isolato che gli storici ravvisano in questo testo; visto da vicino, infatti, esso sembra piuttosto rispondere a circostanze sociali particolari ed esprimere posizioni non condivise neanche dall’insieme degli autori ippocratici. Ciononostante, la deontologia medica moderna ha come base questo documento e vi trova ancora i suoi fondamenti.

Le particolari circostanze sociali nell’ambito delle quali fu scritto Il giuramento ne spiegano, se non la forma, almeno l’impegno enunciato in apertura, ossia l’obbligo per il nuovo medico di fornire aiuto e insegnamento gratuito ai discepoli del proprio maestro; ciò infatti rifletteva l’aprirsi dell’insegnamento ai nuovi venuti, mentre in precedenza esso era limitato alla famiglia degli Asclepiadi. I discepoli che invece pagavano per ricevere l’insegnamento si univano a questa grande famiglia, impegnandosi probabilmente con il giuramento o con formule analoghe a rispettare in cambio alcuni doveri in base a un contratto. Queste erano le circostanze storiche e, d’altronde, va riconosciuto che il legame filiale, reale o simbolico, in medicina non si è mai interamente estinto e ha ancora una forte eco malgrado il suo carattere desueto; esso continua, al termine dell’apprendistato, a fornire coerenza e identità al gruppo professionale dei medici, malgrado i modi dispersivi del loro reclutamento.

La seconda parte dell’opera, composta da una serie di divieti, è stata giudicata dagli storici ancora più misteriosa e difficilmente universalizzabile. Il rifiuto di somministrare del veleno, per esempio, si può comprendere perché in effetti era una pratica esistente, ma si spiega anche con la facilità con cui medici e farmacologi potevano cedere a questa tentazione, dal momento che essi conoscevano virtù e dosi tossiche delle piante e potevano avere gli ingredienti a portata di mano. Il divieto riguardante l’aborto non corrispondeva invece in alcun modo a una pratica ippocratica generalizzata, se si considera che – come si è visto – nel De natura pueri, uno dei testi di maggiore successo del Corpus, dopo aver fatto abortire una cortigiana, il medico getta uno sguardo compassionevole sull’embrione espulso. D’altra parte, è vero che la pratica dell’aborto era in genere segreta, pericolosa e in mano a matrone dalle motivazioni incontrollabili.

Quanto al terzo divieto, quello di operare di litiasi (sebbene gli ippocratici lasciassero ad altri questa operazione), non ne è chiaro il significato; si tratta forse di un veto religioso nei confronti di tutte le operazioni che davano luogo a una fuoriuscita di sangue? Alcuni studiosi, a partire da questo indizio, hanno considerato questo testo un documento di ispirazione pitagorica, ma l’interpretazione oggi prevalente considera questa presa di posizione uno dei mezzi di cui disponevano i medici legati agli Asclepiadi per difendere l’immagine della propria funzione, in un ambiente professionale molto vario e privo di garanzie legali, né a favore del medico né contro di lui. Il medico non era passibile di essere giudicato dai tribunali e ciò poteva infatti essere percepito come vantaggioso ma al tempo stesso sembrava comportare anche dei pericoli; come scrive l’autore de La legge: «Soltanto la professione medica nelle città non è sottoposta ad altra pena che quella del disonore» (Lex, 1). Prestare il giuramento era dunque il mezzo migliore per difendersi dagli attacchi, ma anche per assicurarsi una clientela resa fiduciosa dalla qualità e dal rigore degli impegni professionali.

Valori professionali: il buono e il vergognoso

Di fatto, l’oggetto della più antica etica ippocratica è la stessa arte medica, e a questo proposito va notato un dato paradossale, vale a dire che, mentre l’obiettivo degli scritti è quello di formare il buon medico, nella lingua ippocratica, tuttavia, non ci sono termini che designino valori tradizionali come il ‘buono’ o la ‘virtù’; il buon medico non è morale in questo senso. Viceversa, questa lingua contiene molti termini di valenza aristocratica comuni al linguaggio estetico, in particolare quelli che evocano ‘bellezza’ o ‘bruttezza’; per il medico ippocratico, dunque, il vero valore era collegato all’arte e la prima qualità morale era la competenza; in questo consisteva il bello. Al contrario, mancare di téchnē – accusa grave – era cosa brutta e vergognosa.

Acquisire e applicare questo sapere comportava un lungo apprendistato, inscritto nella storia del medico, e questo valore aveva una valenza sociale; chi vi riusciva attirava su di sé la buona reputazione (dóxa), o anche la gloria, e, viceversa, l’insuccesso terapeutico dovuto a una cattiva pratica comportava il disonore. D’altra parte, il medico ippocratico non si fidava degli applausi della folla, soprattutto quando si trattava di mettere in atto cure spettacolari, come l’uso di scale e di altri inutili strumenti laddove era sufficiente l’uso della mano o la pratica di raddrizzamenti acrobatici e di riduzioni pericolose per il malato.

L’altro campo in cui il medico acquistava una reputazione era la prognosi, che non doveva comunque essere troppo ostentata, pur restando un mezzo efficace per assicurarsi il favore del malato: «In tal modo, si sarà giustamente rispettati e si diventerà buoni medici» (Prognosticon, 1). Uno dei fini della prognosi, con il suo raffinato metodo di osservazione, era quello di sedurre e di essere ammirato. Rifuggendo da metodi di tipo ciarlatanesco, il medico ippocratico era dunque costretto a seguire una via angusta: persuadere, sedurre e piacere in qualche misura, conservando nello stesso tempo la severità di una disciplina esigente nei confronti di sé stesso e del malato.

In seguito, con l’attenuarsi del ricordo dei valori guerrieri e aristocratici e con l’aiuto della filosofia, si utilizzerà un altro linguaggio; la filantropia o ‘amore dell’uomo’ apparirà infatti in alcuni testi di epoca più tarda, e a Galeno questa parola sembrerà caratterizzare l’ideale medico. Ma gli ippocratici non si curavano della bontà; per loro era sufficiente una certa ‘cortesia’, senza però che questa fosse in concorrenza con la competenza, che aveva per loro valore essenziale.

I malati: curare o non curare i casi disperati

Uno dei problemi di maggiore importanza che il medico ippocratico si poneva nei confronti del malato (e che successivamente scomparirà nella sua formulazione più diretta) riguardava la responsabilità del medico nei casi disperati. Entro quale limite questi casi andavano curati e, soprattutto, era realmente un dovere prendersene carico se un risultato fatale poteva avere conseguenze pericolose per il medico? Le opinioni divergevano: «Per quanto possibile è necessario evitare di prendersi carico di questi casi, se si può fornire una scusa onorevole. Le possibilità di salvezza sono rare mentre i pericoli sono numerosi» (De fracturis, 36); e a volte l’indicazione era chiara: «Pronosticate che morirà in un breve lasso di tempo e che la causa della morte sarà una diarrea. [...] In questo caso, non curate il malato» (De morbis, II, 2, 48). La medesima combinazione di prognosi e astensione dalla terapia si suggeriva in un caso di grave disturbo ginecologico: «Per quanto possibile, non curate questo caso. Se lo si cura, avvertire» (De morbis mulierum, II, 71).

Questo consiglio combinava due interessi: quello del malato, che così non era torturato inutilmente, e quello del medico al quale sarebbe stata attribuita la responsabilità del fallimento. Il Corpus Hippocraticum non presenta però una dottrina uniforme in questo campo, visto che alcuni autori esortano invece a curare il malato fino alla fine, anche se soltanto per dargli sollievo: «Lo si farà espettorare il più possibile, lo si riscalderà» (De morbis, III, 5). La regola di condotta predominante era comunque quella secondo cui, quando non vi era possibilità di essere utile, si doveva almeno non nuocere al malato. Nei casi in cui l’ambiente esercitava una certa pressione, non nuocergli poteva però significare nuocere ingiustamente a sé stessi, alla propria reputazione e alla propria carriera; questo dilemma offriva una sola via di uscita: quella di avvertire. La morte che si profilava era infatti un’arma a doppio taglio, uno rivolto contro il malato, uno contro il medico.

Il dialogo malato-medico

Il malato è un attore molto discreto nei trattati ippocratici, e il Corpus Hippocraticum non è ricco di dialoghi tra malati e medici. Si è persino sostenuto, nel passato, che la medicina ippocratica ignorasse del tutto l’interrogatorio e, anche se ciò non è vero, va riconosciuto che esso avesse uno spazio limitato, fosse diretto e persino ‘anticipato’, come se il bravo malato non dovesse dire altro che quanto ci si attendeva da lui: «Si domanderà se hanno dolori alla testa ed essi diranno di sì» (Prorrheticon, II, 42).

Nel ristretto ambito della téchnē, la parola era ridotta all’essenziale e si evitava una comunicazione più ampia; vi è tuttavia un brano che evoca le condizioni di un vero dialogo, quello in cui ognuno ascolta l’altro: «Chi vuole discorrere sull’arte medica deve soprattutto sforzarsi di dire cose comprese dall’uomo comune; i discorsi e le ricerche di un medico non hanno infatti altro oggetto che le malattie di cui ognuno soffre e da cui è afflitto» (De vetere medicina, 2). Al di là dello scambio che in questo modo era reso possibile, la ‘messa a punto’ dei due linguaggi aiutava ciascuno a comprendere l’altro e sé stesso: «Non è certo facile comprendere i propri mali – continua l’autore de L’antica medicina – come sorgano e cessino e per quali ragioni s’accrescano o scemino, ma se da altri tutto ciò è stato scoperto ed è stato esposto, allora riesce agevole; perché ciascuno, ascoltando, null’altro fa se non ricordare ciò che è accaduto a sé stesso» (De vetere medicina, 2).

Responsabilità e diffidenza

«Il medico vede cose spaventose, tocca cose ripugnanti, e in occasione di disgrazie altrui raccoglie disturbi anche per sé. Al contrario, grazie alla sua arte i malati sfuggono ai mali più gravi, a malattie, afflizioni, sofferenze e morte, perché è a tutto ciò che si oppone la medicina» (De flatibus, 1). Lamentele come questa erano rare, ma attribuire al malato tutti i benefici e compiangere il medico serviva a mostrare che quest’ultimo, nel suo potere di guarire, non era esente da possibili danni. Lo scenario peggiore è quello presentato nel trattato De arte: se il medico era accusato, era perché il malato era negligente (altrimenti non si sarebbe ammalato) e a volte anche mentitore, infedele e ignorante. Esisteva un grande dislivello fra i medici, maestri del proprio sapere e della propria condotta, e i malati, i quali «quando intraprendono un trattamento medico non conoscono né la natura né la causa delle loro sofferenze, e neppure ciò che risulterà dalla situazione attuale o che risulta da situazioni analoghe alla loro. Essi soffrono nel presente, temono l’avvenire, pieni di malattia, vuoti di alimenti, e desiderano dare accoglienza più a ciò che favorisce la malattia piuttosto che a ciò che favorisce la guarigione» (De arte, 7).

Non sarebbe stato possibile esprimere in modo migliore una cosa che la medicina in genere tiene nascosta, ma che affiora piuttosto spesso nel Corpus Hippocraticum, cioè l’incertezza e il timore nei confronti di ciò che il linguaggio medico non ha neppure un termine proprio per designare: il malato, il paziente, che in greco si dice anche uomo ‘coricato’, ‘stanco’, ‘debole’, o che semplicemente si designa con un termine semanticamente vuoto, ‘egli’, l’altro.

Per scongiurare questo rischio il medico doveva saper gestire i propri rapporti con il malato, e a questa preoccupazione è legata la maggior parte delle questioni concrete affrontate dai brevi trattati deontologici postippocratici: Il medico, Le buone maniere, I precetti. In essi è fisicamente descritto il medico che ispirava fiducia: egli aveva buon colorito, aspetto gradevole e doveva comunicare sicurezza attraverso l’atteggiamento e il tono. Il medico sapeva dire e fare le cose a proposito, chiaramente però alcuni atteggiamenti mentali del malato lo disturbavano; per esempio, come comportarsi con i malati che cambiavano medico o che non seguivano le prescrizioni? Come si doveva procedere con gli onorari? E bisognava sempre dire la verità?

Conclusioni

La deontologia ippocratica ci appare dunque, come d’altronde l’intera questione ippocratica, in gran parte frutto di una costruzione a posteriori. Le norme etiche, nella misura in cui si possono estrapolare da testi che non le espongono mai in modo chiaro, erano in realtà quelle di una professione che andava definendosi in circostanze sociali e culturali molto particolari, quelle della Grecia del V sec. a.C. E come il modello della democrazia si è affinato nel tempo al di là delle particolarità della storia, così il modello dell’ideale ippocratico in medicina si è costruito a poco a poco, cancellando varianti e incongruenze. Difatti, uno dei motivi di quel che si considera un ritorno alle fonti è che la professione medica, al mutare delle circostanze, ha periodicamente bisogno di riconfermare i suoi principî.

Ci si può dunque interrogare sui presunti valori incrollabili custoditi dai più antichi testi della medicina greca, che alla lettura sembrano al contrario veicolare il senso di una continua ricerca, della messa in causa e del cambiamento. La loro forma aforistica è più carica di mistero che di chiarezza: un piccolo punto di riferimento provvisorio e incompleto in un mare di ignoranza. È forse questa situazione a capovolgere il senso dell’etica ippocratica, e il fatto che questi testi siano riusciti a servire da riferimento per un sistema di valori cui tutti ormai aderiscono è senza dubbio un felice controsenso della storia. Ciò quanto meno esprime l’estrema ricchezza e densità di questa letteratura, fonte sempre rinnovata di senso per il pensiero medico.

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