Scienza greco-romana. La filosofia della Natura tra VI e V secolo

Storia della Scienza (2001)

Scienza greco-romana. La filosofia della Natura tra VI e V secolo

Giulio Lucchetta

La filosofia della Natura tra VI e V secolo

Problemi di metodo

Nel Libro I della Metafisica, Aristotele traccia un excursus storico sulle dottrine filosofiche precedenti, offrendo alcuni parametri per la loro identificazione, non ultimo quello geografico: alla filosofia ionica, i milesi Talete, Anassimandro e Anassimene, più Eraclito di Efeso, fece seguito quella italica (pitagorici, eleati ed Empedocle) secondo il mutamento di rotta dell’espansione coloniale greca, dopo la caduta di Mileto nel 494. Ad Atene la filosofia entrò più tardi, con Anassagora, proveniente dalla costa dell’Asia Minore, e Archelao; isolate rimangono invece le figure degli atomisti: Leucippo, che probabilmente soggiornò ad Elea, e Democrito.

In assenza, spesso, di opere sicuramente attribuibili a tali autori e, invece, di fronte alla massa di informazioni che su di loro circolavano presso gli eruditi dell’antichità, H. Diels nella seconda metà dell’Ottocento, trovò opportuno rifarsi alla tradizione dossografica risalente a Teofrasto e, quindi, allo stesso Aristotele per dare luogo nei primi anni del XX sec. alla stesura di un’edizione sistematica dei frammenti dei e sui presocratici, con varie revisioni, fino a quella, del 1951, di W. Kranz. Se l’intento era quello di collegare i vari elenchi di autori e dottrine in un’unica raccolta, ampliata da successivi rinvenimenti di citazioni e testimonianze, il risultato fu però l’istituzione di una rigida periodizzazione nella storia della filosofia che prendeva avvio dalla categoria storiografica dei ‘presocratici’. Distinguendo per ciascun autore le citazioni esplicite dalle testimonianze, l’edizione Diels-Kranz si caratterizzò per un secco taglio tematico, creando una netta distinzione nella filosofia prima e dopo Socrate, quasi vi fosse un cambiamento di rotta sui contenuti e sui modi d’indagine tra le scuole pre- e postsocratiche. Aristotele motivava tale cambiamento sostenendo che, dopo Socrate, non si poteva più elaborare alcuna conoscenza senza ricorrere alla mediazione del concetto (Aristotele, De partibus animalium, I, 642 a 25; Metaphysica, I, 987 b 1-6). Secondo un certo modello di storiografia standard, all’indagine sulla Natura si sostituirebbe quella sull’uomo e sul suo ambiente, la pólis, il che, se porta a connotare come naturalistico il campo d’indagine dei presocratici, trascura il fatto che tale connotazione potrebbe essere casuale; potrebbe, cioè, dipendere dai criteri di scelta di questo o quell’autore, Aristotele soprattutto, nel presentare i presocratici. Tanto più che del loro pensiero spesso non ci è pervenuto lo sviluppo originale, ma soltanto singole tesi incastonate come citazioni all’interno delle altrui argomentazioni. Così, pure il carattere di omogeneità all’interno dei gruppi di pensatori, che spesso ha indotto a parlare fuori luogo di scuole presocratiche, potrebbe derivare dall’organicità nel redigere tali antologie di frammenti: si trovano titoli convenzionali, attribuiti e ripetuti per le opere; si confondono i luoghi o si avvicinano le date di nascita a causa di affinità dottrinali; s’inventano poco probabili viaggi, incontri o rapporti di discepolato. Sembra che i dati biografici siano una veste troppo stretta data l’urgenza di collegare i contenuti che di volta in volta preme far emergere. Tutto ciò favorisce l’idea che le autentiche e mature personalità filosofiche siano postsocratiche; vantano autonomia e originalità di pensiero o perché le loro opere lo confermano o perché, come Socrate stesso, godono di biografi ufficiali di sicura competenza.

Tra gli autori di cui si è conservata esclusivamente la fama, si ricorda Talete (624/623-548/545), concordemente detto ‘il primo’ dai dossografi, che gli attribuiscono indagini di tipo naturalistico svolte con un’impostazione non mitologica né fatalistica. Gli si attribuisce la nozione di protoelemento, l’acqua, come causa costitutiva interna di tutte le cose (DK 11 A 1, 3, 12, 13, 23); gli si attribuisce l’uso della geometria e del calcolo matematico per misurare l’altezza delle piramidi o la distanza delle navi avvistate in mare (DK 11 A 1, 20, 21); esperto di astronomia, sembra avesse previsto un’eclissi (DK 11 A 1, 2, 3, 5, 13c, 17, 18, 19); si narra inoltre della sua caduta in un pozzo perché camminava osservando le stelle (DK 11 A 9). Questo racconto, riportato da molti a partire da Platone (Theaetetus, 174a), sembra riunire molte delle sparse dottrine attribuitegli; l’osservazione astronomica si attuava infatti nei pozzi, sul cui fondo l’acqua rifletteva una determinata porzione di cielo permettendo l’esame e la misurazione del movimento delle stelle e, forse, quella stessa osservazione dell’eclissi, che tanto spazio ha avuto nell’aneddotica attribuitagli. Certamente attorno al personaggio sono state costruite delle leggende e alcune attribuzioni sembrano costruite proprio per caratterizzarlo quale primo e fondatore, come quella che, riportata da Diogene Laerzio (forse verso la metà del III sec. d.C.), gli attribuisce il merito di avere istituito il calendario avendo fissato le stagioni e diviso l’anno in 365 giorni (DK 11 A 1).

Nel caso di Anassimandro (610-547) possediamo un solo frammento di una certa importanza. La fonte, Simplicio, parla di una Natura infinita (phýsin ápeiron) assunta da Anassimandro come principio e poi cita: «da dove infatti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità (katà tò chreón); poiché essi pagano l’uno all’altro la pena (díkēn) e l’espiazione (tísin) dell’ingiustizia (adikías) secondo l’ordine del tempo (katà tḕn toú chrónou táxin)» (DK 12 B 1).

L’uso di alcuni termini tratti dall’ambito giuridico ha indotto a pensare che il tempo agisca come un agente divino che scandisce, all’interno dell’Infinito, il venire all’esistenza e il perire di sistemi organizzati di enti. Due dossografi, Plutarco (DK 12 A 10) e Ippolito di Roma (inizio III sec. d.C.) (DK 12 A 11), oltre a Simplicio (DK 12 A 9), narrano concordemente, pur con particolari diversi, come ciò avvenga, in che cosa consista l’Infinito e come si organizzino gli esseri: Anassimandro, avendo posto come primo non più un elemento materiale, ma l’Infinito «eterno e immutabile», sosterrebbe che nell’Infinito si attua il movimento in virtù del quale gli esseri si staccano. Secondo la scansione sopra riportata, questo movimento, eterno anch’esso, realizza il decreto del tempo, dando luogo ai cieli (ouranoús) e al loro ordinamento. Si attua così una prima distinzione tra il caldo e il freddo, che dà luogo alla disposizione degli elementi nel Cosmo: all’esterno una sfera di fiamma; poi a mano a mano, a cerchi concentrici si separano i diversi cieli, o ‘sfere’, ossia la sfera del Sole, quella della Luna e quella delle stelle, e la Terra sulla quale cresce l’aria come una corteccia intorno all’albero. Rimane un interrogativo riguardo alla forma della Terra, che non si può risolvere in base alle poche informazioni disponibili. È chiaro che l’immagine della corteccia dell’albero rimanda alla sezione di un tronco, dove si possono osservare i cerchi concentrici descritti da Anassimandro come i cieli; è anche evidente che la sezione dell’albero si collega armonicamente al frammento che indica la Terra «simile a un tronco di colonna» (DK 12 B 5). Per di più Ippolito, nel brano appena parafrasato (DK 12 A 11), ci informa che la Terra ha «la forma ricurva (gyrón) sferica, simile a una colonna di pietra», di cui una faccia è abitata; essa è sospesa, senza essere sostenuta da nulla, poiché ha eguale distanza da ogni cosa. Ma da un’attenta analisi lessicale delle testimonianze su Anassimandro, si è visto che i termini ‘sfera’ e ‘sferico’ che compaiono assai spesso, risultano essere sovrapposizioni dei dossografi, soprattutto di Diogene Laerzio (DK 12 A 1).

Attenendoci alla descrizione della Terra a forma di tamburo, risulta in - com patibile la scoperta attribuitagli dell’uso dello gnomone (DK 12 A 4), il cui funzionamento dovrebbe implicare l’assunto della sfericità della Terra, dati per paralleli i raggi solari. Per risolvere questa contraddizione basterebbe affermare una posizione del Sole decisamente ravvicinata e sostenere l’assunto opposto, cioè che i raggi solari arrivino divergenti sulla superficie terrestre; ciò permetterebbe la lettura dei dati dello gnomone anche col presupposto di una Terra piatta. In mancanza di testi di controllo, gli studiosi hanno dovuto lavorare con le interpretazioni. È stato anche ipotizzato che la forma della Terra non risultasse né piatta né sferica, bensì concava; d’altronde tale è il significato del termine gyrós con cui Diels corresse il testo tràdito hyrgos. Tutto ciò ha delle conseguenze anche sull’attribuzione ad Anassimandro di una carta geografica; egli avrebbe osato per primo disegnare la Terra abitata (DK 12 A 6). La fonte, riportata da Agatemero, è il geografo Eratostene, che ci assicura di una collaborazione con Ecateo di Mileto per perfezionare la carta a scopi pratici. Tale supposizione lasciava però scettico Erodoto, ai cui occhi la schematica geometrizzazione dell’intera ecumene risultava inutile per l’orientamento; egli racconta, infatti, un episodio su Aristagora di Mileto e il suo fallito tentativo di convincere, attraverso l’uso della mappa, Cleomene, re di Sparta, a liberare la Ionia dai Persiani (Historiae, V, 36, 49- 54). In effetti, per la descrizione di territori o di viaggi, gli strumenti più affidabili rimasero per un lungo periodo i peripli e gli itinerari stesi dai logografi; d’altra parte, affinché il ricorso a una raffigurazione geografica (pínax) fosse efficace, si richiedeva un interscambio di esperienze tra scienziati e la possibilità di accedere a un numero notevole di informazioni, che potevano essere offerte soltanto da memorie di viaggi e di navigazioni accumulate da diverse generazioni; e ciò non soltanto per raffigurare, ma anche per controllare quanto non era esperibile dal disegnatore.

Tutto questo era possibile nella biblioteca di Alessandria, di cui Eratostene era appunto direttore. Invece a Mileto il solitario Anassimandro, alla luce delle sue conoscenze astronomiche, potrebbe aver raffigurato l’intera ecumene a continuazione della propria mappa cosmica, in una sorta di rap-presentazione globale che comprendesse i luoghi della Terra, i cerchi delle stelle, della Luna e del Sole, nell’intento di racchiudere il suo kósmos geometrico in un’unica icona modernizzante l’ouranós mitico. Una prova ci viene non da testimonianze su Anassimandro, ma da una tavoletta d’argilla mesopotamica del British Museum, che conserva la rappresentazione del Cosmo mitologico babilonese. Divulgatore presso i Greci ne potrebbe essere stato Ferecide di Siro, contemporaneo di Talete, il quale in effetti in un paesaggio affine ambientò lo scambio di doni di nozze tra Zas e Ctonia (DK 7 B 2). Il mondo raffigurato nella mappa babilonese mostrerebbe affinità non soltanto con quello di Ferecide, ma anche con quello di Anassimandro: è circolare e circondato dal fiume Amaro, tendenzialmente piatto ma circoscritto da catene montuose, mitologiche vette inaccessibili, che limitano la vista del Sole. Si tratta di una rappresentazione concava della superficie terrestre che comporta la rinuncia ad attribuire ad Anassimandro la scoperta dell’eclittica (DK 12 A 5); l’inclinazione sarebbe invece corretta per quanto riguarda il percorso giornaliero del Sole, che durante il tragitto notturno si limiterebbe a passare oltre le montagne che bordano il disco terrestre. La mancanza di testi anassimandrei a conferma è curiosamente surrogata dal rinvenimento in Anassimene di una concezione del Cosmo in cui la traiettoria circolare delle stelle non le conduce sotto la Terra piatta, sostenuta dall’aria, ma si limita a farle ruotare lungo il suo perimetro esterno, come se facessimo girare un berretto attorno al capo; si dice che il Sole sparisce ai nostri occhi non perché passa all’altro emisfero, ma perché il suo tragitto lo porta dietro le parti più alte della Terra (DK 13 A 7 e 14).

Sulla personalità del terzo filosofo di Mileto, Anassimene, non ci sono indizi dossografici sufficienti né univoci, sia per le date di nascita e di morte, sia per il suo discepolato, svolto per alcuni presso Anassimandro, ma per altri presso Parmenide (DK 13 A 1 e 2). L’intera questione trova eco nel De caelo, dove Aristotele parla della tesi sostenuta da coloro che ritengono che la Terra sia piatta e abbia forma di tamburo, e portano come argomento di ciò il fatto che il Sole, al tramontare e al sorgere, si mostra nascosto dalla Terra secondo una linea retta e non curva; giacché se la Terra fosse sferica la linea lungo la quale essa taglia il Sole dovrebbe essere curva. Ma essi non tengono conto della distanza che c’è tra il Sole e la Terra, e della grandezza della circonferenza terrestre (De caelo, II, 294 a 1-7).

Analoghe difficoltà si hanno nel definire con tratto univoco la personalità di Eraclito (VI-V sec.), sul cui conto ci sono pervenute un numero considerevole di testimonianze, causa tuttavia di non minori problemi. Il suo linguaggio criptico e allusivo, che rendeva arduo penetrarne la dottrina, gli valse infatti l’appellativo di ‘oscuro’, favorendo un’intensa manipolazione ermeneutica anche perché nel vigore evocativo del suo eloquio molti scorgevano un’allettante provocazione. Al contrario di Talete, i problemi legati alla ricostruzione del pensiero di Eraclito derivano, paradossalmente, come detto, dall’abbondanza di frammenti. Le fonti sono le più disparate: oltre agli abituali dossografi, quali Plutarco, Aezio (I-II sec.), Sesto Empirico (140/160-220/230), Ippolito e Diogene Laerzio, troviamo infatti testimoni di estrazione culturale diversa – quali Marco Aurelio (121- 180) e Clemente Alessandrino (145/150 ca.-211/217 ca.) – segno evidente del fatto che il suo parlare pregnante non ha mai smesso di affascinare i lettori.

Anche a proposito di Empedocle (V sec. a.C.) la questione è ancora aperta; quanto ci è pervenuto dei suoi scritti non smentisce i resoconti dello Stagirita, ma ne evidenzia la natura parziale. Se, infatti, le posizioni naturalistiche più volte riprese nei testi di Aristotele trovano conferma nei versi del poema Sulla natura, Empedocle sembra invece spingersi ben oltre nell’altra sua opera, Purificazioni, fino a seguire il viaggio delle anime nell’oltretomba, una «caverna coperta» (DK 31 B 120), «dove Uccisione e Odio e le altre stirpi delle Sciagure/ aridi Morbi, Putrefazioni e i liquidi che sono prodotti/ scorrono nel buio per i prati di Ate» (DK 31 B 121).

Altra è la legge che lì vige:

È vaticinio della Necessità, antico decreto degli dèi/ ed eterno, suggellato da vasti giuramenti:/ se qualcuno criminosamente contamina le sue mani con un delitto/ o se qualcuno per la Contesa abbia peccato giurando un falso giuramento,/ i demoni che hanno avuto in sorte una vita longeva,/ tre volte diecimila stagioni lontano dai beati vadano errando/ nascendo sotto ogni forma di creatura mortale nel corso del tempo/ mutando i penosi sentieri della vita./ L’impeto dell’etere invero li spinge nel mare,/ il mare li rigetta sul suolo terrestre, la terra nei raggi/ del sole splendente, che a sua volta li getta nei vortici dell’etere:/ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano./ Anch’io sono uno di questi, esule dal dio e vagante/ per aver dato fiducia alla furente Contesa. (DK 31 B 115)

Si tratta della dottrina della metempsicosi, mutuata da un passo della Teogonia di Esiodo in cui si descriveva semplicemente la sospensione dalla vita beata del nume spergiuro che «giace senza respiro» sulle acque dello Stige (keĩtai nḗytmos) per un anno (Theogonia, 775-806). Anche in Empedocle la punizione si attua sempre lungo il parametro ‘tempo’, ma non è senza respiro; piuttosto, i numi sono costretti a vivere in corpi ora vegetali, ora animali, infine umani. E dal processo trasmigratorio non è escluso lo stesso Empedocle, che non manca di annoverarsi tra tali divinità maledette e di sé ammette che: «Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla,/ arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori dal mare» (DK 31 B 117). Durante tale frequentazione di vari livelli di vita, si possono creare, almeno per qualcuno, situazioni conviviali con gli dèi: «tra gli altri immortali abitando, e mangiando/ delle angosce umane non più partecipi, indistruttibili» (DK 31 B 147).

Questa felice condizione pare diventare una sorta di apprendistato per le élites, ma non soltanto: «Alla fine indovini, poeti e medici/ e principi diventano fra gli uomini che popolano la Terra,/ donde rigermogliano dèi, massimi per onore» (DK 31 B 146). Tutto ciò avviene in un qualche tempo e in un qualche luogo al di fuori della vita umana, e se è tra i mortali che gli dèi devono rinascere, ciò sta anche a testimoniare il reciproco scambio tra le dimensioni dell’esistenza, descritto nel poema Sulla Natura: «A vicenda predominano [gli elementi] nel ciclo ricorrente,/ periscono l’uno nell’altro e si accrescono nella vicenda del loro destino» (DK 31 B 26). La sovranità del ciclo generativo della Natura – a cui tutti sottostanno, divinità comprese – è assoluta: «E quante forme immortali vi sono/ [...] nell’Odio esse sono tutte diverse di forma e separate/ ma si riuniscono nella Concordia e si desiderano reciprocamente./ E da queste infatti quante cose furono, sono e saranno, germinarono, gli alberi, gli uomini e le donne,/ le belve, gli uccelli e i pesci che abitano nell’acqua,/ e gli dèi dalla lunga vita massimamente onorati» (DK 31 B 21).

Il divino convivio come condizione per la formazione della classe dirigente o per la rinascita di altre divinità, ci rimanda alla dottrina dell’immortalità dell’anima in Platone; gli studiosi, concordemente, lo riconoscono come un’eredità orfica elaborata all’interno della scuola pitagorica, canalizzatasi poi in Empedocle e in diversi dialoghi di Platone. Di tale nucleo dottrinale Aristotele non poteva non essere a conoscenza, sebbene un fuggevole accenno ai «miti pitagorici » sia rimasto solamente nel De anima (I, 407 b 20-25). Analogamente, su Empedocle lo Stagirita si impegna a espungere ogni affermazione non strettamente correlata al divenire materiale degli enti naturali; la personalità del presocratico ne esce così mediata, ma non falsata, avallando in un certo senso l’ipotesi, ora in discussione, ma che tanta fortuna ha avuto tra i dossografi, di una sua doppia produzione, ora in veste di naturalista ora in quella di emulo degli sciamani.

Le fonti dossografiche e Aristotele

Al vertice della tradizione dossografica troviamo Le opinioni dei fisici di Teofrasto, che scorporò, integrandoli a uso del Liceo, i capitoli aristotelici sulle dottrine dei presocratici. Aristotele è, sì, fonte primaria dei presocratici, ma allo stesso tempo fonte infedele, perché l’interpretazione aristotelica, nel tentativo di penetrare e capire le tesi dei suoi predecessori, ne offre una visione parziale e le appiattisce cronologicamente, omologandole all’interno del proprio orizzonte concettuale. Non si può certo dire che quelle di Aristotele siano citazioni e, spesso, la personalità del singolo autore, così come emerge dal contesto aristotelico, mal si adatta al ritratto desumibile da altre attendibili fonti o dai pochi passi autentici rimasti. Aristotele, in effetti, ha ricostruito la storia del pensiero filosofico facendo uso di proprie categorie, sia di pensiero sia linguistiche. Secondo alcuni studiosi la sua intenzione era quella di creare un quadro storico attraverso l’esposizione delle opinioni maggiormente accreditate, la cui discussione potesse avallare le sue posizioni, attraverso un’abile strategia dialettica. Tutto ciò ha finito con il riportare i predecessori e Aristotele su un piano comune di dibattito, e questo, naturalmente, non ha favorito una lettura storica del pensiero ma probabilmente ha reso possibile la prima identificazione di una tradizione filosofica.

Difficilmente si sarebbero potute trovare ragioni per mettere insieme i racconti umoristici su Talete, la mistica della setta pitagorica, l’oscuro eloquio di Eraclito e l’afflato poetico di Parmenide verso l’essere, in una sorta di continuum dottrinale, e altrettanto difficilmente vi si sarebbero potute riconoscere eventuali radici di un nascente interesse naturalistico. Aristotele si rivela perciò un interlocutore insostituibile nel rapporto con i presocratici. La sua prospettiva naturalistica ha consentito di avviare una complessa discussione sui temi cosmologici, che Platone non era riuscito a ricomporre in modo così completo, ponendoli all’interno di una specifica cornice ontologica definibile come ‘natura’, dentro la quale ha impiegato categorie quali ‘naturale’ e ‘naturalismo’; egli ha delineato, infatti, un metodo specifico per accedere alla conoscenza delle cause materiali degli avvenimenti naturali. Bisogna tuttavia notare che la connotazione naturalistica di questa tradizione di pensiero, che tanta fortuna riscuoterà in ambito storiografico, è meramente occasionale, essendo strumentale all’ambito di ricerca della Fisica e della Metafisica; e in altri testi, come nel De anima, non avrà occasione di sorgere.

Aristotele e il ‘corpus’ cosmologico dei milesi

Aristotele pone in questi termini la questione cosmologica nei suoi albori a Mileto:

sulla questione se ci debba essere un unico principio, o se debbano essere molti, e quanti, e sulla loro specie, non tutti dicono la stessa cosa. Talete, iniziatore di tale tipo di indagine, sostiene che esso è l’acqua (perciò egli asseriva che anche la terra galleggia sull’acqua), e forse questa sua opinione gli fu suggerita dall’osservazione che è umido ciò di cui ogni cosa si alimenta [...]. Anzi vi sono alcuni i quali ritengono che anche gli antichissimi, che vissero molto prima dell’attuale generazione e che per primi teologizzarono, ebbero questa concezione della Natura: essi, infatti, rappresentarono Oceano e Teti come genitori del divenire, e il giuramento degli dèi come eseguito su un’acqua [...]. Se, però, una siffatta opinione sulla Natura sia davvero primitiva e antica non si può dire con certezza; di Talete, invece si dice che in tal senso egli abbia detto qualcosa di simile parlando della prima causa; quanto a Ippone, [...] Anassimene e Diogene, invece pongono l’aria come anteriore all’acqua, e come principio fondamentale dei corpi semplici. (Metaphysica, I, 983 b 20 - 984 a 7)

Aristotele parla dunque di Talete, nella Metafisica, come di colui che per primo indicò il principio nell’acqua e, subito, gli accosta il mito; osserva infatti che coloro che parlavano il linguaggio del mito avevano indicato lo stesso principio quando «rappresentarono Oceano e Teti come genitori del divenire (tẽs genéseōs patéras)» (ibidem, I, 983 b 30-31). Tale rimando al mito vale per coloro che, rimasti ancorati a quel linguaggio e a quella cultura, credono di poter vedere nei racconti degli antichissimi queste entità materiali, di cui ormai sempre più si parla. Insomma, è una delle tante vie interpretative che chi frequenta il mito a volte adotta, senza escludere le altre. L’intento di Aristotele è comunque quello di sviluppare un’indagine sui motivi naturalistici; questa catena ideale di sviluppi e di opposizioni tra i filosofi milesi finisce infatti per delineare un’idea di progresso per quell’indagine naturalistica che tanto gli sta a cuore, e il suo impegno di fronte a un sapere così ‘aleatorio’ e frammentario è principalmente votato a dargli quel senso di completezza che si può avere integrandolo all’interno di un comune campo di ricerca. I passi su Talete nel Libro I della Metafisica offrono un chiaro esempio di tale intervento: l’affermazione originale del galleggiamento della Terra sull’acqua, per esempio, è svolta, spiegata e motivata, ma sempre attraverso le deduzioni dello Stagirita.

Ci si potrebbe chiedere perché, vista una tale necessità di integrazione, Aristotele abbia scelto di cominciare da Talete e non direttamente da altri pensatori, quali Parmenide o Eraclito, le cui opere e dottrine erano meglio conosciute. E la risposta potrebbe essere legata al fatto che egli era alla ricerca di una tradizione autorevole, dunque non poteva che considerare come punto di partenza uno dei sette sapienti, padri putativi e fondatori di tutto ciò che aveva valore ed era stato istituzionalizzato nella società greca. Una spiegazione alternativa prevede il ricorso a Ippia, il sofista dalla memoria prodigiosa che aveva già redatto elenchi di fatti e di personaggi notevoli, e che è citato tra l’altro anche da Diogene Laerzio (DK 86 B 7) per una tesi attribuita a Talete; era inoltre ben conosciuto da Platone, che ne fece un personaggio dei suoi dialoghi. Si ipotizza che uno dei cataloghi di Ippia possa essere stato il manuale di riferimento per la genealogia filosofica aristotelica, e se così fosse, anche l’operazione di Aristotele andrebbe considerata in modo diverso, non più al vertice della tradizione dossografica.

Il confronto serrato tra i presocratici implica l’adozione di categorie improprie; così, Talete diventa l’archēgós (il primo) dei filosofi, Anassimene e Diogene decidono che l’aria è málist’archḗn (‘più principio’) dell’acqua. Il sospetto è che Aristotele voglia presentare i vari pensatori come tappe obbligate verso un punto d’arrivo che è la teoria naturalistica delle quattro cause, delle quali almeno tre erano, a suo dire, già a conoscenza dei presocratici. Le giustificazioni che danno conto dell’adozione di un elemento piuttosto che di un altro, per esempio, sono interpolazioni aristoteliche, così come l’attribuzione del termine archḗ: tutto ciò è segno di un preciso disegno di traduzione concettuale. Per capire che cosa Talete potesse significare con l’attribuzione all’acqua del galleggiamento della Terra, Aristotele propone il confronto con il mito e ne deduce l’identità di funzione tra la coppia Oceano/Teti e l’acqua: l’essere artefici del divenire. Nel rimando ai fondamenti, tipico delle cosmologie orientali, Talete non va oltre il sostegno dell’acqua e per questo Aristotele si sente autorizzato ad applicare all’acqua di Talete il termine tecnico di ‘principio’. Quasi a evitare poi che il ricorso all’infinito vanifichi la ricerca dell’archḗ, egli propone la soluzione di Anassimandro per il quale l’infinito stesso è principio (Physica, III, 203 b 3); esso è archḗ in quanto regge ogni cosa, addirittura è detto avvolgere il tutto.

L’applicazione del termine archḗ alle tesi cosmologiche di Talete offre, dunque, la possibilità ad Aristotele di avvicinare le tesi milesie a qualsiasi altra cosmologia, allo scopo di far ‘dialogare’ principî altrimenti incommensurabili; presi come ‘acqua’ o ‘aria’, come ‘infinito’ o ‘numero’, essi non avrebbero nulla in comune, il confronto critico però diventa possibile avendoli ricondotti a un’unica categoria.

Gli effetti degli schemi di Aristotele

I poeti-teologi

Si è visto che, nonostante tutti i pregiudizi attribuibili ad Aristotele, gli va riconosciuta anche l’onestà intellettuale di aver accennato a uno sviluppo filosofico divergente dalla linea da lui imboccata; forse è il carattere stesso del dibattito filosofico inaugurato da Platone, a cui lo Stagirita rimane legato, che gl’impedisce di mantenere il silenzio su così interessanti antagonisti, gli antichissimi che preferirono parlare di Oceano, del suo matrimonio con Teti, oppure, come fanno alcuni filosofi, di Amore:

Mi pare che ciascuno di essi ci racconti un mito, come se fossimo dei bambini. Uno [Ferecide di Siro] dice che gli enti sono tre e che talvolta alcuni di essi si combattono in qualche modo vicendevolmente, mentre altre volte, divenuti amici, fanno nozze e figli e li nutrono. Un altro, invece, [Archelao] afferma che sono due, l’umido e il secco o il caldo e il freddo, e li fa coabitare e congiungere in matrimonio. La nostra stirpe eleatica, invece, che trae inizio da Senofonte e ancor prima, convinta che quelle che sono chiamate “tutte le cose” sono un solo essere, su questa base racconta i suoi miti. Ma alcune Muse di Ionia [Eraclito] e successivamente di Sicilia [Empedocle] pensarono che la posizione più salda consistesse nell’intrecciare entrambe le tesi e nel dire che l’essere è molteplice e uno ed è tenuto insieme da odio e da amicizia. “Discordando sempre concorda”, dicono infatti le più sostenute di tono [Eraclito], mentre quelle più molli [Empedocle] hanno allentato la tensione di questo sempre essere così e affermano che a turno il tutto ora è uno e amico per opera di Afrodite, ora invece è molteplice e in guerra con sé stesso a causa di una certa contesa. (Sophista, 242 d - 243 a)

Dunque Platone non fa che seguire Ippia nell’assemblare filosofi a poeti intessendo ardite connessioni per homología; obiettivo platonico, realizzato anche nel Protagora o nel Teeteto, è di rendere plausibile la paradossale sovrapposizione di Eraclito non tanto con i sofisti ma, con la complicità di Orfeo e di Esiodo, con Omero che manifestamente avversava.

Anche Aristotele, nella Metafisica, evoca il fronte dei poeti teologi quando chiama in causa Esiodo; egli, però, sta proseguendo con costanza lungo il filo di un ben preciso confronto tematico a proposito dell’identità e della diversità tra i principî per le cose corruttibili e incorruttibili:

Quelli come Esiodo e tutti i teologi si sono preoccupati di dire soltanto cose che per essi fossero plausibili, ma si sono poco curati di noi. Essi hanno stabilito che i principî sono dèi e derivano dagli dèi, e hanno detto che coloro che non hanno gustato nettare e ambrosia sono diventati mortali. È chiaro che essi sapevano che cosa volevano dire questi nomi; tuttavia dell’azione di queste cause hanno parlato in modo che va al di là delle nostre capacità. (Metaphysica, III, 1000 a 9-15)

Il problema è quindi legato al significato, non più traducibile, che hanno entità, quali ‘nettare’ e ‘ambrosia’, a cui venivano dati dei nomi particolari ma la cui funzione non risulta in alcun modo riconoscibile, smarrita all’interno delle descrizioni metaforiche del mondo. D’altronde, questo era il modo ereditato, secondo Aristotele, direttamente dal linguaggio dei poeti, che tendeva alla personificazione:

I poeti antichi hanno detto qualcosa che s’avvicina alla dottrina secondo la quale il bene avanza con il procedere della Natura, nella misura in cui affermano che hanno regnato e governato non quelli che sono venuti per primi, come la notte e il Caos o l’oceano, ma Zeus; senonché a costoro è accaduto di dire cose del genere perché fanno mutare quelli che governano le cose. D’altra parte, altri tra essi, che parlano in modo misto e non dicono ogni cosa in termini mitici, come Ferecide e alcuni altri, hanno posto il primo progenitore come quello che è migliore, e così hanno fatto i Maghi e alcuni dei sapienti posteriori, come Empedocle e Anassagora, che hanno posto l’uno come elemento l’amicizia, l’altro come principio l’intelletto. (ibidem, XIV, 1091 b 4-13)

Possiamo, allora, intuire come non tutti, all’interno della corrente dei teologi, si fossero adeguati a questo costume, perché vi fu chi – come Ferecide e i Maghi – sviluppò un genere di argomentazione che mescolava lógos a mïthos, assai simile a quello proprio dei più evoluti tra i presocratici.

Tav. I

La ricostruzione aristotelica delle difformità tra i primi pensatori – sintetizzata nella prima parte della Tav. I – finisce con il mettere in evidenza la vicinanza tra Empedocle e la tradizione poetico-magica: a essa alludeva lo stesso Platone, ma ora Aristotele la evidenzia come tradizione dottrinale alternativa.

Sulla base di un riscontro dei testi a disposizione, il legame ventilato tra Esiodo, Parmenide ed Empedocle appare meno improbabile.

Pur nella diversità tra i rispettivi poemi – orientati ora a descrivere una teogonia, ora una cosmogonia, ora una cosmologia – si possono rilevare sorprendenti costanti e innegabili riprese. Indubbiamente la folla di divinità, descritte dalla Musa a Esiodo nel loro generarsi le une dalle altre, non appare negli altri due poemi, quantunque in quello empedocleo si riproponga il movimento convulso della generazione. Nel racconto di Esiodo nel passaggio di consegne da Urano a Crono fino a Zeus, viena posta in primo piano la difficoltà del potere dýnamis) a imporsi come principio regolatore, confuso com’è con quello spontaneamente generativo. La stessa generazione in Empedocle non comporta l’ordinamento naturale delle cose, dato che le sue prime forme spontanee si rivelano esse pure confuse e disordinate; per Parmenide, invece, parlare di un divenire anche ordinato degli enti significa cominciare da tutt’altro lógos, ben diverso da quello che riguarda l’organizzazione dell’essere. Ma in tutti e tre i poemi la conoscenza di questa visione totalizzante del mondo e dei suoi principî generativi e regolativi implica una prospettiva cosmica non desumibile dall’esperienza umana, che si realizza piuttosto attraverso un viaggio, un’uscita dell’osservatore dai limiti fisici del mondo grazie al rapimento da parte di alcune dee. Si realizzano in questo modo le condizioni per questo colloquio con la divinità, in cui, secondo Esiodo (Theogonia, 32 e 38) ed Empedocle (DK 31 B 21, 9), sono rivelate ai mortali le cose che per i mortali furono e saranno, oltre a quelle che già sono. Parmenide sembra differenziarsi; immerso completamente nell’evidenza del discorso rivelativo, fa sua la ‘atemporalità’ con la quale la dea gli descrive la totalità dell’essere e afferma l’inadeguatezza del linguaggio dei mortali che connotano l’essere nella molteplicità dei tempi verbali, cioè usando il passato e il futuro, quando adeguato sarebbe soltanto il presente. Ma del fatto che esista lo iato tra i due linguaggi è convinto lo stesso Empedocle, che pure opera la scelta terminologica opposta (DK 31 B 16, 14, 31; B 8 e 9); ben consapevole dei limiti delle parole, egli fa sua l’imprecisione del linguaggio dei mortali allo scopo di comunicare loro quanto ha appreso in altro modo, in altro luogo, magari in altra vita. Comunque, pur nelle differenze dei registri, in tutti è presente Eros: è lo stesso Aristotele e, prima di lui, Platone così come, secoli dopo, Plutarco a notarlo (De facie in orbe lunae, XII, 926 d; DK 31 B 27); curiosamente questa era l’unica divinità che Esiodo caratterizzava solo come funzione, in quanto causa dei legami generativi ma non generante essa stessa. Con tale prerogativa immutata riappare nel contesto di Empedocle e in quello di Parmenide, che sempre meno spazio concedevano a personificazioni mitiche.

Parmenide

All’interno della classificazione aristotelica chi sembra perdere la propria identità è proprio Parmenide, non perché non trovi un luogo dove collocarsi, bensì perché potrebbe apparire in più di una posizione. Aristotele lo cita in compagnia di Esiodo e pertanto si potrebbe essere tentati di avvicinarlo ai poeti-teologi; la sua tesi dell’unità dell’essere, introdotta nel Libro I della Fisica, lo porterebbe di diritto ad apparire anche tra i monisti nel primo corno a sinistra (Tav. I). Se assecondiamo, invece, quanto Aristotele afferma nella Metafisica, si deve ammettere che il posto più congeniale al caposcuola degli eleatici è con Empedocle, tra i sostenitori di una duplicità di cause dell’essere. Il nodo va sciolto a partire dalla convinzione aristotelica che per realizzare una qualsiasi ricerca sulla Natura la dottrina della scuola eleatica rappresentasse un ostacolo di non poco conto. È per questo che Parmenide e i suoi seguaci sono affrontati da Aristotele in apertura della Fisica: «Benché non riguardino la Natura, a costoro capita di sollevare difficoltà di ordine fisico, quindi è bene parlarne egualmente, anche se per poco» (Physica, I, 185 a 17-20). Le grandi tesi paralizzanti dell’assoluta immobilità dell’essere, abitualmente attribuite a Parmenide, sono da Aristotele ricondotte a Melisso di Samo, e alla capacità dialettica di Zenone.

L’Eleate è chiamato in causa soltanto per gli errori a cui ha indotto i suoi poco avveduti seguaci, perché, a differenza loro egli avrebbe proposto una scappatoia: «Poiché è costretto a dare retta alle cose che appaiono e poiché ritiene in base al ragionamento che esiste l’uno, in base alla sensazione che esistono i molti, Parmenide torna a porre due cause e due principî, il caldo e il freddo, dicendo che sono come il fuoco e la terra; di questi due principî, poi, dispone il caldo dalla parte dell’essere e il freddo dalla parte del non essere» (Metaphysica, I, 986 b 31 - 987 a 2). In questo modo egli riesce, sorprendentemente, a ridurre l’Eleate al rango di un naturalista, magari pluralista.

Ovviamente vi è aperto contrasto tra i frammenti di Parmenide e questa testimonianza aristotelica che sembra attribuire il non essere a uno dei due principî, ma è un contrasto che si può sanare. Ricostruiamo il percorso dello Stagirita sulle dottrine di Parmenide: gli riconosce la più decisa negazione dell’esistenza del non essere, grazie a un uso linguistico assolutizzante; poi gli attribuisce maggior sagacia dei suoi seguaci, quando salva il mondo attestato dai sensi ricorrendo a due principî, di cui uno è il non essere. Sorprende che Aristotele, sempre così caustico con gli aderenti all’eleatismo, si sia astenuto qui dall’accusare Parmenide di evidente autocontraddizione. Ciò che lo trattiene è la consapevolezza che questa non è una contraddizione all’interno del pensiero dell’Eleate, ma è frutto della propria interpretazione del testo parmenideo come autorità che sconfessa le posizioni dei suoi seguaci. Come per Talete, anche in Parmenide Aristotele ritaglia quanto utile al dibattito, sovrapponendovi il proprio vocabolario filosofico; il non essere di cui egli parla ragionando su Parmenide non è il non essere assoluto, ma è quello, dal significato tecnico circoscritto, che Aristotele impiega nella sua analisi del divenire.

Certamente anche quello proposto da Platone era un estratto di Parmenide: il filosofo della dottrina rigorosamente concettuale, l’ideologo dell’immobilità dell’essere quale lo volevano i suoi allievi. Immagine questa, che contrasta con il trasporto poetico con cui il filosofo narra del rapimento da parte di divinità che lo condurranno fino al cospetto di una dea che tutto gli rivela: questo è quanto sappiamo dal Commento alla Fisica di Simplicio, altra fonte importante per i presocratici. La dea lo ha condotto a un bivio in cui una delle strade porta alla contemplazione dell’essere di cui non si può dire altro che «è ora tutt’insieme, uno, continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare? Come e donde il suo nascere? Del non essere non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare ciò che non è» (DK 28 B 8, 9-13). Parmenide è fatto partecipe di una verità filosofica abbagliante, che riguarda non soltanto il modo di essere della totalità ma il modo di conoscerla e di parlarne. Dal linguaggio dell’essere, cioè quello della verità, sono cancellati tutti i ‘non’ che non trovano più le loro abituali applicazioni sulla sostanza, sullo spazio e sul tempo: allora non esistono più le differenze, le trasformazioni, i movimenti e gli spostamenti, il generare e il perire delle cose, le date e il tempo, ogni manifestazione di molteplicità. Tutto ciò riguarda il linguaggio delle brotõn dóxai, le opinioni dei mortali. Con Parmenide si mette fine alle indicazioni dei Milesi in merito a un principio, nell’ordine del tempo, da intendersi come elemento primigenio da cui tutti gli enti provengono: non vi è generazione perché non vi è un tempo in cui si possa non essere; non vi sono gli enti perché il tutto è continuo; non vi è un inizio perché il tutto è; e neppure si può dire che il tutto sia da sempre, perché sarebbe come ammettere lo scorrere del tempo. «Rimanendo identico nell’identico stato, sta in sé stesso e così lì rimane immobile; infatti la dominatrice Necessità lo tiene nelle strettoie del limite che tutto intorno lo cinge, perché bisogna che l’essere non sia incompiuto» (DK 28 B 8, 33-36).

Nulla può affermare il filosofo se non la contemplazione della perfezione della totalità, che ha una forma: «Poiché vi è un limite estremo, è compiuto da ogni lato, simile alla massa di ben rotonda sfera di ugual forza dal centro in tutte le direzioni » (DK 28 B 8, 46-48). La sfera piena dell’essere corrisponde alla più categorica affermazione della sua necessità.

Ma vi è anche l’altra strada, quella che posero in essere i mortali quando scelsero di parlare dell’essere come del non essere (DK 28 B 8, 57-58): è un fatto che neppure la dea può negare sia successo né poté impedire che succedesse. Se nella prima direzione ci si imbatte in Platone che dialoga con Parmenide, su quest’altro percorso troviamo Aristotele, intento a ritagliarsi la sua idea di Parmenide. Gli umani, dunque, identificarono con l’uso di nomi diversificanti, da una parte il fuoco etereo, dall’altra la notte senza luce; così prese forma l’ordinamento cosmico (diákosmon) a portata delle menti mortali (DK 28 B 8, 64). La dea s’appresta a illustrare anche questo al discepolo Parmenide, attraverso un breve ma notevole tracciato di astronomia sferica dove Sole, astri e Luna definiscono le loro orbite attorno alla Terra (DK 28 B 10, 5-7): sono queste le conoscenze dei mortali che Aristotele tenta di inserire in un contesto sistematico. Anche riguardo a queste, però, ci sono indicazioni che lo Stagirita tralascia. Nel linguaggio dei mortali i nomi servono a designare cose che si credono diverse e distinte, dicendo, per esempio, che questa è la tenebra e quella è la luce, come se un limite fosse distinguibile tra le due; invece: «Tutto è pieno insieme di luce e di tenebra invisibile, pari l’una e l’altra, perché né con l’una né con l’altra c’è il nulla» (DK 28 B 9, 3- 4). Il linguaggio dei mortali va quindi usato nella piena consapevolezza della sua relatività: le sue distinzioni non toccano la realtà delle cose. Il mondo visto nella sua totalità, cioè da un punto di vista cosmologico (il punto di vista che l’uomo, su consiglio della dea, adotta per ricondurre la percezione del molteplice alla permanente unità della verità) risulta mescolato di luce e di ombre; la distinzione è illusoria perché nella continuità dei movimenti del Sole e della Luna ora c’è luce ora c’è tenebra, senza sbalzi o differenze visibili, e la sfera, non offrendo limiti percettibili, favorisce invece lo sfumare dell’una nell’altra. Le differenze percettibili per gli umani che vivono al di sotto della volta celeste non sono determinabili al di fuori della prospettiva limitata dell’osservatore. Ciò comporta che il discorso sulla verità dell’essere non è del filosofo, né può essere colto umanamente: Parmenide è il ricettore di una verità rivelata.

Questo aspetto potrebbe ricondurci a un Parmenide non soltanto di ascendenza esiodea, ma dalle radici letterarie: lo schema è, infatti, quello in uso nei proemi dell’epica aedica, di cui conosciamo l’esempio omerico. Se infatti nel poema da una parte sta la novità grammaticale della sostanzializzazione del verbo all’infinito – il pensare, l’essere – atta a favorire l’astrazione del linguaggio, dall’altra permane parte della terminologia omerica, quella delle metafore concrete persino cruente, come brotoí per indicare i mortali, derivato da brótos, sangue. Una biforcazione analoga a quella proposta a Parmenide è illustrata nell’Odissea quando, narrando i casi di Edipo (Odyssea, XI, 271-280), si contrappongono la conoscenza relativa degli umani e il sapere assoluto delle divinità. Da una parte la conoscenza faticosa, frammentaria, incompleta e diluita nel tempo; dall’altra la totalità dei fenomeni visti fuori dall’ottica umana, al di fuori del tempo, della quale le divinità fanno partecipi soltanto esseri eccezionali quali gli aedi.

Gli eleati

Tradiamo Parmenide se, escludendolo da tale tradizione, ne facciamo un filosofo, come voleva Platone, oppure un fisico, dando ascolto ad Aristotele? Sono proprio i seguaci dell’Eleate che pretendono un maestro dal dogma blindato da opporre nei dibattiti e tale fazione intransigente per Aristotele rappresenta un pericolo:

Alcuni in effetti credevano che (p) ciò che è fosse di necessità uno e immobile; e che non ci fosse il vuoto; ma il movimento non è possibile se non c’è il vuoto separato; (q) e neppure la molteplicità se non c’è ciò che divide. E non c’è differenza [secondo loro] fra dire che il tutto non è continuo ma diviso in corpi contigui, e dire che c’è molteplicità, non uno e vuoto. Difatti, se [il tutto] è totalmente divisibile, non c’è nessun uno, e quindi nessun molteplice, ma la totalità è vuota. Invece, che esso sia divisibile fino a un certo punto e non oltre sembra una finzione; infatti (r) fino a quale limite è divisibile, e perché una parte della totalità si comporta così ed è piena, mentre l’altra è divisa? Inoltre (s), in ogni caso, si deve egualmente dire che non c’è movimento. Sulla base dunque di questi ragionamenti essi (t), sorpassando la sensazione e sdegnandola, come se occorresse attenersi al ragionamento, dicono che il tutto è uno e immobile. (De generatione et corruptione, I, 325 a 2-15)

Si possono distinguere le posizioni di Melisso (p) da quelle di Zenone (q, r), mentre le ultime asserzioni (s, t) sono sottoscritte concordemente da tutti. La ragione dell’impenetrabilità della scuola italica va ricercata, secondo lo Stagirita, non soltanto nella chiusura sprezzante nei confronti delle altre dottrine (siamo in clima di accertata concorrenzialità con Eraclito), ma pure nell’assoluta indifferenza all’esame dell’esperienza. Tutto ciò deve essere considerato estraneo al contesto della discussione scientifica e rimanda invece al passato, alla tradizione culturale ancorata a quel contatto esclusivo con la Verità che caratterizzava la pratica degli aedi. «Questi dissero così, e per questi motivi parvero [scrivere] intorno alla Verità. Ora dal punto di vista del ragionamento queste cose sembra che accadano; ma se si considerano i fatti, prestarvi fede pare pressoché follia» (ibidem, 325 a 16-19). Alcune di queste follie sono quelle prodotte da Zenone, che attraverso la divisibilità infinita del tempo e dello spazio poteva far credere, con ragionamenti, che fosse possibile che una freccia non arrivasse mai al suo obiettivo o che Achille non riuscisse a superare la tartaruga: l’obiettivo in questo caso è di negare l’esistenza del movimento e la verità di tutte le teorie elaborate per spiegare come questo avvenga. Fuori da ogni sarcasmo, Aristotele non sembra affatto prendere la cosa alla leggera; d’altronde egli ha sempre considerato con il dovuto rispetto le armi dialettiche di Zenone; nel Libro IV della Fisica si dedica infatti alla critica dei paradossi zenoniani, e in tutto il resto dell’opera sviluppa una teoria del tempo che salvi il mondo dei fenomeni sottoposti al divenire.

I pitagorici

Un problema a parte è rappresentato dai pitagorici, a causa di quella che Aristotele presenta come una diversione dalla ricerca naturalistica. Al contrario dei physiológoi milesi, «essi non assumono principî ed elementi dalle cose sensibili, perché gli enti matematici sono senza movimento, se si eccettuano quelli dei quali si occupa l’astronomia [...] essi enunciano cause e principî che sono sufficienti a condurre anche verso gli esseri più alti, e che si adattano più a questi che ai ragionamenti intorno alla Natura» (Metaphysica, I, 989 b 31 - 990 a 7). La ragione, per lo Stagirita, dell’allontanamento dal tracciato naturalistico consiste nell’incongruenza della matematica rispetto a tutto ciò che diviene e si corrompe. D’altronde essa non è stata desunta dall’osservazione dei processi di trasformazione delle cose sensibili, né gli enti matematici possono spiegare il movimento.

Secondo Aristotele, la vicenda pitagorica prese avvio dalla costruzione di una grandiosa analogia: i numeri stavano ai principî matematici come i principî matematici stavano a tutti gli esseri. Se a questo punto si aggiungeva che principi di tutti i numeri erano il pari e il dispari, si otteneva «che gli elementi dei numeri fossero gli elementi di tutti gli esseri» (ibidem, 986 a 1-2). Se tra principî, elementi e colonne dei contrari si poteva cogliere un rapporto di continuità ne conseguiva che il mondo fisico non veniva indagato per sé stesso, ma soltanto perché speculare a quello matematico. Ne risultava che il tipo di armonia regnante tra i numeri dovesse essere quella dell’Universo; dove tale corrispondenza non si verificava «[essi] si precipitavano a superare le lacune con aggiunte per rendere compatta la loro trattazione» (ibidem, 986 a 6). Per mantenere l’accordo tra matematica e realtà, i pitagorici s’ingegnavano a piegare questa su quella: per esempio, «poiché sembra che il numero dieci sia perfetto e che comprenda la natura dei numeri tutta quanta, dicono che i corpi che si muovono nel cielo sono dieci, e poiché sono soltanto nove quelli che si vedono, ne inventano un decimo, l’anti-Terra» (ibidem, 986 a 6-11). La gratuità dell’ipotesi dell’anti-Terra, per esigenze esclusivamente teoretiche, è il motivo guida della discussione affrontata nel capitolo 13 del Libro II del De caelo, ma è anche vero che quest’ultimo testo testimonia ben altro: a differenza di Platone nella Repubblica che, nell’esporre il mito di Er, riprendeva il parallelismo pitagorico con l’ottaedro musicale (per cui esisteva una qualche corrispondenza tra le lunghezze delle otto corde della lira e le distanze tra i nove corpi celesti), Aristotele punta decisamente lo sguardo sul nucleo, a suo dire, più problematico in ambito astronomico, poiché i pitagorici mettevano in discussione l’asserto principale della sua cosmologia, ovvero la centralità della Terra.

Dicono questi infatti che al centro è posto il fuoco, mentre la Terra è uno degli astri, e si muove in circolo attorno al centro, producendo in tal modo la notte e il giorno. Essi poi costruiscono anche un’altra Terra opposta a questa, a cui danno il nome di ‘anti-Terra’; ricercano infatti le ragioni e le cause non rapportandosi a ciò che è oggetto di osservazione, ma piuttosto riconducendo a forza i fenomeni a certe loro ragioni e opinioni, e tentando in questo modo di armonizzarli e condurli a un tutto ordinato. (De caelo, II, 293 a 21-27)

La polemica su ciò che deve essere oggetto di osservazione, tuttavia, non impedisce ad Aristotele di offrire una corretta informazione sui postulati teorici, opposti ma egualmente assumibili, per dare conto dell’alternarsi del giorno e della notte: infatti, sia che siano i cieli a muoversi attorno alla Terra immobile, o la Terra a muoversi attorno al fuoco posto al centro dell’Universo, l’effetto osservabile è identico: «Nulla vieta, a loro avviso, che, anche quando noi non si abiti al centro del mondo, i fenomeni siano tuttavia gli stessi che noi osserveremmo se la Terra fosse al centro» (De caelo, II, 293 b 26-29). Dal confronto con i passi citati dalla Metafisica, sorge un altro problema e cioè come possano i pitagorici sostenere ambedue i movimenti: è probabile che il movimento dei cieli nella sua totalità sia così lento o da non essere percepito o da essere ininfluente sull’avvicendarsi del giorno e delepocali, come quello della precessione degli equinozi. Ciò però non preoccupa Aristotele, impegnato a esemplificare i pregiudizi teorici che spingono i pitagorici a preferire un centro del Tutto abitato dal fuoco, tale che sia più propriamente «custodia di Zeus». Il rischio che si corre è quello di distogliere l’attenzione dai motivi che portarono all’assunzione dell’ipotesi dell’anti-Terra, motivi che pure Aristotele mostra di conoscere appieno: «affermano che essa [la Terra] si muove in circolo intorno al centro, e non essa soltanto, ma anche l’anti-Terra [...]. È per questo che le eclissi di Luna sono più frequenti di quelle solari » (De caelo, II, 293 b 19-24). Quindi, per ammissione dello stesso Aristotele, alla fonte di un assunto astronomico a prima vista immotivato è proprio un fenomeno osservato: la maggiore frequenza delle eclissi lunari, cosa che porterebbe a sostenere l’esistenza, oltre che dell’anti-Terra, addirittura di un discreto numero di corpi celesti frapposti tra la Luna e il fuoco centrale.

Eraclito

Nella ricostruzione del pensiero di Eraclito gli aspetti legati all’imitazione dei modi del linguaggio oracolare e religioso, ricco di paradossi, ossimori e apparenti contraddizioni in adiecto, non sembrano aver impressionato più di tanto Aristotele, salvo i brevi anche se densi accenni alla sua capacità di artifici retorici e all’uso tattico dell’autocontraddizione (Rhetorica, III, 1407 b 11; Metaphysica, IV, 1012 a 25 - 1012 b 32).

Per capire l’atteggiamento di Aristotele nei confronti del filosofo di Efeso, si deve risalire alla posizione di netta antitesi agli eleati che Platone aveva attribuito a Eraclito:

Ma questo problema non è quello che già ci trasmisero gli antichi, quando, sotto il velo della poesia che li celava agli occhi del volgo, dissero che la genesi di tutte le cose, cioè Oceano e Teti, sono due fiumi sempre correnti, e che niente sta fermo? Mentre poi i moderni, più sapienti di quelli, dichiarano la stessa dottrina apertamente, affinché anche i ciabattini la udissero e la apprendessero, e cessassero di credere stoltamente che delle cose che sono alcune stanno ferme e altre si muovono, bensì che tutte quante si muovono, e così, appreso ciò, tenessero quei filosofi nel dovuto rispetto? Se non che per poco non mi dimenticavo, o Teodoro, che altri invece hanno dimostrato il contrario, dicendo che ‘...immoto l’Universo ha nome’ e così pure tutto ciò che i melissi e i parmenidi hanno sostenuto in contrario a tutti costoro, dicendo che un’unica cosa è il tutto e che sta ferma in sé stessa non avendo luogo entro cui muoversi. (Theaetetus, 180 d-e)

Aristotele sembra accettare lo spunto platonico dell’isolamento parmenideo:

L’asserto che tutto è immobile, e tentare di dimostrare ciò vanificando le sensazioni, è un crampo mentale. Ciò mette in forse non una parte ma tutto, cioè non soltanto l’ambito naturale ma tutte le scienze e tutte le opinioni al riguardo per il fatto che tutte fanno uso del movimento. Come, per esempio, le discussioni sui principî nei discorsi matematici non riguardano il matematico, lo stesso vale negli altri ambiti, allora neppure quanto appena osser-vato riguarda lo studioso di fisica. È stato posto infatti che la Natura è principio di movimento. In qualche modo anche dire che tutto è in movimento potrebbe essere falso, ma lo è in modo minore per questioni di metodo: negli scritti di fisica la Natura è stata posta come principio sia del movimento che della quiete, e similmente il movimento è stato posto come condizione della Natura. (Physica, VIII, 253 a 32 - 253 b 6)

Usata come elemento di quel lógos sulla Natura che Aristotele viene delineando, la dottrina eraclitea non è più contrapposta al rigore razionalistico di Parmenide, serve semmai a contenerne le esasperazioni. Sotto le affermazioni di Eraclito, possiamo ritrovare tutta la fazione dei presocratici che, anche partendo da posizioni parmenidee, hanno fatto del movimento – riconosciuto quale manifestazione intrinseca della Natura – la spiegazione dell’essere e non la sua negazione. Per questo non si dà scienza della Natura se non a partire dallo studio del movimento naturale, e affermare con Eraclito che tutte le cose nascono o scorrono non significa negare loro un sostrato, come «una sostanza unica che permane al di sotto di tutte le altre» (De caelo, III, 298 b 30).

Eraclito, appena citato tra i cosmologi per la sua tesi sul fuoco, gode invece di una particolare attenzione quando il discorso sulla Natura si fa approfondito e tecnico. Nel Libro I del De partibus animalium Aristotele spiega – forse in polemica con la tendenza pitagorica a intendere la filosofia come orientata esclusivamente verso le cose divine – che «persino verso quegli esseri che non presentano attrattive sensibili, tuttavia, al livello dell’osservazione scientifica, la Natura che li ha foggiati offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo» (De partibus animalium, I, 645 a 7-10). E, di seguito, presenta in questi termini Eraclito e il suo orientamento filosofico: «Eraclito, a quanto si racconta, parlò a quegli stranieri che desideravano rendergli visita, ma che una volta entrati, si arrestavano vedendo che si scaldava presso una stufa da cucina – li invitò a entrare senza esitare: “anche qui” disse “vi sono dèi” – così occorre affrontare senza disgusto l’indagine su ognuno degli animali, giacché in tutti v’è qualcosa di naturale e di bello» (ibidem, 645 a 17-23).

Il programma di Aristotele: recuperare un orizzonte naturale

L’obiettivo di Aristotele – e il caso di Eraclito lo dimostra – non è dunque soltanto quello di appropriarsi delle dottrine dei precedenti pensatori riutilizzandole, ma anche quello, una volta munitosi dell’apparato concettuale elaborato da Socrate e Platone, di ristabilire i contatti con quel sapere naturalistico di antica tradizione, ripristinandone le giustificazioni logiche, la consistenza argomentativa e le corrispondenze ontologiche, che dopo la crisi parmenideo-platonica erano state messe in crisi:

La ragione per la quale i nostri predecessori non sono pervenuti a questo modo di spiegazione, è che non conoscevano l’essenza della cosa. Toccò per primo la questione Democrito, non perché lo ritenesse necessario alla scienza naturale, ma perché vi era spinto dalle cose stesse. Al tempo di Socrate questa ricerca progredì, ma furono trascurate le indagini sulla Natura, e i filosofi rivolsero i loro studi alla virtù pratica e alla politica. (De partibus animalium, I, 642 a 24-31)

Esemplare è il caso di Talete: dopo l’enunciazione della sua archḗ materiale, con annesso corollario del galleggiamento della Terra sull’acqua, Aristotele s’impegna a trovare dei riscontri nei fenomeni naturali, esponendosi con proprie considerazioni sulla capacità generativa dell’umidità; ne inferisce una probabile legge causale, ne ricava alcuni concetti altrove applicabili; operazioni, queste, che implicano un’astrazione di pensiero e di linguaggio sconosciute ai milesi. Così ritradotte e catalogate, le dottrine dei naturalisti risultano credibili e i loro risultati, anche se parziali, sono da utilizzare e da superare. L’intenzione di Aristotele non è quella di proporsi come punto d’arrivo per tale cammino, ma quella d’indicare in quale direzione continuare a lavorare e in quale rapporto ci si debba porre con quanto detto in precedenza (Metaphysica, II, 993 a 31-b 11). Nessuna teoria sul mondo, infatti, può porsi in assoluta autonomia rispetto alle precedenti, ma deve in qualche modo comprenderle, spiegando quanto esse finora spiegavano semmai risolvendo i problemi che queste non erano state in grado di risolvere. Il clima di competitività già instaurato dagli eleati faceva sì che la propria posizione risultasse accettabile soltanto dopo aver constatato l’impossibilità di asserti alternativi, e in questo modo andava inesorabilmente perduto tutto il campo dei fenomeni e delle loro spiegazioni che comunque altre teorie erano in grado di esibire. Ecco perché Aristotele ritiene che nella prassi del ricercatore di scienze naturali debba esistere una coscienza storica, anche se non strutturata secondo canoni storiografici: essa aiuta a relativizzare i propri risultati ponendoli in un contesto di discussione comune, e tutto ciò permette una consapevolezza più piena nei confronti del sapere già sviluppato e ancora da sviluppare. È necessario dunque non soltanto tradurre ogni asserto all’interno di altri, ma anche lavorare per categorie generalizzanti: soltanto a queste condizioni sono possibili quei paragoni in grado di rapportare i parziali risultati del singolo ricercatore a quelli globali raggiunti dalla ricerca comune; si torna quindi all’adozione del termine archḗ, a cui ora vanno aggiunti pochi altri come kínēsis (il movimento), aitíai (le cause), enantía (i contrari) e hypokeímenon (il sostrato), e siamo vicini a una definizione di phýsis.

Il discorso unitario di Aristotele sui presocratici rivela il suo significato quando lo si va a leggere in altro contesto, cioè nelle ricerche naturali dove il linguaggio, più preciso attorno ai particolari, delinea in modo sbrigativo le questioni più generali arrivando subito al punto essenziale:

Gli antichi, che per primi indagarono filosoficamente intorno alla Natura, rivolsero le loro ricerche al principio materiale e alla causa dello stesso tipo, cercando che cosa e quale fosse e come da essa si generasse l’Universo, e quale fosse il principio motore – per esempio l’odio, o l’amore o l’intelligenza o la spontaneità (toũ automátou) – mentre il sostrato materiale doveva avere necessariamente una certa natura, per esempio calda quella del fuoco, fredda quella della terra, e l’una leggera, l’altra pesante. Così essi vedono perfino la formazione del Cosmo. Similmente spiegano la formazione degli animali e delle piante. (De partibus animalium, I, 640 b 5-12)

In questo contesto il prologo sugli antecedenti è ridotto: si parla di sostrato (hypokeímenon), ma è già principio materiale (hýlē); si parla di principio motore, di formazione del Cosmo. Ciò che più interessa è però il confronto sul campo per ogni singola tesi o nozione formulata e si arriva subito a identificare ogni parte dell’animale e a individuarne la funzione confrontandola con la descrizione fornita da questo o quel presocratico.

In tale clima le posizioni di Talete e Anassimandro sono subito riportate a probabili processi fisiologici: «dicono, per esempio, che a causa del fluire dell’acqua si formano lo stomaco e ogni ricettacolo del residuo, oppure a causa del passaggio dell’aria respirata si pratica l’apertura delle narici» (De partibus animalium, I, 640 b 12-15). Ora questi due elementi «sono la materia dei corpi: e a partire da tali corpi, tutti costoro spiegano la composizione della Natura» (ibidem, 640 b 16-17); come dire che l’azione di un elemento per il funzionamento del corpo umano, per esempio, può offrirsi come modello per il comportamento di tutti gli esseri governati dai principî naturali. Nel corpo umano, però, più che fuoco o terra si rinvengono altri elementi che servono a conservarlo in vita: «Se l’uomo però e gli animali sono esseri naturali, come pure le loro parti, allora occorre trattare della carne, delle ossa, del sangue» (ibidem, 640 b 17-19).

Ad Aristotele è necessario uscire dalle astrazioni ingenue dei presocratici per arrivare a un diretto confronto sulle realtà da spiegare: «Queste affermazioni sono dunque eccessivamente semplicistiche, dello stesso tipo di quelle di un falegname che parlasse di una mano di legno. È proprio in questo modo che anche i fisiologi espongono la genesi e le cause della configurazione dei corpi: sarebbero stati infatti fabbricati da certe forze» (ibidem, 641 a 5-9). Il parallelismo che s’instaura è curioso, ma conduce diritto all’argomento finale che sta a cuore allo Stagirita: egli adotta per un attimo l’immagine dell’artigiano cosmico, metafora alla quale i presocratici ricorrono quando paragonano il Cosmo a un artefatto ordinato: «Come il falegname parlerebbe di scure o di trapano, essi parlano di aria e di terra, salvo che il falegname direbbe meglio: non gli basterà infatti dire questo, che in seguito a un colpo del suo strumento si è formata ora una cavità ora una superficie piana, ma aggiungerà per quale ragione abbia dato quel colpo e in vista di quale scopo; dirà la causa» (ibidem, 641 a 9-13).

La causa in questione è, ovviamente quella finale, quella cioè in vista della quale le forme compiute delle singole parti di un animale esistono.

Il tema che interessa Aristotele è quello della necessità del fine almeno nell’offrire una spiegazione dell’esistente; e l’invito ai physiológoi è quello di assecondare l’analogia con gli artefatti: anche per un letto è facile dire che si è fatto uso di un progetto, bisogna però vedere come esso sia pervenuto a precisare ogni parte di cui il letto è costituito. Così «occorre dichiarare le determinazioni proprie dell’animale, descrivendo che cosa sia, quale sia, e ognuna delle sue parti» (ibidem, 641 a 15-17). Troppo generiche rimangono le affermazioni di molti cosmologi, quasi che la ricerca delle cause riguardi i fenomeni naturali nel loro complesso: «la scienza della Natura non può vertere su alcun oggetto risultante da astrazione, giacché la Natura fa tutto in vista di un fine» (ibidem, 641 b 10-12). Il fine in questione, invece, non riguarda la Natura nella sua totalità ed è un abbaglio linguistico parlare di un fine. In realtà télos subisce quindi lo stesso uso linguistico generalizzante riservato ad altri termini, come archḗ. Soltanto per analogia si può dire che in ogni forma esistente si attua il fine. Nella Fisica e nella Metafisica Aristotele, pur dilungandosi nella discussione, è tassativo: l’unicità del fine, anche in Natura, è soltanto per analogia. Tale fine non è quello indicato dall’ordine di tutto l’esistente né autorizza l’individuazione di un fine unico (questione che non tocca Aristotele nell’immediato). Ricorrere a un’unità analogica del termine significa piuttosto che ogni vivente realizza in primo luogo la sua forma in vista del suo fine, che è quello della propria sopravvivenza, e in seconda istanza realizza il perdurare della forma della specie, secondo ritmi evolutivi interni alla Natura che avvengono sempre allo stesso modo. Quindi «non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso [...] Non infatti il caso, ma la finalità è presente nelle opere della Natura, e massimamente: e il fine in vista del quale esse sono state costruite o si sono formate, occupa la regione del bello» (ibidem, 645 a 15-26). Il bello di cui si parla è quello che nasce dalla meraviglia che si prova di fronte alla scoperta del modo in cui ogni vivente realizza il proprio fine: e tale contemplazione è gratificante per sé stessa.

L’impatto con le teorie naturalistiche dei componenti minimi

Una trattazione a parte godono i tre physiológoi Anassagora, Empedocle e Democrito che Aristotele mette sempre in correlazione, seguendo i criteri già visti, cioè in modo generale nella Fisica, nel De generatione et corruptione, e nel De caelo, più specificamente nei trattati biologici De generatione animalium e De partibus animalium. In questo caso il metodo della contrapposizione dialettica mostra i suoi migliori frutti, poiché attraverso il gioco degli accoppiamenti e delle opposizioni si approfondisce il pensiero dei tre autori e si percorrono tutte le possibili vie della ricerca naturalistica.

Nella Fisica Anassagora rappresenta la posizione intermedia, mentre il comune minimo denominatore è dato dalla tesi dei microcostituenti della materia. Le ragioni del diretto interessamento di Aristotele al dibattito sono espresse nella Metafisica: «Piuttosto che far ricorso al ‘tutto insieme’ di Anassagora, alla mescolanza di Empedocle e alla formula di Democrito, è meglio dire: erano insieme tutte le cose in potenza, ma non in atto. Pertanto quei filosofi avrebbero avuto qualche nozione della materia» (Metaphysica, XII, 1069 b 19-20). Si tratta di teorie complesse sulla Natura, esse non implicano più una Natura immutabile di fondo e una labile dimensione fenomenica alla superficie; v’è una radicale distinzione tra macrofenomeni, che costituiscono la realtà di cui abbiamo esperienza, e microelementi, che sono la causa sia del loro permanere, sia delle loro mutazioni. Nel confronto fra i tre autori è stabilita una differenza tra l’aspetto della realtà da spiegare e quello che spiega, con la sola disposizione degli elementi, sia il divenire del molteplice che il permanere dell’identico. Il problema, infatti, non è tanto il prodursi del sempre diverso, quanto il perdurare di forme identiche per specie pur nel generarsi di sempre nuovi individui: l’opposizione uno/molti è riproposta all’interno di ogni specie. Qualcosa deve garantire una produzione progressivamente infinita e qualcosa, d’altro canto, deve garantire il contenimento delle forme. Siamo così giunti a un’accezione forte della teoria della causalità; anche se, come vedremo, non è tanto forte come Aristotele desidererebbe.

Nella Fisica, dall’accostamento e dalla contrapposizione di Anassagora a Empedocle, emerge che la relazione uno/molti è risolta separando i contrari: questa separazione dall’unità che li conteneva avviene per il primo una volta sola, per il secondo con una sequenza ritmica. Anassagora pone il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra come derivati da omeomerie, cioè da quelle sostanze che pur nelle divisioni in parti non smarriscono la loro differenza qualitativa; Empedocle ritiene invece che i primi siano i corpi semplici da cui deriverebbero tutte le altre sostanze (Physica, I, 187 a 20, 188 a 15); entrambi però pongono le differenze qualitative all’interno della microdimensione (De generatione et corruptione, I, 314 a 14, 314 b 2; Metaphysica, I, 984 a 8-16). Opponendo Anassagora a Democrito (Physica, III, 203 a 20-b 2) si puntualizza che ciò che li differenzia è il concepire gli elementi come distinti qualitativamente o quantitativamente; il primo considera infatti gli omeomeri come parti che permangono identiche nella qualità alle sostanze da cui si separano, mentre il secondo parla di una sostanza indistinta, mentre le differenze vanno ricondotte alle grandezze e all’organizzazione di forme nello spazio. Tuttavia, comune rimane la posizione iniziale di credere infiniti gli elementi atti a produrre effetti all’infinito, in opposizione a Empedocle.

Ovviamente i confronti tra i tre physiológoi sono più volte riproposti per evidenziare, attraverso questo gioco delle tre posizioni, sfumature nuove e via via sempre più particolareggiate: «Se si deve supporre che una volta nulla si muoveva, allora necessariamente due sono i modi: o come dice Anassagora, che ritiene che essendo tutte le cose insieme e acquiescendo da un tempo infinito, l’Intelletto impose il movimento e la distinzione; oppure come dice Empedocle, che sostiene che alternativamente ritornano movimento e quiete» (ibidem, VIII, 250 b 23-27). In questo passo l’elemento nuovo è dato dal movimento: ambedue i presocratici affermano che è generato, ma Anassagora vede il movimento come produzione di un infinito materiale una volta usciti dall’infinito temporale, Empedocle parla di una generazione ciclica del movimento. Questo porterebbe già a escludere che Democrito sostenga un movimento generato: troveremo conferma di ciò nell’analisi delle tesi dell’atomista.

Anassagora

Altro argomento di discussione evidenziato nella Fisica dalla contrapposizione tra questi pensatori è che due di loro – Anassagora e Democrito – postulano l’infinito (Physica, III, 203 a 20): «Anassagora assurdamente parla di infinito immobile. Dice infatti che saldamente l’infinito è ancorato su sé stesso, perché è sempre in sé stesso e niente lo circonda » (ibidem, 205 b 2-4). Più avanti Aristotele riprende il discorso su Anassagora dal punto in cui lo aveva lasciato: «Ritiene che essendo tutte le cose insieme e acquiescendo da un tempo infinito, l’Intelletto impose il movimento e la distinzione » (ibidem, VIII, 250 b 24-26). Si profila l’ombra di Anassimandro, evocata appena introdotto il tema dell’infinito: «Affermo che non esiste l’infinito come principio, anche se esso lo sembra essere per tutte le altre cose e ‘avvolgere tutte e reggere tutte’ [...] e dicono che questo è divino ‘immortale e insenescente’ come asseriscono Anassimandro e la maggior parte dei physiológoi» (ibidem, III, 203 b 10-15).

Nel De caelo le tesi anassagoree sono introdotte per contrapposizione a quelle empedoclee. Per Anassagora i corpi che crediamo semplici sono composti: «l’aria e il fuoco sono mescolanze di questi [gli omeomeri] e di tutti gli altri ‘semi’: ciascuno di essi è infatti un’aggregazione di tutti gli invisibili omeomeri. Perciò tutto si genera da questi» (De caelo, III, 302 b 1-4). Terra, acqua e fuoco testimoniano il loro cambiamento, e ciò significa che contengono in sé tutte quelle sostanze che potrebbero divenire; nell’agglomerato esse non sono distinguibili per la loro piccolezza (gli omeomeri appunto), ma a livello macroscopico è possibile dimostrare che la divisione in parti non comporta la dissoluzione della propria connotazione qualitativa. Così pure l’aria, che non è un elemento, non risulta vuota, ma, al contrario, è piena di tutto; a essa, quindi, può essere attribuita l’azione di sorreggere il mondo: «Anassimene, Anassagora e Democrito affermano che la causa dell’immobilità della Terra è la sua forma piatta. Essa non taglia l’aria che le sta di sotto, ma la coperchia, come vediamo che fanno i corpi piatti» (ibidem, II, 294 b 14-16). ro del presocratico ora accostandolo ad Anassimandro ora ad Anassimene; di fatto, sua convinzione è che Anassagora, nel tentare di spiegare come si sia originata la separazione degli omeomeri dal tutto/insieme, illimitato e indeterminato, sia giunto sulla soglia di una teoria della causalità trascendente molto vicina a quella dello stesso Aristotele, ma di non averla oltrepassata per l’aspetto primitivo del proprio pensiero: «Anassagora si serve dell’intelletto come di un espediente per spiegare il modo in cui è nato l’ordine del mondo, e quando non sa dire per quale causa qualcosa necessariamente è, porta sulla scena l’intelletto, ma negli altri casi impiega tutto, fuorché l’intelletto, come causa di ciò che accade» (Metaphysica, I, 985 a 18-21).

Empedocle

«Meglio prendere principî pochi e finiti, come fa Empedocle » (Physica, I, 189 a 15-16); in questi termini è introdotto il pensiero del filosofo di Agrigento, al quale manca invece proprio la causa trascendente sfiorata da Anassagora. La disamina del presocratico avviene in due testi: il primo è la Metafisica, in cui l’affermazione di un principio come causa della distruzione di tutte le cose, e cioè la contesa, sembrerebbe un punto fermo e chiaro; invece è proprio questa, che secondo Empedocle, genererebbe per divisione tutte le cose, eccetto la divinità. E qui Aristotele cita: «Di qui tutte le cose che furono, che sono e che saranno derivarono, ne sbocciarono alberi e uomini e donne, fiere, uccelli e pesci nutriti nell’acqua, e numi longevi» (Metaphyisica, III, 1000 a 29-32); quindi riprende il suo rilievo critico:

Infatti, se fra le cose non ci fosse stata la contesa, tutte le cose sarebbero state una sola, come dice egli stesso. Quando infatti tutte le cose erano una sola, “ultima stava la contesa”. Ma una delle conseguenze del pensiero di Empedocle è che il dio più felice sa meno di tutti gli altri, perché non conosce le cose. Infatti egli non possiede la contesa, e la conoscenza avviene tra simile e simile. [...] Ma s’era cominciato con il dire, ed è evidente, che per lui la contesa finisce con l’essere causa della distruzione non meno che dell’essere; e allo stesso modo l’amicizia non è dell’essere, in quanto riconducendo tutte le cose all’eternità, distrugge tutte le altre cose. Contemporaneamente Empedocle non nomina la causa di questo cambiamento, ma dice soltanto che così avviene per natura; [e se il cambiamento è detto necessario] Empedocle non svela affatto la causa di tale necessità. (ibidem, 1000 b 9-17)

La polemica è mirata sull’azione universale, cosmica, dei principî Amicizia/Contesa e l’accusa è di incoerenza. Sono posti due principî per dare ragione del prodursi e del dissolversi delle cose: Amicizia è il principio che trattiene l’elemento nell’essere amalgamando le sue parti; al contrario, Contesa, come forza disgregatrice, comporta il suo dissolversi nei corpi. Ma ecco il capovolgimento: il venire all’essere, una volta che si pone all’origine un «tutto insieme», può dipendere soltanto da Contesa, in quanto causa di separazione, Amicizia allora, sarebbe la forza che si oppone alla generazione degli elementi. Quindi ciascuno dei due principî viene a svolgere i due ruoli opposti:

Empedocle fa uso di queste cause più di Anassagora, ma tuttavia non ancora in misura sufficiente, né gli riesce di impiegarle in modo coerente. Spesso infatti per lui l’amicizia divide e la contesa unisce: quando infatti il tutto si divide negli elementi per opera di contesa, il fuoco e ciascuno degli altri elementi si raccolgono in unità; ma quando poi tutti gli altri elementi convergono verso l’unità per opera dell’amicizia, è necessario che le parti di ciascun elemento di nuovo si dividano. (ibidem, I, 985 a 21-29)

Aristotele aveva già suggerito che la confusione accreditata al sistema empedocleo avesse origine da un’imprecisione terminologica del filosofo: la distinzione del movimento verso l’uno o dall’uno è relativa perché rimane indefinita l’unità rispetto a chi o a che cosa vada considerata; quindi la connotazione qualitativa dei due movimenti opposti è impropria. Il fatto che Empedocle abbia scritto un poema in versi fornisce allo Stagirita un buon appiglio per un intervento chiarificatore al fine di utilizzare la dottrina secondo propri criteri: «Empedocle, dunque fu il primo che introdusse il principio del movimento come una causa divisa in due, ponendo non un unico principio del movimento ma principî diversi e opposti, e gli va riconosciuto il merito della più corretta dottrina della materia, costituita da quattro elementi» (ibidem, 985 a 29-33).

Con il De generatione et corruptione s’esce dall’ambito cosmologico per entrare nel vivo della questione naturalistica. Per Empedocle è difficile rendere conto della ‘generazione secondo natura’:

Infatti tutte le cose che sono generate naturalmente, sono generate allo stesso modo o sempre o nella maggior parte dei casi, mentre le cose che sono al di fuori di questa uniformità assoluta o costante sono risultati del caso o della fortuna. Qual è allora la causa per cui dall’uomo viene l’uomo o sempre o nella maggior parte dei casi, e dal grano il grano e non un ulivo? Dobbiamo dire che l’osso si genera se gli elementi sono composti a un certo modo? Infatti nulla è generato in base a una composizione fortuita degli elementi, come riconosce Empedocle, ma occorre una certa proporzione razionale. (De generatione et corruptione, II, 333 b 4-11)

Di nuovo, il maglio critico di Aristotele si abbatte sul presocratico rilevando una paradossale incongruenza: Empedocle parla di elementi naturali e delinea un processo generativo attraverso la loro azione, ma di fatto «nulla egli dice della Natura» (ibidem, II, 333 b 18). Se, infatti, sulla teoria degli elementi v’è convergenza d’opinione, salvo per il ruolo egemone poi attribuito al fuoco, Empedocle invece non riesce a individuare la ragione della costanza in Natura, che al contrario Aristotele risolve indicando la stabilità delle proporzioni tra gli elementi: «e caso non proporzione è il nome che si adopera in questi casi; poiché è possibile che la mescolanza sia fortuita» (ibidem, 333 b 15-16). Agli occhi di Aristotele risulterebbe inutile questo rimando di Empedocle agli elementi/ principî, se per essi non fossero stati individuati criteri stabili di comportamento. Per inciso, soltanto a tali condizioni il filosofo di Agrigento avrebbe potuto a buon diritto formulare un concetto articolato di Natura: «qual è dunque la causa di ciò [degli avvenimenti naturali]? Non è certamente il fuoco, né la terra; ma neppure l’amore e l’odio: l’uno è causa soltanto di associazione, l’altro di dissociazione » (ibidem, 333 b 11-13). Il silenzio di Empedocle al riguardo è rotto soltanto dall’individuazione di «una mescolanza e un cambio delle cose mescolate» (ibidem, 333 b 14-15). L’accusa è di condurre un discorso troppo semplicistico sulla Natura; prova ne è l’impossibilità di distinguere i movimenti casuali, quelli violenti da quelli naturali, anche a livello di elementi.

Nella Fisica Aristotele osserva che «per Empedocle non sempre l’aria separata si colloca nel luogo più alto, ma fortuitamente. Dice infatti nella sua cosmogonia: “Talora s’affretta in tal modo, spesso in modo diverso” e dice che le parti degli animali per lo più si generano per fortuna» (Physica, II, 196 a 20-24). Per un movimento analogo di un altro elemento, però, nel De generatione et corruptione arriva a conclusioni estremamente negative: «l’odio separava, ma l’etere non era spinto in alto dall’odio; anzi talvolta egli dice che è spinto da qualcosa come la fortuna [...]; talvolta invece dice che appartiene alla natura del fuoco di essere trasportato in alto [...] E allo stesso tempo dice anche che l’ordine del mondo è lo stesso ora sotto il regno dell’odio, di quel che era originariamente sotto il regno dell’amore» (De generatione et corruptione, II, 334 a 2-8).

Il giudizio negativo di Aristotele è per l’imprecisione terminologica che porterebbe Empedocle ad affermare più il caso che la natura.

Democrito

L’altra figura di filosofo naturalista che invece si staglia positivamente dalle pagine De generatione et corruptione è quella di Democrito; ed è come se all’incontro con Democrito, spesso presentato assieme a Leucippo, fossimo già preparati dal gioco delle opposizioni dialettiche. Le tesi di questi pensatori, anche se basate su posizioni non condivise, se non avversate dallo Stagirita, fanno comunque emergere il prototipo dello studioso di fenomeni naturali secondo Aristotele. A tal fine è utile il contrasto con gli eleati e i pitagorici:

La ragione per cui non si può bene comprendere tutto l’insieme delle concordanze, è l’insufficienza dell’esperienza. Per questo coloro i quali vivono in maggiore familiarità con i fenomeni della Natura sono anche più capaci di porre dei principî tali da permettere un’ampia concatenazione. Ma quelli che per i troppi ragionamenti sono stati distornati dall’osservazione dei fatti presenti, avendo lo sguardo limitato a pochi fatti, si pronunciano troppo facilmente. Da queste cose si può vedere qual differenza vi sia tra quelli che fondano il loro esame sull’osservazione sulla Natura e quelli che lo fondano sul ragionamento. Per esempio, infatti, la realtà delle grandezze indivisibili risulta per alcuni dal fatto che senza di esse il triangolo in sé sarebbe molteplice; mentre Democrito pare essersi persuaso di essa per argomenti appropriati al soggetto e dedotti dalla scienza della Natura. (De generatione et corruptione, I, 316 a 5-14)

Se i fondamenti della fisica atomistica sono in contrasto con il pensiero di Aristotele, come può quest’ultimo allora condividerne la qualità? «Leucippo e Democrito hanno spiegato con più metodo e hanno dato la spiegazione più universale, poiché hanno preso come principio ciò che lo è per natura» (ibidem, 324 b 35 - 325 a 2); il plauso di Aristotele va dunque agli atomisti per avere preso come principio della Natura ciò che da essa è inalienabile e, se si è compreso pienamente il significato dell’appello a Eraclito, in causa è il movimento. Bisogna, però, capire come Democrito e Leucippo sono riusciti a ripresentare, in qualche modo, sulla scena filosofica tale fenomeno dopo la crisi eleatica. Nelle pagine della Metafisica Aristotele mostra come l’operazione sia stata eseguita manovrando opportunamente gli asserti stessi della scuola eleatica: «Leucippo e il suo amico Democrito dissero che gli elementi sono il pieno e il vuoto, chiamandoli rispettivamente essere e non essere» (Metaphysica, I, 985 b 4-6). Interessante, a questo punto, è la connotazione del non essere, cioè del vuoto: «Essi dicono che l’essere non è nulla più del non essere perché neppure il corpo è nulla più del vuoto» (ibidem, 985 b 8-9). Il ragionamento svolto nel De generatione et corruptione si snoda in modo parallelo partendo dall’assunzione degli eleati che «da ciò che è veramente uno non può generarsi una molteplicità, né, da ciò che è veramente molteplice, un uno» (De generatione et corruptione, I, 325 a 34-36), Leucippo e Democrito credettero di possedere una soluzione prospettando l’esistenza di alcuni elementi «che, in accordo con la sensazione, non distruggevano né la generazione, né la corruzione, né il movimento, né la molteplicità delle cose» (ibidem, 325 a 24-25). La molteplicità a questo punto è introdotta, mantenendo l’integrità dell’essere a livello atomico: «Una tal cosa tuttavia non è una, anzi ce n’è una molteplicità indeterminata, e sono invisibili a causa della piccolezza delle loro masse; si muovono nel vuoto, giacché c’è un vuoto, e riunendosi producono la generazione, e sciogliendosi la corruzione; inoltre, agiscono e subiscono in relazione al fatto che si trovano a essere a contatto, poiché allora non sono uno, e generano le cose tramite la loro composizione e intreccio reciproco» (ibidem, 325 a 29-34).

Le tesi eleatiche che potevano ormai sembrare insormontabili, sono così aggirate, ma a questo punto il divenire non può essere più spiegato attraverso la corruzione dell’essere dei singoli atomi, che non possono subire alterazioni nella loro sostanza. «Dalla separazione e unione di queste figure fanno derivare la generazione e la corruzione e dal loro ordine e posizione, l’alterazione» (ibidem, 315 b 7-9), e l’esempio citato è quello di due componimenti diversi, come la tragedia e la commedia, che constano delle stesse lettere. Questo ci rimanda a un’analogia ormai leggendaria della Metafisica costruita sulle lettere dell’alfabeto, secondo la quale le lettere N e A differiscono per forma, la sillaba NA è costituita da uguali lettere di AN ma differisce per l’ordine delle stesse, e la lettera N differisce dalla lettera Z per posizione (Metaphysica, I, 985 b 15-19).

Nel ritratto dello scienziato atomista lo Stagirita vuole cogliere l’esempio del ricercatore aperto alla discussione con le scuole e al confronto con la Natura. È convinzione di Aristotele non soltanto che Democrito e il suo amico Leucippo costruiscano tesi tenendo conto delle obiezioni mosse da altri, pure se di scuola avversa, ma anche che il dialogo con essi possa continuare mostrando loro quali aspetti della Natura risultino ancora inspiegabili adottando i loro presupposti.

Una questione spinosa: l’‘autómaton’

Per lo scontro finale, la resa dei conti con i presocratici, Aristotele si misura con un gruppo di proposizioni sulla Natura, precisamente sulle condizioni della generazione, frutto dell’intreccio tra posizioni empedoclee e atomistiche. Che lo studio dei processi genetici fosse congeniale a tali filosofie, lo dimostra la loro continua presenza nel De partibus animalium e nel De generatione animalium.

Capovolgendo la mistica matematica dei pitagorici, che trovava nel cielo l’unico oggetto adeguato alla propria ricerca, alcuni pensatori, nel corso delle ricerche naturalistiche sui processi di trasformazione e di generazione degli animali, sono rimasti in qualche modo coinvolti nella discussione sui processi di corruzione e hanno pensato di poter giungere alla conclusione «che ognuno degli animali è ed è stato formato per natura, il cielo invece è organizzato in quel modo per caso e spontaneamente (apò týchēs kaì toũ automátou), proprio il cielo in cui nulla appare dovuto al caso e al disordine » (De partibus animalium, I, 641 b 20-23). La paternità di tale contrasto tra un rigido determinismo naturale e una cosmologia casuale sarebbe democritea, e lo sconcerto non deriva dall’aver posto il mondo a caso, ma dall’averlo opposto alla rigida causalità della composizione atomica della realtà. Forse qui il vocabolario filosofico aristotelico genera incomprensioni: autómaton è detto nel testo per la produzione del cielo, e probabilmente si potrebbe tradurlo con «dotato di movimento spontaneo»; ma non cambia molto ai fini della valutazione aristotelica in quanto esso è contrapposto al criterio della necessità. Questa, sempre nei termini aristotelici, deriva dalla presenza di una progettualità: «Invero da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque, ma questa particolare creatura da questo seme particolare, né un seme deriva a caso da un corpo qualsiasi. Il seme è dunque principio di formazione di ciò che da esso deriva. Per natura ciò avviene: giacché la nascita viene dal seme. Ma va aggiunto che anteriore al seme è ciò di cui il seme è principio: il seme infatti è il processo di formazione, il compimento è la cosa stessa» (ibidem, 641 b 26-30).

La dottrina di Democrito ha dei presupposti che sono esplicitati e criticati nella Fisica: «Ritenere che sia un principio il fatto che sia sempre stato così, e che così sempre sarà, non è corretto; è questo il modo in cui Democrito riconduce alle cause che riguardano la Natura: perché è avvenuto così da prima. Ma di questo ‘sempre’ non cerca un principio causale» (Physica, VIII, 252 a-b). Aristotele non manca di spiegare le ragioni dell’atteggiamento dell’atomista: «Riguardo al tempo tutti, con una sola eccezione, sostengono che è ingenerato. E perciò Democrito dimostra che è impossibile per tutte le cose essere state generate: infatti il tempo è ingenerato» (ibidem, 251 b 14-17); e con questo si torna al punto di partenza, quando si osservava che Democrito dava per assunto il movimento. Tale assunzione comporta l’affermazione di un principio: mentre per i fenomeni vi è il ricorso a cause, magari ai micromovimenti degli atomi, per il movimento, preso come totalità del fenomeno, non vi è causa alcuna. Aristotele riconosce, nel De generatione animalium, che una risposta che ripercorra tutti questi motivi – il movimento non ha cause perché è causa o, meglio, è archḗ: essendo autómaton e agénēton non si danno altri perché – può essere formulata in altri termini:

Non offrono neppure buone spiegazioni neppure della necessità del perché quanti dicono che accade sempre così e credono, come Democrito di Abdera, che questo sia un principio, col pretesto che del sempre e dell’illimitato non vi è un principio, e il perché è un principio, mentre il sempre è una cosa illimitata; pertanto egli dice che chiedersi il perché a proposito di una di queste cose è cercare un principio dell’illimitato. (De generatione animalium, II, 742 b 17-23)

In conclusione, il problema non è che Democrito offra un sistema incompleto a causa della falla aperta da quell’autómaton introdotto per il fenomeno movimento nella sua globalità; è che Aristotele ha in serbo una metateoria del movimento con una causa assoluta adeguata. Nel contesto della Fisica il percorso è più argomentato:

Ci sono alcuni che riconoscono nell’autómaton la causa del cielo e dell’ordinamento di tutte le cose. Dall’autómaton si produce il vortice e il movimento che separano e riuniscono secondo quest’ordine tutte le cose. Ma questo soprattutto è causa di meraviglia: essi dicono infatti che gli animali e le piante né sono né si generano per fortuna ma per natura o a causa dell’Intelletto, o altra causa simile (non si attua generazione da qualche seme a caso, ma da quel seme nasce un ulivo, da quest’altro un uomo), per essi invece il cielo e le più divine tra le cose visibili si generano dall’autómaton, e non si dà nessuna causa alla stregua di quelle degli animali e delle piante. Se così fosse si deve fare di tutto ciò argomento di conoscenza scientifica per dire qualcosa al proposito. Riguardo a ciò quanto è stato detto è assurdo, ma ancora più assurdo è dire che, vedendo che nel cielo nulla accade per autómaton, e che nelle cose che si pensa non accadano per fortuna, molte, invece accadono per fortuna, sembra più probabile che succeda il contrario. (Physica, II, 196 a 24-b 5)

Alla dottrina del cielo di Democrito è agganciato il vortice di Empedocle, le cui dottrine genetiche sono ora determinanti per la discussione in merito alla Natura e al caso. Sembra di poter comprendere che si delinei una teoria della doppia causa: dal seme non può che derivare la pianta, ciò lo garantisce la Natura o altro. Tuttavia rimane aperta la sconcertante questione dei mostri, sollevata da Empedocle: «Le cose non così (opportunamente organizzate) sono andate perdute e vanno perse, come Empedocle afferma per i buoi dal volto umano» (ibidem, 198 b 31-32). L’accidentalità che questi testimoniano è, sia per Democrito sia per Empedocle, assorbita dal Cosmo nel suo insieme: questo deve essere tale da comprendere al suo interno gli umani, i buoi e i buoi dal volto umano, vale a dire i mostri naturali come una delle possibilità che si danno in Natura. Se per ogni avvenimento è riscontrabile l’azione di una causa, e a ogni causa deve conseguire l’effetto, ciò deve valere anche per i mostri, ai quali non si può negare la dignità naturale, quasi fossero errori da cancellare.

Aristotele accetta la sfida sul caso limite: «Errori succedono nelle cose della tecnica (il grammatico non ha scritto correttamente, il medico ha sbagliato farmaco) altrettanto può succedere nelle cose secondo natura» (ibidem, 199 a 33-36), però rileva che qualora si fosse prodotto «qualcosa casualmente anche tra i semi, chi assolutizza ciò non fa che distruggere le cose secondo natura e la Natura stessa» (ibidem, 199 a 13-15); e continua insistendo sul fatto che l’eccezione non va confusa con la norma «ciò che avviene sempre o per lo più non accade accidentalmente o per fortuna » (ibidem, 199 b 24-25). La conclusione è che «per natura sono dette tutte le cose che, mosse di movimento continuo da qualcosa in sé, pervengono a un fine: per tutte non è lo stesso né uno a caso, ma, qualora niente ostacoli in tutte si manifesta sempre» (ibidem, 199 b 15-18). È vero che a ogni causa non sempre segue l’effetto, o almeno quello che ci si aspetterebbe se i principî funzionassero a dovere. Non occorre però per questo turbare la perfezione che esiste nel cielo, dove è riscontrabile l’assenza di corruzione sia per la sostanza sia per i movimenti: si può sostenere una teoria della generazione naturale stabilmente orientata nei fini e guidata da immutabili movimenti celesti, senza vedersi costretti a negare quei parti mostruosi che comunque l’esperienza attesta:

Se nella conformazione dal principio [cioè genetica] i bovini non raggiungono un certo termine e fine, questo accade per la corruzione di qualche principio, come succede per i semi. È necessario che primo a essere prodotto sia lo sperma e non subito l’animale, e ciò che è detto indistinto dal principio è appunto lo sperma. Anche nelle piante interviene il fine, meno differenziato. E se nelle piante si genera qualcosa come nei bovini dal volto umano, dovremmo avere viti con la testa d’ulivo! (ibidem, 199 b 5-12)

L’argomento è fatto slittare dal regno animale a quello vegetale, perché in questo vi è più uniformità: l’intento è di spingere all’assurdo la tesi dello sperma, o seme, dove alligna il ‘tutto/insieme’, e quella della generazione casuale, fino ad affermare consequenzialmente la possibilità di commistioni tra vegetale e animale. Ciò non significa negare l’esistenza dei mostri, e, tuttavia, dal loro verificarsi non si può indurre un comportamento cosmico: un cielo posto a caso non garantirebbe più il permanere della differenza tra generi, altrettanto constatabile.

Dietro all’evocazione dell’autómaton quale causa spontanea o casuale del cielo si riconosce dunque la posizione cosmologica atomistica: il conflitto è tra la generazione spontanea legata ad autómaton, e la generazione guidata dell’ulivo, che è indicato con il termine elaía, il cui uso specifico è fin da Omero attestato per la pianta d’ulivo coltivata (Odyssea, V, 477). Proprio la presenza di tale pianta coltivata richiama la nostra attenzione sul fatto che fulcro della polemica è dunque la progettualità in Natura, costruita dallo Stagirita con i frequenti ricorsi alle analogie con l’ambito tecnico; méta alla quale i naturalisti potevano arrivare se Anassagora non avesse mancato il suo appuntamento con l’Intelletto: «la Natura appartiene alle cause finali [...], tutte sono ricondotte a questa causa [...], e se un’altra causa intende chi parla di Amore, di Odio o di Intelletto, è solamente per trascurarla o ignorarla» (Physica, II, 198 b 10-16).

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