Scienza greco-romana. Euclide e la matematica del IV secolo

Storia della Scienza (2001)

Scienza greco-romana. Euclide e la matematica del IV secolo

Reviel Netz

Euclide e la matematica del IV secolo

Sappiamo del IV sec. a.C. più di quanto non sappiamo del V, ma è sempre molto poco. Fra i pochi testimoni di quest’epoca spicca Platone, sensibile alle questioni di matematica ma forse troppo preso dai suoi interessi per poter fornire indicazioni chiare dell’effettivo stato della matematica del suo tempo (è stato suggerito persino che Platone abbia deliberatamente voluto dare un’immagine falsa nella sua descrizione della matematica: Knorr 1992). Anche Aristotele, non meno interessato di Platone alla matematica, è una fonte importante; parla di matematica, a volte pure con esempi, ma anche nel suo caso ciò che ci interesserebbe maggiormente, e cioè l’indicazione delle principali linee di sviluppo, compare soltanto attraverso alcuni riferimenti indiretti e piuttosto oscuri. L’idea che abbiamo di queste ‘principali linee di sviluppò è dovuta alle opere della fine del IV sec. e del III che ci sono pervenute, in particolare quelle di Euclide e di Archimede. Euclide visse intorno al 300 a.C., data non certo sicura perché i riscontri sono ben pochi; Archimede fu attivo certamente intorno al 250 a.C. Nelle loro opere, molto sofisticate, essi fanno mostra di una grande varietà di interessi matematici, e ciò lascia supporre che queste opere siano il punto d’arrivo di un processo storico. Vi sono citati autori del IV sec. che potrebbero aver inciso su questo processo, alcuni dei quali associati a teorie precise; in particolare ricorre spesso il nome di Eudosso.

Si potrebbe quindi essere tentati di scrivere una storia della matematica greca del IV sec. nella quale ciò che è contenuto implicitamente o esplicitamente in Euclide e Archimede sia organizzato cronologicamente e attribuito a questo o a quell’autore. Tuttavia, le informazioni disponibili sono ancora troppo scarse per rendere possibile un resoconto storico dettagliato; soprattutto, non abbiamo idea di quali fossero le motivazioni delle figure principali di questo periodo. Non ne possediamo le opere originali, e se è vero che abbiamo una sola testimonianza per quanto riguarda il V sec., quella su Ippocrate di Chio, ne abbiamo una sola e peggio conservata anche per il IV, quella su Archita. Del IV sec., rispetto all’epoca precedente, sappiamo in più soltanto cosa intendessero allora per matematica. Il processo che abbiamo delineato nel cap. XVI ha portato nel IV sec. a parlare di ‘matematica’ in un senso preciso, e siamo perciò autorizzati ad analizzare i contenuti di questa disciplina nel loro sviluppo storico. La povertà delle fonti ci obbliga però a un’analisi di tipo sincronico piuttosto che diacronico, prendendo in esame quattro temi principali della matematica di questo periodo. I primi due riguardano figure e risultati importanti: Archita e la duplicazione del cubo, Eudosso e le sue innovazioni riguardo ai fondamenti. Oltre a questi, tratteremo le due classificazioni, tra loro collegate, dei solidi regolari e delle grandezze incommensurabili, e infine la comparsa sulla scena delle coniche. Dopo questa presentazione, nel par. 2 ci occuperemo della figura più importante del tardo IV sec., e in un certo senso di tutta la matematica greca, Euclide. Dopo una breve introduzione alla sua opera, daremo uno sguardo d’assieme agli Elementi. Infine, un’analisi dettagliata di un singolo libro, il secondo, permetterà di farci un’idea del modo in cui lavorava Euclide.

Temi della matematica del IV secolo

Archita e la duplicazione del cubo Abbiamo già parlato di Archita come di uno degli autori che testimoniano il manifestarsi agli inizi del IV sec. di una ‘disciplina matematica’. Fu lui probabilmente a inventare la metafora della ‘fratellanza’ delle scienze matematiche, dando verosimilmente il proprio contributo a più d’una di queste. Sappiamo per certo che scrisse di musica (v. cap. XXVII); se le lettere di Platone a lui indirizzate (n. 9 e 12) possono essere apocrife, è certo che i due si conoscevano personalmente. Fu anche un grande uomo di governo, per sette volte stratēgós di Taranto, la maggiore città greca sul suolo italiano del tempo. Fatti di questo genere non sono secondari perché personaggi come Archita non possono essere classificati sotto la sola etichetta di ‘matematico’. Conosciamo di lui una dimostrazione, una soltanto, ma straordinaria, veramente sui generis nella matematica greca. L’attribuzione non può essere fatta con assoluta certezza; inoltre, da considerazioni di carattere stilistico sappiamo che la versione in nostro possesso non è quella scritta da lui. La situazione è analoga a quella rilevata a proposito di Ippocrate di Chio (v. cap. XVI), ma qui i problemi testuali sono ancora più complessi. Tutto quello che abbiamo è una voce in una lista di soluzioni di un certo problema, lista compilata da Eutocio, commentatore del VI sec. d.C. La voce porta il titolo ‘Soluzione di Archita secondo la storia di Eudemo’, ma il titolo non implica necessariamente che Eutocio abbia copiato questa soluzione da Eudemo, una fonte peraltro molto affidabile (v. cap. XVI). W.R. Knorr ci offre una brillante analisi testuale nella quale la ‘soluzione di Archita’ è confrontata con una versione araba che la fonte araba attribuisce a Menelao, un geometra molto più tardo; e se Knorr alla fine attribuisce la ‘soluzione di Archita’ allo stesso Archita (con una precisazione su cui torneremo più avanti), va però detto che qualche dubbio è ancora lecito. Ci sembra che convenga considerare la detta voce non come un’elaborazione della fonte diretta di Eutocio, ma più probabilmente come una frase che riflette soltanto uno scolio, dovuto per esempio a Menelao, che egli trovò annesso al testo. Scolio che può dire il vero, ma se si pensa che questo è il solo riscontro che abbiamo per attribuire la soluzione ad Archita, è opportuno conservare qualche dubbio.

Supponiamo comunque che si tratti della soluzione di Archita. Ma la soluzione di quale problema? Non lo sappiamo con certezza. Ecco come si presenta la situazione. Eutocio elenca alcune soluzioni al seguente problema: date due rette A e D, trovare altre due rette B e C tali che A:B=B:C=C:D (ricordiamo che nella matematica greca manca il concetto di retta come ente di lunghezza infinita e che quindi ‘retta’ va intesa qui, e anche nel seguito, come equivalente al moderno ‘segmento di retta’). Si tratta di un problema di teoria delle proporzioni la cui soluzione permette di ingrandire o ridurre solidi in scala (se il rapporto richiesto tra i solidi è A:D, le misure lineari dei solidi devono stare nel rapporto A:B). Scegliendo il rapporto di 1 a 2 e prendendo come solido il cubo, il problema è quello della ‘duplicazione del cubo’. Quando Eratostene, intellettuale alessandrino del III sec., faceva opera di divulgazione della geometria, sceglieva questo esempio per riferirsi al problema citato, come se il problema fosse soltanto quello della duplicazione del cubo, ossia non un problema di teoria delle proporzioni ma un problema di solidi. È impossibile stabilire quale fosse per Archita il problema, e per questa ragione è possibile che la terminologia in uso che parla di ‘duplicazione del cubo’ porti fuori strada. Supporre che il problema fosse proprio quello della duplicazione del cubo non è necessario, anche se è possibile che questa fosse l’intenzione. Dobbiamo invece partire dalla soluzione, e cercare di capire meglio di quale problema si tratta.

Tav. I

Nella Tav. I riportiamo gran parte della dimostrazione di Archita per meglio cogliere la particolarità dell’impostazione; si noti che più di ogni altra parte della dimostrazione sembra probabile che la prima frase sia di Eutocio, e quindi da questo inizio non si può dedurre che Archita volesse risolvere il problema di trovare due medie proporzionali.

Cosa si può dire di questa soluzione? Un aspetto ovvio è che essa fa intervenire un movimento nello spazio, un movimento molto complesso per la verità, ed è quindi difficile conciliarla con una filosofia che cerchi di eliminare dalla matematica gli aspetti fisici. Forse la filosofia della matematica di Platone andava proprio in questa direzione, sebbene si sia sostenuto che per Platone non è la matematica a dover diventare meno fisica, ma è la matematica a essere inevitabilmente fisica sotto qualche aspetto (Burnyeat 1987). Non dobbiamo comunque supporre che i matematici greci, contemporanei di Platone o più tardi, fossero ‘platonici’, a meno che non vi sia un effettivo riscontro. Archita conobbe probabilmente Platone, ma ciò non vincolò la sua geometria. Inoltre, la sua soluzione è molto complicata, ma in un certo senso è una difficoltà che aiuta l’effetto sorpresa. Archita mirava certamente a suscitare stupore, con quei complicati movimenti nello spazio da cui si deduce la semplice relazione tra le quattro rette, e possiamo immaginare la reazione stupita dell’uditorio al quale la soluzione era presentata. Si cerca di convincere, ma l’argomentazione non vuole essere soltanto persuasiva, vuole anche colpire. Voler stupire è però un’arma a doppio taglio: la complessità della soluzione è ovviamente un argomento contro la soluzione stessa. Una cosa è dare per primi la soluzione di un problema (ed è probabilmente il caso di Archita) e congratularsi con sé stessi per essere in grado di presentare una soluzione complicata; altra cosa è trovare altre soluzioni. La funzione storica importante della soluzione di Archita è proprio questa, cioè essere stata un incentivo a trovarne altre, in generale più semplici.

Eutocio elenca dodici soluzioni al problema di trovare due rette medie proporzionali tra due date; queste soluzioni non mirano soltanto a convincere, ma hanno anche un carattere ‘competitivo’, nel senso che ogni soluzione vuole anche essere migliore delle precedenti. Una soluzione come quella di Archita non poteva che essere la prima; quelle che seguono mirano quasi sempre alla semplicità. È questa una delle forze insite nella matematica, che hanno permesso lo sviluppo di questa scienza in un contesto competitivo come quello greco.

Una delle caratteristiche più singolari della matematica è infatti quella di proporre problemi il cui enunciato è molto semplice ma la cui risoluzione è molto complessa («trovare due medi proporzionali», come in questo caso, oppure «dimostrare che per nessun intero n>2 l’equazione an+bn-cn ha soluzioni intere», nel caso del famoso ‘ultimo teorema di Fermat’). Se la soluzione è complessa, o non è stata trovata, vi sarà certamente interesse, in un ambiente competitivo, sia a cercare una soluzione sia a trovarne una più semplice. Questo genere di stimoli potrebbe essere stato uno dei motori dello sviluppo della matematica greca.

Vogliamo infine sottolineare un aspetto della dimostrazione di Archita che può sembrare ovvio, cioè che siamo in grado di capirla, e questo non è un successo da poco. Essa fa intervenire una configurazione spaziale complicata, la cui descrizione avrebbe potuto essere problematica; fortunatamente il greco non è una lingua ambigua, e la comprensione del contenuto di questo testo non deve essere stata difficile nell’Antichità (anche se capire il significato matematico richiede impegno ed esperienza). Benché non possiamo essere certi che il testo in questione sia stato scritto da Archita di suo pugno, è chiaro che gli antichi erano in grado se non altro di trascriverlo facilmente. In altri termini, al tempo di Archita esisteva già una terminologia matematica ricca e precisa che permetteva di descrivere senza ambiguità le configurazioni più complicate. Torneremo su questo punto più avanti, a proposito di Euclide.

Eudosso e il rigore geometrico

La vita di Eudosso, come quella di Archita, fu molto ricca: egli ebbe un ruolo politico importante, anche se non del livello di quello di Archita e, secondo una tradizione credibile, redasse anche una costituzione per la sua città natale, Cnido. Per altri aspetti fu un personaggio pittoresco (ma qui la tradizione è meno attendibile); gli si attribuiscono infatti grandi viaggi e una conoscenza profonda dell’Egitto. Si credeva in passato che potesse aver avuto un ruolo nell’Accademia di Platone, ma questa ipotesi è dovuta semplicemente a una corruzione testuale (Washkies 1977, p. 50). Senza dubbio fu anche filosofo (Aristotele ritenne necessario controbattere le sue idee edonistiche sull’etica) e un grande astronomo (v. cap. XXI), ma soprattutto egli ci appare come il grande matematico del IV secolo. Oltre al ruolo effettivo da lui svolto, dobbiamo anche considerare come questo ruolo fu percepito. In due diverse occasioni (nelle introduzioni a Della sfera e del cilindro I e al Metodo), Archimede parla di Eudosso come della pietra di paragone rispetto alla quale egli si misurava. Nel periodo che va da Eudosso ad Archimede incluso – il periodo cioè nel quale ne furono raccolti i contributi principali – la matematica greca si definiva in termini della figura di Eudosso. Il carattere della sua matematica è quindi particolarmente importante. Nel seguito ci concentreremo su un singolo contributo, la sua ‘teoria elementare delle proporzioni’, che è forse emblematico della metodologia tipica di Eudosso; ‘ri gore, nel quadro della geometria’ (nel Libro XII degli Elementi di Euclide, si trova un altro lavoro importante, probabilmente suo e ricordato più avanti, che rivela un’analoga metodologia).

Abbiamo visto come Archita avesse risolto un problema difficile nato all’interno della teoria delle proporzioni, vale a dire il problema di trovare due rette medie proporzionali tra due rette date. Nello stesso periodo i Greci erano però anche impegnati a stabilire i fondamenti di questa teoria. È questo un altro elemento motore dello sviluppo, ottenere cioè non soltanto ‘nuovi risultati’ o ‘nuove soluzioni’, ma anche un nuovo insieme di definizioni che consentisse un’impostazione più rigorosa della teoria. Com’era impostata la teoria elementare delle proporzioni di Eudosso? Uno scolio tardo gli attribuisce il Libro V degli Elementi di Euclide; ma, benché i riscontri per una tale attribuzione non permettano di dire una parola definitiva, sembra poco probabile che abbia preso un altro autore a modello per questo libro.

La logica particolare del citato Libro V si basa su una complessa definizione, che serve a chiarire cosa si intende per ‘rapporto’ (o ‘ragione’: in greco lógos, in latino ratio) fra grandezze e per ‘proporzione’ (grandezze proporzionali sono quelle che hanno lo stesso rapporto):

III. Rapporto fra due grandezze omogenee è un certo modo di comportarsi rispetto alla quantità. IV. Si dice che hanno fra loro rapporto le grandezze che possono, se moltiplicate, superarsi reciprocamente. V. Si dice che [quattro] grandezze sono nello stesso rapporto, una prima rispetto a una seconda e una terza rispetto a una quarta, quando risulti che equimultipli della prima e della terza [presi] secondo un multiplo qualsiasi, ed equimultipli della seconda e della quarta [presi pure] secondo un multiplo qualsiasi, sono essi stessi multipli lo stesso numero di volte gli uni degli altri se considerati nell’ordine rispettivo, cioè il primo rispetto al secondo e il terzo rispetto al quarto. (Elementa, lib. V, deff. III-V)

Si sosteneva in passato che definizioni così complicate fossero necessarie per poter trattare il fenomeno delle grandezze incommensurabili (v. cap. XVI), e certamente tale fenomeno è una motivazione importante per questa teoria. Il problema è il seguente. Alcuni rapporti si esprimono facilmente in termini di interi (per es., il rapporto tra il lato dell’esagono regolare e il diametro del cerchio a esso circoscritto è di 1 a 2), mentre altri no (è il caso, analogo al precedente, del pentagono regolare). Se tutti i rapporti fossero esprimibili come rapporti tra numeri interi, essi, e dunque anche la proporzionalità, sarebbero caratterizzati da relazioni numeriche, come avviene nell’aritmetica del Libro VII degli Elementi. L’aver scoperto che alcuni rapporti non sono riducibili a rapporti tra interi rendeva necessaria una nuova definizione che non facesse intervenire gli interi. Questa interpretazione tradizionale della nascita della teoria delle proporzioni di Eudosso, pur plausibile, non ha alcun riscontro nelle fonti. Aristotele apprezza il Libro V degli Elementi non perché esso parli degli incommensurabili, ma perché vi si trattano insieme oggetti di natura diversa: unità di tempo insieme a unità di lunghezza, ecc. In altri termini, agli occhi di Aristotele ciò che è importante nelle definizioni di Eudosso è la loro generalità, e non il fatto che esse permettano una particolare soluzione a un problema particolare, in questo caso il problema di definire il rapporto tra grandezze incommensurabili.

Una definizione di ‘rapporto’ e di ‘proporzione’ basata sugli interi sarebbe stata inaccettabile per Aristotele e per ogni altro Greco che, come Eudosso, avesse una sensibilità filosofica, indipendentemente dal problema specifico dell’applicabilità o meno degli interi in alcuni casi, e ciò perché, per quanto generale possa essere la loro applicabilità, gli interi non sono in grado di cogliere l’essenza del rapporto e della proporzione. Anche se tutti i rapporti fossero proporzionali a rapporti tra interi, questi interi non sarebbero niente di più che criteri utili per decidere della proporzionalità (utili in quanto potremmo tradurre in interi tutti i rapporti, e controllare la proporzionalità in questo ambito relativamente semplice). Non si vede infatti per quale motivo dicendo «1 a 2» si spieghi meglio il rapporto tra il lato dell’esagono e il diametro, di quanto non si faccia dicendo «lato dell’esagono al diametro». Non c’è alcuna ragione perché il significato di «lato dell’esagono al diametro» debba essere espresso da «1 a 2», piuttosto che viceversa. Nessuno dei due modi implica l’altro; si tratta di qualcosa che essi condividono, indipendentemente l’uno dall’altro, e che ci fa dire che «stanno nello stesso rapporto», che «sono proporzionali». È qui che va cercata l’essenza di ciò che un rapporto ‘è’, ed è qui la grande bellezza logica delle definizioni di Eudosso. La definizione di proporzione è data soltanto in termini di grandezze minori o maggiori di altre, e in questo modo ne è colto l’aspetto essenziale, la ragione per la quale si dice che le quattro grandezze sono ‘in proporzione’. Nulla a che vedere con gli interi; il concetto poggia su relazioni più generali e astratte: ‘uguaglianza’, ‘eccesso’ e ‘difetto’. Eudosso non cercava un modo di trattare gli incommensurabili, bensì voleva cogliere l’essenza della ‘proporzionalità’. Con la sua definizione poteva coprire insieme commensurabili e incommensurabili in modo del tutto naturale. ‘Cogliere l’essenza’ significa esattamente questo, ed è un esercizio di filosofia.

Ciò che rende il successo di Eudosso ancora più interessante nella storia della matematica greca è il fatto che egli fu capace di applicare la sua caratterizzazione logica della ‘proporzione’ alla risoluzione di problemi. Per esempio, la prop. 7 del Libro V afferma che «grandezze uguali hanno il medesimo rapporto rispetto a una stessa grandezza e una stessa grandezza ha il medesimo rapporto rispetto a grandezze uguali»; la dimostrazione si basa sull’applicazione ripetuta delle definizioni che abbiamo visto: da A=B, a partire dall’‘essenza’ della proporzionalità, possiamo dedurre C:A=C:B. L’interesse filosofico per la natura della ‘proporzione’ si traduce in risultati logici e matematici, e ciò che rende ‘rigoroso’ il Libro V è il fatto che tutto sia ricondotto a una definizione esplicita. Più della maggior parte dei lavori greci di matematica, il Libro V si basa su forme di tipo ‘verbale’; la chiave di molte dimostrazioni sta nel riuscire a costruire una situazione che sia prevista dall’‘enunciato’ di una delle definizioni di Eudosso. Sono le parole che fanno il lavoro logico, le figure sono quasi superflue; è qui la natura astratta, ‘logica’ del libro.

Tuttavia, il centro di interesse di questo libro si sposta a poco a poco dalla logica alla matematica. Si osserva in particolare che, benché profonde, le definizioni di Eudosso sono scomode da usare; ciò spiega perché, dopo aver stabilito alcuni risultati fondamentali sulla proporzionalità, come la citata prop. 7, il Libro V non faccia spesso uso delle definizioni. Queste ultime sono come una scala ‘filosofica’, che permette di ottenere alcuni risultati fondamentali e che è rimossa una volta che questi sono stati raggiunti. Usata e rimossa già nel Libro V (le definizioni sono citate soltanto due volte nella seconda metà del libro), questa scala non è quasi mai usata in altri libri degli Elementi. In questo senso il Libro V è uno studio dei ‘fondamenti’; il suo scopo è quello di trovare dimostrazioni incontestabili di proposizioni molto elementari. In particolare, vi si stabiliscono un certo numero di operazioni fondamentali, come la permutazione dei medi (nella prop. 16, da A:B=C:D si deduce A:C=B:D), che sono usate in tutta la geometria greca senza che mai venga detto come siano state trovate. I fondamenti, o ‘elementi’, considerati sono specifici della geometria; la validità di un’operazione come quella di permutazione anche nell’aritmetica è infatti dimostrata a parte (nella prop. 13 del Libro VII).

Se Eudosso si era preoccupato di dare un fondamento rigoroso alla teoria delle proporzioni, non cercò invece di darne un fondamento astratto, che abbracciasse cioè tutte le grandezze, geometriche o aritmetiche che fossero. Il significato da dare alla parola ‘grandezza’ sembra perciò essere quello di ‘grandezza geometrica’ (ossia in pratica rette, superfici e solidi). Il problema non riguarda però soltanto il significato della parola. Per quanto concerne la logica, nel Libro V si fa un uso solamente occasionale di ipotesi come quella dell’esistenza del quarto proporzionale, cioè che dati arbitrariamente A, B e C si può determinare D tale che A:B=C:D. Ciò è falso per gli interi, i soli numeri che i Greci riconoscevano; infatti, dati, per esempio, A=2, B=1 e C=3, D non è un intero (noi diremmo che D è la ‘frazione 3/2’, un concetto non usato dai Greci). Per grandezze geometriche l’ipotesi corrisponde invece immediatamente all’intuizione; le rette – come già detto, per noi ‘segmenti di rette – hanno infatti lunghezze che possono variare a piacere, sono fatte per adattarsi a qualunque proporzione (al contrario degli interi, che hanno invece una grandezza determinata). Pertanto per ogni terna di rette A, B e C si può sempre trovare una retta D che soddisfi una data proporzione. Si tratta di un’ipotesi plausibile, mai però provata né enunciata espressamente dai Greci (si può forse vedere qui una lacuna nel rigore di Eudosso). In ogni caso, questa ipotesi dimostra chiaramente che Eudosso non sviluppò una teoria delle grandezze astratte, ma una teoria delle grandezze geometriche. La cosa è estremamente rilevante in un contesto storico nel quale l’attenzione era rivolta soprattutto a stabilire i fondamenti nel modo più rigoroso possibile, affidandosi molto poco alle figure. Anche se cercava soprattutto il rigore, Eudosso non lasciò mai la geometria per un ambito più astratto, e anche questo è un segno della centralità della geometria nella matematica greca; se non era precisato altrimenti, l’oggetto della matematica era la geometria. Nella sua ricerca della teoria più generale Eudosso finì con il costruire una teoria ‘geometrica’.

Teeteto e due grandi classificazioni

La teoria degli irrazionali e la teoria dei solidi regolari, associate storicamente al nome di Teeteto, si trovano nei Libri X e XIII, rispettivamente, degli Elementi. Teeteto conobbe Platone e ci è noto soprattutto perché interviene in alcuni dialoghi, un omaggio a un amico scomparso che Platone stimava. Che cosa si possa dedurre su di lui da questi dialoghi è stato spesso motivo di dibattito (ricordiamo in particolare Burnyeat 1978 e Knorr 1979), ma la conclusione è che si può dedurre molto poco. Egli era un cittadino di Atene molto rispettato e, da commenti più tardi, abbiamo ragione di ritenere che possa aver dato un contributo alle teorie degli irrazionali e dei solidi, ma niente di più. I suoi stretti rapporti con Platone restano comunque un fatto stimolante; vi torneremo più avanti. Consideriamo prima le due teorie appena ricordate.

Tav. II

La ‘teoria dei solidi regolari’ esposta nel Libro XIII è l’unico lavoro della matematica greca a noi pervenuto che faccia uso della ‘teoria degli irrazionali’ sviluppata nel Libro X. Da un punto di vista logico, le due teorie offrono il medesimo interesse; si tratta non soltanto di raccogliere risultati, ma di dare una sistemazione completa e definitiva a un dato campo di ricerche. Abbiamo sottolineato che le motivazioni del Libro V non si trovavano nella teoria degli incommensurabili in quanto tale. L’interesse per questa teoria era certamente vivo nel IV sec. e il Libro X, di gran lunga il più voluminoso di tutta la matematica greca con le sue 115 proposizioni, spesso lunghe e complesse, è interamente dedicato alle grandezze geometriche incommensurabili. Si tratta di un caso particolare del fenomeno dell’‘irrazionalità’ (questo però è un termine moderno; poiché i Greci ammettevano soltanto i numeri interi, l’irrazionalità si poteva incontrare originariamente soltanto nella geometria) e più precisamente di una teoria dell’incommensurabilità di lunghezze di segmenti e di aree di superfici rettangolari, come quella tra il lato e la diagonale del quadrato, che è dimostrata nella prop. 115 (il solo esempio di incommensurabilità trattato nel Libro X: v. Tav. II): se a è il lato e d la diagonale, anche le aree di due rettangoli di lati a, h d, h, rispettivamente, sono incommensurabili, per qualunque h. Il passaggio continuo da relazioni tra segmenti a relazioni tra aree è l’essenza delle dimostrazioni del Libro X.

Ma qual è lo scopo di queste dimostrazioni? In proposito è stata usata la metafora dei ‘quadrangoli colorati’ (Taisbak 1982). La teoria mira infatti a distinguere vari tipi di quadrangoli, suddividendoli in classi o ‘tipi’. La natura di questi tipi è meno importante del fatto che essi forniscano una classificazione; essi si escludono l’un l’altro e possono dunque essere pensati come ‘colori’. In sé i tipi non hanno alcun particolare significato, ma il fatto stesso che si possa applicare un sistema di questo genere mostra che l’universo dell’incommensurabilità non è un completo caos.

Dopo una costruzione molto complessa, il Libro X si conclude dimostrando che si possono distinguere tredici classi di incommensurabili (prop. 111), che vi sono alcune interessanti relazioni tra queste (proposizioni 112- 114) e che queste classi non sono esaustive (non contengono tutti i segmenti incommensurabili). Ciò che più conta è però la dimostrazione per la quale nessuna classificazione secondo il metodo usato nel Libro può essere esaustiva (prop. 115); non soltanto i segmenti, ma anche i tipi di incommensurabilità sono infiniti. Se lo scopo della teoria era una classificazione definitiva, la ricerca ha dimostrato che non è possibile.

All’interno della matematica greca la classificazione del Libro X trova la propria giustificazione nel Libro XIII. Se il Libro X è involuto, pedante secondo il gusto moderno, e di contenuto matematico oscuro, il Libro XIII è invece un’esposizione chiara e lineare di una teoria completa e molto bella, la teoria dei solidi regolari (solidi le cui facce sono poligoni regolari uguali tra loro; un poligono regolare, a sua volta, è un poligono che ha lati e angoli uguali, per es. un quadrato). Un esempio di solido regolare è il cubo (che ha sei quadrati uguali come facce). Se vi sono ovviamente poligoni regolari con un numero comunque grande di lati (in linguaggio moderno, n-agoni regolari per ogni intero n), non è detto che esistano infiniti solidi regolari. Che struttura ha la classe di questi solidi? Intanto, essi non sono infiniti, ne esistono infatti soltanto cinque: tetraedro o piramide a quattro facce triangolari; cubo, a sei facce quadrate; ottaedro, otto facce triangolari; dodecaedro, dodici facce pentagonali; icosaedro, venti facce triangolari. Che i solidi regolari siano soltanto questi è dimostrato alla fine del Libro XIII in una proposizione che non richiede alcuna delle tecniche ivi sviluppate (non richiede nemmeno l’incommensurabilità). Il problema principale del libro è duplice: inscrivere i solidi in una sfera e confrontare gli spigoli tra loro e con il raggio della sfera. In questo modo, il problema particolare dei solidi regolari rientra nel tema generale del rapporto tra rette, che sappiamo essere il più importante tema della matematica greca. I rapporti tra gli spigoli del dodecaedro e dell’icosaedro tra loro e con il raggio della sfera in cui sono inscritti non possono essere espressi da rapporti numerici interi tra i rispettivi quadrati, e pertanto per poterli caratterizzare occorre inserirli in una qualche classe di incommensurabili. Anche se non esaustiva, la classificazione del Libro X copre i casi del dodecaedro e dell’icosaedro; da parte sua, il Libro XIII mostra a quale classe appartengano gli spigoli di ciascuno di questi due solidi.

Perché Euclide ha scelto la teoria dei solidi regolari come conclusione degli Elementi? Ne parleremo più avanti; citiamo però subito il punto di vista di Proclo, che per quanto ne sappiamo era condiviso da molti nell’Antichità: Euclide ha assegnato un posto così rilevante alla teoria dei solidi regolari perché questi erano essenziali per la filosofia di Platone. Nel Timeo, Platone (ammesso che il personaggio che dà il nome al dialogo esprima effettivamente la dottrina dello stesso Platone) costruisce l’Universo a partire dai solidi regolari (v. cap. VIII). Si suppone, inoltre, che la teoria dei solidi regolari sia stata sviluppata da Teeteto. Vi sono dunque varie possibilità: la teoria potrebbe essere stata sviluppata con l’intenzione di proporre una cosmologia basata sulla matematica (Teeteto, sviluppando la teoria, avrebbe pensato con Platone a qualcosa di simile al Timeo); Platone potrebbe aver preso dalla matematica la teoria che conosceva meglio, quella dell’amico scomparso; o altre possibilità ancora. In ogni caso, colpisce il legame con la filosofia.

Se il contenuto dei Libri X e XIII proviene effettivamente da Teeteto, si può forse dire di più sul progetto di quest’ultimo. Da Socrate in poi, passando per Platone e fino ad Aristotele e i suoi discepoli, si assiste a un crescente interesse filosofico per i procedimenti tra loro correlati di definizione e di classificazione. È un interesse filosofico di tipo particolare, che non si trova in molti presocratici, ma che è centrale nella riflessione di Platone (il celebre frammento 11 di Epicrate, un autore comico, rappresenta Platone concentrato sull’esercizio di classificare e definire in biologia e dare risposte sorprendentemente precise in dialoghi come il Fedro, il Sofista e il Politico) e naturalmente in quella di Aristotele. Teeteto ci appare dunque appartenere a questa tradizione intellettuale; anche se ciò non è sufficiente a spiegare il tipo particolare di classificazione che egli propone, può tuttavia aiutarci a chiarire perché la classificazione fosse tanto importante nel suo progetto. È possibile perciò vedere nella classificazione del Libro X il momento di maggiore influenza della filosofia greca sulla matematica.

Gli inizi della teoria delle coniche

Alle teorie di cui abbiamo parlato sono legati nomi illustri, anche se spesso per via di congetture. La ‘teoria delle sezioni coniche’ – chiamata anche, più semplicemente, ‘teoria delle coniche’ – entra invece in scena senza nomi celebri. Menecmo potrebbe essere stato una figura centrale, anche se non sappiamo in che modo, e a parte questo possibile ruolo nella storia delle sezioni coniche sappiamo a malapena chi fosse. Siamo nel passaggio dalla prima alla seconda metà del IV sec.; la vicinanza di Platone, vera o immaginaria, ha reso figure come Archita, Eudosso e Teeteto importanti per la nostra tradizione, mentre figure più tarde rimangono avvolte in una relativa oscurità. Non sappiamo quindi con certezza quando sia nata la teoria delle coniche, se alla metà o alla fine del IV secolo. Dal momento che questa teoria sarà dominante nella successiva storia della matematica almeno fino al Seicento, questo fatto ha una certa importanza da un punto di vista storico.

L’origine della teoria sembra tuttavia doversi cercare nella problematica che abbiamo richiamato nel par. 1, a proposito della duplicazione del cubo a opera di Archita. In generale, il problema del rapporto tra segmenti e, in particolare, quello di trovare il segmento medio proporzionale tra due altri. Dati due segmenti A e D si cercano B e C tali che:

[1] A:B=B:C=C:D .

fig. 3

Si vede facilmente che da questa proporzione segue A·D=B·C, cioè che i rettangoli aventi come lati gli estremi A, D e i medi B, C sono uguali (equivalenti). Poiché A e D sono dati, lo è anche il rettangolo che essi formano, e dunque è noto anche il rettangolo cercato; pertanto il problema si semplifica molto, in quanto si cercano due segmenti B e C che soddisfino la proprietà seguente: rettangolo (B, C) = rettangolo (A, D) = una data costante. Dalla [1] segue anche AC=B2, ossia, nei termini dei Greci, il rettangolo che ha come lati A e C è uguale (equivalente) al quadrato costruito su B; poiché A è dato, abbiamo una seconda proprietà: B e C sono tali che il quadrato su uno di essi (cioè su B) è uguale al rettangolo formato da C e da un dato segmento costante A. Se allora supponiamo l’esistenza di una curva, detta ‘amblitoma’, nella quale tutti i punti soddisfano la prima proprietà, e di un’altra curva, detta ‘ortotoma’, i cui punti soddisfano la seconda, la loro intersezione fornisce la soluzione del problema di trovare due segmenti medi proporzionali, vale a dire, in definitiva, di duplicare il cubo (v. fig. 3).

La soluzione di Menecmo della duplicazione del cubo è molto più semplice di quella di Archita, ma anche meno soddisfacente perché non sappiamo che cosa siano l’amblitoma e l’ortotoma; se ne ammette l’esistenza ma non se ne dà la costruzione, anche se le curve si possono rendere meno arbitrarie costruendole ‘per punti’, fissando cioè direttamente alcuni punti a partire dai rapporti prescritti dalla definizione della curva e poi completandola per interpolazione. Secondo un suggerimento plausibile di W.R. Knorr questo è ciò che fece Menecmo.

fig. 4A

La musa della matematica è generosa, in quanto congetture ispirate, come quella delle curve immaginarie di Menecmo, trovano spesso corrispondenza nella realtà. Queste curve, l’amblitoma e l’ortotoma (come pure l’ossitoma, di cui diremo poco oltre), non sono pure ipotesi ma rappresentano realtà matematiche concrete. Secando un cono secondo certi piani, le curve d’intersezione hanno le proprietà richieste per le dette curve di Menecmo. Infatti, facendo ciò con un piano parallelo alla base del cono si ottiene una circonferenza (fig. 4A); ruotando leggermente il piano, la figura che si ottiene (fig. 4B) è ancora ‘chiusa’, e si tratta di un’ellisse, che gli antichi geometri greci chiamavano ‘ossitoma’; ruotando ancora il piano finché non è parallelo all’altro lato del cono, la curva che si ottiene (fig. 4C) è ora ‘aperta’ e si tratta di una parabola, che gli antichi chiamavano ‘ortotoma’; ruotando ulteriormente il piano si ottiene un’iperbole (fig. 4D), un’‘amblitoma’. È chiara ora, alla luce delle conoscenze matematiche attuali, la ragione per la quale queste curve hanno le proprietà richieste da Menecmo. Oggi esse sono ‘definite’ dalle loro proprietà algebriche, ma non era così nell’Antichità. Tor ne remo su questo punto a proposito di Apollonio (v. cap. XIX).

fig. 5A

Quanto sappiamo della storia delle sezioni coniche nel IV sec. prima di Euclide si esaurisce grosso modo qui; abbiamo qualche indizio, qualche nome e poco più. Sappiamo che Euclide stesso scrisse un trattato elementare sulle sezioni coniche ed è quindi possibile che già in quell’epoca le curve di Menecmo fossero considerate come sezioni di coni. Anche i vecchi nomi utilizzati per queste sezioni (esclusa la circonferenza) – cioè ossitoma, ortotoma e amblitoma – così come sono attestati nelle opere di Archimede, possono essere di aiuto. Perché si chiamavano in quel modo? Esiste una certa tradizione storiografica su questo punto che ha inizio con Pappo, il quale afferma che prima di Apollonio le sezioni coniche si ottenevano secando un cono con piani perpendicolari a una generatrice del cono. A seconda dell’apertura del cono si parlava di ossitoma (‘sezione con un cono ad angolo acuto’, cioè l’ellisse o, in particolare, una circonferenza: fig. 5A), di ortotoma (‘sezione con un cono ad angolo retto’, cioè la parabola: fig. 5B) e di amblitoma (‘sezione con un cono ad angolo ottuso’, cioè l’iperbole: fig. 5C). L’interpretazione è plausibile, ma pone un problema di carattere storico in quanto questo modo di generare le sezioni coniche appare molto limitato; i Greci avrebbero dovuto sapere che tutte le sezioni coniche si potevano ottenere da un cono qualunque secandolo con un piano inclinato secondo un angolo opportuno (Knorr 1982). Probabilmente Pappo non aveva più conoscenze storiche di quante ne abbiamo noi; si era semplicemente limitato a estrapolare sulla base dei nomi, interpretandoli al di là del dovuto. Come si dovrebbero chiamare le tre sezioni coniche? Metafore visive che si riferiscono alla forma non darebbero l’idea del legame che esiste tra loro, del fatto cioè che le tre curve formano un sistema. Una metafora che si riferisce agli angoli, ‘ottuso’, ‘retto’ e ‘acuto’, è invece una scelta naturale per un simile sistema triadico e coglie qualcosa di essenziale della sua struttura interna (l’ortotoma o parabola essendo un caso limite tra l’ossitoma o ellisse e l’amblitoma o iperbole). Forse è tutto ciò che i vecchi nomi stavano a significare; torneremo su questo punto quando parleremo di Apollonio, l’inventore della nuova terminologia, che è poi quella attuale.

Vi è una profonda continuità tra la teoria delle sezioni coniche e l’interesse principale dei matematici greci del IV sec. e oltre, ossia la teoria delle proporzioni applicata alla geometria. Il motivo per cui le sezioni coniche sono diventate più tardi dominanti sta proprio nel fatto che questa teoria racchiudeva moltissimo di quella delle proporzioni. Poiché le proporzioni nello spazio sono fondamentali nella descrizione matematica del moto, la teoria delle sezioni coniche sarà alla base della rivoluzione scientifica di Keplero e di Newton. Potremmo quindi sostenere che Menecmo, cercando la soluzione del problema delle due medie proporzionali, avesse gettato le basi per le ricerche di Keplero e di Newton.

Euclide

Se fin qui abbiamo seguito alcuni indizi sparsi in un quadro in generale oscuro, per quanto riguarda Euclide è disponibile invece un corpus notevole di opere, il che rende possibile lasciare da parte le congetture e affidarsi a fonti concrete. Non tutti i problemi saranno però risolti.

Chi era Euclide? Può sembrare un paradosso, ma capita spesso che quando sappiamo poco delle opere di un certo matematico sappiamo di più della sua personalità, e viceversa. Euclide non fa eccezione. Sulla sua vita abbiamo soltanto alcuni aneddoti, di epoca tarda e poco attendibili. Le date che lo riguardano non sono stabilite con certezza. È probabile che la sua attività si sia svolta sì nel III sec., come vuole la tradizione, ma più tardi di quanto si sia supposto finora (Wasckies 1977, Schneider 1979). Possiamo ammettere che Euclide sia vissuto dopo Eudemo (fine IV sec.), che infatti non lo nomina, e prima di Apollonio (262 ca.- 180 ca.), che invece ne parla, mentre la data del 300 a.C., che di solito è ammessa, è dovuta a una congettura di Proclo, ma ha un’interpretazione piuttosto complessa. Proclo pensava che Archimede facesse riferimento a Euclide, ma forse si tratta soltanto di un’antica interpolazione nei manoscritti di Archimede. Insomma, si può parlare con certezza soltanto di III sec.; comunque, le date precise sono meno importanti delle linee di sviluppo e perciò il problema è sapere se sia giusto discutere di Euclide prima di Archimede. Se Archimede non fu influenzato da Euclide, Euclide non lo fu da Archimede; non si può nemmeno delineare uno sviluppo verso l’assiomatizzazione che vada da un meno organizzato Archimede a un più organizzato Euclide. Ci atterremo perciò alla successione tradizionale discutendo di Euclide prima di Archimede, accettando al contempo le date tradizionali, che, anche se messe in dubbio, non sono state dimostrate del tutto errate. I dubbi non investono soltanto le date, ma anche lo stesso corpus euclideo. Si è sempre saputo che molte opere che andavano sotto il nome di Euclide erano in realtà dovute ad autori più tardi e non soltanto a causa di falsi, di attribuzioni errate o degli interventi operati nelle varie edizioni. Anche se i primi tredici libri degli Elementi sono probabilmente dovuti tutti a Euclide, i manoscritti conservati contengono versioni differenti di vari capitoli, in modo talvolta significativo. Quali di questi manoscritti sono più vicini agli originali di Euclide? Nella classica edizione pubblicata nella Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, J.L. Heiberg afferma che siamo tutti davanti all’Euclide per così dire ‘sbagliato’ e la scelta dei manoscritti sarebbe errata non soltanto per quanto riguarda gli Elementi, ma anche per l’Ottica, dove le differenze tra le varie tradizioni sono molto più marcate (Knorr 1994, 1996). L’abbondanza dei manoscritti non ci aiuta a capire Euclide; al contrario, ci pone di fronte a un corpus nel quale è difficile districarsi. Affronteremo questo corpus da vari punti di vista; se non possiamo dire chi fosse Euclide, possiamo però cercare di farci un’idea il più possibile precisa del corpus euclideo. Definiremo la natura degli Elementi, l’opera capitale di Euclide, per proseguire con una breve rassegna dei libri che la compongono. Un’analisi più puntuale di uno dei libri (il Libro II) e in particolare di una proposizione (prop. 5) concluderanno il nostro esame.

Una rassegna dell’opera di Euclide

Sotto la dicitura ‘opere di Euclide’ ci sono pervenuti quindici libri degli Elementi (almeno due dei quali non di Euclide: v. cap. XIX) e i trattati che vanno sotto i titoli seguenti: Dati, Ottica, Catottrica, Fenomeni e Sectio Canonis. Se non è certo che queste opere siano tutte di Euclide, è certo invece che altre opere di Euclide sono andate perdute, se non altro le seguenti: Divisioni delle figure (possediamo un’opera in arabo che potrebbe esserne una versione), Coniche, Porismi, Luoghi di superficie e Pseudaria. Il corpus completo delle opere di Euclide consterebbe dunque di almeno venticinque libri. Un ‘libro’ (cioè un rotolo di papiro) di matematica conteneva in genere da trenta a sessanta proposizioni; si possono dunque attribuire a Euclide un migliaio di proposizioni, e forse qualcuna di più, senza sbagliare di molto. Probabilmente poche di queste furono scoperte dallo stesso Euclide. Dalle testimonianze che abbiamo da varie fonti, infatti, le opere andate perdute dovevano essere del tipo di quelle che ci sono pervenute, cioè rassegne di risultati piuttosto che studi di problemi particolari o dimostrazioni di teoremi.

Abbiamo visto come Archita e Menecmo avessero risolto brillantemente in modi diversi il problema di trovare due grandezze medie proporzionali tra altre e come Teeteto volesse dare una sistemazione definitiva a campi come quello dei solidi regolari (dove riuscì) e degli irrazionali (dove fallì). Euclide non sembra aver avuto ambizioni del genere; è significativo che gli antichi cataloghi di problemi e relative soluzioni dai quali provengono le nostre testimonianze su Archita e Menecmo non facciano il suo nome. Il fatto che Euclide ci appaia come una figura anonima non è solamente un incidente della storia. È difficile delineare la sua personalità: quale matematico poteva mai essere un Greco che si accontentava di riportare risultati più o meno noti senza avere interesse a sviluppare soluzioni nuove e originali? È vero che in larga misura stiamo tirando a indovinare, poiché quanto sappiamo della matematica greca prima di Euclide lo dobbiamo proprio a Euclide. La sua originalità potrebbe perciò esserci sfuggita; buona parte di quanto abbiamo visto nel paragrafo precedente potrebbe essere dovuta proprio a lui (la definizione di ‘proporzione’ che attribuiamo a Eudosso, il tentativo di classificazione contenuto nel Libro X, la connessione fra le sezioni coniche e la soluzione del problema delle due medie proporzionali trovata da Menecmo). Anche se le cose stessero così, è chiaro però che Euclide non cercò mai di avventurarsi in nuove direzioni; si basò invece sul lavoro di altri, occupandosi sistematicamente della quasi totalità della matematica greca e dedicando molta attenzione a particolari spesso ripetitivi e poco interessanti, ma utili al disegno che perseguiva. I commentatori della Tarda Antichità erano ben disposti verso di lui, e noi dobbiamo condividere questo atteggiamento, anche se in loro era probabilmente dettato dalla comune preferenza verso la conservazione piuttosto che l’innovazione, nel tentativo di mettere ordine nel lascito del passato, lascito che già ai tempi di Euclide cominciava ad avere un certo status di canonicità. Come quella dei commentatori più tardi, l’opera di Euclide va giudicata dai risultati ottenuti in questo progetto di costruzione di un canone, e, specialmente con gli Elementi, il successo è stato grande.

Fra le altre opere, i Dati, la cui attribuzione a Euclide è quasi certa, è un’opera significativa. In un certo senso è complementare agli Elementi, ma mentre questi forniscono strumenti per ricerche matematiche di vario genere, i Dati si concentrano su un solo tipo di ricerca: la risoluzione dei problemi, nel significato che questa espressione aveva per i Greci e che ora cercheremo di spiegare.

Supponiamo di voler risolvere un problema, per esempio trovare il segmento medio proporzionale tra due segmenti dati (come già abbiamo osservato, i testi parlano di ‘rette’ in luogo di ‘segmenti di retta’). Fermiamoci un momento e cerchiamo di capire cosa significhi che i due segmenti sono ‘dati’. Non sono dati nel senso che sono costanti, per esempio uno ‘lungo un piede’ e l’altro ‘lungo due piedi’; infatti, se il problema fosse enunciato in termini di valori fissati di lunghezza non avrebbe senso cercare una soluzione generale (del tipo ‘si può sempre usare la costruzione di Archita’ o ‘si possono sempre usare le sezioni coniche’). Il problema si risolverebbe esibendo i segmenti particolari richiesti nell’enunciato, ma non è certo quello che cerchiamo. Vogliamo invece una strategia di soluzione qualunque siano i segmenti dati. Possiamo immaginare un gioco; il nostro avversario ci fornisce qualcosa, che dunque è ‘dato’ (due segmenti), e lancia una sfida (trovare due segmenti medi proporzionali tra quelli). Vinciamo la sfida se troviamo i due segmenti basandoci soltanto sui dati, altrimenti perdiamo. Una soluzione del problema è una strategia vincente che permetta di combinare ciò che è ‘dato’ con una sfida particolare: qualunque sia la data coppia di segmenti, se ci è chiesto di trovare due segmenti medi proporzionali siamo certi di poterli esibire seguendo una tecnica come quella di Archita o di Menecmo.

Nei Dati di Euclide si trova una tecnica generale che si applica a qualsiasi problema e aiuta a trovare soluzioni. Un modo per ottenere un vantaggio nel gioco che sfidi a trovare la soluzione sfruttando il ‘dato’ è vedere che cosa questo dato comporta; il nostro avversario ci fornisce due segmenti, ma può averci fornito implicitamente qualcos’altro. La soluzione di Menecmo si basava sul fatto che il nostro avversario assieme ai due segmenti ci suggeriva implicitamente l’area del rettangolo che essi formano, fatto in sé banale ma che può essere utile. Possiamo però essere anche più abili; invece di guardare a cosa ci è implicitamente fornito assieme a quanto è esplicitamente ‘dato’, immaginiamo il problema risolto, supponiamo cioè di conoscere i due segmenti che cerchiamo, e chiediamoci: che cos’altro ci dicono questi segmenti? È la domanda tipica che ci si pone in quella che si chiama ‘analisi geometrica’, spesso espressa in termini di ‘dati’: si considerano cioè i segmenti cercati come dati e ci si chiede quali informazioni ulteriori si possono trarre. Nel nostro caso, per esempio, conosciamo il rettangolo che essi formano e, combinando questa informazione con quanto osservato prima, si scopre che la chiave della soluzione si trova nell’uguaglianza fra il rettangolo formato dai segmenti dati e quello formato dai segmenti incogniti. I Dati di Euclide sono, in definitiva, un elenco di implicazioni indirette dei dati di vari problemi geometrici. Spesso si tratta di implicazioni molto elementari; per esempio, la prima proposizione dimostra che ‘date due grandezze è dato anche il loro rapporto’ (nel gioco, il nostro avversario assieme alle due grandezze suggerisce tacitamente anche il loro rapporto). Molte proposizioni sono altrettanto semplici. La natura dell’opera è chiara: un insieme di strumenti, utile appunto come insieme ma non altrettanto per i singoli risultati.

Euclide fornisce nello stesso modo un insieme sistematico di strumenti per molte discipline matematiche: l’ottica (nell’Ottica e nella Catottrica, v. cap. XXVI), l’astronomia (nei Fenomeni, v. cap. XXII) e forse anche la musica (v. cap. XXVII). Divisioni, Coniche, Porismi e Luoghi di superficie sono opere specificamente geometriche, paragonabili ai Dati. In ciascuna di esse si considera una branca particolare della geometria e si sviluppa un gruppo di tecniche a essa pertinenti. Le Divisioni descrivono modi di sezionare le figure secondo rapporti dati. Conosciamo i Porismi soltanto dalla descrizione incompleta che ne dà Pappo, ma da questa si può dedurre che si trattava sostanzialmente di una forma più sviluppata dei Dati. Sappiamo ancora meno dei Luoghi di superficie, anche se il nome stesso suggerisce che si tratti di un insieme di tecniche per lo studio dei ‘luoghi’ (enti geometrici), cioè di risultati su curve o su superfici che soddisfano date descrizioni (l’approccio è complementare a quello dei Dati; lì si partiva dagli oggetti e si osservava quali informazioni ulteriori si potevano ottenere, qui si parte ancora dagli oggetti, ma per costruirli). Infine, le Coniche era considerato essenzialmente uno strumento per la risoluzione dei problemi, utile per tutti i rapporti tra grandezze che riportava.

Del trattato intitolato Pseudaria (‘Dimostrazioni fallaci’) sappiamo pochissimo, sembra che si trattasse di un compendio di errori matematici. Bisogna però dire che nessuno degli autori che riportano notizie di quest’opera mostra di averla materialmente vista; forse non è mai stata scritta oppure, se lo è stata, doveva aver avuto uno scopo in qualche modo pedagogico; questa seconda ipotesi si accorda bene con l’immagine che abbiamo di Euclide, un uomo che passa in rassegna l’universo matematico e produce opere che vuole utili e complete, anche se non del tutto originali.

Tavola III

Gli elementi degli Elementi

Prima di addentrarci nel contenuto degli Elementi, dobbiamo capire che cosa li ha resi, appunto, ‘elementi’. La parola greca stoicheĩon (pl. stoicheĩa), che è tradotta con ‘elemento’, ha una storia complessa, con significati che variano a seconda del contesto. Nella filosofia del IV sec. è usata nel quadro della teoria degli elementi, dove per ‘elementi’ s’intendono quelli chimici e cosmologici (nel senso quindi che la parola ha ancora oggi nella nostra lingua), ossia la terra, l’aria, il fuoco e l’acqua. Stoicheĩa si usava anche per denotare le lettere dell’alfabeto, e anche in questo caso con il significato di un’analisi di qualche tipo, non più di oggetti e dei loro elementi costitutivi come terra o fuoco, ma di parole e delle lettere da cui sono formate. È possibile che con il titolo Elementi si volesse suggerire questo significato: lo scopo dell’opera sarebbe stato quello di ridurre la matematica ai suoi elementi costitutivi. Oppure con il titolo Stoicheĩa Euclide voleva forse riferirsi a tutta la gamma di associazioni che la parola suggerisce e il significato avrebbe piuttosto a che vedere con il fatto che si tratta di un’opera organizzata in una serie di deduzioni che si susseguono in un ordine preciso (Burkert 1959). Questi problemi di etimologia sono di difficile soluzione; tuttavia, entrambi i significati sono giustificati dal contenuto dell’opera. In essa la matematica è in un certo senso ‘fondata’, riportandola ad alcuni punti base e in questo senso ha un carattere ‘assiomatico’; nel contempo l’opera ha una struttura ordinata e in un senso molto preciso.

L’aspetto assiomatico è più chiaro in alcuni libri, meno in altri. La trattazione della teoria delle proporzioni nel Libro V è estremamente rigorosa, come abbiamo già osservato; altri libri, in particolare i libri aritmetici, mostrano un minor interesse per l’assiomatica e un più raro riferimento agli eventuali aspetti fondazionali. Particolarmente importante per quanto riguarda i fondamenti è il Libro I, nel quale sono introdotti gli oggetti di cui si occupa la geometria piana, cioè in sostanza gli oggetti della matematica greca tout court, definiti con una cura che tradisce una notevole sensibilità per la correttezza e l’esattezza in questioni di assiomatica. Consideriamo, per esempio, la definizione delle parallele: «Parallele sono quelle rette che, essendo nello stesso piano e venendo prolungate illimitatamente dall’una e dall’altra parte, non s’incontrano fra loro da nessuna delle due parti» (Elementa, lib. I, def. XXIII). Le precisazioni che si trovano in questa frase sono fatte per il piacere di farle. Nessuno penserebbe a linee che non fossero rette come candidate a essere ‘parallele’ e meno ancora, in un contesto strettamente planare come questo, alla condizione «essendo nello stesso piano». Anche l’aggiunta «in nessuna delle due parti» è superflua. Un problema più profondo s’incontra verso la fine, dove è evitata con cura la questione dell’infinito (perché la definizione si applichi si richiede soltanto che le rette possano essere prolungate illimitatamente).

La posizione di rilievo assegnata alle definizioni, all’inizio degli Elementi, segnala che l’opera ha lo scopo di stabilire assiomi, pur non presentando sempre il grado di accuratezza espresso nelle definizioni. Questo fatto è esaltato da una particolarità del Libro I, dove si trovano non soltanto definizioni, ma anche postulati e ‘nozioni comuni’, cioè ulteriori enunciati di carattere assiomatico. Il più famoso e importante dei postulati è il quinto, che precisa le condizioni di parallelismo di due rette: «E che se una retta venendo a cadere su due rette forma gli angoli interni e dalla stessa parte minori di due retti, le due rette prolungate illimitatamente verranno a incontrarsi da quella parte in cui sono gli angoli minori di due retti» (Elementa, lib. I, post. V). Esprimendola come postulato, Euclide supponeva implicitamente l’indipendenza di questa proposizione dal restante apparato dimostrativo degli Elementi; non sappiamo se fosse soddisfatto di questa indipendenza, ma nella storia della matematica fino all’Ottocento nessuno lo fu. Con questo postulato Euclide (sempre che sia stato effettivamente lui a stabilire i postulati) fece il passo più importante nella direzione della ricerca logica nel quadro dell’assiomatica della geometria (ricerca che doveva portare alla costruzione delle geometrie non euclidee); poi fu compito dei matematici del XIX sec. dimostrare l’indipendenza di una proposizione che Euclide aveva identificato e isolato.

L’interesse primario degli Elementi non risiede però tanto nello stabilire fondamenti, quanto nel fatto che l’opera si presenta come una successione ordinata di proposizioni. Non vi sono dimostrazioni che poggino su proposizioni non ancora dimostrate (se anche così fosse non si avrebbe necessariamente circolarità nell’argomento, che nasce quando in una dimostrazione si fa uso di una proposizione che utilizza quella che si vuole dimostrare). La successione logica è indipendente da come è inserita nel testo; infatti cambiando l’ordine delle successioni logiche nella trattazione la loro validità non è inficiata. La rigorosa successione di deduzioni negli Elementi non riflette perciò soltanto la coerenza logica dell’opera, ma anche l’importanza del modo in cui le deduzioni sono presentate; occorre non soltanto che le cose siano coerenti, ma anche che siano nel giusto ordine.

Ancora più importante è il fatto che le proposizioni, pur formando un insieme ordinato, sono unità singole, ciascuna con una propria struttura, un’individualità che è sottolineata dal fatto che le proposizioni sono separate da figure. Va ricordato che i testi greci non presentano in generale divisioni interne del tipo dei nostri capitoli; divisioni di questo genere sono dovute a interventi editoriali successivi. Se per Archimede o per Apollonio si può discutere se abbiano o no numerato le loro proposizioni, sembra che Euclide lo abbia effettivamente fatto (si trovano numerazioni nei papiri che ci sono pervenuti) e, dunque, gli Elementi non soltanto sono stati scritti in unità discrete, ma sono impostati secondo unità numerate una per una. È probabile che questa sia un’innovazione introdotta da Euclide. Trattandosi di una serie di unità disposte in un certo ordine, il titolo di Elementi, se non ne rivela la struttura deduttiva, è dunque senz’altro appropriato.

Ma più di ogni altra cosa il titolo suggerisce qualcosa di molto vicino all’idea moderna di ‘elementare’. Nella Metafisica Aristotele spiega che l’espressione ‘elementi matematici’ indica proposizioni che si usano in altre proposizioni, collegandoli quindi all’‘analisi delle componenti’, anche se nel senso della ricerca degli strumenti piuttosto che dei fondamenti. È ciò che Euclide si era soprattutto proposto di fare, e che fece con successo. Il modo migliore di concepire gli Elementi è proprio quello di considerarli non un’opera chiusa in sé, ma una collezione di strumenti che trova il suo vero significato nelle possibilità di applicazione (Saito 1985, 1986, 1997). I matematici greci non usavano indicare quali proposizioni presupponevano in quanto procedevano come se il lettore lo sapesse, e si trattava di solito di proposizioni contenute negli Elementi. Se ciò riflette in parte il ruolo di Euclide nella matematica posteriore, dimostra anche come egli avesse colto nel segno nel valutare quali fossero le proposizioni più utili per lavori di matematica più avanzati.

Panorama degli Elementi

La particolare organizzazione degli Elementi in unità discrete facilita molto la descrizione di quest’opera; inoltre, ciascun libro ha una propria chiara identità, con l’eccezione dei libri aritmetici VII-IX, che non sono ben distinti l’uno dall’altro per il contenuto, ma sono divisi ciascuno al proprio interno in modo più complesso. Le diverse identità sono senza dubbio segno del progetto di Euclide di fare una raccolta del materiale precedente, anche se non è facile stabilire con precisione le caratteristiche e la portata di un tale disegno. Ci limitiamo a osservare che lo stile e l’impostazione variano da libro a libro e l’approccio scelto si adatta bene di volta in volta ai diversi argomenti trattati. Un indice degli Elementi potrebbe essere il seguente:

I. Geometria piana (escluso il cerchio).

II. Geometria piana: teoria che riguarda in particolare i rapporti tra le aree.

III. Geometria piana: il cerchio.

IV. Geometria piana: teoria dei cerchi inscritti e circoscritti.

V. Teoria delle proporzioni.

VI. Teoria delle proporzioni applicata alla geometria piana.

VII-IX. Aritmetica.

X. Grandezze irrazionali.

XI. Geometria solida.

XII. Geometria solida: teoria che riguarda in particolare le misure di alcuni solidi.

XIII. Geometria solida: teoria che riguarda in particolare i cinque solidi regolari.

Nel Libro I sono stabiliti i risultati fondamentali della geometria piana relativi alle linee rette e alle figure comprese tra queste. Questo libro è stato una sorta di vetrina per la diffusione della matematica greca; infatti, dei sei antichi frammenti di papiro degli Elementi di cui siamo in possesso, cinque sono ricavati dal Libro I e non è un caso dato che si tratta del libro più facile. Molti lettori di Euclide non andavano oltre qualche punto di questo primo Libro: doveva trattarsi di una sorta di ‘matematica per tutti’, che molti tenevano anche senza leggerlo nella propria biblioteca. È forse per questo motivo che l’argomentazione è rigorosa e l’impianto volutamente di carattere logico. In un ‘indice di citazioni’ costruito secondo lo stile moderno sulla base dei risultati utilizzati in seguito dai matematici greci, questo libro sarebbe secondo soltanto ai due libri più importanti, il V e il VI. Difatti, la maggior parte dei risultati sono importanti in sé, anche se è stata avanzata l’ipotesi che lo scopo al quale tende in larga misura questo libro sia la prop. 45 (Müller 1981) («Costruire un parallelogrammo uguale a una figura rettilinea data in un dato angolo rettilineo», dove ‘rettilineo’ significa ‘costituito da segmenti di retta’), oppure la penultima proposizione, il ‘teorema di Pitagora’ (prop. 47).

Il Libro II è organizzato meno rigidamente e per questa ragione è anche più simile agli altri. Tratta di un settore particolare, l’applicazione delle superfici, e consta di sole 14 proposizioni (ne parleremo diffusamente nel prossimo paragrafo come esempio del modo di procedere di Euclide).

Il Libro III parla del cerchio, forse la figura più importante di tutta la matematica greca. Oltre a essere una raccolta di strumenti e tecniche, è un libro particolarmente significativo per la futura matematica greca perché i risultati relativi al cerchio ispirarono in seguito gran parte degli studi sulle sezioni coniche (e anzi questi risultati furono spesso generalizzati a intere teorie sulle sezioni coniche). Come il Libro II è essenzialmente una raccolta di risultati, e non una successione di proposizioni in vista di uno scopo, anche se per le sue dimensioni (37 proposizioni), è il più vicino al Libro I.

Il Libro IV è ancora più specializzato. Le 16 proposizioni che contiene sono tutte rivolte alla risoluzione di problemi riguardanti cerchi inscritti e circoscritti a figure rettilinee; esse possono essere riassunte come segue in relazione al numero di lati della figura rettilinea considerata (i numeri della seconda e della terza riga si riferiscono alle proposizioni; se due proposizioni trattano della stessa configurazione, una ha come dato la figura rettilinea, l’altra il cerchio):

schema

Euclide tratta diffusamente dei primi tre casi e fornisce soltanto qualche indicazione per gli altri due; si tratta quindi di un metodo che è discusso a fondo nel momento in cui è introdotto, per essere poi esposto sommariamente nei suoi sviluppi. Soltanto quattro delle proposizioni contenute in questo libro sono utilizzate nel seguito, tutte e quattro nel Libro XIII.

Abbiamo già parlato del Libro V a proposito di Eudosso. Questo libro è collegato a quello successivo, dedicato all’applicazione della teoria delle proporzioni alla geometria piana, e insieme contengono un totale di 58 proposizioni, le più citate nei testi greci di matematica. La proposizione più citata degli Elementi è probabilmente la 4 del Libro VI: «Nei triangoli aventi gli angoli rispettivamente uguali i lati che comprendono gli angoli uguali sono proporzionali, essendo omologhi quelli opposti agli angoli uguali». Proposizioni di questo tipo permettono di passare da un ragionamento basato su relazioni tra oggetti della geometria piana dedotte dall’osservazione di figure, a uno che fa uso di relazioni astratte tra oggetti in proporzione e che è espresso soltanto verbalmente, senza l’ausilio di figure.

fig. 7

Nel Libro VI non si ritrovano le spettacolari strutture logiche del Libro V, ma piuttosto una fusione dei risultati dei cinque libri precedenti, che dà luogo a quella raccolta di strumenti che – come abbiamo detto – è il nocciolo della matematica greca. Si passa perciò bruscamente da un argomento all’altro. Tipico di questo libro è il problema logico che nasce dalla nozione di ‘rapporto composto’ di cui si fa uso nella proposizione seguente: «[Due] parallelogrammi aventi gli angoli rispettivamente uguali hanno fra loro rapporto composto dei rapporti dei lati» (Elementa, lib. VI, prop. 23). Se possiamo esprimerci nei termini moderni usati nella fig. 7 è perché le nostre nozioni di rapporto e proporzione fanno parte di un sistema nel quale le grandezze si esprimono con numeri reali e, pertanto, possiamo parlare di moltiplicazioni e divisioni. Senza di ciò è difficile capire cosa significhi l’espressione ‘composizione di rapporti’, che in linguaggio moderno corrisponde a un prodotto di due rapporti. Questa indifferenza per gli aspetti logici si ritrova spesso nella matematica greca; la particolarità del Libro V risiede proprio nel fatto che vi si dà prova di una grande attenzione a questo riguardo.

I tre libri seguenti, VII, VIII e IX, per un totale di 102 proposizioni, sono dedicati all’aritmetica e formano un tutto abbastanza continuo. I libri VIII e IX non contengono l’introduzione ad hoc con nuove definizioni, a differenza della maggior parte degli altri libri.

Che cosa sono i numeri dei Greci e cosa ne studia Euclide? Nelle figure annesse alle proposizioni i numeri sono rappresentati da segmenti; ciò è significativo del fatto che essi hanno poco a che vedere con quelli di cui i Greci si servivano per i calcoli. Il sistema di numerazione greco era assai complicato, quasi nessun matematico greco lo studiò (v. cap. XVIII, a proposito dell’Arenario di Archimede) e non fu mai riformato. Nessun numero è mai citato nei libri aritmetici di Euclide, nemmeno a titolo di esempio; il centro dell’interesse è, come nella geometria, la nozione di rapporto. Un tipico risultato di questi libri è il seguente: «I numeri primi fra loro sono i più piccoli fra quanti abbiano fra loro a due a due lo stesso rapporto» (Elementa, lib. VII, prop. 21). Dietro proposizioni di questo tipo è possibile scorgere un interesse per le applicazioni nella musica (v. cap. XXVII).

Del Libro X ci siamo già occupati a proposito di Teeteto. Considerato nel quadro complessivo degli Elementi questo libro appare, per il suo sviluppo complicato, ancora più eccezionale. D’altra parte, se si può capire che Euclide volesse in qualche modo trattare il problema dell’incommensurabilità, non è ovvio che potesse fornirne una presentazione più semplice e completa. Possiamo forse congetturare che Euclide desse il meglio di sé quando poteva organizzare il materiale alla luce della maniera in cui questo era stato utilizzato in opere di carattere avanzato. Tuttavia, poiché i risultati del Libro X rappresentavano tutti gli studi svolti fino ad allora sull’incommensurabilità, Euclide non poteva sapere quali fossero i più importanti per gli sviluppi futuri e pertanto li conservò tutti nelle 115 proposizioni del libro (ammesso che siano tutte attribuibili a lui).

Il Libro XI non presenta molti problemi. È anch’esso una raccolta di risultati utili, questa volta di geometria solida. Una parte consistente delle 39 proposizioni delle quali consta riguarda le basi per lo studio degli spazi tridimensionali, con particolare riferimento alle relazioni di parallelismo e di ortogonalità nello spazio (proposizioni 1-19). Le successive proposizioni 20-23, poche ma difficili e di importanza centrale, riguardano gli angoli solidi; infine, i parallelepipedi, ossia i solidi che corrispondono ai parallelogrammi, sono considerati nelle proposizioni 24-37 e richiamati brevemente nelle 38-39, due proposizioni che parlano rispettivamente dei cubi e dei prismi. In questo modo, lo scopo principale è la misurazione degli oggetti rettilinei, lo stesso del Libro I, che il Libro XI ricalca in gran parte, anche se è meno serrato logicamente.

Con il Libro XII si passa a solidi più complessi. Le proposizioni sono soltanto 18 e di contenuto relativamente ‘specializzato’, ma il libro è ugualmente molto significativo, soprattutto per il metodo particolare che utilizza, il ‘metodo di esaustione’ (metodo che fu attribuito nell’Antichità a Eudosso), che ne fa quasi una monografia a sé stante. Archimede usa metodi similari (che egli chiama ‘di schiacciamento’: v. cap. XVIII, par. 1), per cui il suo debito verso il Libro XII è oggetto di dibattito tra gli studiosi (Knorr 1978c); in ogni modo, la teoria ha la stessa bellezza logica e lo stesso taglio geometrico del Libro V. Il metodo di esaustione è per certi aspetti simile a quello dell’analisi matematica moderna. Si può capire di cosa si tratta dalla seguente proposizione: «Ogni cono è la terza parte del cilindro che abbia la sua stessa base e uguale altezza». Citiamo dalla dimostrazione:

Se difatti il cilindro non fosse il triplo del cono, in tal caso si avrebbe che il cilindro sarebbe maggiore o minore del triplo del cono. Dapprima sia maggiore, e nel cerchio [base] s’inscriva un quadrato; quest’ultimo è così maggiore della metà del cerchio […] Se dividiamo così per metà gli archi di circonferenza rimasti indivisi, tracciamo le relative corde, su ciascuno dei triangoli [ottenuti] costruiamo prismi di altezza uguale a quella del cilindro, e continuiamo a far questo sempre di seguito, finiremo con l’avere come residuo certi segmenti del cilindro, la cui somma sarà minore dell’eccedenza di cui il cilindro supera il triplo del cono. (Elementa, lib. XII, prop. 10)

Ciò porta naturalmente a un assurdo, il metodo presuppone che se una certa grandezza non è uguale a un’altra, la differenza tra le due si può esprimere come una grandezza finita; inscrivendo poligoni con un numero sempre maggiore di lati la differenza iniziale diventa più piccola della grandezza finita. Il lettore moderno è colpito dalla precisione con cui è formulato ciò che il metodo usa e dalla cura con la quale sono chiarite le ipotesi di base. In questo senso il metodo è effettivamente rigoroso; non si tratta però del puro rigore logico dell’analisi matematica moderna, soprattutto perché qui il rigore si accompagna a una visione interamente geometrica. Non si parla di serie o di limiti, ma di figure inscritte e delle loro relazioni con le figure nelle quali sono inscritte.

È questo anche il tema del Libro XIII, nel quale sono costruiti e inscritti nella sfera i cinque solidi regolari (il Libro XIII si collega così al IV). Con le sue 18 proposizioni è un libro relativamente ridotto, che riunisce molti dei temi sviluppati nei libri geometrici, ossia i risultati principali sulle figure rettilinee, planari e solide, sulle proporzioni e sull’incommensurabilità. Non vi è dubbio che, se gli Elementi sono soltanto una raccolta di risultati, si tratta di una raccolta eccezionalmente ben compilata (per una comprensione più approfondita e per i problemi di carattere filosofico che essi sollevano, Müller 1981 è ancora insuperato).

Il Libro II: un’analisi dettagliata

fig. 8

I libri degli Elementi non seguono un unico modello, e anzi ognuno ha una propria struttura che risponde alla natura del programma svolto. Questo programma è spesso enunciato in apertura: nel Libro II, il più breve, si parte da due definizioni. La seconda serve semplicemente a introdurre un oggetto, lo gnomone, che non è stato definito nel Libro I perché è richiesto soltanto ora. La prima definizione è di natura diversa, e riassume l’impostazione propria del Libro II: «Ogni parallelogrammo rettangolo si dice esser compreso tra due rette che comprendono l’angolo retto» (Elementa, lib. II, def. I). Questa definizione non introduce un nuovo oggetto, bensì anticipa l’espressione euclidea «il [parallelogrammo rettangolo compreso] dalle rette AB e BC». Ci si può dunque riferire a un parallelogrammo (o a un rettangolo) non soltanto mediante i suoi quattro vertici ABCD (oppure, come spesso si fa, mediante una coppia di vertici opposti AC e BD), ma anche mediante una coppia di rette che ne misurano l’area (fig. 8). Ciò non vuol dire ridurre un rettangolo al ‘prodotto’ di due rette: il rettangolo è ancora visto come figura geometrica e dunque è possibile, per esempio, considerare le parti in cui è diviso tracciando delle rette. La formula linguistica che designa il rettangolo isola però, secondo questa definizione, le componenti della configurazione geometrica rilevanti per la misura dell’area. In questo modo il Libro II studia oggetti geometrici, li studia in termini di aree e le aree sono viste in funzione di rette.

Questa impostazione è stata oggetto di dibattito tra gli studiosi, a proposito dell’esistenza di un’‘algebra geometrica’ nella matematica greca e delle possibili influenze babilonesi (v. cap. XVI). L’originalità della matematica greca rispetto a queste presunte origini babilonesi sta nell’introduzione delle dimostrazioni e di un punto di vista molto generale, che illustreremo considerando una proposizione specifica del Libro II. Lasciando da parte per ora il problema di un possibile prestito culturale, siamo in grado di definire con precisione che cosa nel Libro II sia di natura algebrica: da una parte, l’accento posto sulla grandezza delle figure geometriche (e non su proprietà qualitative che queste possono presentare, come invece è fatto nel Libro I); dall’altra, la considerazione di una relazione funzionale tra rette e aree. L’interesse di fondo resta tuttavia di natura geometrica e non riguarda le equazioni in quanto tali; eviteremo perciò di usare l’espressione ‘algebra geometrica’.

Tav. IV

Dopo le due definizioni il libro passa alla serie delle proposizioni, che sono riportate nella Tav. IV.

Due fatti sono immediatamente evidenti: nelle prime dieci proposizioni vi sono molte ripetizioni, e vi è inoltre tra queste e le ultime quattro un certo divario, che è messo in luce dalla struttura deduttiva del libro, vale a dire dalla struttura di dipendenza logica tra le proposizioni. Le proposizioni 1-10 sono logicamente indipendenti da questo divario, vale a dire che, se poggiano tutte, e a volte ampiamente, su proposizioni dimostrate nel Libro I, ciascuna di esse è indipendente dalle altre. In qualunque altro ordine esse fossero proposte, il principio di Euclide di non presupporre risultati non dimostrati sarebbe ancora valido. Le proposizioni 11- 14, pur mutuamente indipendenti, si basano ciascuna su una delle prime dieci: la 11 presuppone la 6, la 12 la 4, la 13 la 7 e la 14 la 5. È chiara allora la struttura logica del libro. Con le prime dieci proposizioni si approntano delle tecniche, una ‘cassetta degli strumenti’, e subito dopo si propongono degli esempi di applicazione: per risolvere problemi, con la 11 e la 14, o per dimostrare risultati nuovi, con la 12 e la 13. Queste ultime sono una generalizzazione del teorema di Pitagora, ma sono anche interessanti di per sé. Nella formulazione delle proposizioni 1-10 compaiono sempre una retta che dà luogo a certe aree e le mutue relazioni tra queste. In questo modo, la ‘cassetta degli strumenti’ permette di passare dall’aspetto lineare di una situazione geometrica a quello delle aree e, poiché le aree sono spesso più semplici da trattare, il passaggio facilita anche le dimostrazioni (Saito 1985).

Dimostrare risultati nuovi o risolvere problemi è ciò che abbiamo descritto sotto forma di gioco tra due persone, quando abbiamo parlato dei Dati. La prop. 14 chiede di ‘costruire un quadrato avente una data area’. Il nostro avversario propone un’area qualunque e noi accettiamo la sfida di costruire il quadrato che ha quell’area. Possiamo farlo, perché la 14 ci fornisce una strategia vincente, nella quale però in un certo senso s’imbroglia un po’; ciò che si fa nella prop. 14 è ridursi alla prop. 45 del Libro I, ‘costruire un parallelogramma rettangolo di data area’, e questo lo sappiamo fare. Così come vi è una ‘cassetta degli strumenti’ che contiene proposizioni utili, che mostrano fatti utilizzabili in altre dimostrazioni, vi è anche una ‘cassetta’ di problemi utili che possono essere usati come parti nella formulazione di problemi più complessi (in questo caso, ‘determinare un parallelogramma rettangolo data l’area’ si rivela utile per determinare un quadrato di data area). Gli Elementi constano in gran parte di teoremi e problemi di questo tipo.

Non resta dunque che trovare un quadrato uguale a un dato parallelogramma rettangolo, un compito molto meno difficile di quello che il nostro nemico pensava dovessimo affrontare. In possesso di questo parallelogramma rettangolo e dei suoi due lati la ‘cassetta degli strumenti’ fornisce tutta una serie di relazioni tra lati, quadrati e parallelogrammi rettangoli, e una delle proposizioni, la 5, assieme a un’ingegnosa costruzione geometrica, suggerisce come trovare il lato del quadrato, dati i lati del parallelogramma rettangolo. Considereremo in conclusione di questo capitolo quest’ultima proposizione; ci preme però prima sottolineare il ruolo sorprendente che essa svolge nella risoluzione di un problema che a prima vista non sembra avere relazione con il modo in cui è formulata.

Analisi di una proposizione

Tav. V

La prop. 5 del Libro II degli Elementi di Euclide ha una struttura ben determinata, che si ritrova, con qualche variazione, nella maggior parte dei lavori di matematica greca. Nella Tav. V è riportato il testo completo, nel quale sono stati inseriti alcuni elementi che servono a facilitarne la lettura. La proposizione è strutturata in sei parti, che indichiamo in corsivo (ovviamente questi titoli o divisioni non compaiono nel testo greco originale). La quarta parte è la costruzione (i cui passi successivi sono numerati con lettere tra parentesi) e la quinta parte è la dimostrazione (i passi sono indicati con numeri tra parentesi).

La proposizione si apre con un enunciato generale che stabilisce cosa si vuole dimostrare. Si tratta di un enunciato condizionale: se si verifica una certa situazione, se ne verifica anche un’altra (in questo caso, se si divide una retta – sempre intesa come ‘segmento di retta’ – in un certo modo, si ha anche una certa uguaglianza tra aree). Le due parti del condizionale, l’antecedente e il conseguente, sono considerate di seguito in un caso particolare e diventano rispettivamente l’esposizione (nella quale nel nostro caso si divide una retta) e la definizione dello scopo (dove si afferma che certe aree sono uguali ad altre). La dimostrazione di quest’affermazione è il compito principale della proposizione e consta di due parti: nella costruzione anteposta alla dimostrazione vera e propria sono aggiunti elementi alla configurazione geometrica, oltre a quelli introdotti nell’esposizione. Infine la conclusione torna alla formulazione generale originale e asserisce che è stata dimostrata.

L’aspetto principale di questa struttura è la dualità generale-particolare. L’inizio e la fine sono generali, tutto il resto è particolare e fa riferimento alla figura. Resta inteso che in qualche modo la dimostrazione particolare dimostra l’asserto generale e ciò essenzialmente perché il particolare conseguente si dimostra a partire soltanto da quel particolare antecedente: dividendo la retta in un certo modo si ottiene una certa uguaglianza, e questo legame necessario significa che si otterrebbe lo stesso risultato dividendo una qualunque altra retta in quanto il legame sussiste in virtù del fatto che la retta è stata divisa in un certo modo, e non grazie a qualche proprietà di quella particolare retta.

Il caso particolare è utile per la dimostrazione perché permette di basarsi su una figura particolare, essenziale per la dimostrazione (basta considerare il passo 15, nel quale non si fa altro che esplicitare l’informazione tratta dalla figura). Per rinviare alla figura si utilizzano lettere dell’alfabeto greco: le lettere denotano i punti e altri oggetti sono individuati indirettamente mediante i punti-lettere che giacciono su di essi. Ciò è tipico della geometria greca (ma anche dell’aritmetica) e richiama la natura del progetto della matematica greca, non uno studio di grandezze generali, denotate mediante ‘variabili’, ma lo studio di oggetti concreti nello spazio rappresentati da alcuni dei loro principali costituenti spaziali.

Un altro aspetto di questo testo è la ripetitività; i passi (b)-(d ) della costruzione ripetono, mutatis mutandis, l’identica formula per tracciare una parallela. La dimostrazione stessa non è che una serie di ripetizioni della formula per esprimere l’‘uguaglianza’, nella quale i costituenti sono di volta in volta sostituiti e, anzi, la forza dimostrativa si rivela proprio una volta capito che si tratta di una successione di formule. Si è lontani dalle moderne equazioni: non vi è una particolare disposizione tipografica o un simbolismo visivo, ma piuttosto un uso sistematico della lingua.

In conclusione, sono due gli aspetti che caratterizzano la matematica greca: le figure con le lettere che le accompagnano e l’uso della lingua per espressioni che hanno la qualità di formule. Euclide non ha inventato alcuna di queste tecniche, ma il modo di procedere molto particolare e basato su di esse che gli è peculiare è diventato un modello che sarà dominante nello sviluppo della scienza fino ai giorni nostri.

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