Scialacquatori

Enciclopedia Dantesca (1970)

scialacquatori

Giorgio Varanini

La colpa degli s., o dissipatori, non risiede nel " mal dare " ad altri, e cioè nell'eccessiva liberalità (che è invece imputabile ai prodighi del quarto cerchio), sibbene nella preordinata volontà di distruggere, nelle proprie sostanze, sé stessi (il Torraca, con altri, cita opportunamente l'Etica aristotelica e il commento dell'Aquinate: " Nam prodigus dicitur quasi perditus, inquantum scilicet homo corrumpendo proprias divitias per quas vivere debet, videtur suum esse destruere quod per divitias conservatur ", IV lect. I). Sì che D. li pone nel secondo girone del settimo cerchio (If XIII 109-151), insieme con i suicidi, rei di colpa analoga (Puote omo avere in sé man vïolenta / e ne' suoi beni; e però nel secondo / giron convien che sanza pro si penta / qualunque priva sé del vostro mondo, / biscazza e fonde la sua facultade, / e piange là dov'esser de' giocondo, If XI 40-45); ne consegue il collegamento fra le pene cui sono assoggettate le due categorie di peccatori. Pene peraltro diversissime e di diversa ascendenza: se la prima - la trasformazione dell'uomo in arbusto - è difatti mutuata dalla tradizione classica, e in particolare dal poema virgiliano, la seconda - la caccia infernale - è un ‛ topos ' della letteratura medievale, presente, ad es., al Passavanti (Specchio 11), e anche al Boccaccio (Dec. V 8), sul quale probabilmente agì la sollecitazione dantesca.

Il tema della caccia infernale è comunque liberamente svolto dal poeta, che per primo applica tal genere di pena ai dissipatori e, indirettamente, ai suicidi, mentre nella tradizione medievale è di solito collegato alle colpe d'amore. Gli s. sono così dannati a essere inseguiti, raggiunti e dilacerati da nere cagne, bramose e correnti (If XIII 125): invano essi fuggono, con lena maggiore o minore, incalzati dalle terribili fiere, tentando di sottrarsi al loro morso famelico. E se è lecito pensare che la caccia provochi comunque danno e dolore anche ai suicidi, il danno diventa vero e proprio scempio se accada che uno degl'inseguiti, vinto dalla fatica, cessi di correre e si appiatti dietro uno dei cespugli, o faccia anzi con esso un groppo (v. 123), come appunto Giacomo da Sant'Andrea (v.), che si fa schermo dell'arbusto di un non nominato suicida fiorentino. Le cagne (che per gli antichi commentatori sono esseri diabolici secondo il senso letterale, e allegoricamente simboli della povertà, o dei rimorsi, o della vergogna, o anche immagini dei creditori) dilaniano sì il dissipatore, ma fanno altresì strazio disonesto (v. 140) del suicida (forse un Lotto degli Agli, o secondo altri, un Rocco de' Mozzi) che chiede ai poeti di raccogliere pietosamente le fronde disgiunte da sé al piè del tristo cesto (vv. 141-142).

Per quanto riguarda gli s., ben evidente è il contrapasso: come quei peccatori dilapidarono i loro beni assoggettandoli a volontaria e dissennata dispersione, così le cagne fanno scempio delle loro persone dilacerandole a brano a brano (v. 128). E sarà lecito ritenere, anche se D. non lo afferma espressamente, che quei ‛ brani ' si ricompongano successivamente in persona, destinata a essere di nuovo dilaniata dalle belve fameliche, in un'atroce e mai interrotta vicenda.

Nel canto XIII D. cita espressamente due s.: il menzionato Giacomo da Sant'Andrea, padovano (fatto uccidere, a quanto pare, da Ezzelino III da Romano nel 1239), di cui dovevano esser notorie le " multas ridendas vanitates " (Benvenuto), e un Lano (v.), quasi certamente Arcolano di Squarcia de' Maconi, ricco patrizio senese, che dilapidò i suoi beni con la nota " brigata spendereccia " (v.), e morì nel 1288 quando, sconfitti i Senesi dagli Aretini al valico della Pieve al Toppo, non riuscì come gli altri a fuggire e, tradito dalle poco accorte sue gambe (v. 120), morì sul campo. L'uno e l'altro, col suicida fiorentino, sono attori di una scena mossa e articolata (vv. 109 ss.), caratterizzata da un vigoroso realismo, in cui le fasi dell'azione (il sopraggiungere delle cagne inseguitrici, il più veloce correre di Lano e il suo invocare la seconda morte, l'apostrofe a lui rivolta da Giacomo, il suo farsi schermo del cespuglio del fiorentino, lo scempio miserando di lui e del tristo cesto) si succedono rapide e senza soste. Sì che dopo il mirabile esordio (vv. 1-31) il canto XIII si articola in due distinti episodi connotati da tratti strutturali e stilistici ben differenziati: se nel primo il dramma di Pier della Vigna e il destino tragico dei suicidi, che si prolunga nell'antiveduto allucinante spettacolo dei loro corpi appesi per la mesta / selva... / ciascuno al prun de l'ombra sua molesta (vv. 106-108), si compongono staticamente, lungo le ornate ambagi del discorso del protagonista, in una distesa e indugiata esposizione, il secondo è improntato di una vigorosa dinamica, e sostenuto da un incalzante ritmo interno che solo nella chiusa trova sosta, risolvendosi nel conclusivo pacato discorso del fiorentino che aveva fatto gibetto a sé delle sue case.

Bibl. - Sulla colpa degli s. e la loro differenziazione dai prodighi: E. Moore, The classification of Sins, in Studies in D., II, Oxford 1899, passim. Sulla pena degli s. e la fortuna del tema della caccia infernale: R. Serra, Su la pena dei dissipatori, in " Giorn. stor. " XLIII (1904) 289 ss.; A. Monteverdi, Gli " esempi " di Iacopo Passavanti, in Studi e saggi di letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli 1954, 190-194.

Su Giacomo da Sant'Andrea: G. Gennari, Intorno a Giacomo da Sant'Andrea, memoria, Padova 1831; E. Salvagnini, Iacopo da Sant'Andrea e i feudatari del Padovano, in D. e Padova, ibid. 1865, 29-74; R. Cessi, Iacopo da Sant'Andrea, in " Boll. Museo Civico di Padova " XI (1908) 49-56.

Su Lano da Siena: G. Maconi, Intorno a Lano dei Maconi, in " Bull. Senese St. Patria " II (1870) 142 ss.; P. Rossi, D. e Siena, ibid. XXVIII (1921) 37-39.

Tra le più notevoli letture del c. XIII dell'Inferno: L. Spitzer, in Lett. dant. 223-248; C. Angelini, in Lect. Scaligera I 428-445; I. Baldelli, in Nuove lett. III 33-45.