Schiavitu

Enciclopedia delle scienze sociali (1997)

SCHIAVITÙ

Emilio Gabba e Raimondo Luraghi

1. Schiavitù nel mondo antico di Emilio Gabba

2. Schiavitù nell'età moderna di Raimondo Luraghi

Schiavitù nel mondo antico

di Emilio Gabba

Considerazioni generali

Il problema della schiavitù nelle società antiche, e quindi del ruolo e del significato di questa istituzione nella storia economica, sociale e politica dell'antichità, è stato posto con sempre maggior chiarezza nel pensiero politico e nella storiografia moderna, a partire dal XVIII secolo, in relazione, e per confronto, con la presenza dello stesso fenomeno nei domini coloniali europei in America. Il precisarsi dei concetti di libertà e di eguaglianza mentre sorgevano tendenze abolizionistiche poneva il fenomeno schiavile in ovvio rapporto con le forme politiche delle società entro le quali esso era presente (moderne e anche antiche). In questo senso la guerra di secessione americana ha rappresentato un forte incentivo al ripensamento, tuttora in corso, del significato anche economico della schiavitù nello sviluppo di una società industriale capitalistica moderna. Era inevitabile che nel quadro di una storiografia portata a proiettare nel passato i problemi suggeriti dall'esperienza contemporanea emergesse anche una sollecitazione a cercare di precisare le condizioni, naturalmente non omogenee, dell'economia antica, insieme alla lunga e non risolta polemica fra modernisti e primitivisti. Le tendenze attualizzanti sono state inevitabili, anche per l'influenza delle istanze socialiste, e gli aspetti ideologici hanno spesso rappresentato un forte condizionamento della ricerca, determinando scontri fra le opposte tendenze. Secondo la teoria marxiana il "modo di produzione schiavistico" sarebbe stato caratteristico dell'antichità greco-romana. Talora all'analisi delle condizioni storiche di fatto è stata sovrapposta una valutazione-interpretazione morale della realtà, fondata su presupposti che appartengono al nostro tempo, pur valorizzando rappresentazioni del fenomeno già presenti nella tradizione antica. Anche la ricerca delle cause del declino della schiavitù antica, e della possibilità di individuarne un percorso unitario nello sviluppo storico, è spesso connessa al confronto con il fenomeno nell'età moderna. Nelle sue molte opere dedicate alla schiavitù antica Moses I. Finley ha avuto soprattutto il merito di aver cercato di liberare lo studio della schiavitù dai vari condizionamenti ideologici, con un costante richiamo alle realtà sociali ed economiche antiche, considerate nelle loro specificità strutturali lontane da troppo facili analogie con il mondo moderno: il che non gli ha tuttavia impedito di ricorrere anche a una cauta analisi comparativa con taluni aspetti del fenomeno schiavile negli Stati Uniti. Le controversie sull'efficienza o meno del sistema schiavistico all'interno di una società capitalistica del secolo scorso devono mettere in guardia sull'effettiva possibilità di giungere a una comprensione generale e sicura del significato economico della schiavitù antica. Poiché non ci si può fermare alla già discutibile distinzione giuridica fra liberi e non liberi per la varietà stessa di questo aspetto giuridico, una trattazione unitaria della schiavitù antica presenta molte difficoltà. È anche arduo considerare l'istituzione entro un quadro concettuale unitario, se non in termini antropologici molto larghi. Nel quadro generale delineato da Eduard Meyer la schiavitù vera e propria era stata preceduta da forme di lavoro coatto dipendente, che ripresero vigore alla fine dell'evo antico. Le vicende storiche hanno modificato i lineamenti del fenomeno, specialmente in relazione alle varie fasi dello sviluppo economico antico. La schiavitù spesso non si presenta come una categoria omogenea da un punto di vista 'sociale', ma con profonde diversificazioni al suo interno, che non sono legate solo a differenze nelle attività di lavoro (ma fu sempre fondamentale la distinzione fra schiavi di città e schiavi di campagna). La partizione cronologica fra mondo greco e mondo romano ha una sua validità sostanziale, al di là di pur utilissimi ragionamenti comparativi: le teorizzazioni unitarie di Finley si fondano normalmente sulla schiavitù greca classica, ateniese, e sono talora estese con qualche arbitrarietà al mondo romano. Sono innegabili rapporti fra l'età arcaica greca e il mondo del Vicino Oriente antico, e pure fra tarda antichità e alto Medioevo (v. Bloch, 1960).

Teorie antiche sull'origine della schiavitù

La definizione della condizione giuridica dello schiavo andò di fatto sempre meglio precisandosi con il consolidarsi dell'organizzazione politica e sociale dello Stato greco, la πόλιϚ. E così la riflessione teorica relativa alla schiavitù è strettamente connessa alla più generale indagine sulle forme politiche e costituzionali della πόλιϚ, come appare chiaro dai capitoli che Aristotele dedicò alla questione nella Politica (v. Goldschmidt, 1979; v. Schlaifer, 1960; v. Maruzzi, 1988). L'estraneità dello schiavo alla comunità politica e ai principî che la reggevano (per esempio quello di giustizia) autorizzava un ragionamento sostanzialmente fondato sul presupposto della naturalità della schiavitù, che sarebbe dipesa non solo, storicamente, dalla legge generale che imponeva la cattura del vinto per diritto di guerra, ma anche da una predisposizione di certi popoli al servire, connessa a condizionamenti ambientali e climatici e al carattere degli abitanti derivante da quei fattori. La teoria climatica, risalente almeno al V secolo a.C., individuava differenze nell'aspetto fisico e nell'indole degli abitanti a seconda delle zone abitate, e stabiliva talune correlazioni con le istituzioni e i regimi politici: le popolazioni dell'Asia erano predisposte alla servitù, i Greci al comando. Questa teorizzazione si fondava ovviamente sulla constatazione della prevalente presenza di barbari fra gli schiavi, in Grecia, e pretendeva di legittimarla giustificando la superiorità dei padroni. Naturalmente era difficile indicare differenze biologiche e somatiche fra l'uomo libero e lo schiavo; anzi già verso la metà del V secolo a.C. un aristocratico ateniese, ostile alla democrazia dominante, poteva rammaricarsi che non fosse più possibile in città distinguere lo schiavo dal cittadino per l'abbigliamento e il comportamento (Pseudo Senofonte, Costituzione degli Ateniesi, I 10-11).

La teoria esprimeva esplicitamente il rifiuto di ogni forma di schiavitù esercitata su cittadini greci. Superate le fasi arcaiche dell'uccisione del vinto e della vendita delle donne e dei bambini, dopo la conquista della città nemica, salvo casi eccezionali le leggi della guerra si erano andate mitigando anche per l'accresciuta consapevolezza di una comune appartenenza alla stirpe ellenica: di qui svariate forme di liberazione e di riscatto per i prigionieri. Si è cercato acutamente (v. Cambiano, 1987) di ricavare dalle argomentazioni aristoteliche i ragionamenti e le idee di chi si opponeva, su un piano teorico, alla schiavitù intesa come istituzione sorta per convenzione (anche se non si poteva negare la giustizia del diritto di guerra); ma la prospettata ingiustizia dell'istituzione non conduceva come necessaria conclusione all'abolizione della schiavitù, anche se l'utopia immaginava e costruiva società senza schiavi.

Già prima di Aristotele la storiografia si era posta il problema dell'origine storica della schiavitù (v. Vidal-Naquet, 1979). Erodoto (VI 137), a proposito della cacciata dei Pelasgi dall'Attica, affermava che a quell'epoca gli Ateniesi e gli altri Greci non avevano schiavi domestici e il lavoro veniva svolto da donne e fanciulli. Alla metà del IV secolo a.C. Teopompo di Chio (FGrHist 115 F 122; vd. F 13) identificava chiaramente due fasi fondamentali nello sviluppo storico dell'istituzione: la prima fase aveva visto la riduzione in schiavitù di popolazioni greche preesistenti da parte di invasori vittoriosi, come Lacedemoni e Tessali, e l'instaurazione di forme di servaggio (Iloti, Messeni e penesti); la seconda fase era dovuta ai suoi compatrioti di Chio che acquistavano direttamente i barbari come schiavi, un fatto che dai moderni è stato posto in relazione con la crescita locale delle attività commerciali e con lo sviluppo delle istituzioni democratiche.

Nel mondo romano Dionigi d'Alicarnasso (Storia di Roma arcaica, IV 22-24) in età augustea riportava direttamente o indirettamente, tramite il commercio, la schiavitù al diritto di guerra, un destino quindi legato alla sorte; ma riferendosi agli avversari italici di Roma indicava la possibilità per il vinto divenuto schiavo, se fedele al suo padrone, di essere presto liberato e inserito nella stessa cittadinanza romana: una prassi del tutto inusitata nel mondo greco, e che in definitiva serviva a superare il disagio della schiavizzazione di un avversario sentito etnicamente vicino. Solo in seguito si era verificata una degenerazione dell'istituto della manumissione con l'inquinamento del corpo civico per l'ammissione indiscriminata di schiavi non italici.

La schiavitù nelle età micenea e omerica

La documentazione che ha, almeno in parte, consentito di penetrare la realtà storica della civiltà micenea alla fine del II millennio a.C. attesta la presenza di schiavi destinati alle varie funzioni di una attività economica palaziale, soprattutto nelle proprietà sacre e templari. Questa constatazione rinvia al fenomeno analogo attestato su larga scala nelle aree del Vicino Oriente antico e perdurante ancora in età classica specialmente in Asia Minore, zona tradizionalmente caratterizzata da vaste proprietà templari (ἱεϱοδοὺλοι: v. Boffo, 1985, pp. 19-22). È così possibile distinguere nettamente la schiavitù micenea da quella greca classica. Su un piano generale è stata giustamente ribadita l'impossibilità di interpretare il fenomeno in questa età arcaica mediante un confronto con la realtà propria dell'età classica, quando la definizione giuridica della schiavitù si connette alla determinazione del quadro politico e sociale della πόλιϚ (v. Debord, 1973), né devono trarre in inganno le coincidenze terminologiche. Nel mondo descritto dai poemi omerici, la cui dubbia storicità non è di ostacolo all'utilizzazione storiografica dei dati che ci fornisce, sono conosciute molte e svariate forme, o meglio stati, di lavoratori non liberi, non definibili giuridicamente e talora dotati di una certa autonomia, forme che fondamentalmente si possono ricondurre alla dipendenza dal padrone di un οἶϰοϚ (complesso organico di una proprietà). Si è parlato a questo proposito di schiavitù 'patriarcale', alla cui origine stava di regola la cattura in un'azione di guerra. Tra le azioni di guerra si comprendeva in età arcaica anche la pirateria, che soltanto in seguito finì per acquistare un carattere infamante (v. Pohl, 1993). La cattura ad opera di pirati sarà da allora una delle componenti del commercio di schiavi, enfatizzata dalla commedia nuova del IV secolo a.C., e si svilupperà presso popolazioni barbare. Il II secolo a.C. fu l'età di maggior fioritura della pirateria nel bacino orientale del Mediterraneo; in seguito all'espansione romana e alla richiesta di manodopera schiavile si sviluppò una vera e propria 'tratta' degli schiavi, ma le cifre fornite dalla tradizione sono di regola esagerate. Tuttavia la prospettiva, basilare nella ricostruzione di Finley, di un commercio degli schiavi alimentato principalmente da un continuo rifornimento reso possibile dall'esistenza di riserve 'esterne' alle quali attingere, nasce in parte dal confronto analogico con situazioni moderne.

Forme di dipendenza: fra libertà e schiavitù

Non si può escludere che sulla base di questi tipi arcaici di schiavitù si siano poi sviluppate quelle forme di dipendenza che, con una formula mutuata dall'Onomastikon di Polluce (III 83) del II secolo d.C., presso il quale è anche un'elencazione dei casi più noti, si collocano in posizione intermedia fra libertà e schiavitù (μεταζὺ ἐλευθέϱων ϰαὶ δούλων). Esse possono essere qualificate come servaggio, e con una certa approssimazione sono avvicinabili alla medievale servitù della gleba (v. Lotze, 1959). L'origine storica - come ben sapeva Teopompo - stava nella conquista, da parte di gruppi di invasori, di territori i cui abitanti, vinti, vennero ridotti a coltivare la terra per i nuovi padroni a cui era stata distribuita e assegnata insieme alla relativa manodopera. I coltivatori erano tenuti a fornire ai padroni una quota fissa o rapportata al prodotto, che garantiva loro l'indipendenza economica necessaria per dedicarsi alla politica e alla guerra. Questa organizzazione economico-politica, di tipo artistocratico, era accompagnata per esempio a Sparta da una parziale proprietà collettiva del suolo, che ha fatto parlare di 'schiavitù collettiva'.

Situazioni del genere, talora legate a fenomeni di colonizzazione, erano conosciute a Creta (ϰλαϱῶται), a Sparta (gli Iloti, da intendere come prigionieri, e poi, dal VII secolo a.C., anche i Messeni), in Tessaglia (i penesti), a Siracusa (i ϰυλλύϱιοι) e un po' dappertutto nel mondo greco: per esempio i Mariandini di Eraclea Pontica erano probabilmente barbari di origine bitinica. Naturalmente si venivano a stabilire fra padroni e servi rapporti particolari. Il codice legislativo di Gortina, Creta, che risale alla prima metà del V secolo a.C., riconosce e garantisce allo schiavo tali e tanti privilegi di ordine personale, familiare, patrimoniale, che ha portato giustamente a concludere che tali privilegi "erano dovuti principalmente all'ammissione che questi diritti erano inerenti allo schiavo come essere umano" (v. Schlaifer, 1960, p. 112): forse il primo esempio nella storia di un tale riconoscimento da parte di una collettività. Gli Iloti spartani accompagnavano i guerrieri spartiati in guerra, ma nel tempo, e con il decadere delle rigide norme della costituzione licurgica, acquistarono una progressiva autonomia economica, al punto che migliaia di essi, nella seconda metà del III secolo a.C., all'epoca dei re riformatori di Sparta, poterono riscattare, pagando forti somme, una completa libertà.

Basterà qui fare un cenno al complicato problema dei λαοί, lavoratori dipendenti sui grandi domini, soprattutto regi, nell'Asia Minore seleucidica. È probabile che si trattasse in realtà di personale libero all'interno della comunità del villaggio di appartenenza, ma vincolato al lavoro sulle terre regie, e non pare possibile un confronto con la condizione feudale dei servi della gleba. Il fenomeno, durato ben addentro l'età romana, si sarebbe andato evolvendo secondo alcuni verso tipi tradizionali di schiavitù, secondo altri - più probabilmente - verso forme di colonato (v. Briant, 1973).

La servitù per debiti ad Atene e a Roma

Il problema della cosiddetta schiavitù per debiti si colloca cronologicamente, sia ad Atene che a Roma, in una fase storica che vedeva il passaggio degli ordinamenti politici e sociali dalla città aristocratica verso una struttura timocratica, basata sulla capacità economica ed essenzialmente sulla proprietà agraria. È merito di Finley (v., 1965) l'aver chiarito che a fondamento della schiavitù per debiti non c'era da parte del ricco creditore, che aveva fornito scorte agricole (e solo più tardi eventualmente un prestito in denaro) al più debole economicamente, compromesso da annate di carestia, avversità atmosferiche, cadute della produzione, la volontà di riscuotere un interesse sul prestito, ma l'esigenza di procurarsi come contraccambio una prestazione continuata di lavoro subordinato. L'asservimento, che coinvolgeva anche la famiglia, era personale e sarebbe durato fino al pagamento del debito con il lavoro: vale a dire che sarebbe stato difficilmente estinguibile. La spiegazione di Finley chiarisce il fatto, attestato dalla nostra tradizione pur scarsa e non chiara, che ai primi decenni del VI secolo a.C. nell'Atene soloniana, larga parte della popolazione fosse in questa condizione di dipendenza personale ed economica (sarà così, come vedremo, anche a Roma). Accanto ad altri provvedimenti sociali ed economici, Solone abolì questa forma di indebitamento legato alla persona, sia per il presente sia per il futuro.La situazione nella Roma del V e IV secolo a.C. non era molto diversa nel suo svolgimento storico. Accanto a un tipo di clientela, forse esistente anche ad Atene, che rappresentava una vera forma di dipendenza sociale e di lavoro subordinato (v. De Martino, 1988, pp. 29-52), esistevano l'istituto dell'addictio (addictus era il debitore insolvente assegnato giudizialmente al suo creditore) e quello più diffuso del nexum. Secondo una definizione di Varrone (Della lingua latina, VII 105), nexus era il libero che volontariamente dava in servitù il proprio lavoro al posto della pecunia fino alla restituzione del dovuto. Nel De re rustica (I 17,2) Varrone afferma anche che questo tipo di lavoratori agricoli asserviti, chiamati obaerarii, era al suo tempo (seconda metà del I secolo a.C.) ancora presente in gran numero in Asia, Egitto, Illiria: è possibile che si tratti di un riferimento impreciso ai λαοί. Entrambi gli istituti si erano andati nel corso del tempo mitigando fino all'abolizione del nexum con la legge Paetelia Papiria del 326 a.C., e tuttavia alcuni casi sono ancora ricordati nel I secolo a.C. Anche a Roma dunque il prestito serviva al creditore per procurarsi manodopera dipendente. Questo genere di indebitamento di cittadini, pur liberi e tenuti al servizio militare, aveva condotto nel 342 a.C. a una rivolta nell'esercito romano in Campania.

Sempre considerando la situazione dell'Atene del VI secolo, Finley è giunto alla conclusione che il venir meno di queste forme di lavoro coatto costrinse, per mantenere lo sviluppo economico e produttivo in atto, a ricorrere a manodopera schiavile fornita dall'esterno. Al ceto contadino, ora sollevato dal peso di prestazioni di lavoro, venne garantito così il pieno godimento dei suoi diritti, e la crescita di democrazia nella vita cittadina condusse a una sempre maggiore valorizzazione politica e militare delle classi inferiori ateniesi, soprattutto per lo sviluppo della marineria. È in questa prospettiva che lo stesso Finley ha sempre sostenuto che la disponibilità di manodopera esterna è stata la condizione necessaria per lo sviluppo della schiavitù classica, e ha quindi privilegiato il commercio come fattore principale nello sviluppo storico della schiavitù.

La situazione a Roma fra IV e II secolo a.C. presenta punti di contatto con quanto era accaduto secoli prima ad Atene, pur con profonde differenze. L'abbandono di forme di lavoro subordinato, al quale erano costretti cittadini liberi, rispondeva anche a una nuova, più avvertita consapevolezza civica delle classi inferiori della società (della quale abbiamo prove), ma fu soprattutto correlato a due fattori politici esterni. L'espansione territoriale nell'Italia centromeridionale consentì alla classe dirigente romana di sviluppare una politica di colonizzazione che sistemò decine di migliaia di cittadini poveri come nuovi piccoli proprietari, dando loro autonomia economica e anche politica. Di lì a non molto le prime vittoriose campagne militari fuori d'Italia misero a disposizione di Roma larghe masse di schiavi, non più appartenenti a popolazioni italiche, che potevano essere subito impiegati nelle nuove, più vaste aziende agricole che si andavano sviluppando accanto alla tipica piccola proprietà contadina. Anche in Roma l'emergere della chattel-slavery (schiavitù-merce) è quindi legato al declino delle antiche forme di lavoro subordinato, ma anche all'espansione militare che veniva ad alimentare il commercio mediterraneo degli schiavi a partire dalla metà del III secolo a.C. Nel corso dello sviluppo storico della schiavitù, e soprattutto in età romana, è molto difficile calcolare l'eventuale incremento nel numero degli schiavi dovuto alle unioni fra schiavi e schiave, spesso favorite ma che naturalmente non venivano riconosciute come matrimoni legittimi. Certamente la presenza di schiavi nati in casa favoriva spesso il loro allevamento e la loro istruzione per attività rimunerative, talora di responsabilità, e anche culturali.

La schiavitù-merce; il rifiuto del lavoro manuale

Le vicende di Atene e di Roma sembrano indicare come fosse drammaticamente presente in queste fasi storiche una qualche connessione fra libertà e forme politiche democratiche con il godimento da parte dei cittadini dei diritti-doveri inerenti, e la presenza della schiavitù, alla quale era in un certo senso addossata una larga parte del lavoro produttivo: questa interdipendenza era già stata teorizzata dagli antichi, per esempio a proposito degli Spartiati e degli Iloti. D'altro canto Senofonte nel suo trattatello Sulle entrate, databile alla metà del IV secolo a.C., poteva immaginare un programma economico, a vantaggio di Atene, fondato sull'impiego di schiavi pubblici (lo Stato imprenditore!) per uno sfruttamento intensivo delle miniere d'argento del Lauro. Anche se si è qualche volta enfatizzato il ruolo degli schiavi nella società e nell'economia ateniese (v. Jones, 1957, pp. 3-20; v. Finley, 1981), l'elemento schiavile è stato innegabilmente presente in tutto lo svolgimento della civiltà greca e in determinate circostanze il suo ruolo specifico è stato essenziale. Finley ha giustamente osservato che non appena un'attività economica, agraria o artigianale, superava i limiti della conduzione familiare, la presenza della manodopera schiavile diventava preponderante. L'osservazione vale anche per la Roma mediorepubblicana.

Si pone ovviamente il problema di determinare quanto questa realtà di fatto abbia inciso sulle teorie - ben presenti, per esempio, in Aristotele, ma riprese se pur in un contesto storico differente da Cicerone nel De officiis - che rifiutavano per i cittadini il lavoro manuale, e talora anche il lavoro agricolo, come indegno di un uomo libero. Come era possibile conciliare il lavoro artigianale, pur sempre dipendente, con l'impegno politico? Oppure il rifiuto del lavoro manuale derivava forse dal fatto che esso era stato tradizionalmente addossato ad antichi nemici vinti, o a schiavi barbari, ed era per questo considerato degradante? Una risposta non è facile, tanto più che esisteva proprio per Atene la tradizione di un Solone che, di fronte alla povertà del suolo dell'Attica, aveva potenziato le technai e le connesse attività commerciali (Plutarco, Vita di Solone, XXII 1-2; XXIV 4). È preferibile credere che quella teorizzazione rifletta piuttosto un ideale aristocratico di vita, di cultura e di educazione ben presente nella Costituzione degli Ateniesi dello Pseudo Senofonte e legato alla tradizione di una solida ricchezza agraria, di fronte all'emergere di nuove attività commerciali e di un diverso tipo di ricchezza che avevano travolto la vecchia classe dirigente. Anche le critiche ciceroniane alla mercatura risentono di un'origine dottrinaria.

Il caso etrusco

Nel mondo italico forme servili a mezzo fra schiavitù e libertà erano conosciute nelle città etrusche (v. Heurgon, 1970; v. Torelli, 1981, pp. 79-83, e 1987, pp. 87-95). L'esistenza, almeno dal V secolo a.C., di una classe di servi per lo più destinati ai lavori agricoli, poi anche all'artigianato, è sicura. Dionigi d'Alicarnasso (Storia di Roma arcaica, IX 5, 4) li qualifica come penestai, usando una terminologia greca. Poco chiaro è come e quando si sia giunti a una così rigida distinzione rispetto alle aristocrazie urbane dominanti. Questi servi avevano l'obbligo di coltivare le terre dei domini ai quali erano sottoposti, ma godevano di certi diritti (non di una vera proprietà) su altra terra che coltivavano per sé; erano inoltre astretti al servizio militare. Deve essere stato proprio l'esercizio delle armi a determinare il riconoscimento a loro favore, in talune circostanze, di una qualche parità politica (per esempio a Volsinii nel 290 a.C.), fino all'assunzione del potere con l'esautoramento della classe aristocratica: tentativi subito stroncati da Roma. Mancò nella rigida società etrusca fra IV e III secolo a.C. quel movimento ascensionale delle classi inferiori che permise a queste, in Roma, di superare le forme di lavoro coatto subordinato. Siffatta condizione durò di fatto fino alla concessione della cittadinanza romana nell'89 a.C., che portò a un inevitabile livellamento giuridico. È stato indicato come situazioni analoghe a quella etrusca non fossero ignote nell'Italia transpadana: il Titiro virgiliano di Mantova è forse un servo che ha acquistato con la cittadinanza romana la piena libertà e la proprietà della sua terra (v. Heurgon, 1967). A Vicetia i vernae ottennero la parità con gli antichi domini, che invano protestarono (v. Gabba, 1994). In genere Roma non tollerò queste forme intermedie fra libertà e schiavitù, come dimostra, qualunque fosse la ragione dell'atto, l'editto di L. Emilio Paolo del 189 a.C., che in Spagna liberò i servi degli Hastenses (cfr. A. Degrassi, Inscriptiones latinae liberae Rei publicae, 514).

L'economia schiavile in Roma (III-I secolo a.C.)

Questo atteggiamento si inquadrava nella generale tendenza romana alla disponibilità a manomettere lo schiavo e a immetterlo nella stessa cittadinanza, con un seguito non indifferente di problemi politico-costituzionali già evidenti alla fine del IV secolo a.C. Questa capacità di assimilazione meravigliava non poco l'osservatore straniero. Nel 217 a.C. il re Filippo V di Macedonia in una lettera ai Larisei (Sylloge Inscriptionum Graecarum, 543) citava come modello il sistema romano di rafforzare con le manomissioni il corpo civico, mettendolo in grado di inviare fuori un gran numero di colonie. A distanza di tre secoli Plinio il Giovane identificava nella manomissione di molti schiavi (verosimilmente cittadini) la via per incrementare il numero dei cives nel caso specifico di Comum (Epistulae, II 32,1).Naturalmente lo schiavo liberato (libertus) manteneva rapporti clientelari con l'ex padrone, ora patrono, che si traducevano in un mutuo scambio di favori politici, economici e sociali, che potevano anche non essere privi di rischi giudiziari (v. Fabre, 1981; v. Gabba, 1988, pp. 69-82).

Le conquiste romane in Italia settentrionale e poi nelle province oltremare, a cominciare dalla Sicilia dove il sacco di Agrigento nel 261 a.C. procurò molti schiavi, favorirono con le schiavizzazioni di massa (v. Volkmann, 1961) un nuovo indirizzo nell'economia italica: alla piccola proprietà contadina si andò affiancando un nuovo sistema di organizzazione e sfruttamento del suolo, basato su vaste aziende agricole con produzioni destinate alla commercializzazione, che si fondavano prevalentemente sul lavoro schiavile. A creare questa situazione concorrevano vari fattori: disponibilità di terra per la crescita dell'ager publicus dopo le confische e le conquiste; possibilità di investire le ricchezze tratte dalla vittoria per le classi alte; disponibilità, appunto, di schiavi sul mercato italico e su quello mediterraneo (la compravendita di schiavi era divenuta fonte di lucro a Roma). Tutto questo ebbe la conseguenza storica di modificare gli indirizzi dell'economia romano-italica e di incidere sul carattere stesso della società. Naturalmente l'azienda agricola di medie o grandi dimensioni non si sviluppò in modo uniforme in tutto l'ambiente italico. Essa era condizionata dalle situazioni ambientali e dalla possibilità di commercializzazione dei prodotti (specialmente vino e olio). L'indagine archeologica più recente, combinata con i testi di agricoltura latini, ha potuto ricostruire nelle sue complesse articolazioni la struttura tipica di alcune aziende, nella cui conduzione l'elemento schiavile era predominante: il caso della 'villa' di Settefinestre sulla costa etrusca è giustamente celebre (I secolo a.C.-I secolo d.C.: v. Carandini e Settis, 1979; v. Carandini, 1988).

Dalla metà del II secolo a.C. fino all'età augustea si colloca la fase storica del mondo antico nella quale la schiavitù conobbe il suo sviluppo maggiore, tale da suggerire confronti con il fenomeno in età moderna. Il fatto che tale momento sia stato temporalmente ristretto e anche geograficamente circoscritto non lo rende meno epocale per l'interpretazione della storia antica. Basterà notare che le schiavizzazioni di massa per cause belliche non significarono ovviamente che tutti i vinti venissero trasferiti in Italia; nelle stesse aziende condotte con il lavoro schiavile erano presenti anche lavoratori liberi soprattutto per lavori stagionali, e anzi le stesse leggi de modo agrorum (limitative dell'occupazione privata dell'agro pubblico) - come quella databile a poco prima del 167 a.C. e anche la legge agraria di Tiberio Sempronio Gracco del 133 a.C. - imponevano l'impiego di un certo quantitativo di manodopera libera. In ogni modo il largo impiego di schiavi nell'agricoltura, secondo la stessa opinione dei contemporanei, rappresentò una ragione del declino del ceto contadino romano-italico, cui si cercò di reagire con la distribuzione di terra pubblica ai proletari. Si sapeva d'altra parte che le nuove tendenze dell'economia erano connesse alla dimensione imperiale che lo Stato romano aveva oramai acquisito. Le ripercussioni non potevano non essere a livello mediterraneo.

Le guerre servili del II e I secolo a.C

Sul piano dell'ordine pubblico lo Stato romano aveva conosciuto nella prima metà del II secolo a.C. alcune episodiche rivolte schiavili, presto domate (v. Capozza, 1966): 196 a.C. in Etruria, 185-184 a.C. in Apulia. La presenza in Italia di schiavi di origine straniera e specialmente orientale deve aver influito anche sulle trasformazioni dei modi con i quali si cercava di appagare una nuova esigenza di religiosità; certamente nell'affare dei Baccanali del 186 a.C. furono coinvolti anche schiavi. Il controllo dei padroni sugli schiavi e quindi il loro rapporto erano già allora molto diversi (v. Bradley, 1984): difficili e comunque mediati quelli con gli schiavi nei campi, mentre nel caso degli schiavi urbani si saranno avvicinati alla descrizione che ne è offerta dalle commedie di Plauto e di Terenzio, per quanto riguardava funzioni, efficienza, reciproci comportamenti (v. Dumont, 1987, pp. 309 ss.).

In Sicilia la dominazione romana, instauratasi dopo le due prime guerre puniche, destrutturò il tradizionale sistema economico con l'imposizione di una politica dirigista. L'intervento di speculatori romani e italici, verso la metà del II secolo a.C., sviluppò a dismisura il latifondo organizzato sul lavoro degli schiavi; sui grandi pascoli spadroneggiavano schiavi-briganti, talora con la connivenza dei loro padroni, e certamente senza alcun controllo - o ben scarso - da parte delle autorità. Questa situazione è lo sfondo delle due grandi rivolte servili che sconvolsero l'isola nell'ultimo terzo del II secolo a.C. (140-132 a.C.; 104-100 a.C.) e che rappresentano un episodio senza confronti nella storia mediterranea antica. La storia di queste rivolte si presenta per noi complicata dall'insicurezza della tradizione, dalla presenza di una componente politico-religiosa di origine orientale (siriaca), dall'incertezza sui fini stessi del sommovimento. Esse attirarono in Sicilia anche schiavi fuggiti dall'Italia e vi aderirono anche proletari liberi dalle campagne.

Nel 133 a.C. scoppiò in Asia Minore, nei territori del regno di Pergamo che il re Attalo III aveva lasciato in eredità al popolo romano, una rivolta capeggiata da Aristonico, pretendente al trono perché figlio illegittimo del re Eumene II. La rivolta durò quattro anni. Accanto a vari documenti epigrafici, il testo di Strabone (Geografia, XIV 1,38) afferma che Aristonico riunì una massa di poveri e di schiavi chiamati a libertà, che egli avrebbe denominato Eliopoliti. È probabile che Strabone alluda a quel contadiname dipendente che sappiamo presente nei vasti domini regi della zona. Che il pretendente abbia fatto consapevole riferimento, con il richiamo alla 'città del Sole' (Eliopoli), a utopie egalitarie come quella stoica di Giambulo pare poco probabile, anche se a fianco di Aristonico si schierò il filosofo Blossio di Cuma, che era già stato partigiano di Tiberio Gracco. È preferibile pensare a un'adesione a culti solari (v. Delplace, 1978), ma si deve tuttavia ricordare che un testo epigrafico di Colofone di quegli stessi anni menziona la città degli schiavi (v. Robert e Robert, 1989, pp. 37-38).

Dal 73 al 70 a.C. l'Italia centromeridionale fu sconvolta dalla guerra servile di Spartaco, che è stata oggetto di molte interpretazioni e si è spesso caricata di forti implicazioni ideologiche. Sebbene non siano mancate incursioni degli insorti anche nel nord della penisola, la rivolta interessò le aree del centrosud, che erano state teatro della guerra sociale e di quella civile fra Mario e Silla (91-82 a.C.). Nelle stesse zone aveva avuto attuazione anche la riforma agraria di Gracco. Queste condizioni di fortissimo disagio sociale ed economico possono spiegare l'adesione alla rivolta del proletariato libero dei campi (Appiano, Guerre civili, I 540), mentre Spartaco non trovò seguaci nelle città. Anche il tentato passaggio in Sicilia fallì. Il movimento di Spartaco si configurò quindi come una rivolta di ceti contadini diseredati, liberi e schiavi, alla quale è difficile prestare idealità e piani organici, al di là di una sentita esigenza di riconquista della libertà contro forme opprimenti di sfruttamento (v. Guarino, 1979; v. Gabba, 1980).

L'addensarsi di tutti questi movimenti di rivolta schiavile nello spazio di settant'anni ha posto inevitabilmente il problema di una qualche possibile connessione fra quegli episodi, magari anche a livello della diffusione di ideali egalitari nel mondo mediterraneo, e ha pure suggerito la possibilità di ricavare una tipologia e una sociologia della guerra servile stessa (v. Vogt, 1957; v. Dumont, 1987, pp. 161 ss.; v. Bradley, 1989). Lasciando fuori dal quadro l'episodio di Aristonico, che è piuttosto riconducibile nei suoi aspetti sociali alle iniziative riformatrici di taluni re ellenistici, pare chiaro che le guerre servili in Sicilia e in Italia, pur collocate in contesti ambientali caratteristici, si lasciano ricondurre, se pur in modo molto generale, al processo di profondo cambiamento nelle strutture dell'economia e della società, determinato dall'instaurarsi del dominio romano, il quale comportava la massiccia presenza di schiavi scarsamente controllabili. È comprensibile che questi tre episodi si siano verificati nell'Italia del centrosud e in Sicilia, che era diventata, con suo danno, un'area suburbana rispetto a Roma. Là dove il processo di colonizzazione e di strutturazione agrimensoria si era svolto partendo da zero, come nell'Italia settentrionale, fatti del genere non si verificarono, sebbene anche in queste aree siano attestati ergastula.

Resta un altro problema, forse più grave e più difficile da chiarire: come mai, dopo la repressione feroce del moto di Spartaco, pur restando in molte zone dell'Italia un brigantaggio endemico, non si siano più verificate altre rivolte di schiavi. Si possono proporre due spiegazioni. La prima è per così dire contingente: le guerre civili dell'età cesariana e triumvirale, che dal 49 al 30 a.C., con arruolamenti continui e massicci in Italia, coinvolsero, con Sesto Pompeo e non solo con lui, anche grandi masse schiavili, con le vaste confische e redistribuzioni di terre e con l'emigrazione forzata nelle province contribuirono a ridurre, o a eliminare, le ragioni di nuovi movimenti di rivolta. Inoltre l'immenso processo di ricostruzione dell'Italia, già iniziato dopo la guerra sociale ma spinto avanti soprattutto da Augusto, deve aver contribuito a diminuire le tensioni sociali, offrendo occupazione non solo nell'agricoltura, ma anche nell'artigianato connesso con l'edilizia.

Il declino della schiavitù antica

La seconda spiegazione va più in profondità. Il cosiddetto "modo di produzione schiavistico" dell'interpretazione marxiana aveva già cominciato ad entrare in crisi nella seconda metà del I secolo a.C. Alcuni dati sembrano indiscutibili: in età augustea il numero degli schiavi in Italia era certamente ridotto rispetto a un secolo prima e doveva, comunque, essere contenuto in una proporzione molto minoritaria rispetto alla popolazione libera (le osservazioni di E. Lo Cascio sulle cifre dei censimenti augustei sono molto chiare in proposito). Va comunque ribadito che i lavoratori liberi sono sempre stati più numerosi che non gli schiavi rurali (v. Garnsey, 1980). Le leggi di età augustea sulla limitazione delle manumissioni - Fufia Caninia del 2 a.C., Aelia Sentia del 4 d.C. - indicano che si riteneva pericolosa una tendenza esagerata alla manumissione, che tuttavia doveva rispondere a esigenze economiche e sociali sentite, oltre che a scopi politici contingenti. Se ne ricava probabilmente anche che l'eventuale diminuzione della disponibilità di schiavi non è imputabile a un minore rifornimento dovuto al venir meno delle guerre di conquista, che, del resto, non poteva venir compensato dalla riproduzione fra schiavi. In età augustea le guerre nelle zone alpine e nella Spagna nordoccidentale venivano legittimate, impiegando anche ideologicamente l'etnografia (come nel caso di Strabone), con la necessità di portare alla civiltà popolazioni ancora barbare.

Ancora: nel corso del I secolo a.C. si andò accentuando il ruolo, già noto fin dall'età catoniana, dello schiavo come protagonista di molte attività commerciali, e quindi compartecipe autonomo dei relativi vantaggi economici: il peculium da lui accumulato poteva poi servire per comprare la manumissione. Inoltre ci si rese conto che, almeno in certe aree, era preferibile, perché più redditizia, una conduzione agraria mediante affittanze separate di singoli poderi. Orbene, in certi casi, come indicano testi giuridici di età tardo-repubblicana (Alfeno Varo), l'affittuario poteva essere uno schiavo (servus quasi colonus), il quale naturalmente doveva disporre in partenza di una propria capacità economica (v. Giliberti, 1981). Certamente questi casi non possono essere troppo generalizzati, ma neppure troppo sbrigativamente messi da parte; essi sono indicativi non soltanto di nuovi rapporti, ma anche di una concezione della schiavitù che si andava modificando.

La riflessione di Columella (Sull'agricoltura, I 7) sui vantaggi dell'affitto rispetto alla conduzione diretta, specie per fondi marginali, trova conferma anche nelle lettere di Plinio il Giovane sull'utilità di frazionare le proprietà, di avere buoni schiavi, e per contro sulle difficoltà di trovare affittuari affidabili (III 9,3-9; VII 30,3; IX 37,1-4). Non si può escludere che il processo di municipalizzazione, che in varie zone d'Italia, e soprattutto nella Transpadana, aveva comportato con la catastazione e la ristrutturazione agraria dei suoli anche la definizione delle capacità economiche delle varie classi municipali, abbia favorito la frantumazione gestionale delle proprietà agrarie. Certamente l'ascesa economica e politica dei liberti nei municipi italici, a cominciare almeno dalla metà del I secolo d.C., quale è attestata dalle epigrafi, rappresentò l'esito, rinnovantesi nel tempo, di un profondo cambiamento nella realtà schiavistica romano-italica.Tutto indica che a partire dall'età altoimperiale il fenomeno della schiavitù è in lento, progressivo declino e non soltanto nelle forme di organizzazione del lavoro, specialmente agricolo, che avevano caratterizzato l'età tardorepubblicana. Questa constatazione sembra rendere ancor più dubbia la teoria che imputa alla presenza massiccia di schiavi il mancato decollo tecnologico antico. È naturalmente impossibile indicare delle cause per questo declino, anche perché le realtà provinciali dell'Impero romano presentavano peculiarità e specificità molto varie. Val la pena di accennare al problema della schiavitù in Egitto, perché la documentazione papiracea ci permette di individuarne le linee di svolgimento dall'età faraonica a quella bizantina. La costante presenza di forme tradizionali di lavoro subalterno coesistenti con la schiavitù condusse a un necessario adeguamento del fenomeno schiavile, introdotto soprattutto dai Greci, alle realtà indigene, confinandolo in definitiva nelle aree urbane, e quindi nel campo delle attività artigianali. Il dominio romano non introdusse grandi cambiamenti, se non per la presenza di schiavi imperiali. Comunque la manodopera schiavile non deve mai aver superato nel complesso un 10% nell'intero sistema produttivo (v. Bieżuńska-Małowist, 1974).

Accanto alle ricordate ragioni di ordine economico, legate all'efficienza e alla redditività del lavoro schiavile, e a quelle non meno significative di ordine sociale (per esempio la compresenza di schiavi e liberi nei collegia artigianali), si andava manifestando un forte cambiamento nelle mentalità, nei sentimenti, nelle concezioni della vita e della società, che si rifletteva anche nella "coscienza giuridica e morale" (v. Ciccotti, 1899) e si ritrovava nei comportamenti e nei provvedimenti diretti a modificare gli aspetti meno tollerabili della schiavitù, nei quali è da riconoscere una qualche influenza del pensiero stoico. Gli episodi di segno opposto sono paradossalmente indicativi anch'essi di questa nuova temperie. Il dibattito in Senato, nel 61 d.C., sull'applicazione o meno della norma vetusta che stabiliva lo sterminio dell'intera familia nel caso dell'uccisione di un padrone da parte di uno schiavo (era stato ucciso lo stesso praefectus urbi L. Pedanio Secondo) si concluse con l'applicazione drammatica della legge fra dubbi e obiezioni (Tacito, Annali, IV 42-45, con la notazione che la plebe urbana si era schierata a difesa degli schiavi).

Che la religione cristiana, che si andava diffondendo fra i ceti inferiori e gli stessi schiavi e poi fra i ceti alti, abbia cooperato a diffondere sentimenti di fraternità e di eguaglianza e ad accentuare il processo di liberazione morale dell'individuo è sicuro, ma non è rilevabile neppure dopo Costantino una sua incidenza sul piano giuridico nella progressiva dissoluzione dell'istituto della schiavitù. È singolare che la maggior parte dei collari di schiavi pervenutici presenti riferimenti al cristianesimo (v. Thurmond, 1994).

Nell'organizzazione del lavoro in agricoltura durante i primi secoli dell'Impero il sistema schiavistico cedette sempre di più di fronte all'affermarsi del colonato, fondato su coltivatori (semi)liberi ma vincolati alla terra, che in certo modo sembra prefigurare la servitù della gleba dell'età feudale. Le origini di questa condizione, a noi nota dalle fonti giuridiche tardoimperiali, rappresentano un problema quanto mai complesso e dibattuto (v. Marcone, 1988). La risalenza ai fenomeni abbastanza analoghi, sopra menzionati, presenti e diffusi in talune aree mediterranee almeno dall'età ellenistica (v. Rostovtzeff, 1910) deve essere messa in relazione all'istituzionalizzazione del fenomeno in età dioclezianea. La constatazione di varie specificità regionali rende ardua un'interpretazione unitaria. (V. anche Formazioni economico-sociali; Servaggio).

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Schiavitù nell'età moderna

di Raimondo Luraghi

1. Introduzione

Né la cristianizzazione dell'Impero romano, né la crisi che travolse il mondo antico e aprì la strada a quello medievale erano valse a cancellare totalmente l'istituzione della schiavitù dall'Europa. Pur anatemizzata da illustri prelati tra cui papa Gregorio I, essa continuò a vivere per tutto l'alto Medioevo, se pure in forma sporadica e su una scala modestissima. L'avvento però, intorno al XII secolo, delle borghesie comunali e il sincrono rifiorire dei commerci ne causarono una ripresa abbastanza ampia. L'aumento e la diffusione della ricchezza, la ricerca di merci (e di costumi) esotici e di lusso, il concomitante sviluppo della pirateria le dettero un nuovo e vigoroso impulso. Veneziani e Genovesi praticarono un ricco e fiorente commercio di schiavi provenienti per lo più dal Mar Nero e dall'Egeo; Siciliani, Provenzali, Catalani, Aragonesi cominciarono a importare schiavi su scala assai vasta dalle coste berbere dell'Africa. Di là provenivano gli schiavi neri che i mercanti arabi mettevano in vendita nei porti di Tripoli, Tunisi, Algeri. In genere però la schiavitù non ebbe per il momento una base razziale: a chiunque poteva capitare di venir catturato in tempo di guerra e posto al remo sulle galere del vincitore. Con tutto ciò la schiavitù, pur registrando un nuovo rigoglio, rimase un fenomeno marginale; lo schiavo era pur sempre una 'merce' di lusso e non aveva pressoché alcun ruolo nel processo produttivo. Particolarmente apprezzati erano nella penisola iberica gli schiavi neri di provenienza africana usati come guardie personali, valletti, ecc. Occorre aggiungere che la schiavitù non ripugnava minimamente alla morale comune dell'epoca, la quale considerava lo schiavo alla stregua di qualsiasi merce.

2. Zucchero e schiavitù

Per secoli, sin dagli albori dell'età mercantile nel Mediterraneo, i popoli europei avevano cercato di spingersi nell'Atlantico, ma essi non possedevano né le navi né gli strumenti nautici per simili azzardose spedizioni. Tuttavia in Estremo Oriente i Cinesi avevano inventato sia la bussola che i sistemi di velatura adatti per la navigazione oceanica e lentamente, per tramite degli Arabi, tali invenzioni erano giunte nell'Europa occidentale (v. Davidson, 1972, p. 190), ove furono sviluppate dai Portoghesi. La prima caravella fu da essi varata nel 1441.Questo apriva loro la straordinaria prospettiva di poter raggiungere direttamente le coste atlantiche dell'Africa da cui provenivano, attraverso le rotte carovaniere del Sahara, la polvere d'oro, l'avorio (e gli schiavi).

In Africa occidentale i Portoghesi vennero in contatto con una serie di complesse e sofisticate culture. Colà il commercio degli schiavi era praticato da tempo immemorabile e su larga scala. Nel regno del Benin era normale la riduzione in schiavitù e la vendita dei nemici vinti. Contrariamente a quanto si crede, il primo tipo di merce che i Portoghesi (e gli Spagnoli) cominciarono a importare dall'Africa non fu l'oro, non fu l'avorio, ma gli schiavi: essi cioè si inserirono semplicemente in un mercato che già fioriva. Nulla è più errato che la tesi secondo cui l'Europa avrebbe imposto il commercio degli schiavi all'Africa (v. Davidson, 1961, p. 43). Il primo carico di schiavi neri fu portato in Portogallo nel 1444 (v. Chaunu, L'expansion..., 1969, p. 142). Sia qui, però, che in Spagna essi rimasero un fenomeno minoritario. Almeno per il momento.

Novant'anni più tardi, nel 1533, i Portoghesi cominciarono a colonizzare stabilmente il Brasile. Sin dal 1492 gli Spagnoli si erano stabiliti nelle Antille. In tutti questi paesi il clima era tropicale, la terra abbondante e di ottima qualità: non ci volle molto per scoprire che una tra le più preziose piante produttrici di 'spezie', la canna da zucchero, vi poteva essere coltivata estensivamente. Il regime mercantile aveva ormai raggiunto una dimensione atlantica: nel 1534 fu stabilito in Brasile il primo zuccherificio (v. Parry e Sherlock, 1968, p. 16), ma già nel 1515 gli Spagnoli avevano inviato in Europa il primo carico di zucchero (v. Burns, 1970, p. 21), sebbene poi essi riducessero la loro produzione allo scopo di non danneggiare le Canarie. Solo con l'avvento degli Inglesi le cosiddette Indie Occidentali avrebbero ripreso in pieno la produzione dello zucchero (v. Dunn, 1973, p. 188): per il momento il massimo produttore ed esportatore rimase il Brasile.

Lo zucchero non era ignoto all'Europa, ma sino a quel momento era stato estremamente raro, carissimo e soleva esser venduto quasi unicamente nelle farmacie. Ora esso poteva essere portato in massa e a basso prezzo sui mercati europei. Tuttavia, per una produzione massiccia, rimaneva un problema: la manodopera. I coloni erano in numero quanto mai scarso e non era pensabile che potessero da soli far fronte alle esigenze del mercato che andavano crescendo in maniera esponenziale; si aggiunga poi che gli Spagnoli (non i Portoghesi) si consideravano hidalgos e avevano, come tali, il massimo disprezzo per il lavoro manuale. Il problema quindi era non solo quello di una manodopera di massa, ma anche di grandi aziende agrarie a coltura estensiva, che sole avrebbero potuto rispondere alle crescenti esigenze del mercato. Gli Spagnoli (e anche i Portoghesi) avevano cercato dapprima di piegare al lavoro coatto le popolazioni indie. Era stato un fallimento. Anzitutto, le culture indigene del Brasile e delle Antille erano ferme all'età della pietra; tutti poi i cosiddetti Indios, anche quelli assai evoluti delle civiltà messicana e peruviana, erano quanto mai vulnerabili alle malattie contagiose importate dagli Europei (v. Boxer, 1975, p. 223). Si tentò allora di inviare nelle colonie dei coatti (i primi schiavi furono quindi bianchi: non fu il razzismo a creare la schiavitù, ma viceversa), o dei servi 'vincolati' per un certo numero di anni (v. Williams, 1966, p. 18). Anche questa soluzione fallì, sia per il numero relativamente modesto di forzati o altri coatti disponibili, sia perché agli uomini dalla pelle bianca, una volta giunti in America, era relativamente facile sottrarsi alla schiavitù, andarsene nella foresta e ritagliarsi una loro proprietà, sia infine perché essi non resistevano alle malattie tropicali, in primo luogo la malaria.

A questo punto i Portoghesi per primi decisero di risolvere il problema mediante gli schiavi neri che essi già acquistavano in gran copia sulle coste africane. I neri erano assai evoluti (la loro civiltà era all'età del ferro), docili e avvezzi al clima tropicale. In effetti, solo recentemente si è appurato che i neri provenienti dall'Africa occidentale possedevano un tipo di emoglobina particolarmente resistente alla malaria (v. Wood, 1974, p. 88). Si aggiunga che parecchi religiosi, come i gesuiti, allo scopo di proteggere i nativi dallo sterminio, insistevano per l'importazione di schiavi africani; la stessa richiesta avanzò Bartolomé de Las Casas, che poi se ne sarebbe amaramente pentito. Così il commercio degli schiavi, che i Portoghesi praticavano da un secolo, divenne un elemento portante della loro colonizzazione in America (e di quella dapprima spagnola, poi inglese e francese nelle Antille), in attesa di esserlo anche per quella zona subtropicale che era il Sud dei futuri Stati Uniti. In altre parole, la schiavitù e il commercio degli schiavi, elementi caratteristici delle culture africane, si estesero alle terre d'America ove assunsero un carattere di massa.

3. La tratta

Il primo sovrano a emettere un documento ufficiale (Asiento) che autorizzava il trasporto legale di quattromila schiavi neri all'anno nelle colonie d'America fu nel 1517 il futuro imperatore Carlo V. Il primo carico, destinato alle Antille, fu spedito da una compagnia di mercanti genovesi che acquistarono gli schiavi sul mercato di Lisbona (v. Mannix e Cowley, 1962, p. 3). Ma i Portoghesi (che già trasportavano grandi quantità di schiavi in Brasile) non tardarono ad avere nel 1595 l'Asiento per la fornitura di schiavi anche a tutte le colonie spagnole; tale commercio rimase per oltre un secolo un loro monopolio sino a che, specialmente nel XVII secolo, esso fu loro conteso dagli Olandesi, dai Francesi e dagli Inglesi, che nel 1713 con il Trattato di Utrecht ottennero a loro volta l'Asiento per l'esercizio della tratta. Ma già da oltre un secolo e mezzo Olandesi e Inglesi si erano gettati su tale lucroso commercio.I primi a subire gli orrori del middle passage furono i deportati bianchi; questo sistema, lungi dallo scomparire, continuò a seguito delle guerre civili e delle persecuzioni religiose: ancora alla metà del XVII secolo i cattolici irlandesi e gli scozzesi sconfitti da Cromwell vennero deportati in massa al lavoro forzato nelle colonie d'America (v. Williams, 1966, p. 13). Ma la schiacciante maggioranza dei trasportati fu ben presto data in senso assoluto dagli schiavi neri venduti da mercanti africani sulle coste dell'Africa equatoriale. Contrariamente a quanto si crede, la grande maggioranza di costoro non proveniva da razzie: prigionieri di guerra, condannati per debiti, persone nate in schiavitù costituivano la quasi totalità degli individui venduti ai negrieri bianchi. La lunga traversata transoceanica è stata tramandata nella memoria come un insieme di orrori senza precedenti: superaffollamento delle navi, trattamento brutale, cibo scarso e scadente, mancanza di acqua, di igiene, di assistenza medica e, quindi, altissima mortalità ne sarebbero state le caratteristiche. Certo, la mortalità sulle navi negriere era elevata: ma gli studiosi moderni hanno dimostrato che questa colpiva indifferentemente sia i trasportati che i membri dell'equipaggio. Occorre poi tener conto dell'inadeguatezza della medicina del tempo. In realtà le navi negriere avevano sovente a bordo un medico i cui onorari dipendevano dal numero degli schiavi che giungevano indenni sulle coste americane. Tra i comandanti delle navi negriere vi erano rappresentanti di ogni tipo di umanità: dai pessimi ai meno peggio. Tuttavia essi in generale cercavano di far sì che i trasportati non fossero soggetti a trattamento eccessivamente duro o troppo malnutriti: e non certo (almeno nel maggior numero dei casi) per umanità, ma perché gli schiavi erano un capitale, e ognuno che moriva o cadeva malato costituiva per il negriero una perdita secca; a stimolare poi la cura per la salute dei trasportati stava il fatto che le assicurazioni marittime non coprivano i casi di morte degli schiavi per malattie (v. Mannix e Cowley, 1962, p. 111).

La mortalità tra i trasportati sembra quindi si sia aggirata attorno a una media dell'8% (v. Miller e Smith, 1988, p. 681). I moderni studiosi puntano piuttosto sui fattori epidemiologici: dai documenti è stato ribadito che la mortalità tra gli equipaggi, specialmente sulle coste africane, 'la tomba dell'uomo bianco', superava in percentuale quella degli schiavi neri. Certo è che con i progressi della medicina tropicale e dell'igiene la mortalità scese sino al 4% negli ultimi anni della tratta (ibid., p. 682).

Con tutto ciò, il 'passaggio' rimaneva orrendo: al momento della partenza gli schiavi di sesso maschile erano di frequente ammanettati e incatenati a coppie; se il negriero aveva un po' di umanità, i ferri venivano tolti al largo e rimessi solo all'arrivo. Ciò nonostante i casi di rivolte di schiavi non furono infrequenti. Alcuni negrieri solevano far salire gli schiavi sul ponte al momento dei pasti e nel frattempo il frapponte veniva pulito: mestiere non gradevole, che i marinai facevano malvolentieri, e solo in quanto obbligati da una disciplina di ferro; ma non mancavano le navi ove ogni pulizia era trascurata. È facile immaginare quale inferno diventasse il frapponte ove gli infelici giacevano incatenati. Non vi è da stupirsi che vi fossero casi di suicidio o di pazzia (v. Mannix e Cowley, 1962, p. 117). Tuttavia, in alcuni casi in cui le navi negriere furono attaccate da pirati, i capitani non esitarono ad armare gli schiavi che, a quanto risulta, si batterono bene (ibid., p. 132).

Questo infame commercio si basava sul cosiddetto 'sistema triangolare'. Le navi negriere caricavano nei porti europei una serie di merci (tessuti, bevande alcoliche, oggetti di metallo, armi da fuoco) che venivano acquistate dai sovrani africani in cambio di schiavi. Esse quindi portavano il loro carico di merce umana nelle colonie d'America ove lo scambiavano con zucchero, riso, tabacco, che successivamente, chiudendo il triangolo, vendevano a caro prezzo sui mercati d'Europa (v. Davidson, 1972, p. 197). Una parte cospicua ebbero nel 'commercio triangolare' i negrieri della Nuova Inghilterra, i quali si assicurarono il quasi monopolio della fornitura di schiavi al Sud dei futuri Stati Uniti. Essi solevano partire per l'Africa carichi di barili di rum, che scambiavano con schiavi in ragione di un uomo per un barile. Dopodiché, venduti gli schiavi nelle colonie del Sud, ottenevano in cambio melassa che veniva successivamente trasformata in rum. Giova aggiungere che le navi negriere della Nuova Inghilterra erano tra quelle a bordo delle quali le condizioni di vita degli schiavi africani erano tra le peggiori (v. Mannix e Cowley, 1962, p. 155). Inutilmente l'Assemblea della Virginia, preoccupata da questo continuo afflusso di neri, emanò una serie di ordinanze vietando la tratta: il governo di Londra, premuto dai mercanti, le annullò, dichiarando che non si poteva rinunciare a un così lucroso commercio (v. Luraghi, 1992⁶, vol. I, p. 48).

Gli schiavi trasportati dai negrieri provenivano da una zona la quale si estendeva dalla Mauritania all'Angola e che, alla metà del XVI secolo, aveva già dato vita a una serie di complesse culture. Vasti reami si alternavano a città-Stato; colà gli Africani dei vari ceppi etnici avevano sviluppato una evoluta agricoltura, lavoravano il ferro, l'oro e altri metalli, scolpivano il legno, allevavano il bestiame, praticavano l'arte della poesia in lingua suaheli e avevano una vasta e complessa cultura musicale, basata essenzialmente sul ritmo, con una varietà di strumenti a corda, a fiato e a percussione; praticavano inoltre la danza e possedevano un vasto patrimonio di miti e leggende. Così le navi negriere portavano nelle Americhe non solo i corpi degli schiavi, ma il loro patrimonio culturale. Questo a sua volta avrebbe avuto un influsso enorme sulla mentalità e la civiltà delle terre di piantagione (v. Davidson, 1972, p. 287).

4. La cultura della piantagione

È indubbio che il sistema della grande proprietà a schiavi fu per così dire 'imposto' dalle esigenze del mercato capitalistico mondiale (v. Phillips, The slave..., 1968, p. 4), il quale all'alba del XVI secolo era in via di avanzata formazione (v. Genovese, 1969, p. 3). Solo la grande azienda coloniale poteva soddisfare tali esigenze; e sebbene il lavoro schiavile fosse assai meno efficiente, più portato allo spreco, più costoso del lavoro libero, nella carenza di quest'ultimo esso rappresentava al momento l'unica soluzione (v. Williams, 1966, p. 6).

Il mondo della piantagione (fazenda in Brasile, hacienda nell'America spagnola, plantation nelle Indie Occidentali e nel vecchio Sud) nacque quindi pesantemente condizionato dal mercato capitalistico mondiale dell'era mercantilista; esso si andò rapidamente configurando in tre nuclei principali: il Brasile portoghese, le Antille (Indie Occidentali) e il Sud di quelli che divennero poi gli Stati Uniti. Il suo carattere di subordinazione coloniale alle esigenze del mercantilismo appare chiaro dall'assoluto predominio della monocoltura: zucchero, poi caffè in Brasile; zucchero nelle Indie Occidentali; tabacco, poi cotone nel vecchio Sud.

Nessuno stupore che la civiltà della piantagione avesse caratteri analoghi in tutte le tre zone (determinati, giova ripeterlo, anche dal comune bagaglio culturale portato dagli Africani), ma con profonde differenze entro il quadro comune, causate dalle precedenti tradizioni. Delle tre grandi zone, il vecchio Sud fu l'unico che si trovò costretto a coesistere, entro la cornice delle colonie inglesi del Nordamerica continentale (quindi degli Stati Uniti), con un vasto e potente vicino di tipo capitalistico moderno cui si trovò subordinato e che alla fine ne determinò la distruzione. Diversi il caso del Brasile e quello delle Indie Occidentali, dipendenti dal sistema capitalistico britannico, il quale influì, sì, su di essi, ma più indirettamente e da lontano (v. Graham, 1972, p. 125).

La civiltà della piantagione nelle sue tre grandi aree fu dunque un prodotto diretto del capitalismo mercantile; ma, poiché le azioni umane conducono usualmente a effetti imprevisti e imprevedibili, essa dette vita a un tipo peculiare di società sostanzialmente precapitalista, agraria, signorile, immobilista e conservatrice, che finì per costituire un ostacolo formidabile al progresso della società capitalistica moderna (che era invece in costante e rapida evoluzione).

L'elemento determinante di tale tipo di società signorile era il rapporto tra schiavi e padroni. Esso ne determinava anzitutto l'immobilismo: poiché tutto il capitale disponibile era, pressoché senza eccezioni, investito nella manodopera schiavile, nulla rimaneva da dedicare a investimenti più o meno vasti in macchinari agricoli, fertilizzanti, migliorie fondiarie.

D'altra parte il rapporto piantatore-schiavi era radicalmente e qualitativamente diverso da quello tra datore di lavoro e prestatore d'opera. Esso infatti, prima ancora che economico, era sociale e istituzionale: simile in questo (ma per nulla identico) a quello tra il signore feudale e i servi del Medioevo (v. Genovese, 1961, p. 157). In tale rapporto il lavoro era considerato un'attività di qualità inferiore, da 'negri'. Gli ideali della classe dei piantatori non erano perciò i vili negozi, ma l'otium: cioè il godimento della vita, il lusso, la caccia, la socialità, sovente la lettura, la cultura (le grandi case dei piantatori erano spesso fornite di ricche biblioteche), lo status; in una parola, non l'investimento, ma il consumo, specialmente quello di lusso.

Era questo un tipo di civiltà in cui la campagna prevaleva sulla città, intesa quest'ultima non già come centro di produzione, ma come luogo ove si spendeva il reddito agrario; ciò, insieme alla carenza di capitale liquido, bastava a bloccare il sorgere di una classe industriale moderna che avrebbe potuto seriamente sfidare il primato sociale e politico dei piantatori (v. Genovese, 1961, p. 162).

L'immobilismo, la vita agiata, il conservatorismo dei piantatori si univano alla scarsa capacità produttiva della manodopera schiavile: infatti, anzitutto, lo schiavo non aveva alcuno stimolo ad aumentare la propria produttività, né i piantatori consideravano degno del loro status aristocratico trasformarsi in aguzzini - chi lo faceva era comunemente disprezzato e posto al bando della buona società -, e inoltre la mancanza di investimenti rendeva scarso e povero il concime, primitivi gli attrezzi e arretrati senza quasi alcuna possibilità di evoluzione i metodi di lavorazione.

Per gli stessi motivi la piantagione tendeva a essere un mondo chiuso in sé: tutto quanto era possibile, dal mobilio agli attrezzi di lavoro, al foraggio, ai cereali, agli animali da cortile veniva prodotto (o allevato) e consumato all'interno di essa. Solo la 'grande derrata', zucchero, tabacco o cotone, veniva posta sul mercato.

Qui i piantatori dipendevano totalmente dalle comunità economiche avanzate: il vecchio Sud dal Nord; il Brasile e le Indie Occidentali dalla Gran Bretagna. Erano le banche e i mercanti di tali comunità che finanziavano i piantatori anticipando loro (a tassi quanto mai esosi) parte del valore del futuro raccolto; che si occupavano di spedire, trasportare, porre sul mercato lo zucchero o il cotone; che provvedevano alle assicurazioni, ai noli marittimi, ecc. Pertanto la classe dei piantatori era cronicamente debitrice verso le imprese commerciali e le banche dei paesi avanzati (v. Woodman, 1967, p. 359).

Attorno al piantatore viveva la grande 'famiglia', composta non solo dai figli (e sovente dai figli dei figli), ma anche da schiavi domestici: camerieri personali, nutrici, talora segretari; su tutti costoro il patriarca regnava come padrone, mentore, amministratore, padre (talvolta in senso letterale) (v. Luraghi, The rise..., 1978, p. 49).

Certo le differenze tra le tre maggiori società schiaviste delle Americhe erano profonde e dipendevano dalle rispettive origini, dalle differenti eredità culturali, dal diverso bagaglio di tradizioni. I Portoghesi del Brasile provenivano da un paese nel quale, come in tutti i paesi latini (e quindi anche in Spagna e in Francia), non si conosceva il tabù razziale, o vi si dava un peso secondario. In Portogallo, Lusitani, Fenici, Greci, Cartaginesi, Romani, Visigoti, Arabi, Berberi si erano mescolati liberamente per secoli; la tradizione cattolica, poi, considerava il 'diverso' come un fratello che si trattava solo di convertire (v. Freyre, 1958, p. 193). Nessuna barriera di ordine razzistico separava dunque il bianco dallo schiavo; i rapporti sessuali tra le due etnie furono abbondanti e frequenti e la popolazione mulatta del Brasile crebbe a dismisura. In genere il figlio di un libero e di una schiava era considerato ipso facto libero: per cui si disse che il Brasile era un inferno per i neri, un purgatorio per i bianchi e un paradiso per i mulatti.

Analoga la situazione nelle colonie spagnole e francesi, ma diversa in quelle inglesi; nel vecchio Sud, per esempio, la distinzione razziale si affermò; colà il figlio di un libero e di una schiava era ipso facto schiavo a meno che il padre (cosa che avveniva assai di sovente) non lo emancipasse. Il problema del perché gli anglosassoni recassero con loro come eredità il tabù razziale esula da questa trattazione: certamente fu questa la più accentuata differenza con le colonie di ceppo latino.

5. Aspetti della schiavitù

Comprendere il modo e le condizioni di vita degli schiavi nelle Americhe non è facile: si oppone a ciò la nostra sensibilità di uomini moderni che ci porta facilmente a slittare su un terreno morale (o moralistico) il quale fa inevitabilmente da ostacolo a una comprensione storica e scientifica del fenomeno. Occorre dunque che la società schiavista sia giudicata iuxta propria principia e non secondo i nostri, il che sarebbe antistorico.

Che la schiavitù fosse in se stessa un fenomeno crudele, oppressivo, sfruttatore e ingiusto è fuori discussione. Tuttavia se essa fosse stata solo questo, i regimi schiavisti sarebbero durati ben poco. Il fattore che dominò i rapporti tra padroni e schiavi e che ne consentì una così lunga sopravvivenza (oltre tre secoli in Brasile; oltre due secoli altrove) fu il paternalismo (v. Genovese, 1974, p. 4). In linea di principio - e nei rapporti sociali - per il piantatore lo schiavo africano era una specie di grande bambino, che si trattava di tenere sotto tutela, di disciplinare, di far lavorare e anche, indubbiamente, di 'educare'.

L'atteggiamento paternalistico aveva senza alcun dubbio una serie di effetti negativi sulla possibile reazione dello schiavo; esso lo rendeva inferiore moralmente mentre nello stesso tempo lo vincolava in qualche modo con un legame di carattere individuale al padrone, affievolendo così la solidarietà tra schiavi, frantumandola anziché rafforzarla. Sul piano positivo, tuttavia, esso era, da parte del padrone, più un compromesso che una imposizione: significava infatti riconoscere allo schiavo una personalità (e perfino una certa dignità) umana. I piantatori più coscienti (e forse più tormentati dal senso di colpa) erano i più portati a stabilire relazioni umane con gli schiavi; altri invece tendevano a liberare il rapporto da ogni elemento personale.

Ciò, sia detto per inciso, avvenne essenzialmente nelle Indie Occidentali, ove non tardò a prevalere la grandissima proprietà assenteista e dove i rapporti tra padroni e schiavi erano sovente ridotti al minimo (v. Sheridan, 1975, p. 385).

Qual era la misura del razzismo nei rapporti tra bianchi e neri? Indubbiamente la peculiare istituzione (come era definita la schiavitù nel vecchio Sud) generava automaticamente un atteggiamento razzistico per cui i neri erano considerati una razza 'inferiore', incapace di provvedere a se stessa e pertanto bisognosa della 'tutela' dei bianchi. Ma il continuo, diuturno contatto, addirittura la promiscuità tra bianchi e neri creava una maggiore comprensione e sopportazione tra le due etnie: un atteggiamento cui non erano estranei vincoli di simpatia, financo di affetto reciproco; ciò faceva sì che nei paesi schiavisti mancasse quell'atteggiamento di odio e di rancore verso i neri che si riscontrava invece nel Nord degli Stati Uniti.

I rapporti sessuali tra bianchi e neri si svolsero, in Brasile, alla luce del sole; nel vecchio Sud degli Stati Uniti essi vennero tenuti celati, ma esistettero; e secondo gli studiosi del problema, furono ben raramente fondati sulla violenza. Certo, il consenso delle donne nere era sovente dato nella speranza di ottenere una serie di vantaggi: non ultimo, quello dell'emancipazione per sé e i propri figli mulatti (v. Johnston, 1970, p. 213).

Contro le eccessive durezze gli schiavi avevano due armi: lavorare il meno possibile o fuggire nelle paludi. Quest'ultimo sistema era temutissimo dai proprietari, i quali cercavano di chiudere gli occhi su una serie di manchevolezze per non incitare gli schiavi alla fuga (v. Luraghi, La guerra..., 1978, p. 54).

Il nutrimento che veniva somministrato agli schiavi era in genere adeguato e senz'altro superiore a quello dei braccianti del tempo nelle risaie del Vercellese (lo schiavo riceveva in genere, in Virginia, un chilo e mezzo di carne la settimana, laddove un bracciante, secondo il rapporto Jacini, consumava carne solo una volta l'anno). Oltre a ciò era tacitamente ammesso che gli schiavi possedessero i propri animali da cortile e ne vendessero ai padroni la carne e le uova. Sebbene i padroni fossero liberi di somministrare punizioni corporali agli schiavi, esse erano in genere usate con moderazione, per non incitare alla fuga; d'altronde va ricordato che fin quasi alla fine del XIX secolo le punizioni corporali erano normalmente in uso sulle navi e nei collegi. Chiaramente (e questa era un'altra delle macchie della schiavitù) le punizioni corporali erano a discrezione dei padroni, tra cui non mancavano certo quelli disumani e crudeli.

6. L'abolizione della schiavitù

Sebbene il mondo della piantagione schiavista fiorisse per oltre due secoli, esso recava in sé i germi fatali del disfacimento. Pur essendo precapitalistico nella struttura e antiborghese nella mentalità, esso viveva all'interno del mercato capitalistico mondiale e ne subiva le leggi; ora, mentre il primo rimaneva immobile, il secondo si evolveva rapidamente; il mercantilismo cedeva il passo alla rivoluzione industriale, e il mondo generato da questa non aveva più bisogno della schiavitù, ma necessitava di vasti mercati ove esportare la sua enorme produzione e i suoi capitali, ove dominasse il lavoro 'libero', ove non vi fossero pastoie e intralci. La schiavitù era ormai antieconomica, una pietra di inciampo: doveva venire abolita (v. Luraghi, The rise..., 1978, p. 48).

Le Indie Occidentali, in cui il mondo della piantagione era più debole e più forti le sue contraddizioni, furono le prime ove l'istituzione venne eliminata. Non erano mancati sia nel Seicento che nel primo Settecento coloro che avevano attaccato la schiavitù sul piano morale: ma essi avevano trovato scarsa udienza. Ora invece l'opinione pubblica andava rapidamente volgendosi dalla loro parte. Il primo vasto movimento per l'abolizione della schiavitù si sviluppò in Inghilterra, trovando il proprio animatore in William Wilberforce. Il 1° gennaio 1808 il Parlamento britannico abolì formalmente la tratta; nel 1827 essa fu dichiarata reato punibile con la pena di morte. Infine, nel 1833 il Parlamento di Londra passò la legge che aboliva la schiavitù nelle Indie Occidentali (v. Parry e Sherlock, 1968, p. 186).

Gli Stati Uniti avevano posto fuori legge la tratta nel 1808. Il movimento umanitario contro la schiavitù si era sviluppato rigoglioso nel Sud, ove erano sorte le prime società per l'abolizione graduale: 106, sulle 123 esistenti allora negli Stati Uniti. Nel 1819 apparve nel Tennessee il "Manumission Intelligencer", il primo giornale abolizionista; nel 1816 fu fondata nel Sud l'American Colonization Society che, sotto l'auspicio del presidente Monroe, fondò in Africa lo Stato di Liberia, ove si poterono stabilire circa 20.000 ex schiavi. Nel 1832 l'Assemblea della Virginia, pur respingendo per uno stretto margine l'abolizione immediata, decise di continuare l'azione per arrivare all'emancipazione graduale (v. Miller e Smith, 1988, p. 787).

Se le cose fossero proseguite lungo questo cammino, anche negli Stati Uniti la schiavitù sarebbe scomparsa in un tempo più o meno lungo. Ma frattanto la rivoluzione industriale si era impetuosamente sviluppata nel Nord. Colà ora si tendeva a trasformare profondamente gli interi Stati Uniti in una 'grande repubblica' unitaria e moderna, a creare una omogenea nazione americana: in essa il Sud arretrato e schiavista era un corpo estraneo da eliminare. Uno dei primi passi fu l'imposizione di dazi protettivi che danneggiavano gravemente il Sud, costretto a finanziare lo sviluppo industriale nordista con l'acquisto forzoso dei prodotti settentrionali, più scadenti e più cari di quelli inglesi o francesi. Nello stesso tempo sorgeva sempre nel Nord, specialmente a opera di William Lloyd Garrison e del suo giornale "The Liberator", un movimento abolizionista violentemente aggressivo nei confronti del Sud cui si voleva imporre l'emancipazione immediata e senza indennizzo. Tale movimento rimase minoritario, ma il Sud, sentendosi (o credendosi) minacciato, mise ora da parte ogni dibattito sull'emancipazione e si preparò a difendersi da una ipotizzata aggressione.

La guerra civile esplose allorché il Sud, con la secessione, tentò di giocare la carta dell'indipendenza. Essa non ebbe né come causa né come fine iniziale l'abolizione della schiavitù: anzi, il presidente Lincoln e il suo partito erano intenzionati a offrire al Sud un emendamento costituzionale che vi garantisse indefinitamente la 'peculiare istituzione'. Lincoln stesso aveva un piano per l'abolizione pacifica che si sarebbe conclusa entro il 1900. La schiavitù però finì per essere usata come arma per piegare la resistenza del Sud. Il Proclama di emancipazione del 1862-1863 in effetti liberò solo gli schiavi delle zone 'ribelli' e non quelli degli Stati schiavisti rimasti fedeli all'Unione. Tuttavia il timore di Lincoln di aver ecceduto nei suoi poteri lo portò a varare il XIII emendamento alla Costituzione che eliminava effettivamente la schiavitù, ma che egli concepiva come programmatico e non precettivo. La morte per mano di un assassino impedì al grande presidente di realizzare tale programma; la schiavitù fu eliminata in maniera traumatica, il che lasciò una scia di risentimenti e di rancori che gravò sugli Stati Uniti per oltre un secolo e che non è ancora del tutto dissipata.

Mentre dunque nel Sud l'abolizione fu un sottoprodotto della guerra civile che la realizzò nel peggiore dei modi, in Brasile essa seguì un corso più normale. La pressione politica ed economica dell'Inghilterra aveva portato nel 1850 all'abolizione della tratta (v. Bethell, 1970, p. 153). Ma ora anche in Brasile la presenza della schiavitù allontanava i possibili emigranti dall'Europa nonché i capitali inglesi (v. Burns, 1970, p. 182); così il 13 agosto 1888, in gran parte per impulso dell'imperatore Pedro II, fu passata la legge di abolizione, detta la 'legge d'oro': la schiavitù aveva in tal modo cessato di esistere nell'intero Nuovo Mondo e il ciclo dell'istituzione nell'età moderna poteva dirsi concluso, anche se essa sopravvisse (e qua e là sopravvive) dove inizialmente era nata: cioè nel continente africano. (V. anche Servaggio).

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