BETTINELLI, Saverio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 9 (2017)

BETTINELLI, Saverio

Carlo Muscetta

Nacque a Mantova il 18 luglio 1718, da Paola Frugoni e da Girolamo. là probabile che le condizioni di famiglia non fossero troppo umili, se fu ammesso a frequentare il collegio dei gesuiti della città natale. Dopo avere studiato a Bologna e a Novellara (Reggio Emilia), entrò nell'Ordine a vent'anni, e, data la sua complessione, fu destinato non a predicare, ma allo studio e all'insegnamento delle lettere.

A Brescia, dove iniziò la carriera di insegnante come maestro di rettorica, pubblicò i suoi primi versi, nel 1740, con lo pseudonimo di M. Versajo Melasio. Fra le composizioni giovanili, in prevalenza giocose, il B. considerò primo lavoro degno di nota il poemetto in ottave Il mondo della luna, e più volte lo ristampò (Opere, ed. Cesare, XVII, pp. 137 ss.).Trasferito a Bologna nel 1744, mentre insegnava al collegio S. Luigi, compì i corsi di teologia e fu ordinato sacerdote. Per il collegio di Bologna scrisse il Gionata; a Parma scrisse il Demetrio Poliorcete ossia la virtù ateniese (1754) e il Serse (1756).

Le tre opere, raccolte poi in volume nell'edizione di Bassano del 1771,e successivamente ristampate con discorsi critici sulla tragedia francese e italiana (Opere, XIX e XX), ebbero un certo successo. Nell'ambito del gusto classicistico e nei limiti dell'imitazione dei teatro di Racine, Corneille e Voltaire, queste opere, destinate a rinnovare il repertorio moralizzato per le recite degli educandi, erano di qualche rilievo nel diffuso basso livello e nella crisi endemica del teatro, ed infatti poterono esercitare una suggestione sia sul Saul dell'Alfieri (non tanto per il tema biblico del Gionata, quanto per quello del tiranno maniaco del Serse) sia sull'Aristodemo del Monti.

Affermatasi nel più moderno ambiente di Venezia, dove insegnò rettorica tra il 1748 e il 1751 (si vedano i ricordi di questo periodo nel poemetto Parnaso Veneziano, Venezia 1765), la mondanità letteraria del B. cominciò a nutrirsi di più alte ambizioni, e il suo vero ingegno cominciò a rivelarsi nel poemetto satirico Le raccolte, pubblicato nel 1751. Chiamato al Collegio dei Nobili di Parma, vi insegnò fino al 1757, salvo le interruzioni di vari viaggi per l'Italia (che gli ispirarono alcune delle epistole in versi) e in Germania, nel 1755, come precettore dei principi Hohenlohe, che poi accompagnò anche in Francia.

Con la ripubblicazione delle Raccolte (Milano 1752), coi Versi sciolti stampati sotto lo pseudonimo di Diodoro Delfico (Milano 1755), e soprattutto con gli Sciolti di tre eccellenti autori (Venezia 1758; ma, in effetti, dicembre 1757), il B. faceva il suo ingresso, tutt'altro che modesto e silenzioso, nel Parnaso contemporaneo. Gli Sciolti presentavano infatti il giovane autore in compagnia di scrittori già affermatisi (il Frugoni e l'Algarotti), ed erano seguiti da un'appendice esplosiva, nonostante il titolo anodino: Alcune lettere non più ristampate; quelle cioè che divennero famose come Lettere virgiliane.

Il volume fu pubblicato quando il B., già in viaggio nel novembre 1757, era giunto a Parigi, donde si mosse, per visitare il Rousseau a Montmorency e il Voltaire a Ginevra, nel novembre 1758.

Documenti di questo viaggio e di questi incontri sono i diari, solo parzialmente editi, e le vivacissime lettere al minor fratello Gaetano. Se non per commissione, certo con licenza dei superiori aveva incontrato il Voltaire e gli aveva fatto omaggio del suo ormai famoso volume, sicuro di non dispiacere a colui che già aveva sconsacrato il "divino" poema dantesco. Quale che fosse l'ambiguità reciproca di tali rapporti, certo è che essi servivano ad accreditare la sua fama di spregiudicato innovatore, che il B. coltivò per meglio assecondare il successo alla sua pubblicistica di conservatore illuminato.

Ma dopo aver conosciuto i più famosi scrittori del tempo, tra cui l'Helvétius, e goduto "la pace e l'ozio e la libertà" in mezzo ai suoi confratelli francesi, tornato in Italia nella primavera del 1759 il B. lasciò il Collegio dei Nobili di Parma per la casa di esercizi spirituali ad Avesa, presso Verona, dove si dedicò a un corso di "lezioni sacre", non sappiamo se ad ammenda dello scandalo suscitato con le Lettere virgiliane.Queste lezioni raccolse poi nel saggio con cui si aprono, come solenne e poco ameno vestibolo, le sue opere complete: Ragionamenti filosofici sopra la storia dell'uomo tratta dalla Genesi (Opere, I e I I).

Doveva passare ancora qualche anno prima che il B. riprendesse l'attività di scrittore. Vi fu invogliato dalla pubblicazione del Caffè,cui pensò di collaborare con. alcune lettere, che andò componendo tra il 1765 e 1766. Ma, interrotto il periodico milanese, le pubblicò poi in volume col titolo Dodici lettere inglesi sopra vari argomenti e sopra la letteratura italiana principalmente nuove e inedite (Venezia 1766), in appendice a una ristampa delle Virgiliane e degli Sciolti.Tre anni dopo una nuova opera, "sol abbozzata" e senza che vi potesse "dar l'ultima mano", fu pubblicata a cura di Pietro Verri: il saggio Dell'entusiasmo delle belle arti (Milano 1769). Intanto il B. era stato chiamato come prefetto delle scuole a Modena, e poi professore di eloquenza in quell'università (1772). Ma vi insegnò fiá quando lo sciogliménto della Compagnia di Gesù non l'obbligò a tornare a Mantova, nel 1773, dove visse tutt'altro che estraneo alla vita culturale della città di cui fu anzi ispiratore e promotore, attraverso l'Accadernia Virgiliana. Qui, dopo aver pubblicato un poemetto giovanile, Ilgioco delle carte (Cremona 1774), riordinava i materiali delle lezioni tenute a Parma e attendeva alla stampa della sua opera di più ambizioso disegno: Del Risorgimento d'Italia negli studi nelle arti e nei costumi dopo il Mille (Bassano 1775)

Tranne scritti d'occasione o di assai marginale importanza, avendo ormai superato la settantina, si diede a raccogliere, presso l'editore Zatta di Venezia (1780-1782), le sue opere complete in otto torni. Le novità principali erano costituite da una dissertazione introduttiva Sopra lo studio delle belle lettere e sul gusto moderno di quelle (1780) a carattere autobiografico e apologetico; un Discorso sopra la poesia italiana, premesso al tomo V; un Saggio sull'eloquenza (1783) nel tomo VIII, con cui si concludeva l'edizione.

Sono scritti in cui è eliminato ogni possibile equivoco sulle sue posizioni ideali, ribadite con fermezza anche nelle postille e nelle note che andò poi aggiungendo ai suoi lavori. La rivoluzione americana aveva profondamente allarmato la vecchia Europa. Anche il B. riprendeva il posto di lotta e ritrovava supreme energie per la difesa della vecchia Italia.

Negli altri ventisei anni di vita, che ancora gli avanzavano ebbe l'agio di curare una più ampia, anche se men corretta, edizione delle sue opere in 24 tomi (Venezia, Cesare, 1799-1801), dove furono inclusi quasi tutti gli scritti che era andato via via pubblicando, e dei quali solo qualcuno replicava e svolgeva i vecchi motivi della sua critica, come il discorso Delle lodi del Petrarca (Bassano 1786) e la Dissertazione accademica sopra Dante (1800; Opere, XXII), importanti tuttavia entrambi come espressione compiuta del suo pensiero, che è rimasto tutt'altro che inefficace nella storia della critica di questi due autori, benché il moralismo cattolico sia il presupposto per l'esaltazione del Canzoniere come poema di redenzione, e il rifiuto polemico della struttura ideale della Commedia abbia avuto fino al Croce sviluppi non certo positivi per la comprensione del capolavoro dantesco.

Le Lettere d'un'amica (Guastalla 1785), le Lettere di Diodoro Deffico a Lesbia Cidonia sopra gli epigrammi (Bergamo 1788), con ampia scelta di versi francesi tradotti o imitati con mediocre inventiva, furono le più notevoli tra le ultime prose con le quali il "vecchio Nestore dei letterati italiani" volle recare il suo contributo di moralista alla produzione mondana e galante "color di rosa". Il B., rivolgendosi alle donne, mirava a una più facile popolarità e a divulgare, col suo "buon gusto" moderno, le sue "sane" idee. Tali sono le Lettere XX di una dama ad una sua amica su le bellearti, del 1793 (Opere,XXIII). Ultimi saggi di questa produzione pseudo-femminista sono i Dialoghi sull'amore (Rovereto 1796), che avev'ano come obiettivo polemico la letteratura romanzesca, in particolar modo quella straniera dal Richardson al Rousseau.

Vecchissimo, il B. continuava a intervenire, e non senza risultati, nelle discussioni di letteratura contemporanea, con quella acidità di poeta fallito che, come suonava l'epigramma del Monti, "tanto visse Da vedere obliato quel che scrisse". Visse tanto che, dopo aver elogiato in sciolti il dispotismo illuminato di Leopoldo II (Firenze 1791), poté scrivere un poema in 12 Cantl contro Napoleone, L'Europa punita,composto in gran parte tra il 1796 e il 1799 a Verona (dove il B. s'era rifugiato ospite del conte Giuliani), inmezzo allo "scoppio delle bombe e de' cannoni" che s'era illuso di aver evitato. All'Europa punita,nella quale si lanciavano aspre invettive contro "il predator della tradita madre", seguì la puntuale palinodia che quasi tutti i poeti scrissero in quegli anni d'imprevedibili rivolgimenti. E così compose i tre canti encomiastici del Bonaparte in Italia.

Pochi armi dopo moriva nella sua Mantova, il 13 dic. 1808.

A cominciare dagli Sciolti fino all'ultima edizione delle sue opere, il B. volle sempre presentarsi come un cervello costruttivo, che alla critica faceva seguire, meglio che gli astratti precetti, l'esempio concreto della poesia. In questo si credette originale e superiore agli altri critici settecenteschi. Ma i suoi versi sono chiaramente prosastici, nel gusto dell'epître filosofica, sebbene tutt'altro che eleganti ed armoniosi, e per il loro netto intento ideale si tengono sempre distanti dalle banalità dei versi di occasione.

Da ricordare gli sciolti a Mantova (1754), esaltazione della Patria che risorgeva grazie alla dea Industria, riformatrice della produzione agraria, dove le lodi per l'assolutismo illuminato si mescolano all'invettiva contro l'"empia" filosofia irreligiosa. Più felici sono i versi nei quali narra della sua visita a Genova (1753) e quelli dedicati al viaggio a Napoli (1754), che piacquero al Leopardi della Crestomazia e della Ginestra per il contrasto che il B., nel gusto settecentesco del pittoresco e del sublime, si proponeva di cantare, confrontando lo spettacolo idilliaco della natura e l'improvviso orrore di un'eruzione. I versi dei poemetto Le raccolte sono i più aderenti alla natura combattiva del gesuita, quelli che più si avvicinano ai pamphlets, sebbene le qualità di prosatore, che dimostrerà in seguito, siano senz'altro superiori a quelle del poeta. I modelli del poemetto sono il Lutrin di Boileau e The battle of the books di Swift; l'ottava è maneggiata con facilità, ma senza le sorprese di un particolare scatto: si ravviva solo negli sgambetti polemici, distribuiti un po' indiscriminatamente contro tutti, dagli Arcadi grecheggianti, ai lirici danteschi.

Il poemetto Le raccolte era stato composto a Venezia nel 1750 in occasione delle nozze di un nobile scolaro, Andrea Comaro. Fu allora che cominciò a maturare l'antidantismo del B., provocato dagli accademici Granelleschi con le loro meschine imitazioni della Commedia. Lo stesso Cornaro gli propose, secondo quanto asserisce il B. stesso, di premettere al poemetto delle lettere critiche che invitassero i lettori all'acquisto del libro. Così dunque sarebbero nate le Lettere virgiliane. Ma molti dubbi sono stati avanzati sulla casualità della loro composizione.

Le prime tre lettere contengono una sorta di processo alla Commedia.La relazione è tenuta da Virgilio, che è più moderato nelle critiche rispetto all'impaziente stroncatura in cui prorompe Giovenale.

Nelle altre lettere, dopo varie riserve tattiche, si passa alla esaltazione di Petrarca e di Ariosto (IV e V), alla liquidazione del malinteso petrarchismo (VI e VII), all'influenza della letteratura francese in Italia e alla decadenza della nostra letteratura (VIII). A Virgilio pare opportuna una scelta e riforma dei poeti italiani, sulla base di una crestomazia ispirata a gusto classicistico e a criteri moralistici (IX). I versi inutili sono destinati a ingredienti di burlesche ricette (X) e infine in un "Codice Nuovo" si stabiliscono leggi per la poesia italiana.

La concezione delle Virgiliane ricorda i Ragguagli di Parnaso di Boccalini, sebbene per brio e per vivacità esse tendano ai grandi modelli della prosa illuministica. È impossibile tuttavia trascurare il quadro ideologico che è gesuitico, sia pure dei gesuiti che ritenevano oramai utile riabilitare Galilei e accettame le preferenze letterarie (Ariosto, non Tasso). Il B. sapeva benissimo di non essere un rivoluzionario a polemizzare con un'opera come lo Commedia, di cui a Roma era vietata la stampa, e dove cardinali e papi erano messi all'inferno. Ma questa conformistica e in parte scontata, anche se rumorosa, sconsacrazione della Commedia non era l'obiettivo principale dei critico militante, che si proponeva di gettare un allarme alla vecchia Italia, troppo passìva di fronte ai problemi contemporanei. Vigile e pronto ad intervenire nelle questioni culturali immediate, il B. si colloca ormai sulle orme dei rinnovatori, ma non per questo si può considerare un illuminista tout court. Degli illuministi egli adotta il linguaggio e condivide alcuni fini immediati, ma nonostante l'atteggiarsi a spirito libero e spregiudicato, resta legato alla Chiesa e alla sua milizia, pronto magari a contraddirsi ma attentissimo a non deviare dagli obiettivi strategici, e a combattere fino in fondo la sua battaglia. Ciò appare chiaro nelle opere di maggiore impegno, scritte successivamente.

Più interessanti, sebbene meno famose delle Virgiliane, sono le Dodici lettere inglesi sopra vari argomenti e sopra la letteratura italiana.

Il tono è quello moderno della pubblicistica contemporanea, l'autore assume l'aria distaccata e superiore di uno stranìero che guarda da italofilo alla nostra cultura. Ne risulta un quadro meno angusto e provinciale, dove la stessa questione dantesca è ridimensionata: ma sulla sostanza delle cose non v'è nessuna ritrattazione, anzi si palesa l'orgoglio di aver mostrato un coraggio tutt'altro che comune in "uomini da chiostro". Se prima, travestito da Virgilio, il B. dettava le regole del buon gusto, ora si traveste da inglese, affermando fieramente di essere uno spirito libero e indipendente, e spingendosi fino ad usare dei barbarismi, allo scopo di meglio colorire la sua finzione. Ma la sua anglomania è apparente: non lo soddisfano né Milton né Shakespeare e, "se non fosse una bestemmia", nemmeno Newton. In realtà, con l'espediente dello straniero spregiudicato, tende a sminuire l'anglomania dominante in Italìa, e ad insinuare la sua gallofobia, cioè il suo odio per le idee veramente nuove, capaci di segnare una svolta decisiva rispetto alla fiacca tradizione di un ben edulcorato classicismo.

Nella lettera X svolge la questione di fondo, come cioè il buon cittadino e il buon patriota si comporta nei confronti della letteratura nazionale e di quelle straniere. Qui si delinea un ideale di nazionalismo culturale benpensante, grazie a cui "l'un l'altro ci perdoniamo i patrii difetti" amandoci "soprattutto come compatrioti dei mondo". è il nazionalismo quale può porselo un gesuita, un "intellettuale organico" della Chiesa cattolica, il quale preferisce rimaner nel vago, sia quando si tratta di precisare le opere della letteratura francese che, dobbiamo proporci ad esempio, sia quando è da rifiutare la boria sciovinista e l'ignoranza tendenziosa dei francesi per cui della letteratura italiana giudicano solo sulle traduzioni, o fondandosi "sulla fede di Voltaire". La sola cosa accettabile senz'altro da Parigi e da Londra è la loro esemplare funzione di capitali "ove respira e si colorisce ognuno facilmente per averci unione di molti e molta unione di tutti".

Accanto a questo motivo della direzione unitaria di una cultura nazionale, si annunciano nelle lettere XI e XII alcuni temi che il B. svilupperà in successivi scritti. Contro le illusioni delle precettistiche, queste "macchine motrici immobili" o che "servono come cannocchiali, cioè non servono fuor che a coloro che hanno buona vista" egli promette una lettera che poi sarà il trattato Dell'entusiasmo. E un altro scritto promette, particolarmente di "suo genio", destinato a e trattare dell'istoria delle scienze "delle arti in Italia", con un discorso che comprendesse "la nascita, la perfezione, la decadenza" della nostra letteratura, cioè il Risorgimento.

Le Lettere virgiliane erano solo un brillante pamphlet, in cui la polemica si manteneva su un piano facile e superficiale; le Lettere inglesi appaiono invece più pensate, complesse, ricche di futuro. Lo Stato della Chiesa aveva perduto il suo prestigio sul piano internazionale, ed era il più arretrato di tutta la penisola. Quali possibilità esistevano, in concreto, per Roma di riconquistare l'egemonia culturale unitaria e uniformatrice, organizzatasi così bene attraverso l'Arcadia?

Su questo problema (che era, in nuce e in forma utopistica, l'ideologia neoguelfa) il B. ritornerà più volte, e per esempio nella nota XVI aggiunta all'Entusiasmo (Opere,IV, pp- 328-344), dove troviamo delineato un vero programma di direzione culturale che auspicava l'egemonia del pontefice, svolta sul piano tanto della letteratura sacra che di quella profana.

Il saggio Dell'entusiasmo delle belle arti costituisce un trattato di estetica, ma non deve meravigliare che in margine ad esso si trattino questioni dì politica culturale. Infatti era vero - dice il B. - che la letteratura francese era ricca, interessante per la vivacità degli ingegni, ma lo era anche grazie ad una formidabile organizzazione "che quasi direbbesi teocratica"; si augurava perciò per l'Italia "una alleanza pacifica e filosofica da Palermo a Torino", cioè una buona ideologia ufficiale e livellatrice, che avrebbe offerto "il modo di purgare la terra di mille libri perniciosi o inutili". A queste conclusioni si giunge nella terza parte dell'opera, una sorta di appendice storica dove si conduce un parallelo tra la grandezza e decadenza culturale della Grecia e dell'Italia. Ma anche le due prime parti no sono propriamente teoriche, benché egli si ingegni di definire "l'entusiasmo", conciliando il filone platonico e neo-platonico del gesuita padre Ceva, e l'edonismo sensista dei cardinal Bernis.

Dopo aver analizzato i sei gradi dell'entusiasmo, nella seconda parte del lavoro, premessa una distinzione (ormai rituale nell'estetica settecentesca) tra i "geni" e gli "ingegni", si passa a una caratterizzazione degli artisti in base alla loro facoltà di manifestare i vari gradi dell'entusiasmo. Tuttavia la esaltazione della libertà degli artisti e della loro sensibilità naturale, ha un che di generico e di ecletticamente oscillante ed estemporanco, non approfondito in ulteriori meditazioni e non suffragato e verificato dalla pratica stessa del critico. Tutte le intuizioni più suggestive del B. si potrebbero definire preromantiche, se giudicando la letteratura contemporanea egli avesse dimostrato coscienza di certe novità e serìa capacìtà di avvalorarle in concreto.

Ma il suo saggio era al solito nato da fervore praticistico e polemico, piuttosto che dal bisogno di accompagnare con una meditazione filosofica la sua attività di critico militante. La quale del resto si manifestò prevalentemente in giudizi perentori, quando espresse i suoi solleciti rifiuti, le sue boriose incomprensioni, le sue fatue riserve e i suoi riconoscimenti a denti stretti, per tutto ciò che dì valido o di significativo fu prodotto dagli artisti o scoperto dai critici di qualche talento creativo, non infrenati da remore confessìonali come lui stesso, più che mai preoccupato degli "abusi" ed "esagerazioni dei talenti", cui dedica tutto un capitolo alla fine dell'opera (Opere, IV, pp. 224-36). Si comprende perciò quel suo costante paternalistico magnificare i minimi e immeschínire i maggiori.

Critico militante dell'orecchio e dell'immaginazione, il B. si può dire che abbia effettivamente più militato che criticato. Infatti, a proposito dei contemporanei, le sole pagine in certo modo argomentate sono quelle sulla tragedia alfieriana (cfr. la Lettera al canonico De Giovanni, in Opere,XX, pp. 231-48). E anche qui, sulla comprensione critica prevale l'acume polemico che tuttavia si appunta con intelligenza sugli aspetti più importanti (in particolare su quelli negativi) dell'arte di Affieri. Il quale avendo adempiuto il suo voto di una tragedia ispirata all'"entusiasmo della libertà" (cfr. il discorso Del teatro italiano, in Opere, XX, p. 85), aveva tutte le caratteristiche del gusto "dantesco" per provocare la più sviscerata antipatia nel B., in quanto impersonava quella figura di poeta-filosofo il cui avvento nella letteratura italiana il B. stesso aveva invano tentato di scongiurare. Nulla di più diverso fra la ribelle anarchica, ma civilmente rinnovarrice concezione affieriana del poeta liberuomo e lo scrittore infrenato e protetto, come lo vagheggiava il B., nel quadro di una cultura paternalisticamente organizzata.

Nella storia dell'entusiasmo in Italia il B. avventurò alcune idee che, per riuscire persuasive, avevano bisogno di documentazione. L'opera in cui le "pruove di fatto" potevano dare "valore alle filosofiche congetture" fu il Risorgimento d'Italia (cfr. ed. Remondini, Bassano 1786, p. VII).

In quest'opera il B. non nasconde le sue ambizioni ad elevarsi da pubblicista a storico, di un nuovo e moderno indirizzo, del quale anzi vorrebbe apparire pioniere (II, pp. 4 ss.).

In realtà fra la raccolta dei materiali (cui provvide nelle sue lezioni a Parma) e la rielaborazione, terminata nel 1772, i nuovi metodi storiografici avevano avuto tutto il tempo di circolare (da Voltaire sino al Denina), senza contare che l'idea di una storia civile contrapposta a quella prevalentemente politica e militare aveva già informato la polemica del Giannone. L'opera è concepita didascalicamente (cfr. Le voyage du jeune Anarcharsis en Grèce di J. J. Barthélemy), come una specie di viaggio attraverso i secoli: l'autore confessa apertamente i suoi limiti anche per giustificare la rapidità con cui scrive. Ma i difetti di struttura risiedevano non tanto nell'intrinseca difficoltà di tracciare una storia della cultura italiana a quel tempo, quanto nella insufficiente preparazione e meditazione del Bettinelli. Nella prima parte (dove si va dallo stato d'Italia prima del Mille al Quattrocento) il quadro del "risorgimento" di "tanti studi, e studiosi" mostra come la cultura sia stata diretta e organizzata nei vari "centri" (città, scuole, ordini religiosi e accademie) e quali intellettuali siano emersi nella produzione. Nella seconda parte il lettore avrebbe invece seguito il "risorgimento nelle arti e nei costumi", sotto cui si comprende "la storia della Lingua, dell'Eloquenza, della Poesia, della Musica, della Pittura, e dell'altre compagne" e tale storia sarebbe poi stata illustrata con "alcun cenno del Commercio, e del Lusso, delle Feste e degli Spettacoli, della Milizia, e degli Usi italiani". Ma nell'esecuzione quest'ordine ebbe poi qualche mutamento. Notevole è il capitolo secondo (Eloquenza e Poesia) dove si discutono i nessi tra la letteratura e il costume civile, in particolare il costume femminile, tra l'eloquenza e la vita religiosa. Segue il capitolo III tutto dedicato alla poesia, che ci dà un nuovo e più ampio disegno (cronologico fino al '400, e per generi nel '500) della letteratura italiana esaminata nel suo svolgimento e non più subordinata alla storia generale della cultura e della società. I capitoli IV e V sono dedicati alle arti della musica e del disegno con alcune consideraziom sul rapporti di tali arti con la poesia, e non senza un'intelligente attenzione all'urbanistica e cenni sulle arti minori, che verranno poi ripresi negli ultimi capitoli.

Ma in coda al capitolo V è appiccicato un discorso sull'arte militare in un'"appendice" senz'altro titolo che viene ad interrompere insplegabilmente l'ordine didascalico, che pure l'autore aveva perseguito rischiando "or ripetizione, or conformità, e scambiamento fra i vari argomenti" (II, p. 5). In base a tale criterio, ci si poteva aspettare che tale appendice fosse collocata fra il capitolo VI dedicato alle Feste e spettacoli e il VII, dove si discorre dei Cavalieri erranti o paladini e romanzi e si tenta di considerare sociolo gicamente la nostra narrativa cavalleresca. Ma sarebbe vano e richiederebbe troppo spazio sottolineare, fra incongruenze e rattoppature, le novità degli argomenti delibati: per esempio, le pagine sulla storia della lingua, che meritano di essere ricordate nella storiografia della questione come anticipo delle teorie manzoniane.

Partito col programma di presentare uno "specchio obiettivo", in realtà il B. opera un netto rovesciamento della storiografia polemica laicista e anticlericale, divulgando una riabilitazione del Medioevo, che le erudite ricerche muratoriane avevano giustamente fondato e orientato. Ma se è giusto considerare il Risorgimento come un avvio alla storiografia neoguelfa, non bisogna dimenticare che si tratta di una fase iniziale a cui sono gompletamente estranei concetti storiografici maturati pienamente solo con le Rivoluzioni dell'89 e del '30.

L'eloquentissima pagina sulla democrazia comunale (I, pp. 96 ss.) non ci autorizza a trasformare il B. in un cattolico-liberale, perché il contesto generale dell'opera non nasce dal movimento pratico-ideale che maturò con l'opposizione alla dittatura napoleonica e con la Restaurazione. La "patria storia", era, secondo il B., "più degli Italiani che dell'Italia" (I, p. XLVI): distinzione assai importante, e poi ripresa dal Cantù, perché riesce a dissimulare un sostanziale rifiuto degli ideali unitari già presenti in molti scrittori del tempo, e che d'altra parte non implicava affatto il concetto di popolonazione. In realtà il pensiero dei B. non esce mai dal quadro ideologico e politico del progressismo e del dispotismo prudentemente illuminato. La contraddizione di fondo dell'opera stava tra l'audacia d'intraprendere una storia della cultura in Italia e l'angustia dei presupposti ideali. Comunque, resta notevole lo sforzo compiuto per presentare sotto forma di storicismo moderato quella sua corrente e conseguente polemica controilluministica, nella quale impegnò tutte le energie e le doti, per limitate che fossero, della sua mente. Dato il suo "punto di prospettiva", era difficile che andasse oltre l'apologia e la celebrazione; le sue vivaci e molteplici curiosità e la tollerante comprensione di alcuni giudizi particolari, non bastano a compensare la tendenziosità dell'insieme e la mutilazione di fatti e di interi periodi storici.

In conclusione, se si vuole giudicare in quale direzione si mosse l'operosità intellettuale del B. si deve evitare di collocarlo solo tra i movimenti ideali e letterari (tra il classicismo illuminista e la reazione prerornantica), come pure si deve evitare di presentare pagine isolate che possono farlo apparire ora come un attardato, ora come un precursore. Come altri uomini della vecchia Italia, sollecitato dal movimento reale della società a rinnovarsi, più egli cambiava abito e si mimetizzava, e più procurava di rimanere fedele a se stesso, cercando di tenere bene gli occhi aperti, appena comincio a comprendere l'ampia e vera portata dell'illuminismo. E prima ancora che la Rivoluzione fosse imposta in Italia dalle baionette napoleoniche, ebbe la grande sagacia di intuire che alle nuove idee andava opposta una linea. di resistenza elastica, identificata in una tradizione nazionale, atta a conciliarsi con le esigenze moderne. Pur avendo scritto di storia, di filosofia, di critica, non fu né un filosofo, né uno storico, né un critico, e, tanto meno, un poeta: gli mancava una autentica passione del vero e dei bello, mal surrogata da entusiasmo fattizio e libresco, proprio di chi, solo indirettamente, partecipa alla vita sociale e culturale di un paese in rinnovamento. Il suo ingegno altrettanto vivace quanto velleitario non fu né originale né creatore, tale cioè da imprimere in qualche opera un suggello formale inconfondibile. Per questo la misura intera delle sue qualità è possibile coglierla solo se non ci lasciamo divertire dal suo discorrere superficiale e come capriccioso, ma seguendolo dove egli, vuol giungere e non può nascondere il suo vero volto, le sue convinzioni, i suoi interessi ideali per cui militò costantemente e coerentemente. Entro quest'ambito è giusto riconoscergli quell'importanza che col tempo si è venuta più proporzionando nella sua vera prospettiva. Ché il B. fu maestro non solo ai minori conservatori della generazione successiva come il Borsa e il Galeani Napione, ma ad Alessandro Verri, agli Schlegel, e ai più autorevoli rappresentanti del neoguelfismo e del moderatismo, dal Cantù al Tommaseo, dal Gioberti al Bonghi.

Bibl.: Per le edizioni delle singole opere cfr.: C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus,I,Bruxelles-Paris 1898, coll. 1418, 1423, 1425; VIII, Suppl., Bruxelles-Paris 1898, col. 1831.Delle Opere complete uscirono, vivo il B., due edizioni: una in otto tomi (Venezia, Zatta, 1780);l'altra, più ricca, ma meno corretta, in ventiquattro tomi (Venezia, Cesare, 1799-1801).

Per la bibl. del carteggio, oltre al Sommervogel, cfr. A. D'Ancona-O. Bacci, Manuale della letteratura italiana, IV, Firenze 1894, pp. 477-485, e G. Natali, Il Settecento, Milano 1947, II, pp. 1201 s.

Quanto alle opere generali, monografie e bibliografie, cfr.: F. Galeani Napione, Vita dell'abate S. B. e Delle Lodi dell'abate S. B., in Vite ed elogi d'illustri italiani, III, Pisa 1818, pp. 165-210 e 211-227; C. Ugoni, Della letter. ital. nella seconda metà del sec. XVIII, Milano 1856-57, passim; D. Cortesi, Un gesuita del sec. XVIII, in Rass. naz., CIII (1898), pp. 710-70, Anonimo, Nel I centenario di S. B., in La civ. cattol., III (1908), pp. 641-656; IV (1908), pp. 147-163; G. Federico, L'opera letter. di S. B., Roma 1913 (cfr. G. Natali, Idee costumi e uomini del Settecento,Torino 1926, pp. 289-295, e C. Calcaterra, recens. a L. Capra, L'ingegno e l'opera di S. B., in Giorn. stor. d. lett. ital., LXIV [1914], pp. 210 ss.); M. G. Macchia-Alongi, Per una valutazione del B., in Riv. di sintesi letteraria, III (1937), pp. 31-62, (estratto); M. Fubini, Introduz. alla lettura delle "Virgiliane", in Dal Muratori al Baretti, Bari 1954, pp. 204-17; W. Binni, Fra Illuminismo e Romanticismo: S. B., in Preromanticismo italiano, Napoli 1948, pp. 59-88; N. Sapegno, La cultura letter. del Settecento, Roma 1957-1958; E. Bonora, L'abate B., in La cultura illuministica in Italia,Torino 1957; C. Muscetta, S. B., in Lett. ital. I minori, Milano 1960, v. Indice. In mancanza di un lavoro monografico sull'attività culturale della Compagnia prima e dopo lo scioglimento, cfr. J. Crétineau-Joly, Histoire de la Compagnie de Jésus, 2 ed., Paris 1846, IV, pp. 264-65; N. Tommaseo, G. B. Roberti, le lettere e i gesuiti nel sec. XVIII, in Storia civile nella letteratura,Torino 1872, pp. 317-364; V. Cian, L'immigrazione dei Gesuiti spagnoli letterati in Italia,Torino 1894. Sul B. drammaturgo, F. Colagrosso, S. B. e il teatro gesuitico, Firenze 1901.

Per l'importanza e la preminenza del Petrarca, sia nella formazione del gusto nelle adunanze letterarie dei gesuiti a Bologna, sia nella poetica e nell'estetica del B. cfr. A. Bonfatti, Il Petrarchismo critico di S. B., in Giorn. stor. della letter. ital. CXIII (1936), pp. 1-51.

Per le Raccolte, cfr. la ristampa curata da P. Tommasini-Mattiucci (Città di Castello 1912) e lo studio di F. Colagrosso, Un'usanza letter. in gran voga nel Settecento, Napoli 1899.

Per le Lettere Virgiliane, cfr. l'edizione a cura di P. Tommassini-Mattiucci (Città di Castello 1913) e l'importante ristampa, sebbene manchevole di scritti o parti che sarebbero stati utili alla completezza, con informatissima nota bibliografica, a cura di V. E. Alfieri, Lettere Virgiliane e Inglesi e altri scritti, Bari 1930: cfr. recensione di C. Calcaterra, in Giorn. stor. della letter. ital., XCVII (1931), pp. 108-120. Sulle Virgiliane, oltre al cit. scritto del Fubini, cfr. C. Calcaterra, Il Parnaso in rivolta, Milano 1940, pp. 259-280. Di carattere apologetico è lo scritto di E. Rosa, A Proposito del B. e delle sue "Lettere Virgiliane", in La civiltà cattolica, LXXX, 2 (1929), pp. 145-150.

Per le Lettere inglesi, cfr. la cit. ediz. dell'Alfieri. Sui rapporti col Voltaire, v. G. Federico, L'opera letter. di S. B., Roma, Napoli, Milano 1913, pp. 53 ss. Cfr. anche A. De Carli, Riflessi francesi nella opera di S. B.,Torino 1928.

Sull'Entusiasmo, cfr. B. Croce. Estetica, Bari 1928, pp. 266 s.; N. Sapegno, La cultura, cit…, E. Bonora, P. Verri e l'"Entusiasmo" del B. (con lettere inedite di P. Verri), in Giorn. stor. d. lett. ital. CXXX (1953)., pp. 204-25.

Sull'antialfierismo del B., cfr.: V. Cian, Per la fortuna dell'Alfieri, in Giorn. stor. d. lett. ital.,CXXVI (1949), pp. 337-73; W. Binni, Il giudizio del B. sull'A., in Rass. d. lett. ital., LXI (1957), pp. 62-65.

Sul Risorgimento del B., cfr.: B. Croce, Storiografia civile nel Settecento, in La letter. ital. del Settecento, Bari 1949, pp. 250-54; F. Tateo, Medioevo e rinascimento nel giudizio del B., in Dialoghi, III (1955), pp. 271-286. Per la questione della lingua l'antitoscanesimo e il manzonismo ante litteram del B., cfr. l'introduzione di M. Puppo alle Discussioni linguistiche del Settecento, Torino 1957, pp. 51 ss., 71, 99.

Sulla fortuna del B. manca un lavoro che potrebbe, come è stato più volte osservato, provare l'ampiezza e la durata dell'influenza ch'egli esercitò. Cfr. alcuni appunti interessanti in G. Natali, Il Settecento, p. 1201 e la nota di V. E. Alfieri alla sua cit. edizione. L'articolo di P. Camporesi, De Sanctis e B., in La rassegna d. letter. ital., LVIII(1954), pp. 240-42, mentre nota alcune coincidenze particolari di giudizi sul Canzoniere petrarchesco, trascura di rilevare, nel quadro di opposizione di fondo tra i due scrittori, altre e più importanti affinità d'impostazione storiografica che, attraverso gli Schlegel e il Cantù sono assimilate e trasformate nella desanctisiana Storia della letteratura. Sulle impressioni piacevoli che provocò la lettura furtiva dei B. sul De Sanctis giovane cfr. La giovinezza, a cura di N. Cortese, Napoli 1930, P. 216.

Ma una congenialità autentica col B. si può trovare nella polemica moralistica del Cantù e del Tommaseo, nella concezione giobertiana del Primato (cfr. lo scritto polemico e senza contenuto storico di I. Rinieri, Il p. S. B. e l'abbate V. Gioberti, in La civiltà cattolica, I [1929], pp. 408-421, 504-512); nella linea tattica delle Lettere critiche del Bonghi (rinnovamento formale dissimulante una conservazione ideale) quando propugnò uno stile e una lingua popolare per la nostra letteratura. Cfr. l'introduzione di C. Muscetta a F. De Sanctis, La scuola cattolico-liberale, Torino 1953, pp. 46 ss.

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