SARDEGNA

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1999)

SARDEGNA

R. Serra

SARDEGNA (gr. É÷íï¯óóá, Óáñäþ; lat. Sardinia) Regione d’Italia costituita dall’isola omonima, la seconda per estensione del mar Mediterraneo, e da diverse isole minori.

La S. partecipò alle vicende che segnarono la crisi dell’Impero romano con caratteri propri e distinti e con un percorso storico separato, così da produrre, quale esito di un processo plurisecolare, forme politico-amministrative specifiche come i giudicati. La presenza cristiana stabilì un filo di continuità nel succedersi delle varie dominazioni. Il destino di terra d’esilio e di pena rese la S. luogo di precoce organizzazione ecclesiale soprattutto nelle città portuali, Cagliari (v.; sede vescovile fin dal sec. 4°), Sant’Antioco, Porto Torres. Furono questi i luoghi in cui l’eredità dell’arte classica venne raccolta dai cristiani.

L’occupazione dei Vandali (455-533), già stanziati nell’Africa settentrionale, rinnovò il legame che unì le sorti della S. a questa terra, donde poterono attingersi schemi e formule classiche. L’insediamento bizantino (534) introdusse nell’isola moduli artistici orientali insieme al rito greco, permeandola in profondità, mentre pare aver impedito militarmente stanziamenti longobardi e musulmani, almeno di lungo periodo. L’organizzazione amministrativa bizantina, specie in seguito alla conquista araba dell’Africa mediterranea e della Sicilia, con la relativa recisione dei contatti con Costantinopoli, evolvette, secondo un processo non ancora interamente chiarito, in forme di completa autonomia dall’impero d’Oriente, maturate, intorno al sec. 9°-10°, nei quattro giudicati di Cagliari, Arborea, Porto Torres e Gallura.

Dalla metà del sec. 11° cominciò a manifestarsi concretamente l’interesse di Pisa e Genova per l’isola, sotto forma di alleanze politiche e di concessione di privilegi economici e doganali. Agli inizi del sec. 13°, l’insediamento della colonia pisana nel castello di Cagliari rafforzò la presenza commerciale e culturale della città toscana nell’isola, determinando il corso degli eventi culminanti nella caduta del giudicato di Cagliari in mano pisana nel 1258; l’anno successivo, l’estinzione della linea dinastica diretta in quello di Porto Torres ne segnò la fine con l’infeudazione di gran parte della S. a signori pisani e genovesi. Soltanto il giudicato di Arborea si mantenne sovrano, per cadere sotto il dominio aragonese al principio del sec. 15°, dopo una lunga lotta iniziata con lo sbarco degli Aragonesi nel 1323 e la conquista della Cagliari pisana nel 1326. Occorre precisare che a una migliore definizione di questo quadro scarsamente concorrono sia le fonti storiche, certo non abbondanti, sia i resti monumentali. L’indagine archeologica e storico-artistica ha tuttavia acquistato un crescente rilievo rispetto al passato. Negli ultimi decenni, ritrovamenti materiali rilevanti per numero e per qualità hanno infatti contribuito a ricostruire un’immagine del Medioevo sardo assai meno povera e marginale di quanto non apparisse precedentemente.

Se permane sulla cultura artistica dell’isola la valutazione di una scarsa incidenza dell’arte romana nel suo ruolo di medium di classicità (Maltese, Serra, 1969), testimonianze di una produzione tutt’altro che secondaria, per l’epoca tardoantica e protobizantina (secc. 4°-5°), si configurano in frammenti di sarcofagi marmorei (Cagliari, Mus. Archeologico Naz.). Essi documentano temi e aspetti della scultura funeraria cristiana, in cui è lecito includere anche due sarcofagi con Orfeo, l’uno, frammentario, a Sant’Antioco (coll. Biggio) e l’altro conservato nella cripta di S. Gavino a Porto Torres. Nelle colonne di questa basilica romanica a tre navate si reimpiegarono capitelli isiaci del sec. 2°, con serpenti rampanti, rilavorati nel sec. 5° in forma di colombe, cantari e clipei crociati (Poli, 1997). Allo stesso periodo risalgono taluni elementi di arredi marmorei (Sant’Antioco, coll. Biggio), quali la colonnina di sostegno a una mensa d’altare, con capitello a quattro foglie carnose, rinvenuta negli scavi di Cornus (Cuglieri, Raccolta Archeologica), un’altra frammentaria, dal fusto decorato con motivo fitomorfo che sormonta una fascia di volti umani, e un coevo capitello con pulvino cubico crociato. Da segnalare, infine, la presenza a Oristano (S. Francesco, tesoro) di un argento costantinopolitano con epigrafe di Teodosio il Grande (380-391), riutilizzato nel quattrocentesco reliquiario di s. Basilio.

Espressione diretta di un’officina costantinopolitana del sec. 6° sono il capitello a cesto di vimini intrecciati con quattro colombe (Cagliari, Mus. Archeologico Naz.), pervenuto da imprecisabile recupero subacqueo, e un altro a foglie d’acanto stilizzate (Cuglieri, Raccolta Archeologica), proveniente da Cornus, entrambi importati al pari di altri manufatti ancora inediti (Decimomannu, Mulargia, Settimo San Pietro). Agli inizi dello stesso secolo, tra la fine della dominazione vandalica e l’inizio dell’età bizantina, rimontano un plinto con croci gemmate ai cui lati sono il sole e la luna in alto e due agnelli in basso, nonché le mensole a foglie d’acanto all’esterno del corpo cupolato del S. Saturno di Cagliari; schematizzano il decoro di queste ultime i capitelli a stampella e le mensole di Cornus (area basilicale di Columbaris) e di Sant’Antioco. All’età e alla presenza militare bizantina nell’isola sono state riferite diverse classi di fibbie bronzee o in metallo prezioso con decoro geometrico o fito-zoomorfico.

Nella povertà di resti materiali della fine dell’Antichità e dell’Alto Medioevo in S., tali reperti valgono anche quali tracce di edifici di cui si è perduta persino la memoria. Si conserva ancora il monumento cardine dell’architettura sarda tardoantica, il martyrium di S. Saturno (o S. Saturnino) a Cagliari, impiantato a croce greca libera con cupola all’incrocio dei bracci mononave intorno alla metà del 5° secolo. Ai primi decenni del sec. 6° l’edificio fu ampliato affiancando navatelle a ciascun braccio, secondo un progetto inteso a stabilire un percorso devozionale intorno al sepolcro venerato. Dell’impianto originario, dopo gli interventi dei monaci vittorini nel sec. 11°, restano i quattro archi, cui s’innestavano altrettanti bracci per segnare la pianta cruciforme, e alcuni corsi di conci della cupola emisferica. La tipologia basilicale a tre navate (secc. 5°-7°) è invece attestata a Tharros, Porto Torres, Nurachi (prov. Oristano) e specialmente nell’area episcopale di Cornus, ancora oggetto di scavo archeologico, e si accompagna perlopiù alla presenza del battistero, segnalato anche a Dolianova (prov. Cagliari) e Usellus (prov. Oristano). Fu tuttavia la facies mononave della basilica di S. Saturno ad agire da modello per i costruttori di santuari risalenti ai secc. 5°-6° (San Giovanni di Sinis, Sant’Antioco), come per altri edifici religiosi, eretti tra la fine del sec. 9° e i primi dell’11°, che si uniformano a tale schema (S. Teodoro a San Vero Congius e il santuario della Madonna di Bonacattu a Bonarcado, in prov. di Oristano; S. Elia a Nuxis e S. Salvatore a Iglesias, in prov. di Cagliari; Santa Croce a Ittireddu e S. Maria a Cossoine, in prov. di Sassari). All’impianto tipico dell’edilizia bizantina di epoca macedone riporta il S. Giovanni di Assemini (prov. Cagliari), a croce inscritta con cupola entro tiburio. Assoluta singolarità riveste la presenza in S. di un edificio ancora una volta cruciforme quale l’oratorio delle Anime a Massama (prov. Oristano), in cui la pianta a ferro di cavallo dell’abside suggerisce tangenze con l’architettura iberica visigota.

Una sostanziale continuità nella tradizione lapicida locale, fra Tardo Antico e Alto Medioevo, si individua nella preferenza per l’opus quadratum e nella persistenza di temi ornamentali di ascendenza classica nella decorazione scultorea di epoca mediobizantina (secc. 9°-11°). Quest’ultima annovera un insieme di elementi di arredo marmoreo presbiteriale rilevante per quantità e qualità, dotato di caratteri originali pur nella stretta affinità con la coeva plastica campana. Si tratta di plutei, pilastrini, capitelli e archetti di ciborio, segnalati specialmente nel territorio di Cagliari, il cui Mus. Archeologico Naz. custodisce i marmi provenienti dai ruderi di S. Nicola di Donori e quelli recuperati in mare presso l’isola di S. Macario (Pula). Questi ultimi comprendono un notevole pluteo con grifo e pegaso affrontati all’albero della vita; stilisticamente affini sono i reperti di Assemini, Monastir, Maracalagonis, Dolianova, Decimoputzu, Villasor, Samassi, Serrenti. Il gruppo numericamente più cospicuo si conserva nel santuario omonimo di Sant’Antioco (Porru, Serra, Coroneo, 1989) e comprende, oltre al canonico repertorio geometrico e fito-zoomorfico, alcune lastre con problematica figurazione antropomorfica. La presenza a Sant’Antioco (come a S. Giovanni di Assemini) di un’epigrafe con menzione dei primi giudici di Cagliari lascia ipotizzare una committenza aulica per questi come per gli altri arredi marmorei di epoca mediobizantina della S. meridionale.

Il Romanico, alla luce di scoperte recenti e nuove interpretazioni (Serra, 1989; Coroneo, 1993), non si configura più quale improvviso fenomeno d’importazione, avvenuto intorno alla metà del sec. 11°, senza una continuità con le forme artistiche preesistenti. Invero, nelle sue varianti e nei legami con diverse aree culturali del bacino mediterraneo occidentale, la fioritura romanica in S. risulta espressione dell’indirizzo politico dei singoli giudici, che iniziarono a manifestare il loro evergetismo a partire dal sec. 11°, con la costruzione di castelli (Fois, 1992) e soprattutto di chiese; queste ultime, a differenza dei primi, permangono in buono stato di conservazione e anche per ciò documentano un panorama architettonico fra i più significativi in ambito italiano.

L’attenzione del giudicato di Porto Torres verso il mondo europeo occidentale, attestata anche dal formulario cancelleresco, si manifesta nella grandiosa basilica a tre navate ad absidi affrontate di S. Gavino a Porto Torres, eretta in due fasi da comprendere entrambe nel sec. 11° (Poli, 1997), in cui maestranze di formazione tosco-lombarda diedero vita a una spazialità di chiara ispirazione tardoantica. Altra estrazione doveva avere l’architetto che, intorno alla metà del sec. 11°, progettò l’imponente chiesa palatina di S. Maria del Regno nella capitale turritana di Ardara (prov. Sassari), caratterizzata da un’adesione piena alla sintassi architettonica romanica. Giungevano probabilmente da Lucca l’Alberto maester menzionato nell’epigrafe della chiesa di S. Giovanni di Viddalba (prov. Sassari; entro la fine del sec. 11°) e le maestranze di quella di S. Nicola di Silanis in agro di Sedini (prov. Sassari), donata ai Cassinesi nel 1122, contraddistinte da un singolare purismo di marca classicista.

A partire da questi modelli e soprattutto dall’attività di mastros pisanos, che lo pseudo condaghe di S. Gavino ricorda attivi alla fabbrica della basilica turritana, si organizzò l’intero sistema formale dell’architettura romanica nella S. settentrionale, sia sulla grande sia sulla media e piccola scala dimensionale. Entro la metà del sec. 12° vennero erette: le cattedrali di S. Pietro di Bosa (prov. Nuoro), dal 1073, S. Pietro di Sorres, Sant’Antioco di Bisarcio (a esclusione del portico addossato successivamente alla facciata), Nostra Signora di Castro, S. Simplicio di Olbia (in granito al pari di poche altre chiese del giudicato di Gallura), S. Pietro di Galtellì (prov. Nuoro), dall’impianto non ultimato, S. Giovanni Battista di Orotelli (prov. Nuoro); la chiesa di S. Michele di Plaiano, donata nel 1082 all’Opera di S. Maria di Pisa; le abbazie della SS. Trinità di Saccargia (consacrata nel 1116), di S. Michele di Salvenero, di Nostra Signora di Tergu (prov. Sassari). La configurazione icnografica va dal tipo mononave (Castro, Plaiano, Tergu) a quello a tre navate (Ardara, Viddalba, Silanos, Bosa, Sorres, Bisarcio, Olbia) o a croce commissa (Galtellì, Orotelli, Saccargia, Salvenero); di speciale interesse è la parrocchiale della Madonna di Talia a Olmedo (prov. Sassari), caratterizzata dalla presenza della volta a botte continua in tutte e tre le navate. Particolare significato storico riveste la costruzione dell’abbazia cistercense di Santa Maria di Corte (prov. Nuoro), diretta filiazione di Cîteaux e opera di una comunità monastica giunta dopo il 1147; la pianta della chiesa, oggi quasi interamente distrutta, replicava fedelmente quella dell’abbazia di Fontenay. Nel sec. 13° i Cistercensi stabilirono nell’isola le abbazie di Nostra Signora di Paulis e S. Maria di Coros, presso Ittiri (prov. Sassari).

In generale, risultano tipiche del momento protoromanico la pianta a tre navate con unica abside e sistema di coperture misto (tetto ligneo nella navata centrale e volte, quando presenti, nelle navatelle), la perfetta tecnica stereotomica (prevalgono calcari e trachiti) e l’assoluta sobrietà delle ampie superfici murarie, appena irrobustite da paraste e da archetti tagliati a filo o gradonati. Simili modi formali si riscontrano nella cattedrale di S. Giusta, alle porte di Oristano, eretta nel 1120-1130 a opera di maestranze di educazione pisana, dalla cui facciata venne desunto lo schema poi applicato nell’abbazia camaldolese di S. Maria di Bonarcado (consacrata nel 1146), nel S. Paolo di Milis e nel S. Palmerio di Ghilarza (sec. 13°), in prov. di Oristano. Dal succedersi di due maestranze nel corso della medesima fabbrica derivano le differenze di paramento murario nella chiesa di S. Nicola di Ottana (prov. Nuoro), già cattedrale della soppressa diocesi, consacrata nel 1160, con facciata tripartita sia in verticale sia in orizzontale. All’irradiazione delle maestranze già attive alla fabbrica di S. Maria di Bonarcado si deve la costruzione di alcune piccole chiese nel giudicato di Arborea, ascrivibili alla seconda metà del sec. 12° (S. Gregorio a Solarussa, Madonna della Mercede a Norbello, S. Pietro a Bidonì), che ben rappresentano il tipo mononave di minime dimensioni, ampiamente diffuso nell’intero ambito regionale per tutto l’arco cronologico del Romanico sardo. A navata unica è il S. Nicola di Quirra in agro di Villaputzu (prov. Cagliari), una fra le rarissime chiese romaniche sarde fabbricate interamente in cotto.

Nel giudicato di Cagliari, l’apertura ai linguaggi architettonici dell’Occidente europeo si deve all’insediamento dei monaci di Saint-Victor di Marsiglia, che nel 1089 ottennero dal giudice cagliaritano alcuni importanti santuari, veri fulcri devozionali della S. meridionale, quali S. Saturno di Cagliari (riconsacrato nel 1119), quello omonimo di Sant’Antioco e S. Efisio di Nora. I Vittorini ristrutturarono i primi due e ricostruirono ex novo il terzo, in forme protoromaniche franco-catalane; alla loro attività edilizia si deve probabilmente la fabbrica di singolari chiese a due navate absidate e coperte da volte a botte scandite da archi doubleaux, il cui tipo è rappresentato al meglio dalla piccola S. Maria di Sibiola presso Serdiana (prov. Cagliari). La successiva immissione di maestranze pisane diede origine dapprima a singolari esperimenti di ibridazione del Romanico franco-catalano con quello toscano (S. Platano di Villaspeciosa e S. Saturno di Ussana, a due navate; S. Maria di Uta, a tre navate), poi - a partire dalla metà del sec. 12° - all’aggiornamento alla moda pisana, rielaborata sulla base dei prototipi locali (chiesa di S. Giuliano di Selargius; ex cattedrali di S. Maria di Tratalias, consacrata nel 1213, e di S. Pietro di Suelli, tutte a tre navate). Anche nella S. settentrionale lo scorcio del sec. 12° fa registrare l’affermarsi dei modelli toscani, specie nella declinazione pisano-pistoiese che favorì l’adozione dell’opera bicroma nella S. Maria di Perfugas (prov. Sassari), del 1160, come nella fase più recente della SS. Trinità di Saccargia, del S. Pietro di Sorres e del S. Pietro di Simbranos (o delle Immagini) a Bulzi (prov. Sassari).

Tra i fenomeni più rilevanti del Tardo Romanico isolano è il diffondersi del repertorio decorativo ‘arabeggiante’ (Delogu, 1953) che emanò dal cantiere dell’ampliamento della S. Maria di Bonarcado (1242-1268) e raggiunse il Sud della S., attestandosi nel S. Gemiliano di Samassi (prov. Cagliari), in numerose altre piccole fabbriche del Cagliaritano (S. Pietro di Ponte a Quartu Sant’Elena, S. Barbara di Capoterra) e soprattutto nella ricostruzione della cattedrale di S. Pantaleo a Dolianova (1261-1289). Qui, allo stesso modo che in altri edifici minori, il Gotico compare più come inserzione di singoli elementi in testi architettonici ancora romanici che come linguaggio autonomo. Ciò vale a connotare tale transizione quale stadio di espansione estrema del Romanico, piuttosto che avvio coerente di un nuovo indirizzo. Ne è esempio significativo il S. Pietro di Zuri (prov. Oristano), dove convivono formule spaziali romaniche e gotiche; datato epigraficamente al 1291, è siglato da Anselmo da Como, cui si è proposto di riferire anche il prospetto gotico dell’ex cattedrale di S. Pietro di Bosa.

La diffusione dei modi gotici italiani avvenne per il tramite privilegiato degli Ordini mendicanti. I Francescani edificarono a Oristano la chiesa e il convento di S. Francesco (1250-1280); a Cagliari la chiesa di S. Maria del Porto e il complesso di S. Francesco nel borgo di Stampace (1274-1285); a Sassari S. Maria di Betlem (dal 1274); a Iglesias S. Chiara (1284-1288); perlopiù ne sopravvivono resti assai parziali. Le poche altre costruzioni riferibili al Gotico d’estrazione italiana (per es. il S. Pantaleone di Martis) danno certezza del fatto che l’effettiva cesura fra l’età romanica e quella gotica risale all’insediamento degli Aragonesi, a partire dal 1326. In campo architettonico, il mutamento di gusto fu netto e immediato. Il primo edificio costruito dagli Aragonesi durante l’assedio di Cagliari (1324-1326), la chiesa dedicata alla Madonna della Mercede sul colle di Bonaria (Serra, 1955-1957), offre i caratteri del Gotico catalano: aula a navata unica con cappelle laterali ricavate tra i contrafforti, presbiterio coperto da una volta ombrelliforme, archi ogivali, sagome e modanature gotiche; la torre campanaria si imposta, eccezionalmente, sul presbiterio, che, a differenza dei modelli della Spagna orientale, risulta meno alto e ampio dell’aula, istituendo così una tipologia poi canonicamente seguita nell’architettura religiosa della S. centromeridionale fino al 17° secolo.

Entro il primo decennio del sec. 14° il castello cagliaritano venne fortificato dai Pisani sotto la direzione dell’architetto Giovanni Capula, che appose la sua firma nelle uniche due torri integralmente superstiti, quella di S. Pancrazio (1305) e quella dell’Elefante (1307).

Il passaggio dal Gotico italiano a quello iberico è dichiarato nell’ampliamento tardoromanico della cattedrale di S. Maria di Castello, intrapreso allo scorcio del 13° secolo. Questo intervento comportò l’innesto di un transetto nel quale ancora si apre, a N del coro, la cappella di pianta quadrata e forme gotico-italiane, detta Pisana per distinguerla da quella a S, detta Aragonese, di pianta semiottagonale e forme gotico-iberiche, eseguita da un maestro di educazione catalana all’indomani della conquista di Cagliari. Nel quadro delle trasformazioni edilizie intraprese dai Pisani nel duomo, venne inviato a Cagliari - la colonia pisana più importante dell’isola - il pergamo di Guglielmo, scolpito nel 1159-1162 per la cattedrale di Pisa e sostituito nel 1310 con quello ‘nuovo’ di Giovanni Pisano. Giunto in S. così in ritardo, il capolavoro di Guglielmo non poté esercitarvi alcun influsso rispetto agli sviluppi della plastica locale, che già volgeva al Gotico.

La continuità con la tradizione altomedievale è da individuare nella coppia di plutei riferiti all’arredo marmoreo presbiteriale della cattedrale di S. Maria di Oristano (v.; inizio sec. 12°), raffiguranti l’uno Daniele nella fossa dei leoni, l’altro leoni con cerbiatti, caratterizzati da un rilievo bidimensionale ancora bizantino. Diversa plasticità contraddistingue, la coppia di leoni scolpiti nell’architrave del portale di facciata dell’ex cattedrale di S. Giusta, che al suo interno annovera capitelli rilavorati al momento della fabbrica romanica.

I primi esempi di scultura romanica sono rappresentati dai rilievi nel portale più antico del S. Gavino di Porto Torres e nei plinti del prospetto del S. Lussorio di Fordongianus (prov. Oristano). Nella generale scarsità di sculture isolane ascrivibili ai secc. 12°-13°, spiccano non tanto l’abbondanza di decori architettonici di tipo geometrico o fitozoomorfico o antropomorfico (perlopiù ripetitivi) nei peducci delle archeggiature, quanto piuttosto le emergenze del pluteo a intarsio minuto di S. Pietro di Sorres (fine sec. 12°-inizi 13°) e di alcuni marmi della cattedrale di Cagliari: un architrave a girali (metà sec. 13°) nel portale mediano della facciata neoromanica, un rilievo con leoni (erratico in sagrestia) e la lastra con il Pantocratore, attualmente murata nella cappella Pisana. A suggerire l’ipotesi dell’originaria appartenenza di quest’ultima all’antico prospetto della cattedrale cagliaritana sta la recente scoperta di due lunette romaniche frammentarie e di altri inediti marmi medievali reimpiegati nell’altare settecentesco della parrocchiale di S. Antonio Abate a Decimomannu.

La plastica bronzea annovera un acquamanile a forma di pavone, della prima metà del sec. 12° (Cagliari, Pinacoteca Naz.), e una coppia di picchiotti con protomi leonine (Oristano, Raccolta dell’Opera del Duomo), fusi nel 1228 da Placentinus per la cattedrale di Oristano. Simile al prototipo islamico dell’acquamanile di Parigi (Louvre) firmato da ^Abd al-Malik il Cristiano, il bronzo cagliaritano è stato riferito alla medesima officina ispano-moresca (Scerrato, 1967) o all’ambiente italo-bizantino, specie per gli ornati classicisti e la presenza della croce greca potenziata (Maltese, Serra, 1969).

Come unico esemplare superstite della scultura lignea di importazione tosco-laziale si segnala il gruppo di cinque statue policromate che compongono la Deposizione dalla croce (fine sec. 13°), già nella chiesa di S. Pietro di Simbranos e ora nella parrocchiale di S. Sebastiano a Bulzi.

Nulla è sopravvissuto dei corredi liturgici romanici in argenti, libri e ‘icone’, un tempo esistenti nell’isola ma ormai individuabili soltanto grazie a citazioni nelle fonti; alla metà del sec. 13° risalgono due gemellions limosini in rame con decorazioni a smalto (Ottana, S. Nicola, tesoro).

Il panorama della pittura sarda del Medioevo non si limita più, oggi, all’unica emergenza significativa, e nota da tempo, degli affreschi romanici della SS. Trinità di Saccargia, con Cristo e angeli nel catino absidale, la Madonna e tredici apostoli nella fascia della monofora e scene della Passione in quella inferiore, ascritti a mano tosco-laziale della seconda metà del sec. 12° (Toesca, 1927), che si è proposto di riconoscere nell’autore della croce di Pisa (Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo, già nr. 15; Maltese, 1962). Anzitutto si è arricchito il repertorio tardoantico e altomedievale, con le pitture negli arcosoli fra i più tardi del complesso catacombale di Sant’Antioco, con i brani affrescati nella residua conca nord della tríchora ipogea del S. Lussorio di Fordongianus e con il palinsesto pittorico nella chiesa rupestre di S. Andrea Priu a Bonorva (prov. Sassari), dove si è individuata una stratificazione dal Paleocristiano al Duecento. Purtroppo tali resti, pur avendo concorso a squarciare il silenzio dei documenti, nella loro estrema frammentarietà non giungono ad assumere, in assoluto, un significato di particolare rilievo.

La recente liberazione dagli intonaci di un ciclo affrescato con Storie del Vecchio e Nuovo Testamento nella chiesa di S. Pietro, ex cattedrale, di Galtellì, porta a riconsiderare il ruolo sostenuto dalla pittura parietale nel quadro del Romanico isolano, al quale fu certamente estranea la presunta, affermata predilezione per le superfici spoglie. A negare legittimità alla prospettiva tradizionale giungono la riscoperta e il restauro di un altro ciclo pittorico nella pur minuscola chiesa di S. Nicola di Trullas (prov. Sassari), donata nel 1113 ai Camaldolesi, le cui crociere ospitano le figure degli evangelisti e dei rispettivi simboli, la sfilata dei ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse nell’offerta dei calici all’Agnello mistico e le solenni schiere delle gerarchie angeliche. Si tratta di un ciclo che, addirittura, induce a riconoscere una piena conformità del gusto sardo per la decorazione murale a quello coevo in territorio italico, obbligando ormai a una necessaria revisione dei dati in sede storiografica (Serra, 1997).

Fra il sec. 12° e il 13° si collocano i lacerti di affreschi del S. Simplicio di Olbia, del S. Lorenzo di Silanus (prov. Nuoro) e dell’abside del S. Pantaleo di Dolianova (1289 ca.), oltre che la bizantineggiante figura di S. Giovanni Battista nella cripta di S. Restituta a Cagliari. Benché compromessi, più da restauri recentissimi che dagli interventi seicenteschi, gli affreschi con santi e scene neotestamentarie, perlopiù a carattere votivo, del S. Antonio Abate di Orosei (prov. Nuoro), della prima metà del sec. 14°, testimoniano l’attività di maestranze di prevalente educazione toscana (Poli, in corso di stampa), i cui esiti più alti sono individuabili negli affreschi della chiesa palatina di Nostra Signora di Sos Regnos Altos, nel castello di Serravalle a Bosa, che compongono un elaborato insieme iconografico comprendente, fra le altre scene e figure, nella parete destra l’Adorazione dei Magi, l’Ultima Cena e teorie di sante, nella controfacciata la Carità dei ss. Martino, Cristoforo e Giorgio, nella parete sinistra l’Incontro dei tre vivi e dei tre morti e il Martirio di s. Lorenzo. La presenza di s. Ludovico di Tolosa fissa il termine post quem al 1317, data della canonizzazione. Contro la proposta di ascrizione all’ambito del Maestro di Offida (Bologna, Leone de Castris, 1984) occorre ribadire la collocazione degli affreschi bosani non oltre la metà del sec. 14°, anche per le ragioni storiche precise che li qualificano come prodotto della committenza aulica arborense (Serra, 1994).

Per quanto attiene a tecniche pittoriche diverse dall’affresco, il giudicato di Arborea ne conserva le testimonianze più significative. A Oristano (Raccolta dell’Opera del Duomo) sono custoditi alcuni codici musicali con miniature, le più antiche delle quali sono ascrivibili al terzo quarto del sec. 13°: si trova nel palazzo arcivescovile oristanese (proveniente dall’ex cattedrale di S. Giusta) un dossale con la Madonna e santi, ascritto al senese Memmo di Filippuccio, che si accompagna a più tardi dipinti su tavola di matrice gotico-italiana, come il S. Domenico (Ploaghe, Pinacoteca), la Madonna del Bosco (Sassari, duomo), il trittico dei Ss. Nicola, Antonio Abate e Lorenzo (Sassari, Mus. Naz. G.A. Sanna), attribuiti rispettivamente all’ambito di Nicolò da Voltri e a Mariotto di Nardo. Quanto a significato storico e qualità pittorica, emerge il polittico di Ottana (S. Nicola), finora ascritto a un lorenzettiano per il quale non convince la proposta d’identificazione con il Maestro delle Tempere francescane (Bologna, 1969), di livello artistico meno alto. Il polittico fu dipinto espressamente per la S. fra il 1339 e il 1344, committenti il vescovo ottanese Silvestro e il futuro giudice arborense Mariano IV, menzionati nell’epigrafe ed effigiati ai piedi della Madonna con il Bambino nella cuspide centrale. Alla personalità di quest’ultimo - figura-chiave nella scena politica isolana della seconda metà del sec. 14°, quando in seguito alla conquista catalana di Cagliari divampò la guerra fra l’Aragona e l’Arborea - si deve l’orientamento filo-italiano della cultura arborense sino alla fine del secolo, ben oltre cioè lo spartiacque che segna per la restante parte della S. la prima fase del processo di ‘catalanizzazione’, che già appare interamente compiuto all’inizio del 15° secolo.

Per la scultura trecentesca, la precoce presenza nel giudicato di Arborea di un artista iberico è segnalata dal sarcofago della chiesa della Maddalena a Tramatza (prov. Oristano), recante lo stemma della famiglia sardo-catalana dei Bas, che nella fronte combina moduli figurativi romanici con un’iscrizione in caratteri gotici. Indicano la preferenza per la pala d’altare tardogotica rispetto ai cicli affrescati, usuali invece in ambito italico, la Madonna nera nel duomo di Cagliari (seconda metà sec. 14°) e il retablo del Rimedio nel duomo di Oristano. Quest’ultimo, attribuito concordemente ad artefici catalani, deve considerarsi un segno della volontà della committenza giudicale - accusata dalla presenza delle insegne araldiche - di aggiornarsi al gusto dominante alla corte d’Aragona. Consta di due gruppi di lastre marmoree, distinte per dimensioni oltre che sotto l’aspetto formale, recanti in riquadri con incorniciature architettoniche tardogotiche, l’uno l’Annunciazione e l’Incoronazione della Vergine, l’altro - che reimpiega i plutei romanici con Daniele nella fossa dei leoni e leoni e cerbiatti - il Cristo giudice, l’Annunciata e l’arcangelo Gabriele e santi disposti a coppie. La Madonna con il Bambino, policroma e a tutto tondo, si trovava probabilmente al centro del retablo, di cui ancora si discutono l’ambito e la datazione (Ainaud de Lasarte, 1959; Franco Mata, 1987; Serra, 1990).

I legami con la Toscana furono tutt’altro che recisi dal nuovo corso degli avvenimenti. Soprattutto il giudicato d’Arborea sembra mantenere saldo il contatto con l’Italia, ed è difficile escludere del tutto che ciò non sia dovuto a una volontà di affermazione della propria identità politica e culturale, nei confronti degli Aragonesi. In quel territorio è il Gotico di marca italiana a segnare il superamento del Romanico. A Francoforte sul Meno (Liebieghaus) si conservano tre statuecolonna in marmo (arcangelo Gabriele, Annunciata, profeta), provenienti dal duomo oristanese e attribuite a uno scultore di formazione pisana (1330-1340), affine all’esecutore dell’arca di s. Eulalia nella cripta della cattedrale di Barcellona, di recente identificato in Lupo di Francesco. È invece firmato da Nino Pisano (v.) il simulacro marmoreo di un santo vescovo nella sagrestia di S. Francesco a Oristano, opera tutt’altro che secondaria nella sua produzione e fra le poche (tre) a essere ritenuta autografa (1360-1368). Allo stesso artista furono inizialmente attribuite le due figure lignee del gruppo dell’Annunciazione conservate nel duomo di Oristano (Madonna Annunciata) e nella parrocchiale di S. Gabriele Arcangelo a Sagama (arcangelo Gabriele), in prov. di Nuoro. L’inquadramento si è in seguito orientato verso una cronologia più bassa (fine sec. 14°-inizi 15°) e la paternità è andata al Maestro della Madonna di Cerreto (Burresi, 1983), mentre Kreytenberg (1984), pur accettando tale proposta, ha distinto l’arcangelo, per cui ha indicato il Maestro dell’Annunciazione di Montefoscoli.

Anche nel resto dell’isola gli scambi con Pisa non furono interrotti dalla presenza aragonese, restando vivaci almeno fino alla metà del secolo. Ad Andrea, Nino o Tommaso Pisano è stata di volta in volta riferita la lapide funeraria di Vannuccia Orlandi (Cagliari, Pinacoteca Naz.; Burresi, 1983; Kreytenberg, 1984; Fiderer Moskovitz, 1986), proveniente dal complesso cagliaritano di S. Francesco di Stampace e datata 1345. L’attività della bottega è comunque documentata in S. dalla presenza nella cattedrale di S. Chiara a Iglesias di una campana recante un’iscrizione con il nome di Andrea Pisano, la data 1338 e il nome del committente, il giudice arborense Pietro III de Bas. A Cagliari la scultura gotica, che non ha goduto finora di sufficiente attenzione, è documentata da un acefalo Redentore in trono nella cripta della chiesa di S. Restituta, riferibile a modi senesi, forse dello stretto ambito napoletano formatosi con Tino di Camaino e perciò collocabile intorno al 1340. Una Madonna con il Bambino, sotto la cuspide del portale meridionale del transetto nel duomo, fu attribuita allo scultore senese; altre due si trovano, sempre a Cagliari, nella lunetta del portale sud della chiesa di S. Eulalia e nella Pinacoteca Naz. (quest’ultima assai danneggiata).

Fra il polo toscano e quello catalano si collocano anche i più significativi esemplari della scarsa oreficeria gotica di produzione sarda sopravvissuta: la croce d’altare (Ottana, S. Nicola) della seconda metà del sec. 14°, in lamina d’argento dorato, che è il più antico arredo con punzone civico di Oristano; il calice con patena recante il raro marchio di Alghero, già in S. Maria di Betlem a Sassari e ora nell’Ohio, a Toledo (Mus. of Art); la croce processionale della chiesa madre di Salemi (prov. Trapani), firmata nel 1386 dall’argentiere cagliaritano Giovanni Cionis, e quella della fine del sec. 14° nel S. Francesco di Oristano, che rappresenta il prototipo di larga parte dell’oreficeria arborense dal sec. 15° al 17° (Serra, 1988). Nell’ambito delle relazioni commerciali e culturali intessute dai Pisani con la Catalogna si colloca anche l’arrivo a Cagliari del retablo dell’Annunciazione, ascritto a Joan Mates e dipinto per la cappella gentilizia della chiesa di S. Francesco di Stampace, in cui fu tumulato nel 1410 quel Guido di Dono ricordato dall’epigrafe nella lastra tombale (Cagliari, Pinacoteca Naz.). La Pinacoteca Naz. di Cagliari custodisce anche le tavole residue del polittico di Joan Mates (Annunciazione, Crocifissione, Caccia di s. Giuliano, predella con Pietà fra santi), che rappresenta il più antico esemplare di pittura tardogotica di matrice catalana superstite in Sardegna.

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