Sapienza

Dizionario di filosofia (2009)

sapienza


Possesso di profonda scienza e dottrina. Il termine (dal lat. sapientia, der. di sapiens -entis «sapiente, saggio») traduce il greco σοφία, vocabolo che nel pensiero filosofico presocratico e ancora in Platone viene impiegato per indicare quella concezione della s. che è insieme abilità tecnica, conoscenza razionale ed equilibrata prudenza nel distinguere bene e male, lecito e illecito, utile e dannoso. In quest’ultima accezione esso è utilizzato come equivalente di φρόνησις, «saggezza» (➔ phronesis), che, espressione anch’essa di perfezione spirituale, riguarda più specificamente il comportamento pratico e l’agire morale. La distinzione nel concetto e nell’uso dei due vocaboli si pone con chiarezza in Aristotele che nell’Etica Nicomachea (➔) definisce la saggezza come «una disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l’agire e concerne le cose che per l’uomo sono buone e cattive» (VI, 5, 1140 b, 4-6) e la s. invece come «scienza delle realtà che sono più degne di pregio coronata dall’intelligenza dei supremi principi» (VI, 6, 1140 b 17-20). La prima attiene quindi la sfera del comportamento morale, l’economia e la politica, la s. è invece «la più perfetta delle scienze», che comprende sia il sapere dimostrativo della scienza propriamente detta, sia l’intellezione dei principi; il suo oggetto sono le realtà metafisiche (gli astri e il primo motore), cioè le realtà immutabili, mentre la saggezza, avendo come oggetto l’uomo, vale a dire una realtà imperfetta e mutevole, non è una scienza suprema. A differenza di quest’ultima, infine, la s. non concerne ciò che è utile; tale concetto si ritrova anche nella Metafisica (I, 981 b, 13-20), dove della s. si ricorda l’attinenza con le «prime cause e i principi» (981 b, 28), profilando la sua coincidenza con la «filosofia prima». Nella filosofia ellenistica che riporta l’uomo e la sua felicità al centro dell’interesse del filosofo, la s. tornerà a essere il sapere che attiene il bene e che spinge ad agire per il bene, conseguendo la felicità. Questi tratti si ritrovano in Cicerone, che nel De officiis (i, 43, 153) la distingue esplicitamente dalla saggezza: «Princeps omnium virtutum est illa sapientia, quam Graeci σοφίαν vocant. Prudentiam etiam, quam Graeci φρόνησιν, aliam quamdam intelligimus: quae est rerum expetendarum fugiendarumque scientia», pur non essendo la virtù che orienta l’azione verso il bene, la s. è comunque una forma di sapere che deve poter agire nella vita dell’uomo, pena l’inutilità del sapere stesso: «[sapientia] si maxima est, ut est, certe necesse est, quod a communitate ducatur officium, id esse maximum. Etenim cognitio contemplatioque manca quodam modo atque inchoata sit, si nulla actio rerum consequatur» (ibid.). Nelle filosofie fortemente connotate in senso religioso dell’età alessandrina e oltre, invece, si sottolinea il carattere ‘divino’ della s. e si afferma quindi la tendenza a ‘ipostatizzarla’, facendone una sorta di medio tra l’essere supremo e il mondo sensibile, come accade, per es., in Filone di Alessandria, che la identifica con il Logos divino (Legum Allegoriae, I, 65). In Plotino essa rivela anche un’intrinseca potenza creatrice, grazie alla quale è all’origine di tutte le cose e coincide con la natura dell’essere (Enneadi, V, 8, 4-5). Nello gnosticismo Sapienza è una ipostatizzata potenza mondana inferiore a Dio; nella corrente valentiniana, essa – presumendo audacemente di conoscere da vicino il Padre, oppure tentando di spezzare la legge che regola la gerarchia del Pleroma divino e generare da sola – determina al tempo stesso la propria caduta e l’origine del mondo materiale. Nella scolastica medievale sembra riaffermarsi la posizione aristotelica rinnovata dalle riflessioni di Tommaso d’Aquino, il quale, se da una parte riprende la nozione della s. come virtù speculativa somma derivata dallo Stagirita, dall’altra introduce la nozione di s. come dono di Dio, sapere che l’uomo riceve attraverso la grazia e gli permette di accedere alle verità che altrimenti accetta per fede (Summa theologiae, Ia IIae, q. 68, a. 4-5). Nel pensiero moderno il termine conserva il significato di conoscenza piena e perfetta affermatosi già nell’aristotelismo.