PIETRO Apostolo, santo

Enciclopedia Italiana (1935)

PIETRO Apostolo, santo

Leone TONDELLI
Umberto GNOLI

Capo dei dodici Apostoli scelti da Gesù per la diffusione del Vangelo. Il nome Pietro, a lui dato da Gesù stesso (Matteo, XVI, 18; Giovanni, I, 42) risponde all'aramaico aramaico Cefa (Kefa) del Nuovo Testamento, roccia o pietra.

Il greco Πέτρος ha etimologicamente lo stesso significato: ma è usato di lui per la prima volta come nome personale (in Flavio Gius., Antich. Giudaiche, XVIII, 6, 3, Πέτρος era lettura erronea invece di πρῶτος). Il latino Petrus è invece creato ex novo dal femminile petra, usato esso pure a designare l'apostolo in rari monumenti, come in qualcuno dei graffiti di S. Sebastiano a Roma.

Il suo nome nativo era Simone: era figlio di Jona o Giona, donde l'appellativo di Simone bar Jona (Simone figlio di Jona) in Matteo, XVI, 17. Originario di Betsaida sulla riva nord-est del lago di Gennesaret, aveva fissato la sua dimora nella vicina cittadina di Cafarnao e vi esercitava col fratello Andrea il mestiere ivi comune di pescatore. Il Vangelo accenna a sua suocera (Matteo, VIII, 14) guarita miracolosamente da Cristo. Sembra che la moglie fosse morta quando, verso il 57, visitava le comunità cristiane dell'Occidente conducendo seco una donna sorella, cioè cristiana (I Cor., IX, 5).

Fu prima seguace di S. Giovanni Battista e da lui indirizzato a Gesù, che l'ebbe fra i primissimi discepoli (Giovanni, I, 40-42). Si può dire che il Vangelo cominciasse in casa sua, poiché Gesù prese stabile dimora e trovò appoggio presso di lui nel primo centro della sua predicazione, Cafarnao (Luca, IV, 31); e vi dovette dimorare qualche tempo, irradiandosi nelle città e nelle borgate dei dintorni, Betsaida, Corozain, Tiberiade (Matteo, IV, 23-25). Un passo del Vangelo di Matteo, IX, 1, indica Cafarnao come "la sua città" (di Gesù). Diffondendosi la parola di Gesù e allargandosi il suo campo di lavoro, P. fu tra i primi che Gesù invitò ad essere suoi collaboratori. Una turba di popolo s'accalcava attorno a Cristo a udirne la parola, onde egli montò sulla barca di P. e parlò da essa al popolo sulla riva. Avendo cessato di parlare e inoltratosi nel lago, Gesù domandò a P. di lanciare le reti, ed esse si riempirono fino a stracciarsi. Allo stupore di P. ed alla sua umile protesta: "Allontanati da me perché son peccatore", Gesù l'assicurò: "Non temere: d'ora innanzi farai il pescatore d'uomini" (Luca, V, 1, 12, con cui vanno forse identificati i racconti più brevi di Matteo, IV, 18, 22 e Marco, I, 16, 20). Da quel momento P. col fratello Andrea, abbandonato tutto, segue Gesù, condividendone il pensiero e la vita.

Quando Gesù tra i seguaci più fedeli costituisce un nucleo di dodici, come inizio organizzativo dell'opera sua, Simone-Pietro è il primo chiamato. In tutti e tre i primi Vangeli l'elenco degli apostoli comincia col suo nome: "Primo Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello" (Matteo, X, 2). Tra i dodici, con i due fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, P. è parte di un gruppo più vicino a Cristo (Matteo, XVII, 1; XXVI, 37; Marco, XIII, 3). Anche in questa triade, che del resto non ha nulla di costituito, P. è costantemente il primo.

Questo movimento spirituale, che nel suo periodo iniziale culmina nel Discorso della montagna al quale assistono i Dodici (Luca, IV, 12-16), ha carattere messianico: ora, secondo un racconto comune ai sinottici, P. è il primo tra i Dodici a riconoscere esplicitamente Gesù come Messia in un intimo colloquio durante un viaggio a Cesarea di Filippo (Marco, VIII, 27-29; Luca, IX, 18-27; Matteo, XVI, 13-19). Tutti i Vangeli però riferiscono il turbamento di P. all'annuncio, dato poco dopo da Gesù, della sua passione e morte: "Trattolo a sé (P.), cominciò a rampognarlo. Ma egli (Gesù) sgridò Pietro dicendo: Vattene lungi da me, Satana, perché non hai il sentire di Dio ma quello degli uomini" (Marco, VIII, 27-33; Matteo, XVI, 22).

La figura di P. è tratteggiata con episodî caratteristici dai Vangeli. Nella Trasfigurazione si deve a lui la proposta: "Maestro, è bene che siamo qui: se vuoi faremo qui tre tende" (Matteo, VIII, 10). All'ultima Cena egli attesta rumorosamente la propria fedeltà a Cristo: "Se è necessario che muoia con te, mai ti rinnegherò" (Marco, XIV, 31-32), cui segue la predizione e il racconto del suo triplice rinnegamento avanti il cantar del gallo. Notisi però la parola di Luca, XXII, 31: "Io prego per te, affinché la tua fede non venga meno".

Il quarto Vangelo ci ha conservato in proprio alcuni tratti della stessa indole. Mentre i discepoli s'allontanano dopo il discorso sul pane del cielo, Simon P. dice a Gesù: "Signore, a chi ne andremo? Tu hai parole di vita eterna" (Giovanmi, VI, 67): la scena sembra corrispondere a quella del riconoscimento messianico a Cesarea che il quarto Vangelo omette. All'ultima cena, quando Gesù s'appresta a lavargli i piedi, P. protesta: "Non mi laverai i piedi in eterno", ma subito dopo alla minaccia di un distacco di Gesù: "Signore, non i piedi soltanto ma anche le mani e la testa" (Giovanni, XIII, 6-9). Nel silenzio glaciale seguito alla rivelazione del tradimento che incombe, P. con cenni insiste presso il discepolo diletto: "Chiedi chi è quello di cui parla" (Giovanmi, XIII, 24).

P. è pure quegli che intende in senso materiale la frase di Gesù: "Ora chi non ha (la borsa), venda il mantello e compri una spada". Si trovano infatti due spade: e una è nelle mani di P. che nell'arresto di Cristo l'adopera contro la testa di uno dei servi del pontefice, di nome Malco, che schiva appena il colpo mortale, avendone solo mozza l'orecchia destra (Luca, XXII, 36-50; Giovanni, XVIII, 10-11).

Sfuggito all'arresto, che era limitato a Gesù, P. segue da lontano il Maestro penetrando fino nell'atrio del pontefice Caifa; dove si svolge la scena del rinnegamento, che tutti i Vangeli hanno conservata, insieme con il pronto doloroso pentimento.

S. Paolo è il solo (I Cor., XV, 4; accenno in Luca, XXIV, 34) a informarci che Gesù per primo apparve a P.: ma nessuno ci racconta le circostanze e il modo.

Avvertito dalle donne recatesi al sepolcro della sua manomissione, corre col discepolo diletto alla tomba, e v'entra per primo (Giovanni, XX, 1-8). In un'apparizione sul lago di Galilea, dopo una pesca miracolosa, P. per raggiungere più presto Gesù si butta nudo a nuoto lasciando ai compagni la cura della barca: alla triplice domanda di Gesù e alla triplice risposta di P. che afferma il proprio amore, segue il triplice comando: "Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore" (Giovanni, XXI).

La tradizione evidentemente si è dilettata di questi episodî singolari che mostrano nell'apostolo la prontezza irriflessa della parola e dell'azione la fede piena, la bontà semplice e ingenua, il suo amore per Gesù a cui fa dedizione completa e riverente di sé.

Lo si attende quasi con curiosità alla prova nell'organizzazione ben ardua della Chiesa nascente.

La sua opera è seguita, passo passo, fino verso l'anno 50, dagli Atti degli Apostoli. Il primo atto di lui ricordato è il completamento del collegio dei dodici apostoli, rimasto privo di un membro per il suicidio di Giuda (I, 15-26), come sarà ancora lui che proporrà, non molto tempo dopo, l'elezione di sette diaconi, incaricati degli interessi materiali e delle opere di carità, completando quell'organizzazione che poi si estenderà e rimarrà nella Chiesa (Atti, VI, 1-7).

Attorno ai Dodici, e a lui che ne è il capo, si raccoglie la comunità di Gerusalemme "perseverante nella dottrina degli apostoli e nell'unione, nello spezzare il pane e nella preghiera" (Atti, II, 42).

Dopo la discesa dello Spirito Santo nella Pentecoste, P. dà fine al breve periodo di raccoglimento nascosto e timido, parlando a Gerusalemme di Cristo e della sua messianità, e rifacendo arditamente una revisione al processo di condanna. I nuovi credenti sono ammessi nella comunità, che si va costituendo e distinguendo per la fede in Gesù Messia, mediante il rito del Battesimo (Atti, II, 38). A P. è attribuito il primo miracolo dopo la morte di Cristo, la guarigione dello storpio davanti alla porta del Tempio. È ovvio quindi che egli con Giovanni sia anche primo a essere imprigionato dal Sinedrio, che si accontenta la prima volta di minacciarli (Atti, VI) e a un secondo arresto vorrebbe essere più severo, prevalendo però la tesi del fariseo Gamaliele di lasciare andare le cose per la loro china (Atti, V, 26-42). La vendita libera ma frequente dei proprî beni per distribuirli ai poveri, è segnata dalla morte improvvisa di Anania e Saffira (Atti, V). A Samaria, dove pure si vanno costituendo comunità, gli apostoli mandano Pietro e Giovanni (Atti, VIII, 14-15).

A P. è dovuta la prima conversione di un gentile alla Chiesa, il centurione Cornelio: ed egli se ne giustifica riportando una visione avuta (Atti, XI). Nel 42 il re Agrippa I che aveva riavuto il trono da Caligola, perseguita i cristiani, facendo decapitare l'apostolo Giacomo e poi arrestare P., il quale è miracolosamente liberato dal carcere e fugge altrove (Atti, XII).

Infine P. ha parte attiva in una decisiva radunanza tenuta verso il 50 a Gerusalemme per discutere il trattamento da fare ai gentili, che per l'apostolato di S. Paolo cominciavano ad abbracciare l'idea cristiana. P. è il primo a parlare, sostenendo che la salvezza viene da Cristo e non dal giogo della legge "che né i nostri padri né noi abbiamo potuto portare" (Atti, XV, 10).

Dopo il concilio di Gerusalemme, gli Atti non parlano più di lui, cosicché chi si limitasse ad essi potrebbe pensare P. non essere mai uscito di Palestina. Ma abbiamo sicure notizie da altre fonti. Una sua dimora in Antiochia di Siria ci è nota da S. Paolo. Così da lui solo sappiamo che nella comunità di Corinto s'era formato un partito di Cefa (I Cor., I, 12).

Non è facile spiegare il sorgere di questo partito se P. non vi fosse passato. Una visita di lui è tanto più probabile in quanto nella stessa lettera (IX, 4-6) Paolo accenna al viaggiare di Cefa e a taluni particolari supposti noti ai corrispondenti, d'accettare cioè il vitto offerto e di portare con sé "una donna sorella". Un passaggio da Corinto è ricordato dal vescovo di Corinto S. Dionigi nel sec. III (presso Eusebio, Hist. Eccl., II, 25).

La prima lettera di P. conservataci è diretta agli "eletti stranieri della diaspora del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell'Asia, della Bitinia". La Galazia e l'Asia furono evangelizzate da S. Paolo, le altre regioni non sappiamo da chi; ma è verosimile che P. abbia scritto ad esse dopo esservi almeno passato.

Marco in antichissime fonti è presentato come interprete (ἑρμηνευτής) di P. (Papia, verso il 125; Ireneo). Poiché il greco era largamente diffuso nelle cittadine rivierasche del lago di Galilea è ordinariamente ritenuto che Marco fosse interprete a P. in terra latina. Le testimonianze dell'unione di Marco a P. nel suo apostolato si riferiscono infatti al suo trattenersi a Roma.

Le testimonianze di una dimora di Pietro a Roma sono di primo ordine.

Notevoli indizî si possono trovare nella prima lettera ai Corinzi di S. Clemente Romano scritta circa l'anno 97 (V, VI), e anche in quella ai Romani di S. Ignazio martire (IV, 3). Espliciti accenni alla fondazione della Chiesa di Roma da parte dei due apostoli Pietro e Paolo si trovano circa il 170 in Dionigi di Corinto (presso Eusebio, Hist. Eccl., II, 25, 8), in S. Ireneo di Lione (Adv. haereses, III, 3, 2-3) e in Tertulliano (Scorp., 15; De praescriptione, 36), che ne ricorda il martirio di Roma. Caio di Roma è il primo a parlare dei "trofei" (τὰ τρόπαια) dei due apostoli Pietro e Paolo esistenti l'uno al Vaticano e l'altro nella via ad Ostia: quei "trofei" dovevano essere memorie sepolcrali. La Depositio Martyrum nell'opera di Filocalo (anno 354) sembra esigere un trasporto del corpo di Pietro in Catacumbas sotto il consolato di Tusco e di Basso. H. Quentin recentemente ha esposta la congettura che la data Tusco et Basso coss. debba essere riportata alla morte di S. Cipriano, morto martire nel 258 (in Rendiconti d. Pont. Acc. rom. archeologia, V, 1928, pp. 145-147). Ma di un'abitazione (hic habitasse) o almeno di una deposizione delle salme di Pietro e di Paolo parla pure un epigramma di papa Damaso trovato in luogo.

Recenti ritrovamenti alla basilica di S. Sebastiano hanno confermato e illustrato queste testimonianze. In una stanza presso la basilica si sono trovati numerosissimi graffiti con l'invocazione di Pietro e di Paolo: v'era là una specie di culto ai due apostoli, che si esprimeva col pellegrinaggio e con un rito detto refrigerium. I graffiti devono essere anteriori al periodo costantiniano. Un graffito in altra stanza recante la scritta Domus Petri sembra alludere a una dimora di Pietro nel luogo.

Come data del martirio la cronaca di Eusebio di Cesarea segna l'anno 67 (nella versione armena) o il 68 (versione di S. Gerolamo). La sua esecuzione avvenuta, secondo la tradizione archeologica, al Vaticano, ha suggerito ad alcuni studiosi l'anno 65, data della grande persecuzione neroniana che ebbe come teatro precipuo i boschi del Vaticano. Più discussa è la prima venuta di P. a Roma. Contro una data anteriore al 60 stanno il silenzio degli Atti (che però tacciono d'ogni movimento di P. fuori della Palestina) e quello di Paolo nella lettera ai Romani. Eusebio (Hist. Eccl., II, 14, 6) la colloca sotto l'impero di Claudio (anni 41-54); ma nel Chronicon al secondo anno di esso (anno 42-43) e S. Girolamo prende anche per proprio conto questa data. Orosio (Hist., VII, 6) indica l'esordio del regno di Claudio. Gli Atti raccontano che P., miracolosamente liberato dal carcere, "se ne andò in altro luogo", frase da cui si può dedurre solo un allontanamento dalla Palestina; ma poiché l'episodio si svolse proprio al principio del regno di Claudio (avendo Erode Agrippa ottenuto il trono nel 41 e perdutolo per morte nel 44), si ha una notevole coincidenza di date.

Fuggito per sottrarsi alla persecuzione, P. poté recarsi ad Antiochia, dove già erano dei cristiani (49-50) e spingersi poi per circostanze ignorate sino a Roma, dove il Vangelo aveva già degli annunziatori. Svetonio dà la celebre notizia, che Claudio scacciò da Roma (a. 49-50) i Giudei che tumultuavano, "impulsore Chresto"; se Chresto è Cristo (come ora comunemente si conviene) e i moti di Roma fermentarono dalle controversie fra cristiani e Giudei, la comunità cristiana di Roma doveva essere numerosa, e poteva chiamare volentieri il capo degli apostoli.

La visita di P. in Samaria (Atti, VIII, 13-17) è infatti dettata dal desiderio di mantenere una unità di organizzazione: simile preoccupazione mostra l'invio di Barnaba (v.) ad Antiochia (Atti, XI, 22) e poté suggerire le visite di P. ad Antiochia, al Ponto e alle chiese dell'Asia Minore, a Corinto, a Roma. Verso l'anno 50 però P. è testimoniato a Gerusalemme dagli stessi Atti (XV).

Quando egli tornasse a Roma, non è dato conoscere. Non vi doveva essere nel 58 quando Paolo scriveva ai Romani, poiché nei lunghissimi saluti non v'accenna, né tra il 60-62 quando Paolo vi giunse prigioniero (Atti, XXVIII). Vi dovette arrivare non molto più tardi e reggere la comunità cristiana. Furono i Romani a chiedere a Marco di conservare la sua predicazione. Morì crocifisso a Roma sul colle Vaticano, dove venne sepolto.

Secondo la leggenda del Quo Vadis?, mentre infieriva la persecuzione contro i cristiani, P. si allontanò dalla città ed era fuori dalle mura serviane sulla via Appia quando gli si presentò Cristo che entrava in città: "Signore, dove vai? gli domanda P.; e Cristo a lui: "Vengo ad essere crocifisso una seconda volta. Di qui intese P. che Cristo di nuovo doveva essere crocifisso nel suo servo: onde spontaneamente tornò in città". Il racconto è dato dagli Atti dei Ss. Processo e Martiniano, riferito da S. Ambrogio e da altri. Sulla via Appia una cappella (S. Maria in palmis) ricorda l'episodio.

Il particolare che P. fosse crocifisso col capo in basso è dato da Origene e da S. Girolamo. Seneca riferisce che questo raffinamento di supplizio era usitato ai suoi tempi (Consol. ad Marc., 20). Sul luogo del martirio venne costruita una Memoria beati Petri dal papa Anacleto (Liber Pontificalis, pp. 55, 125) e più tardi una basilica da Costantino. Sullo stesso luogo sorge ora il tempio di Bramante e di Michelangelo.

Il pensiero e l'opera. - Non si può attendere in P. un pensiero fortemente personale; era pescatore e non persona colta: né, difatti, mostra pretese intellettuali. Ma si formò alle dottrine di Gesù, col quale fu nel più intimo contatto dal primo inizio della vita pubblica di lui. Fin dal Discorso della montagna, dovette comunicarglisi la convinzione di esser destinato a portare una "luce" al mondo, di essere con i seguaci della nuova "via" il "sale" della terra. Più che non le idee dominarono in P. il cuore, pervaso dai sentimenti di Cristo, e lo spirito d'azione. Tuttavia non gli si deve negare un pensiero deciso. Per prendere in mano, in momenti di disorientamento ed estremamente difficili, le redini di un movimento sì profondamente spirituale quale quello iniziato da Gesù; per avere la forza di sostenerlo, svilupparlo e organizzarlo nella capitale stessa, lui pesatore galileo, occorreva avere delle vedute ferme, delle attese decise. Nei tre Vangeli sinottici a lui è riconosciuta la prima affermazione della messianità di Cristo: per questo a lui è dato l'appellativo e la funzione di pietra della Chiesa. Indubbiamente il messianismo da lui inteso, all'inizio non fu quale egli lo predicò più tardi: i Vangeli stessi lo riconoscono esplicitamente. Ma questi accenni all'incomprensione del passato sono la migliore prova della comprensione avuta più tardi. Con la messianità egli dovette accettare in pieno tutte le affermazioni del Maestro.

Dopo la scomparsa di Cristo, P. è il primo oratore cristiano. Ha un'apologia popolare da svolgere a difesa di Gesù e della fede in lui. L'istituzione dei diaconi a Gerusalemme è motivata dal dovere affidato ai Dodici di "predicare la parola di Dio" (Atti, VI, 4). Era una ripetizione della "parola del Regno", seminata da Gesù; era soprattutto una testimonianza della vita di Cristo, dei suoi miracoli, della sua resurrezione. Il cristianesimo si realizzava in comunità che andavano formandosi una propria fisionomia, cui la lotta incideva sempre più profondamente i lineamenti.

Documenti del pensiero di P. sono varî discorsi negli Atti, che intendono riassumere il suo pensiero; per le due lettere a lui intitolate, vedi sotto. Deve naturalmente esaminarsi per quanta parte, di sostanza e di forma, essi rappresentino il pensiero di P. Un elemento di controllo l'abbiamo in alcune frasi vivaci di S. Paolo nella lettera ai Galati, I-II.

S. Paolo, che era stato a Gerusalemme a visitare P. ed era rimasto con lui 15 giorni, tiene a mostrare l'accordo sostanziale con P. pur rilevando un momento di aperto dissenso. "Le colonne della Chiesa", fra cui primeggia P., strinsero con lui le mani: e sembrarono dividersi (divisione reale, ma del momento) i due campi dell'apostolato, fra i Giudei e fra i gentili. Un dissenso si ebbe ad Antiochia per delicati rapporti di convivenza fra Giudei e gentili convertiti. P., che prima non aveva riguardi nei rapporti di mensa con questi ultimi, è indotto da alcuni della parte di S. Giacomo a evitarli per pregiudizî farisaici; di modo che anche Barnaba si unisce con lui in questo atteggiamento, che Paolo non esita a definire "ipocrita". Nel rimproverarlo a viso aperto, Paolo però pone in evidenza l'identità di vedute sul principio della decadenza della legge mosaica. La questione fra i due apostoli era di tattica e di prudenza, non di idee, e ciò è conferma di quanto P. dice in Atti, XV. P. evangelizzatore dei Giudei teneva a non allontanarli definitivamente, evitando di urtarli nei loro sentimenti: Paolo, apostolo delle genti, proteggeva naturalmente i convertiti dal paganesimo, cui non voleva addossare un insopportabile peso. Non sappiamo come il dissenso di Antiochia finisse, poiché l'unica fonte che vi accenni, S. Paolo, tace: dovette essere, per la franchezza stessa delle parole intercorse e l'intimo consenso, ben presto chiarito e chiuso.

Quella divisione stessa dell'apostolato cui Paolo accenna, quasi riservando a P. l'apostolato tra i Giudei, fu sorpassata. P., non meno di lui, si lancia per le vie del mondo, avvicinando forse piuttosto i Giudei con i quali la comunanza della lingua gli rende più facile il contatto, ma facendosi aiutare dall'interprete Marco, quando occorre parlare a pagani di altro linguaggio.

Il rilievo che ha P. nella tradizione cristiana è rimrbero di questa posizione che egli ha occupata nel cristianesimo primitivo. A lui si deve l'organizzazione effettiva della Chiesa a Gerusalemme, donde poi si diffuse altrove.

Certo il cristianesimo si diffuse nel mondo specialmente per opera di Paolo. Ma se, per gli sforzi di Paolo stesso, non si spezzano i vincoli tra la Chiesa madre e le comunità sorgenti ovunque nel litorale mediterraneo, se si mantiene un'unità dei credenti in Cristo, è perché s'accentrano attorno ai Dodici scelti da Gesù. Nel catalogo dei ministri della Chiesa S. Paolo mette sempre al primo posto gli apostoli ed egli stesso, per chi ne contesta l'autorità, fa valere altamente la sua vocazione e la sua autorità di apostolo di Gesù. Si continua così per il mondo, come prima a Gerusalemme, quell'organizzazione di cui Gesù aveva tracciato le linee principali. I viaggi di P. in Occidente, la sua presenza e la sua morte a Roma, ne sono più che una nuda espressione.

I Vangeli riguardo a P. hanno delle parole solenni di Gesù, ed esse sono le basi teoriche e giuridiche del primato della Chiesa di Roma. Testi principali sono: Matteo, X, 2 e paralleli; Luca, XII, 31; Giovanni, XXI e soprattutto Matteo, XVI, 13, 19. Dopo che a Cesarea di Filippo P. aveva riconosciuto Gesù "il Messia, il Figlio di Dio vivo", in Matteo seguono le famose parole di Cristo: "Beato tu, Simone bar Jona, perché non te l'ha rivelato la carne e il sangue, ma il Padre mio ch'è nei cieli. E io dico a te che tu sei Pietro, e sopra questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa. E ti darò le chiavi del Regno dei cieli".

Dell'ultimo passo, il più nitido e importante, la critica indipendente oggi raramente contesta la genuinità (W. Soltau; A. Harnack, solo per la frase su P. "roccia della Chiesa", Matteo, XVI, 18 b): il testo infatti non manca in alcun codice; ed è quindi riportato da tutte le edizioni critiche, come anche conviene che il passo, con i suoi semitismi di frasi e di concetti, non possa essere originato tardivamente dalla Chiesa di Roma. Piuttosto rileva che è riferito solo da Matteo, e mette in dubbio ch'esso risponda al pensiero e a parole autentiche di Gesù, vedendovi piuttosto un riflesso di idee formatesi in ambienti dominati dall'autorità e dal prestigio di P. La critica cattolica ritiene invece confermato il valore del passo dal complesso di testi che mettono P. in una posizione di preminenza, e dalla parte avuta da lui nella storia del cristianesimo primitivo.

Noi ignoriamo infatti i motivi occasionali che abbiano portato P. fuori della terra di Palestina, ad Antiochia, alle regioni settentrionali dell'Asia Minore, a Corinto (dove almeno il suo passaggio è probabile) e a Roma: e non si può certo escludere il desiderio di corrispondere al dovere di un più ampio apostolato. Ma se si pensi che alle prime comunità sorgenti in Samaria vengono mandati lui e Giovanni a sigillare con una unità organizzativa la comunanza della fede: se si riflette agli sforzi di Paolo di formare un corpo delle cristianità sorgenti, e alla cura di P. di mantenere fino dai suoi primi atti quell'organizzazione che Cristo stesso aveva fissata con la scelta dei Dodici, non si giudicherà improbabile che il continuo spostarsi di P. sia dovuto anche alla preoccupazione di rafforzare con l'unità dei credenti le sorti del cristianesimo nel mondo.

Le due lettere di Pietro. - Sono due brevi composizioni, conservate fra gli scritti del Nuovo Testamento, unici documenti che possediamo ritenuti dalla Chiesa cattolica come originarî di P.

La prima lettera è diretta ai fedeli sparsi "nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell'Asia e nella Bitinia". È quindi una lettera circolare, benché per un'estensione determinata.

Le ragioni della limitazione a queste regioni, mentre erano nell'Asia Minore altre comunità fiorenti tra le prime fondate, come in Panfilia e in Licaonia, sono ignote. La più verosimile è che P. avesse visitate quelle Chiese, se non le aveva fondate, come affermano alcuni autorevoli scrittori ecclesiastici: Origene, Epifanio, Eusebio, Girolamo, probabilmente deducendo le notizie dalla lettera stessa (ma in contrario I, 12-25), e ne conoscesse le speciali necessità del momento. Il contenuto non ha uno speciale colorito locale o personale: è un'esortazione, tratta dai nuovi motivi religiosi, a vivere in modo degno di cristiani e a soffrire le persecuzioni fortemente. "Chi potrà farvi del male se siete zelanti del bene? Ma anche se aveste a soffrire qualche cosa per la giustizia, beati voi". Tali frasi indussero alcuni studiosi ad affermare un'estensione nelle provincie della persecuzione neroniana (un accenno è già presso Orosio) o di quella di Domiziano: ma possono essere interpretate anche delle tribolazioni che quasi ovunque soffrirono coloro che dall'ebraismo e dal gentilesimo si convertirono al cristianesimo. Le Chiese appaiono di fondazione recente perché si ricordano spesso i vizî abbandonati del gentilesimo; a capo di esse sono dei presbiteri, ai quali P. rivolge ammonimenti come "compresbitero e teste dei patimenti di Cristo".

La lettera è datata da Babilonia, che va intesa quale designazione di Roma, come nell'Apocalisse, XIV, 3, XVIII, 5, e in scritti giudaici del tempo (Apocalisse di Baruc, XI, IV Esdra, III, 1; forse anche in Libri Sibillini, V, 158). Ai suoi, P. unisce i saluti di "Marco, suo figliuolo" che pure fu con lui a Roma (v. marco) e accenna a un certo Silvano, fratello fedele.

La frase a riguardo di costui διὰ Σιλουανοῦ ...ἔγραψα, può avere doppio senso. Alcuni vi veggono indicato il corriere a mezzo del quale fu spedita la lettera (frasi parallele in Atti, XV, 23; S. Policarpo, Filippesi, XVI; S. Ignazio Martire, Filad., XI, 2). Altri invece considerano Silvano come una specie di segretario di cui P. si sarebbe servito: il suo concorso nella redazione dello scritto spiegherebbe bene i frequenti richiami, nella lettera stessa, di frasi e concetti di Paolo.

Questi richiami sono tra le ragioni principali per cui parte della critica indipendente tende a negare l'autenticità parziale o totale della lettera. Essa è però antichissima: tracce sembrano trovarsi nella Didachè e nell'Epistola detta di Barnaba, riferimenti certi nel 94 in S. Clemente Romano. Eusebio di Cesarea ne afferma l'uso da parte di S. Policarpo e di Papia (Hist. Eccl., IV, 14, 9; III, 39, 16). Le prime menzioni di P. come autore di esse si hanno nel Frammento Muratoriano (solo in ricostruzioni congetturali), in S. Ireneo (Adv. haer., IV, 16, 5, ecc.) e in Clemente Alessandrino che ne fece un commento.

Negazioni o dubbî a suo riguardo non si ebbero nell'antichità.

La seconda lettera è diretta a tutti i fedeli, senza limitazione di corrispondenti, e non comprende, nella divisione attuale, che tre brevi capitoli. P. parla della sua fine che prevede vicina (I, 14): a prova della verità della predicazione cristiana accenna alla trasfigurazione di Cristo e alle parole allora uditesi dal cielo. Le profezie sono come una lucerna splendente nel buio del presente, sino a che la stella del mattino non risplenda nei cuori. Varî episodî dell'Antico Testamento, sono riportati a condanna di "maestri bugiardi che introdurranno sette di perdizione" (II, 1, seg.). Contro uomini beffardi, che scherniranno i fedeli perché le promesse non s'avverano e la venuta del Signore ritarda, l'autore rileva che "dinnanzi a Dio un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno" (III, 8). Notevole un accenno a lettere di Paolo, poste fra "le altre Scritture, e che uomini ignoranti e instabili stravolgono".

La lettera ha rapporti stretti con quella di S. Giuda Apostolo (v. giuda, lettera di): rimane incerto da qual parte sia la dipendenza.

La critica indipendente ne rigetta quasi unanimemente la genuinità. La tradizione a suo riguardo è più tardiva e indecisa. Tracce dubbie si trovano in S. Clemente Romano, nel Pastore di Erma, in Ippolito, in S. Giustino. Origene è il primo a parlare di una seconda lettera di S. Pietro (In epist. ad Romanos, IV; In Lev., XI); Metodio cita il passo III, 8 come scritto dall'apostolo P.; ma Didimo d'Alessandria afferma non doversi ignorare che essa è falsata, benché sia nell'uso pubblico. Si congettura però trattarsi del pensiero di un copista, poiché altrove Didimo la cita come scritto canonico. Una nuova congettura del Lagrange sul testo del Frammento Muratoriano che sarebbe favorevole, è in Revue Biblique, 1933, p. 176. Gli scrittori ecclesiastici del sec. IV riflettono questa incertezza, ma poi si delinea un movimento decisamente favorevole. Il concilio di Trento l'accolse nel canone, definendone l'inspirazione. La brevità della lettera e la mancanza di nette caratteristiche personali poterono farla ignorare a diverse Chiese e permetterne la scomparsa: donde la dubbiosità del suo apparire. La lingua greca è buona, singolarmente conforme anche per il glossario a quella della prima lettera. Riconoscendone l'autenticità, come per l'altra, occorre pensare a un redattore che abbia dato veste al pensiero di P.

Bibl.: Pochi e soli cattolici scrissero una vita di S. Pietro. Le migliori sono quelle di: C. Fouard, S. Pierre et les premières années du Christianisme, 10ª ed., Parigi 1908; E. Le Camus, L'Øuvre des Apôtres, voll. 3, Parigi 1905 (vers. ital. Brescia 1912). Rari gli studî sul suo pensiero; lavori più sviluppati: B. Weiss, Der petrinische Lehrbegriff, Berlino 1855; E. Scharfe, Die petrinische Strömung der neutest Literatur, Berlino 1893. La persona di S. P. è stata studiata specialmente in rapporto al primato dei papi e ai testi del Nuovo Testamento che ne sono le basi. Studiatissima la sua dimora a Roma: più notevoli in proposito: R. A. Lipsius, Die Quellen der römischen Petrussage, Kiel 1872 (forse l'ultimo che abbia negato la venuta di P. a Roma); H. Grisar, Le tombe apostoliche di Roma, Roma 1892; G. Wilpert, la tomba di S. P., Roma 1922. Per le nuove scoperte a S. Sebastiano, P. Styger, Il monumento apostolico della via Appia, Roma 1917, e, in più ampio riassunto dei dati archeologici e testimoniali, H. Lietzmann, Petrus und Paulus in Rom, 2ª edizione, Berlino-Lipsia 1927. Elementi notevoli anche in G. Wilpert, Le pitture delle catacombe romane, Roma 1903; S. P. nelle più cospicue sculture cemeteriali antiche, in Studi romani, III (1922); ricerca ampliata nei volumi I sarcofagi cristiani antichi, Roma 1929-32.

Iconografia. - Nelle prime figurazioni S. P. non ha attributi, ma già nell'arte greca il suo tipo è fissato: vecchio robusto dai capelli grigi o bianchi e barba corta. La tonsura, segno d'infamia da lui nobilitato, divenne poi il distintivo dei sacerdoti. Nei sarcofagi cristiani veste il costume classico; in pittura la tunica è generalmente azzurra o verde, il manto giallo. Le chiavi, simbolo della sua potestà nei regni celesti, appaiono la prima volta in un sarcofago del sec. V. Nel musaico della tomba di Ottone II ha tre chiavi; di rado una sola. Altri attributi sono il rotulo o libro, la croce che allude al suo martirio, il bastone crociato, il pesce, ricordo della sua originaria professione. Quando è rappresentato solo come primo vescovo, siede in trono, con le chiavi, in paludamenti pontificali, e, dal sec. XIV in poi, col triregno in testa. È di età controversa, tra il sec. V e il XIII, la celebre statua bronzea vaticana.

Come il primo chiamato dal Salvatore, occupa il primo posto fra gli apostoli, alla destra di Gesù; spesso rappresentato con S. Paolo, anche nei cicli leggendarî, talvolta accompagnato da Marco, suo interprete ed amanuense, o da Andrea suo fratello. Nella Trasfigurazione, Ultima Cena, Lavanda dei piedi, Tradimento di Giuda, Morte di Maria, Pentecoste, vi è introdotto come uno dei personaggi principali. Nel Tradimento si rappresenta mentre taglia l'orecchio a Malco.

Le numerose figurazioni della sua leggenda derivano in piccola parte da Iacopo da Varazze. Gli atti apocrifi di S. P. e S. Paolo ispirarono i musaici della basilica Vaticana del tempo di Giovanni VII (705-707) dov'erano figurate la Predicazione di S. P. a Gerusalemme; ad Antiochia; a Roma; S. P., S. Paolo, Nerone e Simon Mago; il Volo di Simone; la Decapitazione di S. Paolo. Oltre questi, altri episodî più frequenti sono la chiamata dal Salvatore con Andrea; la Pesca miracolosa; la Navicella; la Consegna delle chiavi; S. P. rinnega il Signore e Pentimento (ricorre già nei sarcofagi cristiani: nella scena figura sempre il gallo e talvolta la serva, Balilla); il Tributo; il Centurione; Anania; Carcerazione e Liberazione; Domine quo vadis?; la Crocefissione con la testa in basso, ora fra due mete nel Circo di Caligola (Assisi, S. Francesco, Cimabue), ora, seguendo un'altra tradizione, sul Gianicolo (Firenze, Carmine, cappella Brancacci).

Fra gl'innumerevoli cicli leggendarî accenniamo a Monreale, musaici del sec. XII; Pisa, S. Pietro a Grado, affr. del sec. XIII; Siena, Accademia, tavola del sec. XIII; Assisi, S. Francesco, affr. di Cimabue; Roma, sacristia Vaticana, polittico Stefaneschi; Firenze, Carmine, cappella Brancacci; numerose vetrate specialmente in Francia.

V. anche masaccio, XXII, p. 474.

Bibl.: G. Goyau, Saint Pierre. L'art et les saints, Parigi 1923; G. Stuhlfauth, Die apokryphen Petrusgeschichten in d. altchristl. Kunst, Berlino 1925; K. Künstle, Ikonographie d. Heiligen, Friburgo in B. 1926.

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