GREGORIO VII, santo

Enciclopedia dei Papi (2000)

Gregorio VII, santo

Ovidio Capitani

Poche sono le notizie biografiche sicure che lo riguardano, pur essendo G. una delle personalità più note del periodo storico che abbiamo riconosciuto come Medioevo, tra le più innovative ed addirittura "eversive" di quel tempo. La scarsità di informazioni è inversamente proporzionale alla ricchezza e articolazione e complessità di caratterizzazioni ecclesiologiche e politiche che il suo operare, certamente consapevole e svincolato da schemi prestabiliti, ha determinato nella "societas christiana", a cavallo tra alto e pieno Medioevo. Elementi che inducono a prospettare il profilo della sua biografia in componenti distinte: gli elementi biografici e le articolazioni ecclesiologico-politiche all'interno della "Christianitas". Ildebrando nacque probabilmente in Toscana, forse a Soana (ma c'è al proposito solo una testimonianza tarda e non completamente affidabile) tra gli anni 1025-1030. Dovette poi in data imprecisabile recarsi a Roma, probabilmente monaco in S. Maria dell'Aventino, di cui era abate lo zio materno, anche se uno degli studiosi più attenti ai dati della sua biografia, G.B. Borino, ha affermato che la monacazione avvenne a Cluny, nel 1048. Nemmeno è certo che egli, durante il soggiorno romano, avesse come maestri Lorenzo da Amalfi e quel Giovanni Graziano, che sarebbe stato poi papa col nome di Gregorio VI.

Molto probabilmente di origine sociale modesta, anche se non si deve attribuire nessun serio valore alla discussione storiografica circa una sua origine ebraica, al Palazzo Lateranense ebbe modo di conoscere Cencio e Alberico, di schiatta certamente ragguardevole, come egli stesso ebbe a ricordare, in una lettera al re di Mauritania Anazir, il 25 luglio 1076 (Registrum III, nr. 21). Ci si può legittimamente chiedere se questo ricordo indubbiamente tardivo (poco più di trent'anni!) non rispondesse alla necessità di presentare un'immagine di fronte al mondo "non cristiano" di un papa di non modeste origini. Ma tant'è: di certo sappiamo che G. tenne a precisare (ibid. VII, nr. 14a), in occasione del sinodo quaresimale del 7 marzo 1080, che egli non aveva acconsentito volentieri ad accedere all'ordine sacro e che senza entusiasmo si era recato Oltralpe con papa Gregorio VI (certamente nel 1047) e che ancor meno volentieri era tornato a Roma con papa Leone IX, nel 1049, dove "valde invitus cum multo dolore et gemitu ac planctu in throno vestro valde indignus sum collocatus". È molto difficile sceverare da queste proteste tardive - ma anche nella lettera inviata a Desiderio di Montecassino il 23 aprile 1073, subito dopo l'elezione (ibid. I, nr. 1) aveva dichiarato di essere stato colto alla sprovvista dal tumulto popolare che lo aveva voluto papa, secondo un modulo narrativo che era stato anche applicato a Gregorio Magno (O. Capitani, Tradizione e interpretazione, pp. 256 ss.) - quanto sia dettato da una "memoria" di circostanza, poiché il 7 marzo 1080 la posizione politico-ecclesiastica di G. era estremamente difficile, al punto da suggerirgli una sorta di "palinodia" del suo operato, e quanto corrisponda invece a un ricordo preciso ed effettivo.

Indubbiamente, la sua "relativa fortuna" romana si iniziò con Leone IX, con cui egli divenne suddiacono, probabilmente nei primi mesi del suo pontificato, e con il quale, tuttavia, avrebbe avuto motivi di dissenso perché il papa avrebbe accettato la carica per ordine di Enrico III: ma il racconto di Bruno di Segni ha il chiaro sapore di una ricostruzione a posteriori, a tutto beneficio di una "omologazione" di una coerente azione antisimoniaca, intesa nell'accezione più larga, sin dagli inizi della sua attività ecclesiastica (per questi e altri dettagli, è indispensabile ricorrere alla copiosa e criticamente vagliata serie di notizie fornita da G. Miccoli, Gregorio VII, coll. 294-99).

In una posizione di particolare rilievo egli appare nel 1054, al concilio tenutosi a Tours, dove Ildebrando era stato inviato come legato papale per cercare di dirimere un contenzioso apertosi a proposito della diffusione della teoria sul sacramento eucaristico professata da uno scolastico, Berengario di Tours, già allievo di Fulberto di Chartres e avversario di Lanfranco di Pavia e poi priore del monastero di Bec in Normandia e in seguito arcivescovo di Canterbury. A Tours la questione sacramentaria dovette assumere un rilievo di modesta importanza rispetto al problema del possibile schierarsi di un potente feudatario, Goffredo Martello di Angiò, a favore di Berengario e, soprattutto, della non remota eventualità di una sua aperta presa di posizione ostile contro l'azione riformatrice intrapresa da Leone IX, dal momento che egli aveva allontanato il vescovo di Le Mans, Gervasio, dalla sua sede. Ildebrando si accontentò di una formula generica di accettazione da parte di Berengario della dottrina della presenza reale di Cristo nel sacramento eucaristico, rimandando la definizione compiuta del problema in sede di un prossimo concilio, che si sarebbe poi tenuto a Roma nel 1059 (cfr. O. Capitani, Studi per Berengario di Tours, pp. 103-18). Doveva essere l'inizio di una vicenda che sarebbe durata fino al 1078/1079 e che fu sfruttata da Berengario per diffondere l'idea di un Ildebrando a lui sostanzialmente favorevole, nonostante la condanna che lo scolastico subì a Roma nel 1059 e nuovamente tra la fine del 1078 e gli inizi del 1079, forse anche in occasione di un concilio dedicato esclusivamente alla questione berengariana. La stessa vicenda ed un'indubbia estraneità di Ildebrando all'essenza teologica della questione poterono, d'altro canto, favorire l'accusa - assolutamente falsa - che i fautori dell'antipapa Clemente III, il cardinale Benone ed altri, lanciarono contro G. di aver aderito alla dottrina eucaristica di Berengario, intesa come negazione della presenza reale di Cristo nel sacramento eucaristico.

Al di là di questi eventi, si era comunque ormai affermata una fattiva presenza di Ildebrando nella Curia, come si può desumere dalla parte che egli ebbe nelle trattative che intercorsero, alla morte di Leone IX, nello stesso 1054, tra la corte tedesca e i personaggi più influenti della Chiesa romana, Umberto, cardinale vescovo di Silvacandida, e Bonifacio, cardinale vescovo di Albano. Con questi due cardinali Ildebrando si sarebbe recato, dalla Francia dove era appunto per la questione berengheriana, in Germania: una missione sulla quale esistono dubbi di attendibilità circa le fonti che l'attestano, ma che comprova - come le notizie di mera fantasia date da Bonizone circa una richiesta del clero e del popolo romano di avere Ildebrando come papa e una richiesta rivolta da quest'ultimo a Enrico III di rinunciare alle prerogative su Roma derivantigli dal titolo di "patrizio", cui l'interessato avrebbe acceduto - il progressivo emergere della sua personalità. Ancora in Francia nel 1056, Ildebrando assunse effettivamente un ruolo di primissimo piano in un anno decisivo per la storia della Chiesa, dell'Impero e dell'Europa, il 1059 (v. ora U.-R. Blumenthal, Zu den Datierungen Hildebrands, in Forschungen zur Reichs- Papst- und Landesgeschichte, Stuttgart 1998, pp. 145-54).

Dopo la morte, nel luglio 1057, di papa Vittore II (eletto nel 1054 in Germania con il pieno consenso di Enrico III), si aprì una questione successoria complicata, questa volta, dalla situazione determinatasi in Germania per la scomparsa di Enrico III (ottobre 1056) e per la minore età di Enrico (il futuro Enrico IV), alla cui elezione a re Ildebrando avrebbe partecipato, forse non in maniera così specifica e particolare come poi lo stesso G. avrebbe preteso (Registrum I, nr. 19 e infra). L'elezione del nuovo papa Stefano IX, ossia Federico di Lorena, fratello di Goffredo, marito di Beatrice di Toscana, nonostante la sua riluttanza e l'indicazione da parte sua di una rosa di eleggibili, tra i quali lo stesso Ildebrando, segnò un fatto nuovo nella storia dei rapporti tra Chiesa e Impero. La nomina (2 agosto 1057) non venne comunicata alla corte tedesca, forse per la minore età di Enrico, anche se questa ragione sembra piuttosto una ricostruzione a posteriori fondata sull'analoga motivazione che Pier Damiani avrebbe addotto per giustificare la stessa omissione quando fu eletto, nel 1061, Alessandro II (cfr. O. Capitani, Tradizione e interpretazione, pp. 49-83). Stefano IX affidò a Ildebrando una missione in Germania, forse nel tentativo di spiegare alla corte tedesca perché si fosse omesso di comunicare subito la sua elezione a papa; forse anche per discutere della vacanza del Ducato di Spoleto e della Marca di Camerino, che sarebbero stati affidati nel 1058 a Goffredo di Lorena. È probabile che Ildebrando ottenesse il riconoscimento imperiale dell'elezione di Stefano IX. Questi, da parte sua, aveva individuato nella persona di Ildebrando, che, pur non avendo ancora il titolo di arcidiacono della Chiesa romana, ne esercitava le funzioni, un elemento chiave per la conduzione della sua politica di riforma: non a caso fece giurare ai cardinali vescovi e "al clero e al popolo romano" che, nel caso che la sua morte fosse avvenuta durante il viaggio in Germania di Ildebrando, si sarebbe atteso il ritorno dello stesso prima di procedere all'elezione di un nuovo pontefice.

Ma alla delicata trama dei rapporti con la corte tedesca si intrecciavano, ormai non più ignorabili, le istanze popolari per una radicale riforma morale del clero. A Milano, sotto la guida di Arialdo e Landolfo, gruppi di fedeli di ogni ceto sociale denunciavano sempre più apertamente il concubinato del clero, che implicava un uso illecito dei beni della Chiesa a vantaggio delle famiglie di ecclesiastici, la cui funzione veniva decisamente contestata. E poiché presso Stefano IX si erano recate successivamente due delegazioni, una dell'alto clero milanese, oggetto delle accuse, un'altra dei contestatori, chiamati "Patarini", forse da un nomignolo dispregiativo (straccioni) che gli avrebbero attribuito i loro avversari, il papa, probabilmente poco convinto dell'utilità di un sinodo provinciale, che si sarebbe dovuto convocare da parte dell'arcivescovo, e sensibilizzato dalle rimostranze dei Patarini, incaricò Ildebrando e Anselmo da Baggio, il futuro papa Alessandro II, di compiere una missione ricognitiva a Milano. Ildebrando svolse l'indagine nel corso di andata in Germania, senza particolari risultati, se non quello di avviare un dialogo che sarebbe stato sempre più rilevante fra Ildebrando (e poi G.) e i capi della Pataria, non solo relativamente alla lotta contro il concubinato, ma anche, e soprattutto, per la lotta al clero simoniaco. Non è un caso che Erlembaldo, succeduto nella guida della Pataria ad Arialdo e a suo fratello Landolfo, morto nel 1066, fosse spesso ricordato nelle lettere di G., nei suoi primi anni da papa. Mentre Ildebrando ritornava dalla Germania e forse era già a Firenze, il 29 marzo 1058 moriva proprio nella città toscana Stefano IX e a Roma i fautori dei Tuscolani ed esponenti di altre famiglie patrizie intronizzavano papa, col nome di Benedetto X, Giovanni vescovo di Velletri. Insieme con i cardinali che non avevano accettato il colpo di mano dei nobili romani e che avevano abbandonato Roma, Ildebrando si adoperò per l'elezione di un papa legittimo, che fu scelto nella persona di Gerardo, vescovo di Firenze, che prese il nome di Niccolò II. La corte tedesca, questa volta informata, diede il suo assenso e intimò a Goffredo di Lorena di accompagnare Niccolò II a Roma, cacciandone l'usurpatore. Il 24 gennaio 1059, dopo una certa resistenza armata da parte dei fedeli di Benedetto X, Niccolò II fu consacrato in S. Giovanni in Laterano: e proprio qui si tenne il sinodo (aprile 1059) che doveva promulgare il decreto sull'elezione dei pontefici romani, nel tentativo di razionalizzare una procedura o incerta ed oscillante o soggetta a interventi esterni, indubbiamente illegittimi. Si trattava del famoso decreto In coena Domini.

In questo testo si è solitamente voluto vedere - anche di recente e soprattutto per la circostanza di una "duplice" redazione dello stesso - il primo grave colpo portato alla tradizionale alleanza tra papato e Impero da parte del gruppo riformatore che aveva ormai preso le redini della politica ecclesiastica. Valutazione suffragata da una presunta irrilevanza che la parte riservata all'imperatore nelle fasi dell'elezione avrebbe assunto nel testo del decreto, una posizione, non si dimentichi, che, a non andar lontani, era stata riconosciuta al padre di Enrico, Enrico III, col titolo di "patricius", sin dai tempi del concilio di Sutri del 1046, in cui erano stati deposti proprio da Enrico III tre papi simoniaci, Benedetto IX, Silvestro III e Gregorio VI. Il decreto si limitava a riconoscere al sovrano che nei suoi riguardi, al momento dell'elezione del nuovo pontefice, si sarebbero dovuti osservare l'"honor" e la "reverentia" che gli spettavano. Vero è che in cosa propriamente consistessero questo "honor" e questa "reverentia" non è detto, ma è innegabile che non solo il decreto del 1059 non trascurava di impegnarsi verso il sovrano germanico, ma continuava anche a riconoscergli una funzione non disprezzabile, come si sarebbe visto al momento dello scisma di Cadalo, dell'elezione di Alessandro II e dell'intervento di Pier Damiani sull'interpretazione di molti aspetti del decreto medesimo (O. Capitani, Tradizione e interpretazione, pp. 49-80, 80-1). Di ciò si dirà dopo: quanto va osservato subito è che Ildebrando non sembra proprio possa essere stato autore del testo, com'è improbabile che lo siano stati Umberto di Silvacandida o lo stesso Pier Damiani. E a limitare la pretesa matrice antimperiale che sarebbe contenuta nel decreto in questione c'è da osservare che i papi successivi a Niccolò II, cioè Alessandro II e lo stesso G., furono eletti senza la minima osservanza della procedura stabilita dal decreto In coena Domini, e di questa inosservanza si sarebbero rammaricati, nella guerra dei pamphlets che si scatenò negli ultimi anni Settanta del secolo ed oltre, proprio i sostenitori di Enrico IV. Netta fu la presa di posizione di Ildebrando nel corso del sinodo a proposito della vita regolare del clero, che propose la cassazione di quelle parti della cosiddetta regola di Aquisgrana, che consentiva ai chierici regolari di mantenere il possesso dei propri beni personali. Poco si sa delle decisioni assunte al riguardo in tale occasione, se non che ci si limitò ad imporre la comunanza dei beni per quanto concerneva le rendite ecclesiastiche, ma non altre ricchezze.

Ai problemi della riforma ecclesiastica si aggiungevano quelli della politica generale della Chiesa, specialmente per quel che riguardava l'Italia meridionale: i Normanni, dopo le alterne vicende dei loro rapporti con Leone IX e successori, si presentavano come la forza militare più potente, se non la più affidabile, dopo la rottura completa di ogni intesa con Bisanzio in seguito allo scisma di Michele Cerulario, sancito, nel 1054, da Umberto di Silvacandida. Ildebrando si recò a Capua dove Riccardo, conte di Aversa, aveva assunto il titolo di principe e pareva arbitro dell'inquieta vicenda della dominazione dei vari signori normanni nell'Italia meridionale, per chiedere aiuto militare contro il conte di Galeria che sosteneva Benedetto X: è forse eccessivo vedere nella missione un deciso cambiamento di alleanze, anche perché di dar man forte a Niccolò II era stato, come si è detto, incaricato Goffredo di Lorena. È legittimo chiedersi se nei contatti con i signori normanni non sia piuttosto da vedere una convergenza di interessi dei Normanni ad assicurarsi un collegamento tutto sommato favorevole con il papa - e di ciò, come si dirà a proposito della "utilitas" nelle direttive della politica di G., questi si sarebbe ricordato - e della Curia romana ad avere una possibilità di opzioni politico-militari più ampia di quella tradizionale dell'imperatore, stante anche la situazione della corte tedesca e del consiglio di reggenza per il giovane re Enrico. Comecchessia, Ildebrando riuscì ad ottenere un appoggio di trecento cavalieri normanni; Niccolò II vedeva così in qualche modo garantita l'osservanza del decreto del 1059 da Roberto il Guiscardo e poteva, nel 1060, celebrare due sinodi a Benevento e a Bari e investire, con ogni probabilità, Roberto il Guiscardo come duca di Puglia, di Calabria e Sicilia e Riccardo come principe di Capua. È da credere che più che prova di un diverso e deciso orientamento della Chiesa di Roma, questi fatti debbano intendersi come "successi" dei Normanni nel loro sforzo di integrazione nel quadro politico europeo. Ildebrando era divenuto anche ufficialmente arcidiacono della Chiesa di Roma: era diventato, come ebbe a dire Pier Damiani, "dominus pape".

Proprio Pier Damiani doveva inviare a Ildebrando, in seguito ad una missione a Milano (1059-1060) commessagli da Niccolò II, una relazione, in cui si ricordava la sua richiesta di disporre di una essenziale raccolta di testi canonistici atti a comprovare i privilegi della Chiesa romana, del vescovo di Roma, della necessaria indefettibilità nell'obbedienza al papa da parte di tutti i fedeli. Si è potuto discutere se questa raccolta potesse essere quella tramandataci come Diversorum Sententiae Patrum o Collectio septuaginta quattuor titulorum, la cui datazione e paternità è stata ed è oggetto tuttora di discussione e diversità di pareri tra gli studiosi; ma non pare assolutamente da ascriversi al tempo di G. o ad una sua iniziativa (cfr. O. Capitani, Tradizione e interpretazione, p. 218 n. 82, con rinvio alla bibliografia specifica, specialmente a H. Fuhrmann, Einfluss und Verbreitung der pseudoisidorischen Fälschungen [...], I-III, Stuttgart 1972-74: II, pp. 486-509), così come non sembra sostenibile la vecchia tesi di un'attribuzione ad Umberto di Silvacandida o allo stesso Pier Damiani, poiché sono stati riconosciuti poco consistenti gli argomenti a favore di queste paternità. Quanto si deve cogliere nella richiesta di Ildebrando è piuttosto il maturarsi di un convincimento che nessuna vera riforma (simonia, concubinato, vita comune del clero, ecc.) si sarebbe potuta attuare senza una ferma e incontrovertibile autorità decisionale, che poteva risiedere soltanto nel papa. E su questo punto potevano esserci perplessità anche all'interno del gruppo riformatore romano, così come doveva apparire scontato che il tradizionale legame con l'Impero - in specie quello dei Salici - avrebbe indubbiamente risentito di una riforma ecclesiastica condotta secondo l'impostazione di Ildebrando.

Nel luglio del 1061 moriva Niccolò II e si ripeteva, nonostante il decreto di elezione e la presenza di Riccardo di Capua e di Ildebrando a Roma, il contrasto tra nobiltà romana e ambienti riformatori. Una missione di nobili in Germania, per ispirazione di Gerardo di Galeria, caldeggiò l'elezione di Cadalo, vescovo di Parma, a pontefice romano, mentre Ildebrando e i cardinali vescovi eleggevano papa, il 30 settembre 1061, Anselmo, vescovo di Lucca, che prese il nome di Alessandro II. Il 28 ottobre si riuniva a Basilea un concilio, per volontà della corte germanica, che invece dichiarava eletto Cadalo con il nome di Onorio II (v. Onorio II, antipapa). L'appoggio a tale decisione da parte dell'episcopato lombardo era stato determinante, e ciò sottolineava vieppiù la necessità di risolvere definitivamente la questione di una Chiesa da secoli legata alle decisioni imperiali. Per diverso tempo la situazione a Roma apparve incerta, anche perché la funzione mediatrice, ma sospetta, di Goffredo di Lorena si limitò a ordinare che Cadalo e Anselmo si ritirassero a Parma e a Lucca, in attesa di un arbitrato decisivo del re. Ed anche in Germania, tuttavia, la situazione si era fatta fluida, per l'ascesa ad un posto di controllo nel consiglio di reggenza di Annone di Colonia, sostanzialmente favorevole al gruppo riformatore. Annone convocò (ottobre 1062) un concilio ad Augusta perché si decidesse della questione; si richiese un supplemento di istruttoria, inviando in Italia il vescovo Burcardo di Halberstadt, tendenzialmente favorevole ad Alessandro II, che rientrò a Roma nel marzo del 1063, scomunicando Cadalo. Ci fu un ritorno offensivo di questi e ancora una volta i Normanni e Ildebrando riuscirono ad opporre una resistenza efficace.

A questo punto apparve abbastanza chiaro che all'interno dello stesso gruppo riformatore si erano venute a creare divisioni: poiché se da un lato Ildebrando perseguiva una condotta politica che premiava, al di là di schemi consolidati, l'operatività, magari anche momentanea, di interventi e di alleanze, magari anche temerarie (e quella dei Normanni lo sarebbe stata!), altri, ed in particolar modo Pier Damiani, si mostravano convinti dell'imprescindibilità di un'azione affidata all'Impero. Così il cardinale ostiense insistette presso Annone perché venisse ripresa l'iniziativa cominciata con il concilio di Augusta. La mossa poteva mettere in discussione la legittimità dell'elezione di Alessandro II e determinò una vivace reazione da parte di Ildebrando. Ma Annone seguì il consiglio di Pier Damiani e convocò a Mantova il 31 maggio del 1064 un concilio, in cui Alessandro espose le ragioni della sua ascesa al pontificato e del ricorso all'aiuto dei Normanni: esse furono accolte, Cadalo fu scomunicato e, pur irriducibile negli anni successivi fino al 1071-1072, rimase sempre più isolato. Alessandro II aveva vinto: e certo aveva vinto per l'appoggio dato anche da Ildebrando, la cui azione comunque, durante il pontificato di Alessandro, rimase in una posizione di preminenza, anche se non esclusiva. Il superamento dello scisma e il raggiungimento di un rapporto accettabile con la corte tedesca ebbero l'effetto di stimolare la verifica delle possibilità di riforma della Chiesa occidentale: soprattutto allargarono gli orizzonti dell'azione di Alessandro II e del gruppo riformatore romano, dove, intorno al 1061 era venuto a mancare Umberto di Silvacandida. La verifica delle possibilità di riforma doveva passare anche (e soprattutto) all'interno delle Chiese locali, con interventi diretti, magari scavalcando gerarchie, ignorando procedure, tralasciando consuetudini. Anche con il ricorso alla forza armata: sono del tempo di Alessandro II gli affidamenti ai Normanni e ai Patarini dei vessilli di S. Pietro, simbolo di missione da compiere (in Sicilia contro i musulmani; a Milano contro il clero simoniaco; come è del tempo di Alessandro II, per deciso intervento di Ildebrando, la consegna a Guglielmo di Normandia dello stesso vessillo, quasi benedizione nella campagna condotta dai Normanni contro i Sassoni di Aroldo, nel 1066).

La riforma stava assumendo sempre più i caratteri di un rivolgimento della tradizione o, se si vuole, del modo consuetudinario in cui si era attuata la tradizione: sempre più veniva esaltata la decisione operativa della Chiesa di Roma e l'opera del papa, che, assumendo i caratteri di una vera e propria iniziativa guerresca, finiva col suscitare violente reazioni anche da parte di altri esponenti del gruppo riformatore romano, come Pier Damiani, che non avrebbero esitato a condannare l'appoggio dato a Guglielmo per la sua impresa inglese (Registrum VII, nr. 23, del 24 aprile 1080). E sempre Pier Damiani e Ildebrando si trovarono da parti contrapposte quando si dovette giudicare della richiesta dei monaci vallombrosani di deporre il vescovo di Firenze, Pietro Mezzabarba, accusato di simonia suscitando un coro di proteste da parte del clero riunito in concilio a Firenze per affrontare l'argomento. Pier Damiani aveva polemizzato contro la predicazione dei monaci, Rainaldo di Como aveva contestato le loro posizioni in materia di dottrina sacramentaria: solo Ildebrando li aveva difesi, pur tra le esitazioni dello stesso Alessandro II, che soltanto si convinse a deporre Pietro Mezzabarba quando venne vittoriosamente sostenuta la prova del fuoco da Pietro Igneo per sostenere l'accusa al vescovo (si v. per tutto ciò G. Miccoli, Pietro Igneo. Studi sull'età gregoriana, Roma 1960). Così Alessandro II, inviando una missione a Milano, era intervenuto a contenere le contestazioni patariniche scoppiate contro il clero concubinario e simoniaco dopo l'uccisione di Arialdo e l'assunzione della guida del movimento da parte di Erlembaldo; ma la situazione precipitò quando si profilò la successione all'arcivescovo Guido, legato all'Impero e già favorito da Enrico III.

Guido si era dimesso designando il suddiacono Goffredo come successore e restituendo l'anello e la croce ad Enrico in Germania: ciò avrebbe ancora una volta legato la più importante provincia ecclesiastica dell'Italia settentrionale all'Impero. Difficile dire se le reazioni si scatenarono anche per sollecitazione di Ildebrando, che comunque da allora fu strenuo sostenitore del movimento patarinico. Goffredo fu imprigionato dai Patarini, che elessero, con il consenso del pontefice e del legato pontificio Bernardo, il chierico milanese Attone. Questi, di fronte alla piega tumultuosa presa dagli eventi, rinunciò, ma la sua decisione fu annullata e Goffredo venne scomunicato, per esplicita richiesta di Ildebrando, nel concilio quaresimale del 1072. Dal canto suo, Enrico persistette nel sostegno a Goffredo che fu, su richiesta del re, consacrato dai suffraganei.

In Lombardia era ormai guerra: anche se Alessandro, al contrario di Ildebrando, volle evitare ogni atto che potesse compromettere definitivamente i rapporti con la corte tedesca a proposito di interventi nella concessione dell'investitura da parte del sovrano. Fra i tanti vescovi tedeschi accusati chi di concubinato, chi di simonia, solo quello di Strasburgo si presentò al papa, forse nel sinodo quaresimale del 1073. Furono scomunicati alcuni dei più stretti collaboratori di Enrico, che probabilmente era stato proprio da loro consigliato a prendere posizione a favore di Goffredo, come avrebbe scritto di lì a poco allo stesso Ildebrando, che era nel frattempo divenuto papa Gregorio VII. Alessandro II non aveva messo in discussione il re: ma aveva posto le basi per una sua più che eventuale accusa, in quanto collegato con scomunicati. Non si può dire se lo avrebbe comunque fatto, poiché il 21 aprile 1073 morì. Ildebrando, arcidiacono della Chiesa romana in sede vacante, assunse la direzione della cosa ecclesiastica. Il 22 aprile, nonostante le disposizioni date dallo stesso Ildebrando circa le procedure liturgiche che si sarebbero dovute osservare per la morte di Alessandro II, proprio mentre si svolgevano i funerali del defunto pontefice nella basilica lateranense, il popolo dei fedeli insorse, acclamando papa l'arcidiacono, forse anche per un incitamento in questo senso da parte del cardinale Ugo Candido. Sull'avvenimento non possediamo che un protocollo ufficiale - e non scevro da ambiguità e perplessità - e la testimonianza dello stesso G. nelle lettere subito inviate a varie personalità della cristianità occidentale. Non a re Enrico comunque.

Più volte, nel corso del suo pontificato, G. avrebbe protestato di non aver voluto questa "acclamazione": ma è difficile sottrarsi ad una sorta di sospetto di "giustificazione" a posteriori. Intanto il testo del protocollo (Registrum I, nr. 1*) dà netta la convinzione di un pastiche, accomodato per rispettare almeno alcuni tratti essenziali del decreto di elezione di Niccolò II (il clero romano è confusamente individuato con le indicazioni di "nos cardinales clerici acoliti/sudiaconi diaconi presbyteri, presentibus venerabilibus episcopis et abbatibus, clericis et monachis consentientibus, pluribus turbis utriusque sexus diversique ordinis acclamantibus [...]"); si aggiunga che l'iniziativa dell'elezione sarebbe stata assunta "ne sedes apostolica diu lugeat proprio destituta pastore": Alessandro II era morto il giorno prima! E il tutto si sarebbe svolto a S. Pietro in Vincoli, e non a S. Giovanni in Laterano, come lo stesso G. avrebbe scritto pochi giorni dopo a Desiderio di Montecassino (ibid., nr. 1). In secondo luogo, rimane motivo di profonda perplessità la circostanza che G. si preoccupasse di avvertire subito persone a lui fidate, come il già citato Desiderio di Montecassino, Gisulfo, principe di Salerno, e Wiberto, arcivescovo di Ravenna, notoriamente legato alla corte tedesca. Se è indubbio che su di un piano di fatto non possa suscitare meraviglia un accordo sulla persona dell'arcidiacono che guidava largamente la politica ecclesiastica da molti anni, va anche detto che la mancata comunicazione al re non può essere considerata un fatto di particolare gravità o un deliberato gesto di sfida, nel tenere ufficialmente all'oscuro proprio Enrico. Ufficialmente, certo, ma nemmeno troppo, in quanto nella lettera a Desiderio di Montecassino G. si preoccupava di scrivere "Dominam Agnetem imperatricem et Rainaldum venerabilem Cumanum episcopum ex nostra parte saluta et quantum erga nos dilectionis habuerint, nuc ut ostendant, nostra vice fideliter obsecra". Quindi all'imperatrice, madre di Enrico IV, la notizia, sia pure per via vicaria, era giunta. Può anche essere presa in considerazione la possibilità che G. si astenesse dal comunicare direttamente ad Enrico la propria elezione a causa del suo rapporto con i consiglieri già scomunicati da Alessandro II, come si è ricordato: ma non sembra che a questa mancata comunicazione ad Enrico vada attribuita una grande importanza.

A considerare l'attività svolta nel primo anno di pontificato, attività testimoniata soprattutto dalle lettere del Registrum e da altre non contenute in esso e conosciute come Epistolae collectae o vagantes, oltre che da fonti narrative di dubbia attendibilità, e a confrontarla con quella che si attuò negli anni successivi, si è notato come G. abbia accentuato la rigidità della sua posizione, soprattutto attribuendo, dopo il 1074, un carattere da "tribunali di inquisizione" agli stessi concili che con regolarità volle tenere a Roma durante il suo pontificato; e ne tenne ben undici: Quaresima 1074, autunno del 1074; Quaresima 1075; Quaresima 1076; Quaresima 1078, autunno 1078; Quaresima 1079; Quaresima 1080; Quaresima 1081; autunno 1083, tutti a Roma; seconda metà del 1084, a Salerno. È un'impressione complessivamente esatta: ma va contemperata con due considerazioni. La prima è che esistono oggi alcuni dubbi circa la datazione delle lettere che avrebbero comunicato a Sigfrido di Magonza, Werner di Magdeburgo e Ottone di Costanza i contenuti decisionali del concilio di Quaresima del 1074, di cui non abbiamo il protocollo: nonostante le ampie argomentazioni del Borino, infatti, che fissavano al 1074 la datazione delle lettere e quindi delle decisioni prese, più recentemente H.E.J. Cowdrey (The Epistolae Vagantes, pp. 160-61) sembra ancora propendere per il 1075. La seconda è che appare sempre difficile attribuire una qualche importanza ai contesti cronologici in cui si svolge l'azione di G., per le motivazioni che verranno ampiamente illustrate più avanti. Se si ammette che, nella larga elasticità che si riservava nelle proprie decisioni, G. manteneva comunque sempre fermo lo scopo primario della sua azione, e cioè la verifica da lui operata dell'appartenenza alla fede di Cristo dei fedeli - tutti i fedeli - commessi alla sua guida pastorale, riesce difficile collegare strettamente eventi storici e caratteri essenziali delle decisioni. Sta di fatto che nelle su accennate lettere si ribadivano provvedimenti antisimoniaci e anticoncubinari non diversi da quelli che erano stati già adottati da Niccolò II e che non avevano nulla di drastico o di teoricamente assoluto (invalidità dei sacramenti amministrati dai simoniaci). Tutto ciò non disdiceva quanto era stato già annunziato nelle lettere di convocazione al concilio, due delle quali sono giunte fino a noi, in quanto contenute nel Registrum I, nrr. 42 e 43: a Sigeardo di Aquileia e ai suffraganei di Milano. In esse G. ribadiva la necessità di operare congiuntamente con il papa nell'interesse della "utilitas" della Chiesa (e si noti che il concetto comincia ad assumere una valenza per così dire "ideologica"). Significative e programmatiche, quindi, già nel 1074 sono le parole rivolte ai suffraganei di Milano: "Non incognitum vobis esse credimus in Ecclesia Romana iamdudum constitutum esse ut per singulos annos ad decorem et utilitatem sancte ecclesie generale concilium apud sedem apostolicam sit tenendum". Affermazione che poteva, forse, valere per i tempi di Leone IX, non per i suoi successori. È segno che fin dall'inizio i concili - anche quello del 1074, indipendentemente dalla possibile diversa datazione - ebbero per G. il carattere di riscontro dell'azione finalizzata al prestigio della Chiesa romana. Il confronto era ormai a tutto campo, al di là delle valutazioni circostanziali - da non confondersi con mero opportunismo, che sarebbe banalizzante, sia se attribuito al re, sia se attribuito ai vescovi, sia, e ancor di più, se attribuito al papa. Gli ambiti di confronto rimanevano sostanzialmente tre: la questione milanese; il rapporto con la corte tedesca, che con la questione milanese era strettamente collegata; le relazioni con i Normanni. È fuor di dubbio che l'articolarsi delle relazioni con la Spagna, l'Europa orientale, la stessa Inghilterra e la Francia rientrasse, con attenzione, nel ventaglio delle opportunità di verifica della propria azione da parte del papa: ma è altrettanto certo che i nodi della sua azione politico-ecclesiastica riguardassero le tre problematiche anzidette.

Dei rapporti con Enrico, quanto all'atteggiamento di fondo nei confronti del sovrano, si è già detto e si dirà: la volontà di giungere ad un chiarimento - non "riappacificazione" perché ostilità aperta non c'era mai stata - è dimostrata ampiamente sia dalla cautela degli approcci indiretti compiuti dal papa anche per ciò che concerneva la sua elezione, e di cui si è detto, sia per la questione rimasta in sospeso dei consiglieri del sovrano tedesco, scomunicati da Alessandro II. Una volontà di accordo non si sarebbe potuta manifestare più apertamente di quanto fece G. con Erlembaldo (cfr. infra). Ma era una volontà di accordo che si muoveva su piani diversi per i due protagonisti e la disponibilità che indubbiamente essi dimostrarono non era della stessa sostanza. Era valutazione essenzialmente politica quella di Enrico, non necessariamente simulazione, si badi; era tattica pastorale e perciò non banalmente strumentale e immediata quella del pontefice. Lo si vide in occasione del sinodo quaresimale del 1075, che comunemente si ritiene una svolta per quello che concerne i rapporti con Enrico e la corte tedesca. Sarà data poi una valutazione alle decisioni che lì vennero assunte, e del carattere stesso di "inversione consapevole di rotta" che quel concilio poté rappresentare; qui preme sottolineare che il concilio fu preceduto da una serie di interventi per situazioni locali di segno diverso: Registrum II, nr. 43 ad Ugo di Die, in cui si arriva ad affermare, stante la severità del legato apostolico nei confronti della propria Chiesa in Borgogna, che "melius placet ut pro pietate interdum reprehendaris quam pro nimia severitate in odium ecclesie tue venias", tanto più che delle questioni pendenti si sarebbe dovuto discutere al prossimo concilio; Registrum II, nr. 45 ai duchi Rodolfo di Svevia, Bertoldo di Carinzia e Guelfo di Baviera, dell'11 gennaio 1075, per esortarli a combattere duramente contro la simonia in termini del tutto diversi e impegnativi personalmente.

Si era a metà gennaio 1075 e quest'ultima rigorosa esortazione di G. era indirizzata a chi poteva far sentire la propria voce "tam in curia regis quam per alia loca et conventus regni", soprattutto se si pensa che alla fine di febbraio di quello stesso anno (24-28 febbraio) il consueto sinodo quaresimale sarebbe stato incentrato, per una buona parte, su coloro che avevano trascurato di prendere nella dovuta considerazione le sanzioni loro comminate per colpe di simonia e di concubinato, da applicarsi anche con la forza.

Ora per quanto ci è dato di sapere dal testo succinto che riassume le decisioni del sinodo quaresimale del 1075 noi apprendiamo di deliberazioni assai severe nei confronti di cinque consiglieri del re, "quorum consilio ecclesie venduntur" (separazione dalla Chiesa e minaccia di scomunica in caso di mancata presentazione entro il 1° giugno successivo); dello stesso Filippo di Francia (scomunica in caso di mancate soddisfazione e garanzia del suo pentimento); di Liemaro di Brema (sospensione e impedimento dal ricevere la comunione); di Guarnerio di Strasburgo, Enrico di Spira, Ermanno di Bamberga (egualmente sospesi). Sospesi furono anche Guglielmo di Pavia e Cuniberto di Torino, mentre Dionisio di Piacenza venne deposto; Roberto il Guiscardo e Roberto di Loritello, in quanto invasori delle terre di S. Pietro furono scomunicati.

A ben guardare - e per quanto concerne questa parte - il sinodo quaresimale del 1075 conteneva qualche inasprimento, soprattutto nei confronti del clero concubinario, per casi che erano da qualche tempo in discussione, come soprattutto quello di Dionisio di Piacenza e Liemaro di Brema. Se in ciò si fosse dovuto risolvere il concilio quaresimale del 1075 - a parte la soluzione salomonica di un vecchio contenzioso tra la diocesi di Praga e quella di Olmütz (di cui si dirà meglio più avanti) - non avrebbe avuto maggior rilievo di altri. Ma così non fu, per alcuni elementi di grandissimo significato. Da una notizia del cronista milanese Arnolfo (Liber gestorum recentium IV, 7), contemporaneamente ad un incontro tra messi di Enrico e di Roberto il Guiscardo, si sarebbe svolto un sinodo a Roma in cui il papa "interdicit regi ius deinde habere aliquod in dandis episcopatibus omnesque laicas ab investituris summovet personas. Insuper facto anathemate cunctos clamat regis consciliarios, id ipsum regi comminatus, nisi in proximo huic obediat constituto". Quindi, volendosi riconoscere nelle parole di Arnolfo un riferimento alla notizia contenuta in Registrum II, nr. 52a, circa la condanna dei cinque consiglieri regi, nel sinodo del 1075, si sarebbe avuta la prima condanna ufficiale della investitura laica. D'altro canto, non trovandosi, nei mesi successivi al marzo del 1075, nessuna risonanza per un provvedimento così grave e nessuna reazione della corte tedesca, si è avuta da parte degli studiosi una fondata difficoltà ad accogliere la notizia del cronista milanese. Si è pensato, da parte della quasi generalità degli studiosi, che il decreto di divieto dell'investitura laica fosse stato deciso nel 1075, ma non promulgato; successivamente G.B. Borino (Il decreto di Gregorio VII, in Studi Gregoriani, VI, pp. 329-48) affermò che nel 1075 il decreto fosse stato effettivamente promulgato, ma non pubblicato. Ma per uno spostamento in avanti, per considerazioni di carattere generale, oltre che per motivi ermeneutici delle fonti, R. Schieffer (Die Entstehung des päpstlichen Investiturverbots) ritenne che il decreto dovesse essere ascritto al 1078; tale tesi di R. Schieffer venne respinta da F. Kempf (recensione in "Archivum Historiae Pontificiae", 20, 1982, pp. 409-15) ed un ultimo tentativo di soluzione "compromissoria" venne compiuto da H.E. Hilpert.

Non è certo questa l'occasione di riprendere dall'inizio la questione; ma si deve osservare che, stando ai dati delle fonti per lo meno più prossime all'evento, si può dedurre che: il testo di Registrum II, nr. 52a (un breve riassunto dei provvedimenti assunti nel sinodo quaresimale del 1075) non parla di proibizione di investitura laica, ma solo di "vendita" di Chiese da parte di consiglieri del re tedesco, nei riguardi del quale non si fa menzione di provvedimento alcuno; la ricostruzione delle decisioni di G. nel 1075 in materia di investitura laica può essere fatta solo sulla base di una sua lettera (ibid. III, nr. 10) ad Enrico, in cui si afferma che il re non ha dato seguito alle promesse di pentimento e di resipiscenza fatte più volte, ma ha addirittura continuato ad appoggiare coloro che avrebbe dovuto per lo meno allontanare dalla sua presenza; Enrico aveva continuato a dare appoggio a Goffredo, nonostante gli impegni assunti con la madre, i legati Giraldo di Ostia e Ubaldo di Palestrina; le decisioni del papa potrebbero trovare un temperamento con l'invio di una missione di coloro "qui si aliqua ratione demonstrare vel astruere possent [...] promulgatam [...] possemus temperare sententiam, eorum consiliis condiscenderemus".

La lettera è collocabile tra gli inizi del dicembre 1075 e gli inizi del gennaio 1076: ma comunque fa riferimento ad una "promulgata sententia", che quindi dovrebbe essere stata presa nel 1075. Di investiture, in senso proprio, parla solo Arnolfo: i testi di G. parlano di simoniaci, di vendita delle Chiese, di concessione di Chiese nonostante lo stato di Enrico che aveva ancora libera frequentazione con scomunicati; ancora una volta è questa condizione, come già lo era stata per Anselmo di Lucca, quella che impedisce un'investitura, non l'investitura in sé e per sé; e che le cose si debbano intendere così si potrebbe arguire dal fatto che di nessun contemperamento del decreto si potrebbe parlare, se il decreto del 1075 avesse contemplato la condanna dell'investitura regia in quanto tale e non la condanna dell'investitura da parte di chi si era mostrato completamente disobbediente al papa. La concessione di un'investitura senza tener conto della frequentazione di persone scomunicate in quanto simoniache si prospetta come ulteriore passo verso una "fatale coincidenza dell'investitura con la simonia". Le argomentazioni di G.B. Borino, che relegano alla fine del suo intervento le parole di Arnolfo e che comunque non possono negare che l'unico documento in cui si affermi il divieto della concessione del "donum episcopatus a laica persona" (ma non si parla nemmeno in questo caso di divieto assoluto dell'investitura laica!) sia una lettera a Ugo di Die del 12 maggio 1077 (ibid. IV, nr. 22), quindi successiva a Canossa e agli eventi del 1076 (scomunica di Enrico da parte di G.) possono apparire non convincenti per un'accettazione di una proibizione dell'investitura laica già del 1075.

Si deve osservare che la stessa lettera ad Ugo di Die, appena citata, prende le mosse dal caso di Gerardo vescovo eletto di Cambrai, che aveva ricevuto l'investitura da Enrico re, senza sapere che esisteva un decreto del papa che proibiva "huiusmodi acceptionem" e che ignorava che Enrico era stato scomunicato: ed Enrico era stato scomunicato per aver disobbedito al papa, e la scomunica, certamente adombrata nella lettera dell'8 dicembre 1075 (ibid. III, nr. 10), era stata solennemente pronunciata nel concilio di Quaresima del 1076 (ibid., nr. 10a) del 14-20 febbraio. È lecito chiedersi come si possa accettare quale base di ricostruzione delle decisioni del sinodo quaresimale del 1075 una lettera che rimanda a fatti che risalgono solo al 1076. Inoltre, appare incontrovertibile che, se effettivamente i supposti provvedimenti del concilio di Quaresima del 1075 dovessero essere interpretati come vuole Arnolfo, e cioè contro la persona del re, non ci si spiegherebbe perché ancora nel luglio e nel settembre dello stesso 1075 (ibid., nrr. 3, 7) G. si rivolgesse ad Enrico in termini tali che sarebbe impensabile fossero concepiti verso una persona addirittura minacciata di scomunica. Che non venne nemmeno quando (ibid., nr. 10) Enrico aveva favorito, viventi ancora Goffredo e Atto, l'elezione di un chierico della Chiesa milanese, Tedaldo (ibid., nr. 9, dell'8 dicembre 1075), contravvenendo ad una promessa, e provveduto a insediare a Fermo e a Spoleto due ecclesiastici di sua fiducia, ma del tutto ignoti al papa. Sembra allora opportuno pensare che nel 1075, nel sinodo quaresimale, si fossero prese delle disposizioni severe, ma non ultimative nei confronti di coloro, compresi i consiglieri del re, che continuavano a comportarsi nei riguardi della Chiesa con disprezzo dei canoni e sovvertendo l'ordine della religione cristiana: "primam et unicam ecclesiastice discipline regulam [...] repetendam et sectandam esse censuimus". Proprio l'applicazione formale dell'ordine canonico era stata ribadita nelle sentenze emesse nel concilio quaresimale del 1075: e ciò soltanto ribadisce G. quando dichiara "nihil novi, nihil adinventione nostra statuentes". Con il che non si vuol dire che la lettera dell'8 dicembre 1075 non avesse quasi tutti gli elementi di un ultimatum: basti pensare che all'inizio della stessa G. affermava di inviare la benedizione apostolica con molti dubbi, perché, nonostante la decisione sinodale (Quaresima del 1075) di scomunicare i suoi consiglieri, Enrico continuava ad avere rapporti con loro; c'era anche un invito molto esplicito a fare penitenza, secondo quanto disporrà il papa.

Le trattative con i tre messi di Enrico erano ancora in corso e G. dichiarava che, quando i legati regi fossero rientrati in Germania ed avessero esposto i punti di vista del papa e fossero ritornati presso di lui con la risposta del re, avrebbe a sua volta risposto ad Enrico. Le trattative comunque fallirono e il sovrano, forte della vittoria sui Sassoni, per la quale d'altro canto aveva ricevuto le felicitazioni di G., s'adoperò per la convocazione di un concilio a Worms (24 gennaio 1076) in cui l'episcopato tedesco, anche nei suoi membri più importanti, come Sigfrido di Magonza ed Ermanno di Metz, denunciò G., in una lettera, sia per l'irregolarità della sua elezione sia per l'arroganza e la prepotenza usata nei confronti dei vescovi di tutta Europa, sia per lo spergiuro commesso nel non mantenere fede al giuramento, reso ancor vivo Enrico III, di non accettare mai di essere eletto papa senza il consenso o dello stesso Enrico III o del figlio Enrico (IV): la lettera si concludeva con la dichiarazione dei presuli di non riconoscere più come papa Gregorio VII. Il re, dal canto suo, in altra lettera formulata nella stessa occasione, ribadiva le stesse accuse, aggiungendo che G. aveva pubblicamente affermato che o sarebbe morto o avrebbe fatto perdere a Enrico l'anima (scomunica) insieme con il Regno. Ragioni più che sufficienti per rifiutarlo come papa e per intimargli di abbandonare Roma, sulla quale lo stesso Enrico godeva del diritto di patriziato. In altra lettera ai Romani, Enrico chiedeva che il popolo ed il clero della città costringessero G. ad abbandonare il soglio papale ed accettassero il nuovo papa che Enrico, con il consenso di tutti, avrebbe eletto. La risposta (ibid. III, nr. 10, che contiene il protocollo del sinodo quaresimale del 1076) non si fece attendere: furono scomunicati i vescovi lombardi, quelli tedeschi, lo stesso re Enrico, i cui sudditi vennero sciolti da ogni vincolo di fedeltà. Ove fosse certamente collegabile con l'aggressione subita da G. ad opera di Cencio, figlio del prefetto Stefano, in occasione della messa di Natale, celebrata nella basilica di S. Maria Maggiore, un tacito consenso di Enrico, si dovrebbe giungere alla conclusione che nel dicembre del 1075 ogni speranza di mantenere in vita una possibilità di trattative tra G. ed il re si perdette definitivamente. La scomunica al re ed il proscioglimento dei sudditi dal giuramento di fedeltà ridiede animo ai Sassoni e ai numerosi signori tedeschi antienriciani.

A Ulma si decise di convocare a Tribur per il 16 ottobre 1076 le assise del Regno, con la prospettiva di procedere ad una nuova elezione; nonostante questa assemblea si concludesse, anche per un intervento moderatore di G., in modo interlocutorio, per un impegno di Enrico a valutare la possibilità di una riappacificazione con il papa, previa soddisfazione resa a quest'ultimo da lui stesso e da coloro che con lui erano stati scomunicati, nonostante ciò, si diceva, venne fissata per il 6 gennaio 1077 una grande assemblea del Regno ad Augusta, che sarebbe stata presieduta da Gregorio VII. Per Enrico era l'ultima cosa desiderabile, in quanto nella più favorevole delle ipotesi avrebbe visto, salvando la corona, affidata all'obbedienza più assoluta a G. la propria posizione; in caso contrario, avrebbe perso il Regno, a favore dei suoi nemici. Occorreva per lo meno ritardare la partenza del papa per la Germania o farla rinviare sine die. In realtà fu deciso che l'assemblea si sarebbe tenuta il 2 febbraio, per dar modo al papa di raggiungere la Germania. G. si mosse per compiere quella che sarebbe potuta essere la sua missione più trionfale: senza però dover tener conto di una contromossa di Enrico, che in qualche modo gli venne incontro, giungendo in Italia con un piccolo seguito di fedeli; G. non fece l'unica cosa che avrebbe dovuto fare: proseguire per la Germania. Si fermò nel castello di Matilde, a Canossa, nel Reggiano, quasi ad attendere il "nemico", che vi giunse a sua volta il 25 gennaio 1077 e attese tre giorni, penitente, che il papa lo ricevesse. Fu alla fine ricevuto e con G. c'erano Matilde, Ugo di Cluny, Azzo d'Este e Adelaide di Savoia, i quali tutti vollero intercedere a favore del re tedesco. Il papa liberò dalla scomunica Enrico, che, impetrato il perdono, promise che si sarebbe comunque adoperato per assicurare una soluzione pacifica per il Regno di Germania. La sua assoluzione non implicò, automaticamente, la sua "restaurazione" sul trono di Germania: ma non la escluse. I Sassoni intesero diversamente l'accaduto e a Forchheim, il 13 marzo del 1077, elessero re di Germania Rodolfo di Svevia, ritenendo che G. non avrebbe avuto difficoltà a riconoscerlo. Ma il papa era arrivato al punto in cui non poteva lasciare che le questioni del più potente Regno d'Europa e della "Christianitas" fossero risolte senza un suo intervento. Non accolse la richiesta di condannare Enrico come il cardinal legato Bernardo avrebbe voluto, avendo scomunicato il re a Goslar il 12 novembre 1077; non accolse la richiesta di Enrico di scomunicare Rodolfo; ribadì il convincimento che solo una grande assemblea del Regno avrebbe potuto risolvere - ma sotto il suo personale controllo - la questione tedesca. Ma in Germania non era il caso di andare senza scorta: e questa non venne, così che, rimasto in Lombardia fino ad estate inoltrata, G. riprese la via di Roma, dove il fratello di quel Cencio che aveva già attentato alla sua vita aveva trucidato un altro Cencio, prefetto di Roma e figlio di Giovanni Tignoso, già alleato di G. stesso. Non solo, Roberto il Guiscardo, che aveva cacciato definitivamente da Salerno Gisulfo, faceva di nuovo balenare una minaccia molto più prossima a Roma di quella di Enrico o, in qualche misura, dello scontento Rodolfo. Per la questione tedesca G. non poteva far altro che insistere per una grande assemblea e richiedere, in posizione di oggettiva imparzialità, a Udone di Treviri (ibid. V, nr. 7, del 30 settembre 1077) e a tutti gli arcivescovi, vescovi, duchi, principi, marchesi di Germania (ibid., nr. 15, del 9 marzo 1078, per dar notizia delle decisioni del concilio quaresimale del 1078) di adoperarsi per non ostacolare in alcun modo le missioni dei legati papali, di non fomentare disordini nella necessità di riportare la pace in Germania.

Nel sinodo quaresimale del 1078 le novità non furono molte, se si eccettua che nel capitolo 14 del protocollo delle decisioni sinodali si poteva per la prima volta in maniera inequivoca leggere che "ordinationes vero illorum, qui ab excommunicatis sunt ordinati, sanctorum patrum sequentes vestigia, irritas fieri censemus" (ibid., nr. 14a, protocollo del 27 febbraio-9 marzo 1078). Sul valore di questa presa di posizione, insolitamente impegnata, se lo fu veramente, sul piano teorico, si dirà poi. Ma decisamente molto rilevante, per quanto si è detto a proposito di investiture, fu il sinodo del novembre 1078 in cui i legati dei due re giurarono che nessuno dei due avrebbe ostacolato la missione di pace degli inviati del papa e in cui per la prima volta in maniera chiara veniva proibita l'investitura laica (cap. 8 del protocollo conciliare: "Quoniam investituras ecclesiarum contra statuta sanctorum patrum a laicis personis in multis partibus cognovimus fieri et ex eo plurimas perturbationes in ecclesia oriri, ex quibus christiana religio conculcatur, decernimus, ut nullus clericorum investituram episcopatus vel abbatie vel ecclesie de manu imperatoris vel regis vel alicuius laice persone viri vel femine, suscipiat. Quod si presumpserit, recognoscat investituram illam apostolica auctoritate irritam esse et se usque ad dignam satisfactionem excommunicationi subiacere").

L'11 febbraio del 1079 si teneva a Roma il consueto concilio quaresimale, che oltre a registrare l'ennesima professione di fede di Berengario di Tours sulla presenza reale, registrò le formule di giuramento dei due re circa l'atteggiamento che avrebbero mantenuto nei confronti dei legati pontifici per l'assemblea che si sarebbe tenuta in Germania per decidere le sorti del Regno e circa l'atteggiamento di completa osservanza delle decisioni che vi sarebbero state prese. I due legati pontifici, Pietro Igneo e Udalrico, si scontrarono in un atteggiamento di Enrico duttile e ossequioso, ma chiaramente orientato a prendere tempo e a non rispettare il termine improrogabile per l'incontro che sarebbe dovuto cadere non oltre la festa dell'Ascensione. Enrico però riusciva ad ottenere importanti successi militari contro il rivale o, per lo meno, a non essere sconfitto, e le varie occasioni di incontro che i due legati ebbero nel corso del 1079 non garantirono nessun risultato.

G. si risolvette a prendere finalmente una decisione drastica: il 7 marzo 1080, in occasione del consueto concilio quaresimale, oltre a rinnovare le scomuniche a Tedaldo di Milano e Wiberto di Ravenna, nonché ad altri presuli simoniaci, e a ripetere le decisioni contro l'investitura laica assunte l'anno precedente, pronunziava una seconda condanna di scomunica contro Enrico, reo di aver mentito al pontefice, di aver cercato di tirarlo dalla sua parte nella lotta che lo opponeva a Rodolfo, di aver soprattutto mancato di obbedire, commettendo così un reato di idolatria. Apparentemente si assistette al ripetersi di un copione già svolto nel 1076. Ci furono condanne reciproche: da parte regia il 31 maggio a Magonza un'assemblea di vescovi enriciani dichiarò deposto G. e proclamò la necessità di avere un nuovo papa; il 25 giugno 1080, a Bressanone, un'assemblea di vescovi italiani, tedeschi e della Borgogna, con il solo cardinale Ugo Candido ripeté solennemente la deposizione di G. ed elesse Wiberto di Ravenna nuovo papa con il nome di Clemente III (v. Clemente III, antipapa). Da parte papale, il 27 febbraio 1081, nel concilio quaresimale si ripeterono le condanne contro Enrico ed i suoi fautori (Registrum VIII, nr. 20a). G. cercò ancora una composizione con i Normanni, congelando le questioni scottanti che lo avevano posto soprattutto contro Roberto il Guiscardo; fece molto affidamento sull'aiuto militare che Matilde di Canossa poteva garantirgli in Italia centrale: ma non poté impedire che Enrico, alla testa di un forte esercito entrasse in Italia e giungesse ad assediare Roma dal 21 maggio 1081 al maggio del 1084, quando il 27 di quel mese, dopo che Wiberto era stato consacrato papa e intronizzato in S. Pietro (27 marzo 1084), solo l'intervento dei Normanni di Roberto il Guiscardo salvò G. dall'assedio tedesco posto a Castel S. Angelo. G. fu portato a Salerno, mentre a Roma si perpetrava uno dei più selvaggi saccheggi che la città in tanti secoli avesse subito, ad opera dei "liberatori" Normanni. Era veramente la fine: non erano mancati tentativi di pacificazione, da una parte e dall'altra, nel corso di quell'anno, ma la diversa posizione politica e militare e la morale impossibilità di G. di cedere a qualsiasi compromesso che potesse ledere le sue posizioni di principio resero vani questi tentativi. Anzi, ne venne precisata tutta una tesi di G. sul potere terreno, in una seconda, famosa lettera a Ermanno di Metz, che sarà oggetto più avanti di particolare attenzione.

Continuò anche dopo questi eventi la guerra tra i fautori di Enrico, ormai imperatore (incoronato da Wiberto il 31 marzo del 1084), e di G.: e continuò con veemenza estrema la lotta dei libellisti. Ma G. a Salerno, dove aveva riunito un ultimo concilio che aveva ribadito la condanna e la scomunica dei suoi avversari e da dove aveva continuato a mantenere qualche rapporto con il resto della cristianità, pur nel progressivo abbandono di tanti vescovi ed ecclesiastici, il 25 maggio 1085 moriva. Vere o non vere, le parole che la tradizione narrativa e biografica gli attribuì in punto di morte ("dilexi iustitiam et odio habui iniquitatem, idcirco morior in exilio") sintetizzano la solitaria e disperata grandezza di questo papa.

Per quel che riguarda il rapporto di G. con la Chiesa c'è da considerare come almeno dal tempo di Leone IX si era proposto all'interno della stessa il problema di una funzionalità razionale delle sue strutture portanti (arcivescovati, monasteri, vita religiosa), non perché fosse divenuta oggetto di cattura, fruizione, snaturamento da parte di un potere laico, ma per l'immedesimarsi di essa con il contraddittorio e convulso mondo dei vari poteri esercitati di fatto, se non di diritto, nell'Europa occidentale e in Italia - un immedesimarsi, che aveva necessariamente quasi cancellato l'identità di immagini e di funzioni del clero. In quel momento s'era imposta la necessità di una "restaurazione" dello statuto della società cristiana. Questa "restaurazione" non poteva non procedere dalla verifica delle strutture gerarchiche e dei modi di accesso ad esse, visto che al loro interno s'era verificato quel fenomeno che nel linguaggio specifico si chiama "simonia", ed in quello storiografico si traduce con "clericalizzazione della ricchezza": per dire che, in questo caso, come in altri di cui si dirà, G. non aprì una problematica "nuova" (non lo era per lo meno dai tempi di Gregorio Magno!), ma volle affrontarla con meccanismi alternativi a quelli che le infrastrutture normativo-canonistiche del tempo gli offrivano. Queste infrastrutture erano largamente ispirate dallo spirito informatore delle pseudoisidoriane (metà circa del IX secolo) che era particolarmente "garantista" della posizione dell'episcopato proprio nei riguardi della possibilità di intrusione e anche aggressione del potere laico verso quello ecclesiastico. Ma questo garantismo, al di là delle intenzioni, aveva dato luogo ad una sostanziale "impraticabilità" di ogni procedura accusatoria nei confronti dell'episcopato medesimo, i cui membri, una volta conseguita la carica - e spesso con mezzi illeciti, quali la pressione di un parente particolarmente potente verso l'elettorato, la pattuizione pecuniaria, la promessa di cessione di parte dei beni della chiesa episcopale, ecc. - ricorrevano contro eventuali contestazioni proprio a quell'ordinamento canonistico di cui si è detto e che, in tal modo, funzionava solo all'esterno del sistema, ma non aveva corrispettivi all'interno del medesimo. Ciò spiega perché il problema si proponesse con sempre attuale urgenza a G., pur essendosi avviata, soprattutto da parte di Leone IX, un'iniziativa di recupero di buon funzionamento: i pontificati successivi di Vittore II, di Stefano IX, di Niccolò II e di Alessandro II furono o troppo brevi o troppo impegnati in vicende di stretta attinenza alla politica della Chiesa di Roma o addirittura a quelle di uno scisma, quello di Cadalo, per potersi dedicare a riforme interne delle infrastrutture ecclesiastiche della Chiesa occidentale. Con G. l'intervento in questioni interne delle singole diocesi non solo si manifestò sin dai primi anni del pontificato, ma assunse un impegno non risolvibile esclusivamente in una più attenta e severa applicazione delle procedure, bensì in una continua verifica della funzionalità delle strutture e delle gerarchie ad una certa idea della società.

Così è oggi da intendere uno dei primi atteggiamenti assunti verso il problema dell'investitura regia dei vescovi, che riguardava il vescovo di Lucca, che era stato indubbiamente favorito dallo zio, Alessandro II, nella promozione a vescovo e che dallo stesso Alessandro II era stato inviato al re - il futuro Enrico IV - per riceverne l'investitura. Si era nel 1073, nel primo anno di pontificato di G., ma l'interpretazione che si è solitamente data al passo della lettera del papa (Registrum I, nr. 21, del 1° settembre 1073) e ad un altro del Chronicon di Ugo di Flavigny in cui si ricorda l'episodio sottolineando la circostanza che, pur essendosi Anselmo recato presso il re affinché, nelle intenzioni dello zio (Alessandro II) vi ricevesse l'investitura, ne ritornò senza, in quanto avrebbe avuto i caratteri di un accordo simoniaco, quell'interpretazione, si diceva, non regge.

L'investitura regia non era - non era ancora, forse - sinonimo di simonia: ma poteva Enrico (IV) compiere un atto di rilevanza anche ecclesiastica verso un ecclesiastico trovandosi in stato di scomunica? Non si discuteva il diritto del re in quanto tale, ma si discuteva la persistenza di tale diritto in un re che, al momento, non era membro della comunità: e la valutazione di tale permanenza o non permanenza era non un diritto del papa, ma un suo dovere.

Posizione confermata in numerosissimi casi: come in quello del contenzioso tra il vescovo di Praga Geromiro ed il vescovo di Olmütz (O. Capitani, Tradizione e interpretazione, pp. 90-7), che coinvolse elementi essenziali della tradizione canonistica quale il diritto di non venir privato dei beni della propria Chiesa per un vescovo che non abbia subito una condanna definitiva o quale il diritto dell'arcivescovo (nel caso Sigfrido di Magonza) alla cui competenza è affidata la giurisdizione sui propri suffraganei (la vertenza si svolse tra il luglio del 1073 e la prima metà del 1074). L'intervento diretto di G., che conferma la sospensione da un ufficio vescovile, discute delle ragioni della privazione dei beni di una Chiesa episcopale non alla fine di un processo, ma all'inizio, per poi restituire ciò che era stato sottratto dai legati pontifici, ma sempre in una fase intermedia del processo canonico, sottolinea la propensione del papa ad un impegno comunque preventivo. La Sede apostolica rimane sempre l'ultima istanza, ma ove il papa lo reputi necessario diventa la prima istanza e perciò stesso l'istanza assoluta. Capace cioè di misurare la qualità dell'obbedienza alla Chiesa romana come segno distintivo dell'essere o non essere più nella grazia. Un caso tipico in questo senso è quello che coinvolge il vescovo Isemberto di Poitiers (1074-1079 circa: cfr. ibid., pp. 98-102), che per non essersi sottomesso alle ingiunzioni del papa in una vertenza con i canonici di S. Ilario di Poitiers ed aver sostenuto Guglielmo VI di Aquitania in una questione matrimoniale di dubbia liceità per sospetti di consanguineità viene interdetto e minacciato di perdere addirittura la possibilità di riconciliazione futura, ma riappare del tutto reintegrato nelle funzioni e nell'ufficio episcopale dopo qualche anno. Non sembra oggi più possibile cercare di definire i caratteri giuridico-formali dell'operare di G.: la stessa terminologia oscillante nei vocaboli come "interdictio", "suspensio", "privatio", "restitutio", "reconciliatio" implica una conseguenza di non poco rilievo. Allorché si rammenti che l'ordine sacro era un sacramento che lasciava comunque un carattere indelebile, al di là della stessa questione dell'amministrazione dei beni della Chiesa: nella prassi e nella terminologia adottata da G. sembra proprio che di definito e di definitivo ci sia soltanto la discrezionalità del papa.

È indubbio che i pochi casi esemplati, fra le decine riscontrabili e peraltro studiati (ibid., pp. 85-150), rimandano ad eventi in cui la ragione del contendere non risiede nell'accusa di simonia e nell'individuazione di differenti tipologie della stessa: ma prima di soffermarsi su questo aspetto dell'azione di G. occorrerà considerare che se è vera la collocazione di quell'azione su di un piano diverso, pur se parallelo a quello giuridico, per i coinvolgimenti normativi impliciti, se ne dovrebbe trarre la conseguenza che la posizione del pontefice si definisce come oggettivamente affermativa di una volontà fortissima di primato. Ciò è apparso alla migliore storiografia "gregoriana" soprattutto vero negli interventi concernenti le ordinazioni simoniache. Questione scottante nel corso del sec. XI, che aveva visto contrapporsi due tesi all'interno dello stesso movimento riformatore: una, sostenuta dal cardinale Umberto di Moyenmoutier, vescovo di Silvacandida, l'altra da Pier Damiani, seguace di Romualdo, fondatore dell'eremitismo regolare di Fonte Avellana e futuro cardinale vescovo di Ostia. Per l'uno, l'ordinazione ricevuta simoniacamente o da parte di un simoniaco era nulla e perciò doveva essere, nel caso, reiterata; per l'altro, non essendo l'ordinante la "causa" del sacramento, ma solo il tramite, non vi poteva e non vi doveva essere alcuna ordinazione. Posta in questi termini, che erano quelli in cui la questione si poneva al momento in cui G. diveniva papa, la contrapposizione non era risolvibile: e perciò si è discusso se i numerosi provvedimenti assunti dal papa dovessero essere compresi nell'ambito della prima tesi oppure in quello della seconda (G. Miccoli, Chiesa gregoriana, pp. 169-201). Vediamo intanto quali furono questi provvedimenti ed in quale contesto si collocarono. C'è intanto da osservare che per G. la casistica dei simoniaci si pone - anche sul piano definitorio - in connessione con quella degli scomunicati. Nella prima lettera ad Ermanno di Metz (Registrum IV, nr. 2, del 25 agosto del 1076) si legge testualmente: "Ut autem maledicti atque excommunicati possint benedicere et divinam gratiam, quam non timent operibus denegare, alicui largiri, in nullius sanctorum patrum precepto potest inveniri". Propriamente qui si ricorda che, sul fondamento della tradizione, i maledetti (che sono da intendersi certamente come simoniaci, ove solo si vogliano ricordare le parole di maledizione pronunciate da Pietro nei riguardi di Simon Mago: Actus Apostolorum VIII, 18-24) e gli scomunicati non possono dispensare la grazia divina (sacramentale): e non si dice altro circa gli aspetti sacramentali. D'altro canto, giustamente è stata invocata dal Miccoli la persistente equazione, nel Registrum di G., tra le espressioni "benedictio symoniacorum", "haereticorum", "excommunicatorum" e le corrispettive "maledictio", "execratio" (G. Miccoli, Chiesa gregoriana, p. 173 n. 17). Ma il problema non è questo, cioè dell'efficacia sacramentale, che chiaramente non può esistere in chi scomunicato o simoniaco si colloca fuori della Chiesa, bensì quello della validità autonoma e permanente del sacramento, come vedremo subito.

Nella citata lettera ad Ermanno di Metz, G. non affronta un tema teologico sulla natura del sacramento, ma pone una questione di interpretazione ierocratica della società. Il suo è un discorso polemico, non giuridico e nemmeno concettuale: ed è un discorso essenziale e tutto calato nel mondo della storia della società cristiana, che per essere tale implica delle gerarchie assolute di valori in vista dei quali vale un solo ordine, quello testimoniato da Cristo alla Chiesa ed al suo vicario: "Nam sicut illi qui omni sue voluntati deum preponunt eiusque precepto plus quam hominibus obediunt, membra sunt Christi, ita et illi, de quibus supra diximus, membra sunt Antichristi" (Registrum IV, nr. 2).

In questa dimensione si è soprattutto di recente (G. Fornasari, C. Leonardi, G. Cracco) voluto vedere una caratteristica del tutto originale dell'ecclesiologia di G., di tipo "spiritualistico" nel senso che, al di là del formalismo giuridico o della norma disciplinare o della stessa teoria sacramentale, si proponeva nella gestione della Chiesa universale un'apertura alla considerazione dei valori più propriamente "pneumatici" ispirati dallo Spirito Santo, da una forte coscienza dello spirito di verità e di libertà, intesa questa, appunto, come impegno permanente a difendere certi valori. Si tratta di una posizione che può presentare il vantaggio di aprire un orizzonte più vasto di quello delimitato dalla discussione delle ascendenze verso le tesi di Umberto di Silvacandida o verso le tesi di Pier Damiani, anche se va ribadito che il carattere indelebile del sacramento dell'ordine era pacificamente accettato, nel sec. XI, negli ambienti teologici: il che rendeva problematica ogni dichiarazione di nullità da parte di chiunque. Ed in ogni caso, se il criterio discriminante era la coscienza di certi valori da parte di una personalità di eccezione, quale poteva anche essere quella di G. - non si dimentichi quanto si è già detto circa le sue esperienze monastiche - restava termine oggettivo, ancorato cioè ad un parametro immutabile, dell'automatismo garantito tra influenza "pneumatica" (assistenza dello Spirito Santo) e azione pratica del destinatario di questa influenza, cioè la Chiesa romana ed il suo capo, vale a dire il papa. Il venir meno di questo automatismo - cioè l'eventualità apocalittica che questa assistenza dovesse mancare - fu in effetti in un contesto di idee (non ancora ideologie) gregoriane addirittura testimoniato in uno scritto rinvenuto nella collezione di canoni del cardinale Deusdedit e variamente attribuito a personaggi del gruppo riformatore (cfr. O. Capitani, Tradizione e interpretazione, pp. 135-38 nn. 92-5), ma certamente espressione di una "cultura" di massima tensione spirituale e concettuale dell'ambiente vicino a G. negli anni cruciali della lotta contro Enrico IV e parte non indifferente del clero, sia tedesco sia italiano sia francese. Credo ancora - anche alla luce della più recente storiografia - che sia valido un giudizio espresso alcuni anni or sono: "Se la fede è l'unico discrimine della società - e non devo io qui ricordare quanto questo tema abbia trovato una sua persuasività ai livelli più vari e negli strati più larghi della società del secolo XI - allora non esistono che due alternative: la visione manichea di Umberto, che però ha una reale portata al limite di un'Apocalisse incombente e di una completa negazione della storia; o l'assunzione della funzione dello Spirito santo da parte del pontefice romano. Il suo primato è una conseguenza di questo modo di concepire la presenza operante dello Spirito santo - cioè della fede - nella società cristiana: non è un modo politico per eludere la posizione di stallo della disputa sacramentaria, né è articolatamente una soluzione di tipo giuridico".

Ma nel contempo si deve riconoscere che la terminologia stessa di questa idea di una salvezza collettiva nella persona del papa assume il linguaggio di una tradizione che è inevitabilmente giuridica, risalendo al mondo dei principi fondanti della "res publica" romana: si tratta dell'"utilitas". Il concetto rimanda, nel suo corrispettivo antitetico, "inutilitas", ad una tradizione che non ha la stessa attestazione quantitativa o la stessa valenza semantica del più noto "irritus", "irritum", "irrita/ae" (cfr. Y. Congar, L'épiscopat et l'Église universelle, Paris 1962, pp. 106-23; O. Capitani, Tradizione e interpretazione, pp. 189 ss.): ma concetto anche di significanza polivalente. Un sondaggio limitato alle lettere di G. contenute nel Registrum, e certo non esaustivo, ha potuto rinvenire una trentina di lettere, comprese nell'arco degli anni 1073-1081, in cui nelle circostanze più diverse il ricorso al concetto di "utilitas" si attua sempre con l'intento di segnalare il coinvolgere il "profectum" generale dei cristiani, partecipi della stessa sacralità annessa all'istituzione. E così "senza utilitas, non ci può essere libertas, iustitia sollicitudo" (O. Capitani, Tradizione e interpretazione, p. 193).

Nel settembre 1073, agli inizi del suo pontificato, G. scriveva a Rodolfo di Svevia, a Rainaldo vescovo di Como, ad Anselmo di Lucca e ad Erlembaldo, capo della Pataria, per affrontare aspetti diversi della situazione politico-ecclesiastica del momento, ma invocando l'imprescindibile necessità che ogni attesa da parte della Chiesa nei riguardi dei destinatari si compisse nell'ambito dell'"utilitas" che è della Chiesa romana, ma nel contempo è anche di quella dei corrispondenti. Rodolfo duca di Svevia, che sarebbe stato l'antiré di Enrico IV, viene ringraziato per la devozione sempre mostrata verso la Chiesa di Roma e viene però anche avvertito che, per quanto concerne i rapporti con lo "status imperii", non c'è nessuna pregiudiziale negativa nei confronti di Enrico, verso il quale il papa si dichiara debitore "ex eo quod ipsum in regem elegimus" (notizia di incerta interpretazione e di difficile collocazione cronologica), più esattamente come non c'è nei riguardi di alcun uomo una pregiudiziale negativa, come del resto "neque aliquem christianum hominem Deo auxiliante hodio habere volumus". In ogni caso la concordia tra sacerdozio e Impero - ed è notevole che G. parli senz'altro di Impero con riferimento ad Enrico IV nel 1073 - esige, affinché risulti utile, che ci siano degli incontri preliminari tra lo stesso Rodolfo di Svevia, G., Agnese (madre di Enrico), Beatrice di Canossa e Rainaldo vescovo di Como, nel corso dei quali si accettino le proposte del papa o si possa ad esse apportare qualche completamento o suggerimento. L'"utilitas" è della concordia tra sacerdozio ed Impero e dell'intero assetto politico-ecclesiastico: è quindi finalizzata ad un modello che G. ha in mente, anche se genericamente indicato con una terminologia tradizionale (la persistenza di uno "status imperii gloriosius" e di un "sancte ecclesie vigor").

Della lettera ad Anselmo si è detto; quella a Rainaldo di Como (Registrum I, nr. 20), dopo aver toccato questioni relative alla persona del vescovo stesso, traccia un quadro ampio delle condizioni alle quali sarebbe stata utile sia alla Chiesa romana sia allo stesso Enrico, dei cui rapporti con G. Rainaldo s'era mostrato preoccupato, una riconciliazione. Si era al 1° settembre 1073 e per quanto i toni verso Enrico siano molto concilianti, si può probabilmente credere che non fosse ancora giunta la lettera che Enrico avrebbe inviato al papa, mostrandosi completamente disposto a ravvedersi del suo atteggiamento nei riguardi dei vescovi tedeschi scomunicati, di cui invece è notizia nella lettera ad Erlembaldo del 27 settembre di quello stesso anno. Di eventuali rapporti di Rainaldo con i presuli lombardi scomunicati v'è un cenno da cui si evince che il vescovo di Como può certamente parlare con loro (evidentemente per indurli a ravvedersi), ma deve astenersi dall'avere altro tipo di rapporto.

Ma l'estrema duttilità che G. sapeva adottare, nell'ambito della "utilitas" della Chiesa, si mostra nella lettera ad Erlembaldo già ricordata (Registrum I, nr. 25), nella quale non solo il papa affermava che la lettera del re conteneva espressioni "qualia neque ipsum neque antecessores suos recordamur Romanis pontificibus misisse", ma sosteneva che un eventuale accordo tra i principi normanni, lacerati da rivalità reciproche, poteva risultare nocivo alla Chiesa e che, se egli (cioè G.) lo avesse stimato "utile" alla stessa, essi si sarebbero mostrati ubbidienti e deferenti al papa: affermazione che non lascia adito a dubbi circa la subordinazione di ogni mossa di politica ecclesiastica all'"utilitas" che il papa voleva cercare comunque per la Chiesa romana. Il che può spiegare abbastanza facilmente perché la questione della Chiesa di Milano, dove era fortissima la resistenza dell'arcivescovo Goffredo condannato come simoniaco, venisse affrontata con una diversità di atteggiamenti che mirava essenzialmente ad isolare l'arcivescovo dai suoi suffraganei. Beatrice e Matilde sono richieste di astenersi da ogni rapporto con loro (Registrum I, nr. 12), ma ai fedeli di Lombardia (ibid., nr. 15) si additava soprattutto in Goffredo il simoniaco scomunicato senza possibilità di appello: ai vescovi di Pavia e di Acqui viene, nonostante il loro precedente appoggio a Goffredo, concesso di riscattarsi, sostenendo Erlembaldo nella sua lotta, più che antisimoniaca, antivescovile. La questione milanese, fu, come si è visto, una delle ragioni fondamentali della rottura con Enrico IV: ma si vorrebbe ancora sottolineare che essa non poteva che sfociare in un completo dissidio, perché non esisteva nessun presupposto di coincidente concezione della figura del vescovo, tra G. e un episcopato, come quello lombardo, da secoli consapevole delle proprie competenze e delle proprie garanzie canoniche. Il papa aveva chiesto a Pier Damiani di approntargli un succinto manuale di canoni ai fini della riforma. Si è già detto che questo manuale non è pervenuto né tanto meno può essere considerato la Collectio septuaginta quattuor titulorum, opera questa che rispecchia un quadro normativo comportamentale che non dà nessun particolare rilievo - meno che meno il rilievo eccezionale assunto durante il pontificato di G. - alla funzione del papa (cfr. O. Capitani, La figura del vescovo in alcune collezioni canoniche della seconda metà del secolo XI, in Vescovi e diocesi in Italia nel Medioevo [sec. IX-XIII], Padova 1964, pp. 161-91; H. Fuhrmann, Über den Reformgeist der 74-Titel-Sammlung, in Festschrift für Hermann Heimpel, Göttingen 1972, pp. 1101-20). E d'altro canto nemmeno dei gregoriani di provata fede come Anselmo di Lucca e Bonizone di Sutri riuscirono ad impostare, all'interno delle proprie collezioni canoniche, un fondamento canonistico che rispondesse in pieno all'idea che G. s'era fatta delle responsabilità del pontefice romano.

Solo avendo in mente questo presupposto ci si può avvicinare al problema dei Dictatus papae, un elenco di ventisette proposizioni posto nel Registrum di G., tra una lettera al vescovo di Lodi, Opizone, del 3 marzo 1075 ed una a Manasse, arcivescovo di Reims, del 4 marzo 1075, di rilievo nemmeno particolarmente singolare o eccezionale. Poiché si tratta di semplici enunciati, non seguiti da un testo o patristico, o storico, o canonistico che delle singole tesi potesse fornire un supporto, si è ovviamente pensato che quest'elenco potesse costituire l'ipotesi di quella stringata raccolta di canoni che G. desiderava che Pier Damiani gli approntasse e che quindi le proposizioni ne fossero come l'indice dei titoli, secondo la consuetudine delle raccolte canonistiche. Così suppose G.B. Borino (Un'ipotesi sul Dictatus papae, pp. 237-52) e così dopo di lui è stato supposto, indipendentemente da ogni tentativo di datazione dell'elenco, che dovrebbe comportare alcune certezze sulla natura stessa del Registrum e sui tempi di composizione, visto che esso non è un vero e proprio registro di Cancelleria, come si dirà in seguito. A rendere alquanto problematica l'accettazione di questa tesi, almeno nella sua formulazione essenziale (indice di una raccolta di canoni) sono sorte alcune osservazioni (specie di H. Fuhrmann, Papst Gregor VII., pp. 123-49, da ultimo, con rinvio ai precedenti dubbi) fondate su alcune circostanze di innegabile rilievo. È difficile trovare dei precedenti canonistici, anzi talora ci si trova di fronte a contrasti clamorosi; non c'è alcun esplicito riferimento da parte di G. ai Dictatus papae né alcun esplicito riferimento in altri scritti pubblicistici. Ci si è così chiesti (H. Fuhrmann) quale potesse essere la funzione di un'opera non destinata ad essere resa pubblica o che, perlomeno, non fu mai pubblicizzata. E una possibile conclusione è stata che lo scritto era sorto in uno stato d'animo stizzito di chi immaginava una costruzione teorica, rimasta tra desiderio e realtà. Da un punto di vista formale, la conclusione risulta appropriata: ma proprio perché G. non è mai stato un giurista - e su questo c'è sostanzialmente un comune accordo - e proprio perché non si tratta di un falso, ma veramente di un Dictatus papae, cioè di uno scritto del papa (non era l'unico caso, nel Registrum: cfr. O. Blaul, pp. 113 ss.), non sembra impossibile vedere in esso un testo programmatico per l'azione del papa. Va comunque precisato che le proposizioni riguardano essenzialmente le prerogative del papa, molto più che della Chiesa romana. Si è potuto notare come, su un totale di ventisette proposizioni dei Dictatus papae, sono ventiquattro quelle che riguardano il papa: sette di esse contengono precetti negativi ("nullus", "numquam") concernenti la persona del pontefice; dieci precetti propositivo-affermativi in contrasto con la consuetudine normativa esistente (condanna degli assenti, accuse degli inferiori ai superiori, deposizione senza necessario intervento di concilio, ecc.); sette riportano affermazioni di esclusività di diritti del papa ("illi soli", "nomen unicum", "solus ille", ecc.). Ciò fa sì che nei Dictatus il papa appaia "veramente legato ad una solitudine di responsabilità, di decisionalità, di committenza che non ha riscontro" (O. Capitani, Tradizione e interpretazione, p. 224). E solo per ribadire una singolare coincidenza, senza pensare che l'ignoto copista del Registrum avesse veramente avvertito come programmatico questo testo, tanto da indurlo a copiarlo (ma perché a quel punto, allora, se aveva tanta finezza interpretativa?), si deve rilevare che una tale assoluta solitudine e grandezza di responsabilità si ritrova con affermazione veramente drammatica nel cosiddetto frammento "A" De sancta ecclesia, inserito nella collezione di canoni del cardinale Deusdedit (v. ancora O. Capitani, Tradizione e interpretazione, pp. 225-27).

Il rapporto con la Chiesa - e non solo con la Chiesa, ma con tutta la cristianità - era interpretato alla luce di queste idee guida. Che non sono, comunque, linee programmatiche, ma linee di condotta, doveri più che diritti o meglio doveri-diritti. Basterebbe por mente al fatto che nelle ventisette proposizioni c'è un'alternanza e quasi una parità tra "posse", "licere", "debere" e che esse hanno, se confrontate con le proposizioni di un altro elenco, il cosiddetto Dictatus di Avranches e con quello che è conosciuto come Propriae Auctoritates Apostolicae Sedis, delle differenze notevoli, quanto ai contenuti dei titoli. Le proposizioni contenute nel Registrum hanno indubbiamente, come ha notato H. Fuhrmann (Papst Gregor VII., pp. 147-49), un'impronta esclusivamente "gregoriana" che le altre non hanno, pur se le Propriae Auctoritates sembrano svincolate dal Dictatus (ibid., p. 147). Queste precisazioni, importanti su di un piano di analisi particolari, confermano, in ogni modo, l'estrema singolarità della visione del mondo che si andò sempre più accentuando nelle direttrici dell'azione di G., specie quella nei confronti dell'episcopato. Giustamente è stato detto che "nel linguaggio gregoriano, ubbidienza e disubbidienza sono le parole più importanti: nel registro ricorrono più di trecento volte" (W. Goez, Riforma ecclesiastica-Riforma gregoriana, in Studi Gregoriani, XIII, p. 177). E ricorrono, aggiungiamo, specialmente con riferimento all'episcopato, tradizionalmente geloso delle proprie prerogative e della larga autonomia da sempre goduta. Su questo terreno ogni incontro tra G. e i vescovi fu molto difficile, proprio perché messo in termini di obbedienza: e quando la trasgressione delle direttive papali, magari nel rispetto di canoni e di procedure, si attuava, i vescovi erano "pseudoepiscopi", "dicti episcopi" fuori della Chiesa, perché la disobbedienza era un peccato di idolatria, e d'altro canto al papa solo spettava il diritto di deporre e riconciliare, anche senza un previo concilio, come per ben due volte si ripete nei Dictatus papae (proposizioni III e XXV).

Era l'episcopato, in Germania, in Francia, in Italia quasi tutto immorale e simoniaco? Certamente no, soprattutto in Germania e in Francia: ma poteva essere disubbidiente e perciò idolatra, scismatico, scomunicato. Quando una larga parte dell'episcopato tedesco e quello della provincia ecclesiastica della Lombardia nel concilio di Worms del gennaio del 1076 si rifiutò di riconoscere come papa G. e pertanto di dovergli obbedienza, si toccò con mano a quali conseguenze avrebbe potuto portare la pregiudiziale del papa: vescovi come lo stesso Ermanno di Metz si trovarono condannati in vario modo come i simoniaci, i concubinari, gli investiti dal re o da signori laici. Non si trattava di stabilire quale residualità dell'ordine sacro potesse ancora avere chi si poneva contro la volontà del papa, perché la questione non era né teologica, né procedurale. È stato rilevato infatti che non è metodologicamente corretto né interpretativamente giovevole ricorrere a distinzioni canonistiche successive per comprendere la portata dei provvedimenti di G., dal momento che non solo l'irrogazione della pena, ma la qualità e la gravità della colpa medesima risponde ad un criterio di valutazione personale del papa. Basterà un solo esempio. Nel protocollo del sinodo quaresimale del 1076, nella condanna di coloro che, con Sigfrido di Magonza, s'erano resi colpevoli di scisma, possiamo leggere tutta una gamma di provvedimenti: sospensione "ab omni episcopali officio" e scomunica; sospensione "ab episcopali officio" per coloro che, consenzienti, "in ea iniquitate perdurare volunt"; per coloro che non consentirono volontariamente, tolleranza fino alla festività di s. Pietro (29 giugno) "eo quidem respectu ut, si infra istum terminum idoneam aut per se aut per nuntios suo satisfactionem presentie nostre non obtulerint, episcopali deinceps officio priventur" (Registrum III, nr. 10a). Né d'altro canto l'eventualità di riconciliazione comportava automaticamente la reintegrazione nella pienezza dell'ufficio episcopale come i casi di Stefano di Le Puy, di Guarnerio di Strasburgo, di Dionisio di Piacenza e di tanti altri dimostrano (O. Capitani, Tradizione e interpretazione, pp. 123-29).

Diverso l'atteggiarsi di G. verso i monasteri, in una complessiva tendenza a prediligere le forme congregazionali, quali ovviamente Cluny, ma anche Vallombrosa, S. Vittore di Marsiglia, S. Benedetto di Polirone, divenuto centro dell'azione canossiana nel mondo monastico della bassa padana e in particolare dal momento in cui Beatrice e Matilde di Canossa promossero la riforma di G. in una zona in cui la tradizione monastica imperiale continuava ad avere un peso notevolissimo presso un'istituzione che non poteva essere additata come tralignante dalla regola benedettina, né nel costume, né in altro (v. per tutto ciò, da ultimo: Storia di S. Benedetto Polirone, a cura di P. Golinelli, I, Bologna 1998, specie i saggi dello stesso P. Golinelli, di P. Bonacini, R. Rinaldi, G.M. Cantarella). Fu favorito l'istituto dell'esenzione dall'ordinario diocesano, nel sospetto che del controllo dei vescovi non ci si potesse fidare in ogni caso; si insisté in maniera pressante sul tema della libera elezione dell'abate, al di fuori di ogni invadenza di estranei alla comunità monastica, con una formula che ritorna puntualmente "Ut obeunte abbate, nullus quacunque obreptionis astutia ordinetur, nisi quem fratres eiusdem coenobii communi consensu secundum timorem Dei et regulam S. Benedicti elegerint", come suona il privilegio per S. Ilario di Poitiers del 27 marzo del 1080: ma analoghe disposizioni si ebbero sin dal principio del pontificato, come attestano lettere sia del Registrum, sia dei privilegi in senso stretto raccolti da L. Santifaller (Quellen und Forschungen zum Urkunden- und Kanzleiwesen Papst Gregors VII., Città del Vaticano 1957; un elenco in G. Miccoli, Gregorio VII, col. 358; G. Picasso, Gregorio VII e la disciplina canonica: clero e vita monastica, in Studi Gregoriani, XIII, pp. 151-66, in partic. p. 161 n. 47); anche se i numerosi documenti a favore dei monasteri da parte di G. riflettono preoccupazioni locali, riproponendo per la conferma di privilegi ottenuti dai suoi predecessori (solo un'indicazione limitata in O. Capitani, Imperatori e monasteri nell'Italia centro-settentrionale [1049-1085], in Il monachesimo e la Riforma ecclesiastica, Milano 1971, pp. 423-89) testi precedenti, si può osservare in molti casi un ampliamento delle concessioni, tutelate dalla "tuitio" apostolica: un caso è quello del documento per S. Cipriano di Poitiers del 27 marzo 1080. L'impressione che si coglie da questi interventi è comunque di un'azione di diversa e inferiore responsabilità generale rispetto a quella dispiegata per l'episcopato.

Così, se certamente il problema della vita comune del clero fu tra i più sentiti nell'ambito di una riforma generale della vita ecclesiastica (basti pensare ai numerosi testi normativi indicati da C.D. Fonseca, Medioevo canonicale, Milano 1970 e a La vita comune del clero nei sec. XI e XII, I-II, ivi 1962), e vide Ildebrando - non G. - sostenere un adeguamento della regola canonicale di Aquisgrana a prassi più severe, come si è sopra rilevato, la certezza oggi raggiunta, grazie ai lavori del Dereine, che non si possa in alcun modo parlare di una regola di G. dà sostanzialmente ragione ai giudizi ridimensionati, per questo aspetto del rapporto di G. con la Chiesa, espressi da E. Delaruelle (La vie commune des clercs et la spiritualité populaire au XIe siècle, in La vita comune del clero nei sec. XI e XII, I, pp. 142-85), da G. Miccoli e assunti da G. Picasso (Gregorio VII e la disciplina canonica, p. 163). Indubbiamente un'idea così personale di una Chiesa riformata non poteva che misurarsi con l'accettazione od il rifiuto da parte dell'episcopato: e come questi reagisse, specie dopo il 1076 e, più ancora, dopo il 1080-1084, lo si è visto: e l'unico elemento che qui si voglia ricordare per contraddistinguere questo distacco è rappresentato dalla circostanza che il 4 maggio 1082, proprio all'interno della Chiesa di Roma, quattro cardinali vescovi, sette cardinali preti ed altri ecclesiastici si dichiararono apertamente contro l'uso di beni della Chiesa per combattere Wiberto! E d'altro canto, il parziale fallimento della politica gregoriana nei riguardi dei vescovi sta anche a indicare che il papa avesse ben visto da quale parte si sarebbe levata la più fiera opposizione alla sua interpretazione della riforma.

Se del rapporto tra G. e l'Impero si è già largamente detto sopra, rimane al proposito ancora da considerare se tale rapporto nelle sue linee di eventi successivi possa essere ricondotto ad una concezione in qualche modo univoca di G. o se, come potrebbe forse sembrare dall'andamento per qualche tempo altalenante delle relazioni tra le due istituzioni e tra i due protagonisti, debba essere interpretato come empirico. Si è universalmente riconosciuto il carattere inusualmente "teorico" che, in particolare per il problema dei rapporti con l'Impero, hanno assunto due famose lettere ad Ermanno di Metz, scritte nei due momenti di tensione acuta di quei rapporti (Registrum IV, nr. 2, del 25 agosto 1076; VIII, nr. 21, del 15 marzo 1081), quando cioè Enrico IV era stato scomunicato, dopo le vicende del concilio di Worms e quindi prima di Canossa; e quando c'era stata la seconda definitiva (?) scomunica, dopo le vicende di Bressanone.

La prima lettera svolge la propria argomentazione intorno al tema dell'opportunità della scomunica di Enrico. In nessun luogo dello scritto si trova menzione di investitura laica, ma di rapporto illecito con il gruppo dei suoi consiglieri, scomunicati "pro symoniaca heresi" e pertanto tali da far incorrere nella scomunica anche colui che con essi avesse rapporto. Da un punto di vista tradizionale non ci sono novità, se non il richiamo al Salmo 13, 3: "Omnes simul inutiles facti sunt in voluntatibus suis" perché hanno negato Dio in quanto simoniaci ("Dixit insipiens in corde suo: 'Non est Deus'"): con ciò si conferma che la disobbedienza ai precetti del papa equivale a negare Dio e, pertanto, perdere ogni "utilitas" nel proprio agire, visto che, come si è rilevato, "utilitas" è intesa come il bene della Chiesa universale, nei parametri interpretativi indicati dal papa. Dopo di che si svolge l'argomentazione di carattere storico, quindi di carattere teologico e infine di carattere giuridico. Da un punto di vista storico, si ricorda un passo delle pseudoisidoriane in cui a proposito dell'ordinazione di papa Clemente I, allorché si affermò che chi non godeva della "gratia pontificis" perché amico di coloro ai quali il pontefice non si rivolgeva, era eguale ai suoi amici, dal punto di vista del godimento della grazia. Un passo che doveva essere ben presente a G., in quanto lo ritroviamo nella successiva lettera ad Ermanno (Registrum VIII, nr. 21): e che in questo scritto si combina, per giustificare la scomunica, ad altro passo biblico (2 Corinzi 10, 6; 1 Corinzi 5, 11) "Habentes in promptu ulcisci omnem inoboedientiam". Seguono dei richiami a fatti storici di discutibile interpretazione, quali la deposizione da parte di papa Zaccaria del re dei Franchi e dello scioglimento dal vincolo di fedeltà dei sudditi e la scomunica di Teodosio da parte di s. Ambrogio, una scomunica in tanto più grave in quanto non operata nei confronti di un re, ma di un imperatore ed accompagnata dall'allontanamento dalla Chiesa. Teologicamente, i re non possono ritenersi esclusi dall'imperativo di Cristo a Pietro "Pasce oves meas", connesso con la "potestas ligandi et solvendi". Se i re, in quanto tali, dovessero essere ritenuti immuni dal potere di legare, commesso a Pietro - e quindi ai suoi successori - da loro non potrebbero nemmeno essere assolti. Ancora una volta il criterio è rappresentato dall'obbedienza ("nam sicut illi qui omni sue voluntati Deum preponunt eiusque precepto plus quam hominibus obediunt, membra sunt Christi"); non si tratta di un fatto di natura disciplinare, ma ontologica, direi: l'obbedienza alla Chiesa romana, e cioè al papa, in questo caso, coincide con l'appartenenza alla comunità dei fedeli. Da questa comunità, i re non possono essere eccettuati, per quanto concerne i principî ai quali si ispira la stessa. E finalmente il terzo argomento giuridico, della precellenza dei vescovi, rispetto ai re, poiché la "regia dignitas [...] superbia humana repperit [...] vanam gloriam incessanter captat", laddove i vescovi sono di istituzione divina ed aspirano alla vita celeste. Ancora una volta si potrebbero indicare le palesi incongruenze di questa terza argomentazione alla luce di quelli che erano stati i rapporti con l'episcopato, come si è visto prima e ove si ricordi quale era la natura dei rapporti tra l'Impero e l'episcopato, tedesco in modo particolare: che non erano necessariamente rapporti di natura simoniaca, ma prescindevano - potevano prescindere - da una gerarchia di priorità. L'unità e la concordia che presiedevano, almeno teoricamente, alla società dei fedeli nella prospettiva degli Ottoni e ancora in quella di Enrico III e che rendevano possibile un intervento nelle elezioni vescovili, ragione per la quale si potrebbe presumere una superiorità della dignità regia rispetto a quella episcopale, sono totalmente sostituite da una interpretazione consequenziaria delle funzioni dei poteri, sacerdotale e temporale (si v. quanto appropriatamente scrive in proposito G. Tabacco, Autorità pontificia e impero, in Le istituzioni ecclesiastiche della "societas christiana" dei secoli XI-XII: papato, cardinalato ed episcopato, Milano 1974, pp. 123-52, in partic. p. 136).

Di fronte a questa estrema e rigorosissima linea, poco ha da opporre, su di un piano teorico, non solo Enrico IV, ma la stessa libellistica imperiale, se non la denunzia del radicale rovesciamento di tutta la stessa visione consolidata della storia che aveva avuto la "Christianitas", sino a quel momento: ed è esemplare, più del coacervo di mezze verità e mezze menzogne dei Gesta di Benone e degli altri cardinali ostili a G., il trattato De unitate ecclesiae conservanda alla cui intelligenza rimangono insuperate le pagine di Z. Zafarana. È lo stesso concetto di "unitas ecclesiae" che nello scontro tra G. ed Enrico IV viene messo impietosamente in discussione.

G., partito da posizioni di una fortissima esigenza di "spiritualità vissuta al massimo da tutti e per tutti", esigendo comunque una difesa estrema di questa spiritualità nella Chiesa (è questo il senso profondo della "libertas Ecclesiae"), deve inglobare, nel suo pur sempre e sempre incoativo progetto, la forza coattiva dell'Impero, in una distinzione di compiti che non può, dal suo punto di vista, che riaffermarsi come ierocrazia. Ed in ciò stesso, però, non spiritualizzando l'Impero, ma portando al limite della desacralizzazione la stessa Chiesa. Se (come scrive G. Tabacco, Autorità pontificia e impero, p. 138) "l'Impero non aveva tentato mai di tradurre la sua preminenza e preponderanza in una supremazia giurisdizionale estesa a tutta la cristianità, ciò avviene appunto ora, nell'orientamento gregoriano di pensiero e di azione, a profitto della Chiesa di Roma: che realizza dunque in se stessa l'idea dell'Impero come vertice universale di potenza e come tribunale supremo di tutti i potenti, con formulazioni di una chiarezza giuridica - si pensi alla rivendicazione, in forma esclusiva, della 'depositio' di vescovi e re - che l'Impero non aveva mai conosciuta" (la stessa valutazione, da angolazione diversa fornisce O. Capitani, Gregorio VII e la giustizia, pp. 420-21). Queste considerazioni paiono estremamente importanti per capire, in un contesto di maggiore organicità dell'argomentazione, la seconda lettera ad Ermanno di Metz (Registrum VIII, nr. 21), che, come giustamente è stato osservato (G. Miccoli, Gregorio VII, col. 352) presenta concetti sostanzialmente identici. La sottolineatura che la storiografia ha fatto dell'affermazione dell'origine diabolica del potere regio va corretta: non nel senso che l'affermazione non suoni pesantissima nei confronti di ogni potestà laica, ma nel senso che, nella necessità dell'esistenza di un potere regio, laico, se si vuole, questo si riscatta nella sua funzionalità subordinata all'autorità sacerdotale: qualsiasi autorità sacerdotale, si badi, anche nei confronti di un potere laico "integrato" nell'ecclesiologia di G.; il dualismo gelasiano si mantiene tale in quanto in una sola funzione - quella del progetto ecclesiologico di G. - rimangono distinti due compiti. E devono rimanere distinti: pena il ripetersi dell'assimilazione, ambigua quanto si voglia, delle due autorità e delle due potestà, che era stata quella - sia pur teorica - dell'alto Medioevo. La disassimilazione è la vera garanzia dell'unità dell'"Ecclesia".

È evidente che tutto ciò rappresenta l'individuazione profonda di un pensiero proiettato in una direzione, certo, ma estremamente magmatico e, senza dubbio, ben consapevole della particolare importanza dell'Impero come potenza egemone superiore nell'Europa cristiana, un potere regio eminente sugli altri. E questa non è un'illazione indebita, poiché è lo stesso G. a ricordarlo ad Enrico (non ad ammetterlo, si badi!), come si evince da Registrum III, nr. 10.

Rispetto al glutine della reciproca carità di Pier Damiani, che si risolve nella "laudatio" della concordia, storicamente realizzatasi nel tempo, tra le due potestà, nel disegno dell'Onnipotenza divina, ci troviamo di fronte ad un pensiero che chiede conto alla storia dei propri compromessi. Non ci pare sia possibile chiedersi (G. Fornasari, Medioevo riformato, p. 95) se certe affermazioni damianee possano ricordare la sicurezza asseverativa di G., nella seconda lettera ad Ermanno di Metz (Registrum VIII, nr. 21), di questa domanda retorica: "Quis nesciat reges et duces ab iis habuisse principium, qui Deum ignorantes superbia rapinis perfidia homicidiis postremo universis pene sceleribus mundi principe diabolo videlicet agitante super pares, scilicet homines, dominari ceca cupidine et intollerabili presumptione affectaverunt?".

La seconda lettera ad Ermanno di Metz, quindi, rappresenta un momento essenziale del riflettere di G. sul suo rapporto con l'Impero, sul significato stesso del potere: terreno certamente e perciò inficiato dalla tabe originale, come lo sarebbe quello della Chiesa e dello stesso pontefice, se essi non avessero la certezza di esercitarlo in nome di s. Pietro. Il re di Germania e futuro imperatore non ha un s. Pietro, ma solo un papa cui affidarsi, altrimenti il suo potere è soltanto omicidio, prepotenza, arroganza. È dunque inutile.

La storiografia recente, soprattutto tedesca, che ha affermato che non ci fosse una ineluttabilità "originaria" dello scontro tra G. ed Enrico (IV) ha ragione solo se si sottintende che né G. né Enrico, all'inizio del loro effettivo rapporto, che si determina nel preciso momento in cui Ildebrando diviene G., avevano avuto l'opportunità di verificare l'esistenza o meno di un comune linguaggio.

Nei suoi contatti con i Regni e i potentati d'Europa G. ebbe un rapporto molto più intenso ed articolato di quello che avevano avuto i suoi predecessori, ove si pensi al numero di lettere che dal Registrum e dalle Epistolae vagantes si possano incontrare con destinatari che sono re iberici, inglesi, scandinavi, ungheresi, per non dire che solo nei confronti della Francia - ovviamente non documenti indirizzati al solo re di Francia - si contano 123/369 lettere del Registrum e 35/76 lettere delle Epistolae vagantes (J. Gaudemet, Grégoire VII et la France, in Studi Gregoriani, XIII, p. 214), mentre per l'Italia ("Regnum Italiae", Normanni) e la Germania non appare nemmeno il caso di insistere sull'intensità del rapporto. Ma prima di passare ad una ovviamente emblematica e cursoria campionatura, occorrerà aver ben presente un giudizio di R. Schieffer (Gregor VII., und die Könige Europas, ibid., pp. 189-211) circa la portata del significato che "orbis romanus" assume come punto di vista di un ambito che non si identifica con il Sacro Romano Impero, ma con un'ecumene più vasta, la "Christianitas" che proprio perché tale non si esaurisce in una sommatoria di Regni o si identifica in modo particolare con un Regno. Significativo, in questo senso, quanto è scritto in una lettera a Udone di Treviri ed ai suoi suffraganei a proposito dell'ostilità incontrata dai legati papali, il cardinale Bernardo e l'abate Bernardo di Marsiglia, il quale ultimo era stato addirittura fatto prigioniero nel dissidio permanente ancora nel settembre 1077 tra fautori dei Sassoni e fautori di re Enrico. Pur essendo la lettera piena di lodi per il nuovo atteggiamento di Enrico, dopo Canossa, in essa si sottolinea che il perdurare dei contrasti tra le fazioni tedesche non si tramuterebbe solo in un danno per il Regno di Germania e le sue genti, ma per tutta la "Christianitas", sin là dove arrivano i confini di questa. È un segno forte della consapevolezza che di fronte a questa comunità, tanto più grande, quanto indefinita, i Regni subiscano un certo livellamento, anche quello tedesco. Certamente, soprattutto dalla seconda scomunica di Enrico, si fa più frequente l'appello a tutti i fedeli di s. Pietro e sparisce del tutto la sottolineatura dell'eminenza del Regno di Germania sugli altri Regni. Ma ciò non comporta nessuna tendenza di tipo "sostitutivo", nel senso che si privilegi un Regno diverso da opporre a quello del re scomunicato. Semmai si apre una prospettiva diversa, nel riconoscere un "rapporto speciale" con la Sede apostolica da parte di tutti i Regni della "Christianitas" per la stessa funzione vicaria riconosciuta al papa nei riguardi di s. Pietro.

L'allargarsi dell'orizzonte del papato non era una novità assoluta, almeno nella seconda metà del sec. IX: proprio Leone IX s'era recato in Francia (concilio di Reims del 1049) e poi in Germania; ma il suo esempio non aveva avuto seguito, quasi certamente per i travagli che avevano angustiato i suoi successori. G. non si recò mai in Germania (anche se s'era riproposto, come si è visto, di recarvisi prima di Canossa e dopo), né in altri Regni dell'Europa: ma la sua presenza non fu perciò meno attiva grazie all'uso assai largo e con caratteri di delega amplissima che egli fece dei suoi legati: Ugo di Cluny, Ugo di Die, Amato d'Oleron, Bernardo diacono - per limitarsi ai nomi più celebri - agirono come veri e propri plenipotenziari, con terminologia attuale, pur se nel costante protocollo della rispondenza delle loro decisioni da parte del papa. Non può non essere ricordata la circostanza che, qualunque idea ci si voglia fare dei Dictatus papae, in essi si trova la più chiara conferma che il legato era uno strumento dell'assunzione di responsabilità o se si vuole di controllo del papa all'interno delle Chiese d'Europa e dei Regni d'Europa; recita infatti la proposizione IV dell'elenco: "Quod legatus eius omnibus episcopis presit in concilio etiam inferioris gradus et adversus eos sententiam depositionis possit dare", un testo che non si legge nel cosiddetto Dictatus di Avranches, e che, in forma diversa comunque, si trova nelle collezioni canoniche di Deusdedit e di Anselmo di Lucca, rispettivamente I, 206, 162; I, 25. Notevole sottolineare che i due canonisti "gregoriani" si rifacciano più a Gregorio Magno (Registrum I, nr. 1) che a G., perché non riportano la clausola della possibilità di deporre i vescovi. Comunque, a limitarsi alle presenze nel solo Registrum, se ne possono riscontrare una ventina. Il rapporto con la Francia non fu dei più facili, soprattutto con il re Filippo I, che dagli inizi stessi del pontificato di G. non aveva cessato di intervenire pesantemente nelle elezioni vescovili (cfr. ibid., nrr. 35, 36), di intercedere presso lo stesso pontefice in favore di vescovi sospesi (ibid., nr. 56), di perseguitare delle diocesi (ibid., nr. 75), di meritarsi le più fiere rampogne, comunicate per altro in una lettera al duca di Aquitania (ibid. II, nr. 18) e a Manasse di Reims (ibid., nr. 32), nella quale ultima Filippo viene definito lupo rapace ed iniquo tiranno. Nel concilio quaresimale del 1075 Filippo veniva scomunicato, ma certamente già nel 1077 doveva essersi riconciliato con il papa, se questi poteva comunicare ad Ugo di Die che Filippo s'era a lui rivolto per una questione relativa all'elezione del vescovo di Chartres (ibid. V, nr. 11). Il 27 dicembre 1080 G., pur non dimentico dei trascorsi simoniaci del re, mostrava di voler contare su di lui per rendere efficace la deposizione di Manasse di Reims (ibid. VIII, nr. 20, del 27 dicembre del 1080).

Considerati i difficili rapporti che comunque rimasero, sempre per questioni vescovili, con Filippo (v. ibid. IX, nr. 33, del 1083), ci si può chiedere come mai con questo sovrano G. avesse, nel corso di ben dieci anni, evitato uno scontro diretto: e la risposta potrebbe essere duplice. Per un verso, specie negli anni di tensione con Enrico, G. non aveva alcun interesse, nella stessa prospettiva di non perdere un contatto con la "Christianitas", di cui si è detto, attraverso la rottura con uno dei maggiori Regni e con una della maggiori Chiese d'Europa, quando già la Chiesa tedesca e quella lombarda erano schierate contro di lui; per un altro verso, non si può dimenticare che le Chiese episcopali francesi annoveravano nel loro numero molte diocesi che erano, da tempo, sotto il controllo regio (cfr. in proposito, O. Capitani, Immunità vescovili, pp. 160 ss.). Si può essere in buona parte d'accordo con alcune conclusioni del Gaudemet (Grégoire VII et la France, p. 240), che dopo aver esaminato non cursoriamente la nutrita presenza di lettere del Registrum concernenti la Francia, afferma che esse rivelano che non di grandi questioni politiche esse ci informano, ma di un grande sbandamento morale (ibid., p. 239), contro il quale il ricorso alla scomunica, troppo frequente, risulta alla fine, inefficace e rende inane l'azione gregoriana: in ciò risiederebbe il vero dramma di quest'epoca. Ci sembra tuttavia che della politica di G. il Gaudemet abbia un'idea un po' schematica e, forse, riduttiva. La "politica", se così vogliamo chiamarla, di G. consiste proprio in quel farla coincidere con una fortissima concezione etica dei comportamenti umani, ma anche di saper offrire quasi sempre la possibilità di un recupero, magari anche momentaneo, da parte della Chiesa di chi ne era stato espulso. E questo recupero non è mai avvenuto se non a certe condizioni.

Per i Regni iberici il discorso è più semplice e comunque non contraddittorio con quanto si è venuto sin qui rilevando delle caratteristiche della "politica" di G.: senza riprendere in questa sede la celebre tesi di C. Erdmann (Alle origini dell'idea di Crociata, Spoleto 1996; O. Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare in Urbano II, "Studi Medievali", ser. III, 31, 1990, pp. 1-25; A. García y García, Reforma gregoriana e idea de la "militia sancti Petri" en los reinos ibéricos, in Studi Gregoriani, XIII, pp. 260-62). La dichiarazione di fedeltà alla Sede apostolica da parte dei Regni iberici (Aragona e Navarra, che era stata annessa da Sancho Ramírez; ma non Alfonso VI di Castiglia) e la lettera di G. (trattasi un caso di "dictatus papae": Registrum IV, nr. 28) "Regibus, comitibus ceterisque principibus Hyspanie" del 28 giugno 1077, non devono certamente essere sopravvalutate. Il proclamarsi o il chiamare "fideles" non può assumere uno specifico significato feudale, in senso proprio, con il riconoscimento di particolari obblighi: al solito sarebbe erroneo caricare di significati tecnico-giuridici un linguaggio che vuole essenzialmente esprimere l'imprescindibile obbligo di un cristiano verso la Chiesa di Roma e verso il papa, che ne è il capo. E sostanzialmente questo vuol ribadire la lettera del 28 giugno 1077, in una terra in cui la lotta vittoriosa contro i Saraceni non può essere disgiunta dalla consapevolezza che devono avere i grandi della penisola iberica che anteriormente all'invasione musulmana "regnum Hyspanie ex antiquis constitutionibus beato Petro et sancte Romane ecclesie in ius et proprietatem traditum". Il ricorso a vocaboli quali "constitutiones" e "ius" ha fatto pensare sin dal secolo scorso che qui G. volesse riferirsi al Constitutum Constantini, che peraltro si limita a parlare di "parti occidentali", e l'ipotesi è stata discussa anche da A. García y García (Reforma gregoriana, p. 255), senza una conclusione, se non quella di un tentativo da parte di G. di rafforzare l'azione contro i musulmani attraverso una coonestazione che ad Alfonso VI di Castiglia, maggiormente impegnato nella "Reconquista", sarebbe venuta per la sua azione dall'obbligo di osservare e difendere i "diritti" di S. Pietro. Non è escluso che anche ciò entrasse nella progettualità di G.: ma pare difficile cogliere nelle parole del papa un riferimento a un atto giuridico specifico, fosse pure un documento quale il Constitutum, che per noi è un falso, ma certamente non era ritenuto tale ai tempi di Gregorio. Sembra molto più convincente collegare quelle espressioni all'opera di appropriazione da parte di Roma della liturgia delle Chiese iberiche. Esse osservavano la liturgia visigotico-mozaraba ed un cambiamento liturgico, se fu facilmente indotto da Sancho Ramírez nel 1071 ai monasteri benedettini che avevano accettato la riforma cluniacense e poi imposto anche alle diocesi, incontrò una fierissima opposizione in Castiglia (v. soprattutto Registrum VIII, nr. 3; IX, nr. 2) e solo nel 1081 gli ordini liturgici romani furono accettati al concilio di Burgos.

Così sarebbe banale definire ingenuo o disinvolto o furbesco l'atteggiamento di G. allorché rivolgendosi ad Anazir di Mauretania, per raccomandargli due messi papali inviati in Africa, Alberico e Cencio (v. supra), scrive al re musulmano: "Hanc utique caritatem nos et vos specialius nobis quam ceteris gentibus debemus, qui unum Deum, licet diverso modo, credimus et confitemur, qui eum creatorem huius mundi cotidie laudamus et veneramur". Giustissimo, da un punto di vista di "teologia comparata"; ma sarebbe erroneo chiedersi: ma perché allora il segno religioso della "Reconquista"? Perché G. accetta, in fondo, le situazioni storiche consolidate in cui la fede di Roma è in una situazione molto simile a quella in cui era agli inizi della sua affermazione nell'ecumene romana. E quelle parole ad Anazir le avrebbe potute dire un apologeta cristiano ad un qualsiasi saggio romano. In questa prospettiva ci pare che sia anche da intendere la lettera indirizzata ad Harald Hein re di Danimarca il 19 aprile 1080, nella quale, dopo aver lodato il sovrano per aver egli mostrato "pronam oboedientiam debitamque reverentiam, in quantum potuimus intelligere" nei riguardi di s. Pietro (cioè al papa) ed aver additato come modello da seguire l'imperatore Enrico III (!), gli ingiunge di cessare dall'attribuire ai sacerdoti del suo Regno la responsabilità di intemperie o le infermità corporee, dacché lo stesso Salvatore non esitò a inviare ai sacerdoti ebrei coloro che aveva sanato dalla lebbra, mostrando così di rendere onore ad essi e affermando che si dovesse osservare ciò che gli stessi sacerdoti dicevano. E si trattava di sacerdoti di cui erano indubbiamente migliori quelli della Danimarca "qualescunque habeantur".

Discorso, se non diverso nella sostanza, più articolato va fatto per i rapporti con il Regno d'Inghilterra e con Guglielmo I. Anche qui si osserva l'adozione della tattica in parte sperimentata nei riguardi di re Filippo di Francia, mirante ad evitare accuse frontali, affidate ai tramiti diplomatici dei legati, ed anche qui, come in Francia, il vero problema era rappresentato da un intervento, ancor più perentorio, del sovrano nella elezione dei vescovi e nelle difficoltà frapposte ai contatti tra i presuli del Regno e la Sede apostolica. Alcuni episodi sono indicativi di questa politica, che è stata analizzata con equilibrio ed informazione da H.E.J. Cowdrey (The Gregorian Reform in the Anglo-Norman Lands and in Scandinavia, in Studi Gregoriani, XIII, pp. 319-52). Il tono delle lettere direttamente inviate al sovrano è sempre molto cordiale ed affettuoso, ritornando sempre in esse il ricordo della lettera inviata a G. all'atto della sua elezione a pontefice (Registrum I, nr. 70, del 4 aprile 1074); ricordandosi l'eccellenza tra i re di Guglielmo "more, honestate [...] liberali prudentia" (ibid. V, nr. 19, del 4 aprile 1078); esaltandosi l'antica "amicitia" che si mantiene nonostante le maldicenze e le calunnie contro il re, che comunque G. non si pente né mai si pentirà di diligere (ibid. IX, nr. 37, della fine del 1083). Tutto ciò rappresentava, probabilmente, un sentimento sincero ed una valutazione prudente del papa, specie a partire dal momento in cui i rapporti con Enrico si guastarono definitivamente ed era d'altro canto assai opportuno mantenere una relazione di buona intesa con il sovrano di un Regno che poteva, più di altri, controllare anche una parte della Francia. Il prezzo da pagare era una certa elasticità per quanto concerneva il pesante controllo di Guglielmo sull'episcopato anglo-normanno: ma G. lo sapeva ed era disposto ad una certa flessibilità. In una lettera ad Ugo di Die e ad Amato d'Oleron, del 1081 (ibid. IX, nr. 5), si invitano i legati a moderare la loro severità nei riguardi dell'episcopato anglo-normanno, che era stato sospeso dai legati - con l'eccezione del vescovo di Rouen - per non essersi recato a Roma, per timore di rappresaglie del re di Francia, più che per disobbedienza.

D'altra parte, il re d'Inghilterra, "licet in quibusdam non ita religiose sicut optamus se habeat", non distrugge né vende le chiese, si adopera a mantenere la pace e la giustizia tra i sudditi, si è rifiutato di collegarsi con i nemici della Croce di Cristo, ha costretto i sacerdoti concubinari ad abbandonare le loro "mogli" e i laici, che trattenevano ingiustamente le decime, a pagarle. E tuttavia Lanfranco di Canterbury non s'era recato a Roma, come G. aveva chiesto o per la proibizione del re "quem inter ceteros illius dignitatis specialius semper dileximus" o per paura, che nessuno deve avere al punto da negarsi alla vista del papa. E tuttavia ancora G. chiede a Lanfranco, affinché il re non incorra nell'ira del pontefice, di esortare Guglielmo a non impedire in alcun modo la venuta dei presuli del suo Regno a Roma (ibid. VI, nr. 20, del 25 marzo 1079). Con scarsi risultati, comunque, se tra il 1082 ed il 1083 G. doveva scrivere ad Ugo arcivescovo di Lyon per deprecare violentemente l'imprigionamento del vescovo di Bayeux, Odone, ad opera di re Guglielmo: della lettera possediamo solo un frammento (Epistolae vagantes, nr. 53), ed è impossibile stabilire quali provvedimenti avesse in mente il papa di prendere. Ma proprio dalla lettera, in cui si ricordava l'antica amicizia tra il pontefice ed il re (v. Registrum IX, nr. 37) e che trattava lo stesso argomento, possiamo arguire che non si andò al di là di un'ammonizione paterna, tanto più che Odone di Bayeux era il fratello di Guglielmo. Dei rapporti con i Normanni si è già detto più volte: rapporti che furono di reciproca fruizione e che non decantarono, pur nell'opera di difesa compiuta da Roberto il Guiscardo a favore di G. nel corso dell'assedio di Enrico a Roma, una relazione di condizionamento imposto dalle circostanze tra papato e dominazione normanna. La penetrazione della riforma sarebbe avvenuta nell'Italia meridionale per tempi lunghi, per strutture soprattutto monastiche, per difficili compromessi con i vari Regni che si succedettero dai Normanni agli Svevi (v. N. Cilento, La riforma gregoriana, Bisanzio e l'Italia meridionale, in Studi Gregoriani, XIII, pp. 353-72; H. Houben, Medioevo monastico meridionale, Napoli 1987).

fonti e bibliografia

Le possibilità di una biografia sono strettamente collegate con la disponibilità oggettiva di fonti. G. ha anzitutto una fonte per così dire "autoptica", rappresentata dal Registro Vaticano 2 (il famoso Registrum delle lettere - non tutte - inviate da G. a potenti, comunità religiose e monastiche, comunità civili ecc.). Abbiamo, inoltre, la Vita di Paolo di Bernried; la Vita del Liber pontificalis di Pandolfo, composta di estratti dal Registro, e la Vita di Bosone, desunta dal Liber ad amicum di Bonizone da Sutri e inserita nel Liber Censuum di Cencio Camerario. Nella maggioranza dei casi le stesse notazioni biografiche di queste fonti risentono di valutazioni, sottolineature, omissioni ed esagerazioni di chi scriveva, a volte, a decenni di distanza dagli avvenimenti di cui, fatalmente, interpretava la trama, proiettava, deformandoli, gli intenti e le finalità. Si è dato nel testo un giudizio orientativo di queste fonti; sembra utile però qui ribadire che non si può riconoscere la peculiarità comunque fortemente "ideologizzata" e "interpretativa" delle fonti e poi affermare che la proposta di non accogliere come valenza ermeneutica di tutto il movimento riformistico della Chiesa del sec. XI - quella genericamente accolta come "riforma gregoriana" - ha un carattere "revisionistico". Come si è detto la fonte per eccellenza della vita, dell'azione e del pensiero di G. è rappresentata dal Registrum, da consultarsi unicamente nell'insuperata edizione: Gregorii VII Registrum, in M.G.H., Epistolae selectae, II, 1, 2, a cura di E. Caspar, 1920-23; alle lettere qui pubblicate e distinte in nove libri, si devono aggiungere le cosiddette Epistolae vagantes, pubblicate (con traduzione inglese), da H.E.J. Cowdrey, The Epistolae Vagantes of Pope Gregory VII, Oxford 1972, che è oggi da considerare la migliore edizione disponibile, anche perché fornita di un sobrio, ma sufficiente commento; in precedenza queste Epistolae vagantes si leggevano nei Monumenta Gregoriana, in Bibliotheca rerum Germanicarum, II, a cura di Ph. Jaffé, Berolini 1865, pp. 520-76, con il titolo di Epistolae collectae. Il numero delle lettere raccolte nel Registrum è di trecentosessanta, quello delle Epistolae vagantes, nell'edizione H.E.J. Cowdrey, è di sessantacinque, alle quali si aggiungerebbero quattro "pezzi" tratti da citazioni-inserti in passi di collezioni canoniche (Ivo di Chartres, Graziano ed altre: cfr. H.E.J. Cowdrey, pp. 150-53). Una edizione dei privilegi di G. è: Quellen und Forschungen zum Urkunden- und Kanzleiwesen Papst Gregors VII., Teil I, a cura di L. Santifaller, Città del Vaticano 1957.

Che cosa sia propriamente il Registrum, edito da E. Caspar, costituisce uno dei più dibattuti problemi della diplomatica e della stessa storia pontificia, un problema che ancora oggi non pare del tutto risolto, ma che ha favorito un dibattito che ha stabilito alcune certezze. È intanto assolutamente escluso che esso contenga tutte le lettere scritte da G., non solo perché le varie lettere raccolte da Ph. Jaffé, L. Santifaller, H.E.J. Cowdrey smentiscono questa ipotesi, ma perché dagli stessi riferimenti di molte lettere contenute nel Registrum apprendiamo che G. aveva inviato ai suoi corrispondenti lettere che non ci sono giunte in nessun modo: in proposito, A. Murray, Pope Gregory VII and His Letters, "Traditio", 22, 1966, pp. 149-201 ha ipotizzato che il numero delle lettere di G. possa essere fatto ascendere ragionevolmente a sei-settecento. Ma v. oltre il rinvio a H. Hoffmann. A questo problema se ne connette un altro, ben più importante: il Registrum di G. si deve o non si deve considerare un registro di Cancelleria? Gli studi della prima metà del secolo - W. Peitz, Das Originalregister Gregors VII. im vatikanischen Archiv, "Sitzungsberichte der Wiener Akademie der Wissenschaften", 165, 1911, nr. 5; O. Blaul, Studien zum Register Gregors VII., "Archiv für Urkundenforschung", 4, 1912; E. Caspar, Studien zum Register Gregors VII., "Neues Archiv", 38, 1913, oltre a quanto premesso all'edizione citata - avevano mostrato la più assoluta certezza che il Registro Vaticano 2, il Registrum di G., appunto, fosse un registro originale della Cancelleria pontificia, sul modello di quello di Gregorio Magno e di Giovanni VIII; successivamente, soprattutto ad opera della continua analisi di G.B. Borino, concentrata in una serie di note degli Studi Gregoriani (I-VII, a cura di G.B. Borino, Roma 1947-61; n. ser., VIII-XIV, a cura di A.M. Stickler-O. Capitani-H. Fuhrmann-M. Maccarrone-R. Schieffer-R. Volpini, Roma 1970-90), l'idea che si trattasse di un registro di Cancelleria è stata abbandonata. Borino pensò che si trattasse di una raccolta, ovviamente parziale, compiuta da un privato, che forse metteva insieme ciò di cui disponeva e in ogni caso con criteri non facilmente individuabili. Per R. Morghen (Ricerche sulla formazione del registro di Gregorio VII, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 73, 1962, pp. 1-40) si tratterebbe non di un registro di Cancelleria, ma comunque di un testo ufficiale, una sorta di "libro bianco" per documentare le motivazioni dell'operato del pontefice: tesi che appare largamente convincente e che non sembra possa essere scalfita dall'obiezione che molte lettere "importanti e significative" non siano comprese. Basterebbe osservare che nelle lettere non comprese non ci sono né i Dictatus papae, né la lettera (Registrum I, nr. 29a) di Enrico (IV) che riconosceva le proprie mancanze nei riguardi della Sede apostolica, né le due lettere ad Ermanno di Metz: e questi sono certamente i documenti più importanti e significativi, ove si accetti l'ipotesi del Morghen, di un "libro bianco".

F. Bock, Annotationes zum Register Gregors VII., in Studi Gregoriani, I, pp. 281-306; Id., Gregorio VII ed Innocenzo III. Per un confronto dei Registri Vaticani 2 e 4/7, ibid., V, pp. 243-79, riteneva il Registrum non opera della Cancelleria, che via via trascrivesse i documenti, ma compilazione originale di una "camera" privata del papa, opera di scribi ai quali era affidata la trascrizione delle minute delle lettere, spesso in forma di abbozzo: ma anche in questo caso lo scopo sarebbe stato quello di testimoniare gli indirizzi politici di Gregorio VII. Con tutta probabilità quindi il Registrum non è un registro originale di Cancelleria ed è opera che testimonia non solo gli orientamenti del papa, ma riflette anche l'alternarsi delle vicende che nei singoli anni di pontificato poterono consentire o suggerire la raccolta di alcuni documenti. La distribuzione del materiale infatti è fortemente diseguale: per il I libro (= primo anno di pontificato) abbiamo 85+3 pezzi (22 aprile 1073-28 giugno 1074); per il II abbiamo 77+2 pezzi (28 agosto 1074-17 giugno 1075); per il III abbiamo 21+4 pezzi (20 luglio 1075-? 1076); per il IV abbiamo 28+1 pezzi (25 luglio 1076-28 giugno 1077); per il V abbiamo 23+1 pezzi (11 agosto 1077-22 maggio 1078); per il VI abbiamo 40+3 pezzi (1° luglio 1078-28 giugno 1079); per il VII abbiamo 28+1 pezzi (23 settembre 1079-? 1080); per l'VIII abbiamo 23+4 pezzi (6 giugno 1080-? 1081); per il IX abbiamo 37+4 pezzi (1081-fine 1083). Ma sulla prudenza che si deve avere circa le illazioni che si possono trarre, come ha fatto il Murray, sono da tener presenti le puntuali osservazioni di H. Hoffmann, Zum Register und zu den Briefen Papst Gregors VII., "Deutsches Archiv", 32, 1976, pp. 86-130. E si deve tener conto che non tutti questi documenti sono vere e proprie lettere di G., ma c'è una lettera di Enrico (I, 29a), ci sono i protocolli dell'elezione di G. e dei concili quaresimali e autunnali; c'è il giuramento di ortodossia eucaristica di Berengario, notizie relative al primo anno di pontificato, un brano di Agostino Contra Iulianum Hereticum, subito dopo la ventisettesima proposizione dei Dictatus papae, ecc. Par proprio difficile non scorgere un intervento selettivo o comunque incoativamente selettivo: negli ultimi anni le cose sarebbero andate come sappiamo. Ora è singolare che nelle Epistolae vagantes raccolte da H.E.J. Cowdrey oltre una quarantina siano degli anni compresi tra il 1079 ed il 1085, segno di un qualche rilievo che, ammessa l'ipotesi di F. Bock-R. Morghen, negli ultimi anni una certa consuetudine selettiva era divenuta più difficile. L'indagine sul Registrum ha comunque risolto quasi al 99% la questione della sua appartenenza alla Cancelleria: esso non è il registro della Cancelleria.

Di secondaria importanza, rispetto alle lettere di G., sono le fonti biografiche e narrative. La Vita di Paolo di Bernried († 1150 ca.) si legge in Pontificum romanorum [...] vitae ab aequalibus conscriptae, a cura di I.M.B. Watterich, I, Lipsiae 1862, pp. 464-546.

Per le Vitae del Liber pontificalis, cfr. Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892, pp. 282-91, 360-68.

Sulla Vita di Paolo di Bernried è da vedere H. Fuhrmann, Zur Benutzung des Registers Gregors VII. durch Paul von Bernried, in Studi Gregoriani, V, pp. 299-312, importante anche per valutare la diffusione delle lettere del Registrum come testimonianza biografica e "ideologica". Nello stesso senso, ma con estrema cautela, sono da assumersi le notizie di Bonizone di Sutri, Liber ad amicum, a cura di E. Dümmler, in M.G.H., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, I, a cura di Id.-L. von Heinemann-F. Thaner, 1891, pp. 571-620, su cui v. L. Gatto, Bonizone di Sutri ed il suo Liber ad Amicum, Pescara 1968 e, soprattutto, W. Berschin, Bonizo von Sutri. Leben und Werk, Berlin 1972, ora in traduzione italiana, Bonizone di Sutri, Spoleto 1992.

Per le fonti cronistiche sono da tener presenti: Lamperto di Hersfeld, Annales, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, XXXVIII, a cura di O. Holder-Egger, 1894³, pp. 1-304; Bertoldo, Annales (e la Continuatio di un cosiddetto Annalista svevo), ibid., Scriptores, V, a cura di G.H. Pertz, 1844, pp. 244-326; Bernoldo di Costanza, Chronicon, ibid., pp. 385-467; Sigeberto di Gembloux, Chronicon, a cura di L.C. Bethmann, ibid., VI, a cura di G.H. Pertz, 1844, pp. 300-74; Ugo di Flavigny, Chronicon, ibid., VIII, a cura di G.H. Pertz, 1848, pp. 280-503; Adversus eos qui calumniantur missas coniugatorum sacerdotum, a cura di E. Sackur, ibid., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, II, a cura di E. Dümmler-F. Thaner-E. Sackur, 1892, pp. 436-48. Per tutti questi autori saranno oggi da tener presenti le "voci" registrate nel Repertorium Fontium Medii Aevi, I-VIII, A-O, Romae 1962-98, per quello che consente la successione alfabetica oggi disponibile, mentre per un costante aggiornamento è indispensabile rifarsi a Medioevo Latino, I-XVIII, Spoleto 1980-97; XIX, Firenze 1998.

Un continuo aggiornamento, relativamente a G. ed al suo mondo, è costituito dalla bibliografia, distinta per gruppi di secoli, dell'"Archivum Historiae Pontificiae", I-XXXV, Romae 1963-97 e ss. Molto importanti risultano le cronache di carattere locale: per l'Italia, Arnolfo, Liber gestorum recentium (già noto come Gesta archiepiscoporum Mediolanensium), oggi da leggersi nelle edizioni di I. Scaravelli, con traduzioni in italiano, in Fonti per la Storia dell'Italia medievale ad uso delle scuole dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Bologna 1996 e in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, LXVII, a cura di C. Zey, 1994; Landolfo seniore, Mediolanensis Historiae, in R.I.S.2, IV, 2, a cura di A. Cutolo, 1942. Circa il significato di queste due opere nell'ambito della riforma "gregoriana" sono da vedere O. Capitani, Storiografia e Riforma della Chiesa in Italia (Arnolfo e Landolfo seniore di Milano), in La storiografia altomedievale, II, Spoleto 1970, pp. 557-629; J.W. Busch, "Landulfi senioris Historia Mediolanensis". Überlieferung, Datierung und Intention, "Deutsches Archiv", 45, 1989, pp. 1-30; P. Tomea, Tradizione apostolica e coscienza cittadina a Milano nel Medioevo, Milano 1993. Con riferimento alla Germania e all'Italia, si v.: Annales Augustani, in M.G.H., Scriptores, III, a cura di G.H. Pertz, 1839, pp. 124-36; Annales Romani, ibid., V, a cura di G.H. Pertz, 1844, pp. 464-80; Bruno, Bellum Saxonicum, ibid., pp. 327-84; Annales Altahenses maiores, ibid., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, IV, a cura di E. von Oefele, 18912; Amato di Montecassino, Historia Normannorum, a cura di V. de Bartholomaeis, Roma 1935 (Fonti per la Storia d'Italia, 76); Leone Ostiense, Chronicon Casinense, in M.G.H., Scriptores, XXXIV, a cura di H. Hoffmann, 1980, pp. 1-409. Importanti le lettere di Enrico IV, Die Briefe Heinrichs IV., ibid., Deutsches Mittelalter, I, a cura di C. Erdmann, 1937; dello stesso Erdmann da tener presente Studien zur Briefliteratur Deutschlands im elften Jahrhundert, I, Stuttgart 1938 (= Schriften des Reichsinstituts für ältere deutsche Geschichtskunde); Die Briefe der deutschen Kaiserzeit, V, a cura di C. Erdmann-N. Fickermann,Weimar 1950; sul Codex Udalrici (raccolta di scritti di vario genere - versi, opuscoli, lettere, ecc. - del sec. XII), v. edizione in Monumenta Bambergensia, a cura di Ph. Jaffé, in Bibliotheca rerum Germanicarum, V, Berolini 1869. I diplomi di Enrico IV sono editi in M.G.H., Diplomata, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, VI, 1-3, a cura di D. von Gladiss-A. Gawlik, 1941-78.

Per la libellistica ancora insostituibile rimane - fatta eccezione per Pier Damiani - l'imponente raccolta di scritti dei M.G.H., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, I-III, 1891-97. Per Pier Damiani e la Disceptatio Synodalis sarà da vedere oggi l'accurata edizione: Die Briefe des Petrus Damiani, II, a cura di K. Reindel, München 1988, pp. 541-79 (in proposito, v. anche O. Capitani, Tradizione e interpretazione: dialettiche ecclesiologiche del sec. XI, Roma 1990, p. 80; tutta l'opera di Pier Damiani va in ogni caso oggi letta nell'edizione di K. Reindel, I-IV, München 1983-93). Nell'ambito della libellistica, va anche considerato Benzone d'Alba, Ad Heinricum IV imperatorem libri septem, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum, LXV, a cura di H. Seyffert, 1996; per i cosiddetti falsi diplomi ravennati di investitura, v. C. Märtl, Die falschen Investiturprivilegien (= M.G.H., Fontes iuris Germanici antiqui in usum scholarum), Hannover 1986, sui quali si v. O. Capitani, Per un riesame dei falsi ravennati, "Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna", n. ser., 22, 1971, pp. 21-42; Id., Hadrianum et Privilegium minus: una rilettura, in Aus Kirche und Reich, Festschrift für F. Kempf, Sigmaringen 1983, pp. 173-86.

Per le fonti canonistiche di maggior rilievo per l'età di G., si v. Burcardo di Worms, Decretum, in P.L., CXL, coll. 537-1058; Deusdedit, Collectio canonum, a cura di W. von Glanvell, Paderborn 1905; Anselmi Lucensis Collectio canonum una cum collectione minore, a cura di F. Thaner, Aalen 1965; Collectio LXXIV titulorum digesta, a cura di J. Gilchrist, Città del Vaticano 1973.

La letteratura storica su G. è praticamente sterminata ed ogni idea di completezza non solo è inattuabile, ma è oggi scarsamente utile. Perciò - fatta eccezione per alcuni riferimenti ineliminabili relativi alla storiografia dell'immediato secondo dopoguerra, di cui si farà menzione autonoma - il punto di partenza di questa letteratura storica sarà costituito dalla voce di G. Miccoli, Gregorio VII, in B.S., VII, coll. 294-379, vera e propria monografia, che si segnala per la compiutezza dell'informazione - anche bibliografica - e la valutazione critica della vicenda di Gregorio VII. Indipendentemente da quest'opera vanno comunque ricordati gli Studi Gregoriani: l'VIII volume contiene gli indici, preziosissimi, dei primi sette volumi, a cura di Z. Zafarana. Si tratta di un insieme di saggi, note erudite, discussioni metodologiche, a volte - come nel caso del VII e del XII volume - di vere e proprie monografie, che hanno contribuito in maniera decisiva ad una revisione critica della biografia di G., anche, o forse soprattutto, al di fuori di ogni tesi precostituita: v. in proposito O. Capitani, Tradizione e interpretazione, pp. 27-30, 44-48 e prima Id., Una medievistica romana, Bologna 1986, pp. 11-28. E per quanto ovvio ne possa risultare il riferimento, si dovrà far menzione di A. Fliche, La réforme grégorienne, II-III, Louvain 1926-37; Id., La riforma gregoriana e la riconquista cristiana (1057-1123), a cura di A. Vasina, Torino 19722; G. Tellenbach, Libertas Kirche und Weltordnung im Zeitalter des Investiturstreites, Stuttgart 1936. Coeve alla voce di G. Miccoli in B.S. sono due opere, in vario modo interessanti la figura e le problematiche di G.: Id., Chiesa gregoriana, Firenze 1966 (rist. Roma 1999); O. Capitani, Immunità vescovili ed ecclesiologia in età "pregregoriana" e "gregoriana". L'avvio alla "Restaurazione", Spoleto 1966 (rist. ivi 1973). Il volume di O. Capitani, Tradizione e interpretazione, raccoglie una serie di saggi apparsi in un arco di tempo che va dal 1965 al 1989, in capitoli tutti forniti di un addendum bibliografico-critico per l'orientamento del lettore fino alla data di pubblicazione del volume stesso. Di opere complessive, dopo il 1990, ma su questioni specifiche, è certamente da segnalare quella di J. Englberger, Gregor VII. und die Investiturfrage. Quellenkritische Studien zum angeblichen Investiturverbot von 1075, Köln-Weimar-Wien-Böhlau 1996, decisamente a favore della tesi di R. Schieffer, Die Entstehung des päpstlichen Investiturverbots für den deutschen König, Stuttgart 1981, contro la quale si è espresso F. Kempf in "Archivum Historiae Pontificiae", 20, 1982, pp. 409-15; del libro di J. Englberger è da segnalare altresì una bibliografia complessivamente aggiornata, pp. 298-316.

Su di un piano generale, dopo la voce di G. Miccoli, sono apparse le voci in Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, I, Milano 1996, s.v., pp. 703-07; più utile e precisa la voce in Il grande libro dei Santi. Dizionario enciclopedico, II, Cinisello Balsamo 1998, s.v., pp. 1032-46; costante del resto l'attenzione di G. Fornasari a G.: cfr. Medioevo riformato del secolo XI. Pier Damiani e Gregorio VII, Napoli 1996, da tener ben presente per la ricchezza di riferimenti storiografici e la proposta in controtendenza - talora insistente - di una interpretazione in chiave "spiritualistica" della figura e della stessa azione di Gregorio VII. In chiave eminentemente religiosa era del resto l'unica, breve monografia in lingua italiana apparsa su G., quella di R. Morghen, Gregorio VII e la riforma gregoriana, Torino 1942.

Per una messa a punto aggiornata dei vari aspetti del pontificato di G. si v. il complesso di saggi contenuti in Studi Gregoriani, XIII, Roma 1989 (cardinalato e amministrazione pontificia; diritto canonico; rapporti con i vari Regni; monachesimo e canonici regolari, ecc.), che contiene le relazioni del Congresso Internazionale tenutosi a Salerno dal 20 al 25 maggio 1985. Per alcuni temi di rilievo, nella letteratura più recente si v. per la giustizia, O. Capitani, Gregorio VII e la giustizia, in La Giustizia nell'Alto Medioevo, II, Spoleto 1997, pp. 385-423. Per i problemi relativi ai Dictatus papae, considerati nella valutazione che ne diede il Borino, come di un indice di una collezione canonica - Un'ipotesi sul Dictatus papae di Gregorio VII, "Archivio della R. Deputazione Romana di Storia Patria", 67, 1944, pp. 237-52 - si v. da ultimo quanto scritto da H. Fuhrmann, Papst Gregor VII. und das Kirchenrecht. Zum Problem des Dictatus papae, in Studi gregoriani, XIII, pp. 123-49.

Per la pubblicistica, su di un piano generale, oltre quanto ovviamente contenuto nei lavori di G. Miccoli, O. Capitani - in partic. Tradizione e interpretazione, pp. 151-83 -, Fuhrmann, Schieffer ecc., rimane molto importante, sia per finezza di analisi, sia per gli accertamenti delle ideologie, il saggio di Z. Zafarana, Ricerche sul "Liber de unitate ecclesiae conservanda", ora in Ead., Da Gregorio VII a Bernardino da Siena, Firenze 1987, pp. 9-92. Circa il significato della cosiddetta seconda lettera ad Ermanno di Metz (= Registrum VIII, nr. 21), considerata come la più autentica espressione del pensiero politico di G., si v. S. Beulertz, Gregor VII. als "Publizist". Zur Wirkung des Schreibens Reg. VIII, 21, "Archivum Historiae Pontificiae", 32, 1994, pp. 7-29, oltre s'intende ai riferimenti contenuti nella voce in B.S. di G. Miccoli, p. 352.

Per la pubblicistica ai tempi di G. - ed anche a lui successiva - oltre al celebre, pur se invecchiato, libro di C. Mirbt, Die Publizistik im Zeitalter Gregors VII., Leipzig 1894, si v. O. Capitani, Tradizione e interpretazione, pp. 233-60, con ampi riferimenti bibliografici aggiornati, specialmente alle nn. 1, 2, 8, 10, di pp. 233, 234, 237, 238; citazione a parte va comunque fatta di I. Stuart Robinson, Authority and Resistance in the Investiture Contest. The Polemical Literature of the Late Eleventh Century, Manchester 1978; B. Szabó-Bechstein, Libertas Ecclesiae. Ein Schlüssbegriff des Investiturstreits und seine Vorgeschichte.4.-11., Roma 1985 (= XII volume di Studi gregoriani). Recentissimo e bibliograficamente informato specie per la letteratura storica anglosassone, con strane lacune di aggiornamento sull'edizione di fonti, K.G. Cushing, Papacy and Law in the Gregorian Revolution, Oxford 1998.

Per la Pataria, sono classici gli studi di C. Violante, La Pataria milanese e la Riforma ecclesiastica (1048-1057), Roma 1955; G. Miccoli, Per la storia della pataria milanese, in Id., Chiesa gregoriana, pp. 101-67, e ancora C. Violante, I laici nel movimento patarino, in I laici nella "societas christiana" dei secoli XI e XII, Milano 1968, pp. 597-687.

Per Beatrice di Canossa, rimane punto di riferimento imprescindibile M.G. Bertolini, Gregorio VII, in D.B.I., VII, pp. 353-63; per Matilde di Canossa si v. P. Golinelli, Matilde e i Canossa nel cuore del Medioevo, Milano 1991; I poteri dei Canossa a cura di Id., Bologna 1994, con copiosa letteratura.

Per la disputa eucaristica di Berengario di Tours, si v. per i coinvolgimenti di G., oltre al citato volume di O. Capitani, Studi per Berengario di Tours, Lecce 1966, J. De Montclos, Lanfranc et Bérenger. La controverse eucharistique du XIe siècle, Leuven 1971; O. Capitani, L'"affaire bérengarienne" ovvero dell'utilità delle monografie, "Studi Medievali", ser. III, 16, 1975; Id., Sullo "status quaestionis" dei falsi berengariani: note sulla prima fase della disputa, in Fälschungen im Mittelalter, II, Hannover 1988, pp. 121-215; Id., Problemi della cultura europea nel sec. XI, in Atti del Convegno Internazionale dedicato a Guitmondo d'Aversa, la cultura europea e la Riforma gregoriana nel Mezzogiorno, Cassino-Aversa 13-15 novembre 1997, in corso di stampa.

Sui legati pontifici in Francia rimane insostituibileTh. Schieffer, Die paepstlichen Legaten in Frankreich, Berlin 1935.

Importanti per diversi aspetti della storia della società europea occidentale la serie dei volumi del Centro di Studi medievali dell'Università Cattolica del S. Cuore, che ha pubblicato ben dodici volumi di Atti dei Convegni internazionali tenutisi al Passo della Mendola: I-XII, Milano 1962-95.

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