FELICE IV, santo

Enciclopedia dei Papi (2000)

FELICE IV, santo

Jean-Marie Sansterre

Figlio di un Castorio, era originario del "Samnium" ma faceva parte del clero della Chiesa romana. È da identificare probabilmente con il diacono che nel 519-520 partecipò alla legazione inviata a Bisanzio da Ormisda per porre fine allo scisma di Acacio. Nell'anno 526, a poco meno di due mesi dalla morte di Giovanni I, venne eletto papa per ordine di Teoderico, re degli Ostrogoti in Italia.

Alla fine del 525 o agli inizi dell'anno successivo Teoderico aveva ordinato a Giovanni di recarsi a Costantinopoli alla testa di una delegazione formata da cinque vescovi e da quattro senatori, con l'incarico di ottenere dall'imperatore Giustino l'abrogazione delle misure contro gli ariani decise in Oriente. Il vecchio re, che sin dal 523 nutriva una grande diffidenza nei confronti di Bisanzio e di quanti in Italia erano ad essa favorevoli, si inasprì per gli onori di cui l'imperatore fece oggetto il papa, e, d'altro canto, rimase insoddisfatto dei risultati raggiunti dalla missione; perciò, quando furono di ritorno a Ravenna, fece arrestare ed imprigionare il papa ed i tre senatori superstiti (uno di essi era infatti morto nel corso del viaggio). Già malato al momento della partenza per Costantinopoli, Giovanni morì poco dopo, in carcere, il 18 maggio 526. Nel corso dei funerali grandi dimostrazioni di pietà e di omaggio furono rese alla sua salma, dalle cui vesti la folla strappò lembi da conservare come reliquie: già egli appariva ai più come un martire della fede. Tale manifestazione non fece che aumentare la diffidenza del re goto nei confronti dei cattolici.

Tali preoccupazioni indussero Teoderico, dopo la scomparsa di Giovanni, ad intervenire proprio a Roma, dove, alla fine, egli riuscì a fare in modo che fosse scelto il candidato che godeva della sua piena fiducia: il diacono F., appunto.

In una delle versioni della biografia di F. - quella contenuta nei cosiddetti compendi feliciano e cononiano, tratti dalla prima redazione del Liber pontificalis della Chiesa romana, che proprio con la vita di quel papa si concludeva - si afferma che F. "ordinatus est ex iusso Theoderici regis". La notizia è confermata da alcune espressioni contenute in un messaggio che indirizzò al Senato di Roma, poco dopo la morte di Teoderico (30 agosto 526), il nipote per parte di figlia di questo, Atalarico, succedutogli ancora minorenne come re degli Ostrogoti sotto la reggenza della madre Amalasunta. Composto da Cassiodoro secondo quello spirito di pacificazione e di concordia che fu caratteristico dei primi tempi della reggenza della figlia di Teoderico, il testo del messaggio esprimeva la soddisfazione del nuovo sovrano, "quod gloriosi domni avi nostri respondistis in episcopatus electione iudicio". Atalarico si congratulava con i senatori per il fatto che essi si fossero uniformati alla decisione del sovrano, il quale, "deliberando saggiamente, benché fosse di diversa confessione", aveva saputo scegliere, per la Sede romana, un pontefice di tali qualità da non spiacere a nessuno. Li invitava inoltre a promuovere un'opera di pacificazione: non si voglia perseverare nei contrasti solo per rimanere fedeli a una persona la cui candidatura - o, forse, la cui avvenuta designazione - era stata superata dai fatti ("Nullus adhuc pristina contentione teneatur; pudorem non habet victi, cuius votum contingit a principe superari"). Buona è stata la scelta voluta dal suo avo e dunque, "etsi persona summota sit, nihil tamen a fidelibus amittitur, cum optatum sacerdotium possidetur" (Cassiodori Variae VIII, 15). I passi qui ricordati del documento spiegano - anche se per allusioni oggi non sempre facilmente decifrabili - perché la Sede apostolica sia rimasta vacante per quasi due mesi. A Roma, subito dopo la scomparsa del papa, dovettero iniziare i maneggi in vista dell'elezione del suo successore ed il contrasto tra le diverse fazioni dell'elettorato dovette essere aspro. I candidati furono certo più d'uno; si giunse forse ad una designazione precisa. Atalarico parla infatti di una "persona rimossa" in seguito all'intervento di Teoderico. S'ignora, per la voluta laconicità del testo, chi fosse il candidato - o il vescovo eletto - rimosso per ordine del sovrano goto e sostituito col diacono Felice. Alcuni studiosi hanno avanzato l'ipotesi che egli sia da identificare nel diacono Dioscoro, il quale, dopo la morte di F., fu eletto ed ordinato in contrapposizione all'arcidiacono Bonifacio.

F. venne consacrato papa il 12 luglio 526. Probabilmente dovette subito far fronte all'ostilità - se non addirittura alla dissidenza - di una parte del clero romano, nell'ambito del quale compì forse una vera e propria epurazione. È stato infatti osservato che il numero dei presbiteri ordinati nei quattro anni del suo pontificato fu insolitamente alto: cinquantadue o cinquantacinque a seconda delle redazioni del Liber pontificalis. Il che non impedì tuttavia alla maggioranza dei presbiteri romani di contestare, dopo la morte di F., il modo con cui questi aveva regolato la propria successione.

Intorno al 527 un rescritto di Atalarico indirizzato al clero romano rimise in vigore, e forse allargò, l'antico privilegio di esenzione dalla giurisdizione secolare. Il papa tornò così ad essere - o divenne - praticamente l'unico giudice di prima istanza dei chierici dell'Urbe. Il rescritto di Atalarico, rilasciato verosimilmente in seguito a richiesta di F., segnò la ripresa delle buone relazioni tra i sovrani ostrogoti residenti in Ravenna e la Chiesa di Roma. Questo miglioramento di rapporti permise - o almeno facilitò - l'arbitrato di F. nel conflitto che in quegli anni opponeva una parte del clero ravennate al suo arcivescovo, Ecclesio (cfr. T.S. Brown, Ecclesio, in D.B.I., XLII, pp. 275-77). Il Constitutum feliciano, che pose fine al conflitto, fu il risultato di un compromesso. In esso infatti, per quanto riguardava la ripartizione dei redditi della Chiesa di Ravenna, il papa si dichiarò disposto ad accogliere rivendicazioni dei chierici, mentre si pronunziò nel senso auspicato da Ecclesio per le questioni di ordine amministrativo e disciplinare.

Anche un altro fatto sta a testimoniare i buoni rapporti che legarono F. al re Atalarico ed alla reggente Amalasunta: il trasferimento alla Chiesa di Roma di due strutture pubbliche sul limitare del Foro Romano, un'"aula" ed un edificio ad essa adiacente, sito sulla Via Sacra. L'"aula", identificata da alcuni studiosi nella biblioteca del Foro della Pace e da altri nella sala delle udienze del "praefectus Urbi", e l'edificio adiacente (piuttosto che il vestibolo dell'"aula" stessa come alcuni hanno ritenuto), probabilmente il tempio di Romolo poi di Giove Statore, furono ristrutturati da F. nella chiesa che dedicò ai ss. Cosma e Damiano, due santi taumaturghi assai venerati a Costantinopoli. Questa dedica potrebbe riflettere il miglioramento dei rapporti tra le corti di Ravenna e di Bisanzio, verificatosi all'epoca della reggenza di Amalasunta. L'intervento lasciò sostanzialmente invariato l'assetto originario del monumento quale si presentava all'indomani delle sistemazioni di età massenziana e costantiniana. Questa fondazione, nella storia dell'edilizia cristiana della tarda antichità, costituisce una tappa significativa della progressiva conquista degli spazi pubblici urbani da parte della Chiesa: si tratta infatti del primo riutilizzo di un edificio pubblico intramuraneo e del primo impianto cristiano nella zona del Foro con il ruolo esclusivo di chiesa devozionale almeno fino all' VIII secolo, quando assumerà la funzione di diaconia per iniziativa di papa Adriano. Lo splendido mosaico dell'abside mostra il Cristo tra s. Pietro, s. Paolo ed i due santi patroni, accompagnati da s. Teodoro e da F., la cui figura distrutta nel tardo Cinquecento fu rifatta durante il restauro eseguito sotto il pontificato di Alessandro VII, su commissione di Francesco Barberini. Il mosaico dell'arco trionfale risale probabilmente all'epoca di F. e non alla fine del sec. VII, come pure è stato scritto. Nella fascia bassa del catino absidale si svolge l'iscrizione dedicatoria articolata in tre pagine separate da una grande croce latina (Inscriptiones latinae christianae veteres, a cura di E. Diehl, I, Berolini 1961, nr. 1784): in essa si esalta la "luce preziosa" della fede nei due santi medici, che risplende più alta di quella che emana dalla decorazione a mosaico e si celebra, negli ultimi due versi, l'offerta ("dignum munus") dell'"antistes Felix: aula d[e]i claris radiat speciosa metallis / in qua plus fidei lux pretiosa micat // martyribus medicis populo spes certa salutis [...]". All'iniziativa di F. è anche da attribuire la decorazione musiva, oggi completamente perduta, nella basilica di S. Stefano Rotondo; l'intervento completò il programma decorativo interno già avviato dal suo predecessore Giovanni ed è documentato da due iscrizioni trasmesse dalla Silloge I di Lorsch (Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, II, p. 152, nrr. 29 e 32). Un intervento edilizio di F. è anche attestato nel suburbio della città dove restaurò ("a solo" dice il Liber pontificalis) la basilica cimiteriale di S. Saturnino sulla via Salaria "nova". Di questo edificio non è rimasta attualmente traccia alcuna, ma A. Bosio, nell'area subdiale corrispondente al cimitero ipogeo di Trasone, segnalò la presenza dei resti di una basilica da identificare probabilmente con quella di S. Saturnino che doveva trovarsi a circa 1220 m dalla porta Salaria dove ancora oggi si conserva qualche tratto di un insediamento catacombale.

Come risulta da altre fonti, F. fu attivo anche in ambito canonico e dottrinale. Nel 528 ratificò un canone promulgato dal concilio di Arles del 524, che prescriveva che i laici proposti al diaconato, al presbiterato e all'episcopato dovessero compiere, prima dell'ordinazione, un anno di probandato.

La conferma pontificia di questo canone era stata chiesta a F. dal suo vicario nella Gallia meridionale, il vescovo Cesario d'Arles, il quale, come metropolita, aveva riunito e presieduto il concilio provinciale del 524. Egli si era rivolto al papa nel 527 quando il concilio provinciale di Carpentras aveva condannato il vescovo di Antibes, che non aveva rispettato il canone del concilio di Arles.

F. intervenne pure, rispondendo ancora a sollecitazioni di Cesario d'Arles, nella lotta contro il semipelagianesimo, la corrente teologica che, sviluppatasi soprattutto nella Gallia meridionale durante il sec. V, cercava di mitigare il radicalismo della concezione agostiniana dell'assoluta gratuità della salvezza, affermando che anche senza la grazia l'uomo può cominciare l'opera di conversione e di salvezza. A F. e agli ambienti romani debbono infatti essere fatti risalire almeno in parte i venticinque "capitula" che posero fine alla disputa e che furono promulgati nel concilio provinciale di Orange del 529, promosso e presieduto da Cesario d'Arles.

Alcuni studiosi ritengono, a proposito dell'origine di questi "capitula", che il vescovo di Arles avesse inviato a F. una bozza contenente una serie di proposizioni dogmatiche sul problema della grazia e sul semipelagianesimo, che intendeva sottoporre all'approvazione di un prossimo concilio provinciale. A Roma la bozza sarebbe stata studiata, corretta e completata e avrebbe assunto l'aspetto di un documento costituito da otto canoni, che condannavano il semipelagianesimo fondandosi probabilmente su uno scritto del monaco scita Giovanni Massenzio, e da sedici proposizioni dogmatiche sulla grazia, desunte dal florilegio agostiniano di Prospero di Aquitania. In questa sua nuova forma la bozza di Cesario sarebbe stata rispedita in Gallia, al vescovo di Arles. Secondo altri studiosi, invece, Cesario avrebbe ricevuto il documento in questione direttamente da Roma, senza aver presentato a F. alcun testo. Ad ogni modo, all'approvazione dei vescovi convenuti ad Orange nel 529 Cesario sottopose un documento che - quale ne fosse la prima origine - gli era giunto da Roma e che da lui era stato rimaneggiato. Il vescovo di Arles aveva infatti ritoccato alcune delle sedici proposizioni dogmatiche e ve ne aveva aggiunta una diciassettesima, ottenendo così quel testo di venticinque "capitula" che fu discusso e approvato dal concilio di Orange e per il quale egli stesso chiese a F. la ratifica pontificia. Quest'ultima venne concessa nel 531, quattro mesi dopo la scomparsa di F., dal successore Bonifacio II.

Nel settembre del 530, quando era già gravemente ammalato, F. designò il suo successore con un solenne atto simbolico: alla presenza di membri del clero romano e del Senato - "praesentibus presbyteris et diaconis et senatoribus atque patriciis filiis meis, quos interesse contigit" scrive egli nel "praeceptum" relativo (Praeceptum papae Felicis, p. 97) - impose il proprio pallio, simbolo della sua autorità, all'arcidiacono Bonifacio, "qui ab ineunte aetate sua in nostra militavit Ecclesia" (ibid.), precisando tuttavia che esso doveva venirgli restituito se le sue condizioni di salute fossero migliorate. Subito dopo si preoccupò di dare notizia dell'accaduto al governo di Ravenna e di renderlo di pubblica ragione mediante il "praeceptum" indirizzato "dilectissimis fratribus et filiis episcopis et presbyteris, diaconis vel cuncto clero, senatui et populo", affisso nelle chiese parrocchiali di Roma.

La prassi della designazione non era sconosciuta alla Chiesa dell'Urbe: il concilio romano del 1° marzo 499 ne aveva perfino ammesso la legittimità. Tuttavia, mai prima di allora un papa aveva dato alla sua indicazione il carattere di una vera e propria investitura e, di conseguenza, mai prima di allora un papa aveva dimostrato di tenere in così poco conto il valore ed il significato dell'istituto della elezione dei vescovi. Nel "praeceptum" - nel quale, se esprimeva la sua convinzione che essi si sarebbero attenuti al suo "iudicium", comminava però la scomunica per quanti avessero osato contravvenire alla sua volontà sollevando opposizioni col rischio di provocare uno scisma - F. forniva al clero, al Senato e al popolo romano le ragioni che erano state alla base del suo provvedimento. Scriveva infatti di aver inteso salvaguardare la "vostra tranquillità" e la "pace della Chiesa" in un momento in cui quest'ultima era oppressa da difficoltà finanziarie così gravi che egli aveva dovuto contrarre debiti per poter assicurare, secondo la tradizione, "clericis et pauperibus solemnes erogationes". Egli aveva inteso evitare, cioè, che la già critica situazione economica della Chiesa romana potesse peggiorare ulteriormente in seguito ai maneggi connessi con una nuova competizione per l'elezione papale. Tuttavia, timori di ben altro ordine dovevano essersi aggiunti a queste preoccupazioni del pontefice. L'arcidiacono Bonifacio apparteneva a una famiglia di origine germanica, ma con ogni probabilità era nato a Roma, e aveva percorso la sua carriera proprio in seno al clero dell'Urbe. Nell'aspirare al pontificato egli aveva però un antagonista: il diacono Dioscoro, un greco di Alessandria, che si era rifugiato a Roma e aveva sostenuto un ruolo di primo piano nell'ambasceria inviata a Costantinopoli dal papa Ormisda nel 519. Anche se si esita a vedere nel primo un candidato del partito favorevole alla collaborazione con gli Ostrogoti, e nel secondo il candidato di un partito filoimperiale, si può tuttavia pensare che Bonifacio, per via della sua origine e della sua carriera, sia potuto apparire agli occhi di F. come la persona più adatta per vegliare, come papa, sugli interessi della Chiesa romana e per mantenere nel contempo buoni rapporti con i sovrani goti di Ravenna. La scelta di F. si giustificherebbe ancora meglio se Dioscoro fosse da identificare nella "persona rimossa" di cui si parlava nel 526 in seguito ad un ordine di Teoderico, per consentire l'ascesa proprio di F. al soglio papale; ma l'ipotesi non è, allo stato delle conoscenze, dimostrabile.

Nel medesimo periodo di tempo, secondo una parte degli studiosi, il Senato avrebbe indirizzato al clero di Roma una "contestatio", che nella tradizione manoscritta segue immediatamente il "praeceptum" feliciano. Si tratta di un breve testo, con cui il "Senatus amplissimus" comminava la confisca della metà dei beni a chi "vivo il papa, trattasse dell'ordinazione di un altro" e la confisca dell'intero patrimonio e l'esilio a chi, aspirando al pontificato, fosse risultato coinvolto in "tam inprobum ambitum" (Contestatio Senatus).

Il fatto che nella "contestatio" del Senato non compaia una formula di datazione e che in essa non si faccia alcun cenno né al "praeceptum" di F. né dell'arcidiacono Bonifacio rende assai difficile stabilire la cronologia e, di conseguenza, il valore e il significato storico di questo documento. Se lo si attribuisce agli ultimi tempi del pontificato di F., esso risulta talmente ambiguo che la critica storica lo ha potuto interpretare tanto come atto di sostegno della decisione di quel papa, quanto - all'opposto - come una sua sconfessione ufficiale. D'altro canto alcuni studiosi, come O. Bertolini, hanno ritenuto che la "contestatio" debba identificarsi col documento di analogo contenuto che, secondo Cassiodoro (Variae IX, 15, 3), fu approvato dal Senato poco più tardi, all'epoca di Bonifacio II.

F. morì a Roma il 20 o il 22 settembre 530; come i suoi immediati predecessori, fu deposto nel quadriportico antistante la basilica vaticana. La memoria epigrafica posta sulla sua sepoltura (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, a cura di G.B. de Rossi-A. Silvagni, Romae-In Civitate Vaticana 1935, nr. 4152) si apre, come da prassi consolidata, con l'enunciato ("certa fides") della beatitudine eterna destinata ai giusti: "È fede certa che ai giusti si apra quel regno celeste, di cui ora lieto gode papa Felice"; prosegue quindi (vv. 3-4) con la rievocazione della "umilis pietas" e della "simplicitas" che consentirono a F. di essere prescelto tra "multi superbi" (la parte del clero romano a lui ostile) per il governo della Sede romana ("celsum locum"). L'epitaffio si chiude con la classica esaltazione delle virtù pastorali ("pauperibus largus miseris solacia praestans"), proposte come manifestazione concreta dell'accrescimento del potere della Sede apostolica: "sedis apostolicae crescere fecit opes". Se, con il suo "praeceptum", F. aveva inteso evitare uno scisma, non raggiunse lo scopo. Alla sua morte, infatti, la maggioranza dei presbiteri romani e una parte del Senato, dimostrando di non voler rinunziare alle loro prerogative, elessero alla cattedra di s. Pietro il diacono Dioscoro, che venne ordinato vescovo di Roma lo stesso giorno in cui fu ordinato papa Bonifacio, il designato del defunto pontefice. Fu ad ogni modo scisma di breve durata. Il 14 ottobre 530 Dioscoro morì improvvisamente. La commemorazione, che non si fonda su alcuna antica tradizione, di F., indicato come papa terzo di questo nome, venne inserita alla data del 30 gennaio nell'edizione del 1586 del Martyrologium Romanum; fu trasferita a quella del 22 settembre nell'edizione del 1922.

fonti e bibliografia

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