Sanità pubblica e privata

Diritto on line (2017)

Martina Conticelli

Abstract

Il servizio sanitario nazionale si compone di diversi sistemi regionali, nei quali la componente pubblica e quella privata si combinano secondo vari modelli.

Tra i fattori che maggiormente contribuiscono a determinare l’assetto attuale, le origini “private” della tutela della salute, che affondano nell’iniziativa delle istituzioni di carità e di beneficenza. Fino all’approvazione della Carta costituzionale e alla sua attuazione, infatti, i pubblici poteri si interessano della materia prevalentemente in prospettiva di ordine pubblico e con finalità di igiene, oppure in prospettiva previdenziale e con finalità assicurative.

Il quadro cambia con l’approvazione della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, sia per quanto riguarda l’affermazione del diritto alla salute, sia per il ruolo dei privati. Quest’ultimo profilo muta ancora nel corso degli anni Novanta, per effetto di tre interventi di riforma, e presenta, oggi, caratteri differenziati nell’attuazione regionale. Analogamente differenziate sono le garanzie di tutela della salute dei diversi contesti regionali, così come i risultati in termini di prestazioni.

Premessa

La configurazione del servizio sanitario in Italia è complessa, per molti e diversi aspetti: per un verso, il servizio nazionale è la somma di tanti diversi sistemi regionali; per l’altro, la componente pubblica e quella privata si combinano in varie forme, che sono l’espressione della configurazione composita che assume l’intervento pubblico in questo settore.

Tali caratteri traggono origine da una serie di fattori: in primo luogo, dall’esperienza storica, che prende le mosse dall’iniziativa dei privati; in secondo luogo, dal quadro costituzionale, sia per la scelta del modello di intervento, sia per la distribuzione delle competenze tra lo Stato e le regioni; in terzo luogo, dal contesto normativo statale, costituito dalla disciplina che ha dato attuazione all’art. 32 Cost., a partire dalla legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, l. 23.12.1978, n. 833, e dai successivi interventi, con particolare riferimento a quelli attuati con d.lgs. 30.12.1992, n. 502, con d.lgs. 7.12.1993, n. 517, e con d.lgs. 19.6.1999, n. 229; in quarto luogo, dalla regolamentazione regionale, che determina, o, per meglio dire, “asseconda” le differenti configurazioni delle singole realtà locali.

Le origini “private” della tutela della salute

In Italia, la tutela della salute ha origini nell’iniziativa dei privati e affonda le proprie radici nella carità e nella beneficenza.

Agli inizi del XIX secolo, la sanità assorbe l’attenzione dei pubblici poteri, quasi esclusivamente per finalità di igiene e di ordine pubblico: l’intervento nel settore sanitario è fatto rientrare nella funzione di polizia e le principali competenze sono affidate al Ministro dell’interno.

Sono, invece, le istituzioni private, religiose e laiche, ad assumere un ruolo fondamentale nell’erogazione, attraverso il soccorso dei pellegrini, la cura degli infermi e dei poveri, l’assistenza agli eserciti. Fino alla prima metà del XIX secolo, però, il loro intervento si caratterizza per la dispersione, la sovrapposizione e il disordine.

Verso la seconda metà del XIX secolo, il rilievo assunto dalla materia sanitaria e l’espansione dei compiti erogativi si traduce nel maggiore interesse pubblico, e si realizza nell’istituzione della cd. “beneficenza legale”, nella prima disciplina dell’iniziativa privata e nel conseguente tentativo di demarcazione dell’intervento pubblico, attraverso la definizione delle responsabilità comunali e la regolamentazione dell’istituto della condotta medica.

Se nell’Italia postunitaria l’intervento in sanità è ancora assorbito in prevalenza dalla funzione di polizia, nel periodo che va dagli inizi del secolo scorso fino all’epoca fascista, però, esso si perde nella funzione di assistenza. Il quadro organizzativo e prestazionale è inizialmente frammentato e disomogeneo, fino almeno alla riunione, con legge 11.1.1943, n. 138, della maggior parte degli enti mutualistici e delle casse nell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro le malattie (Inam), e trascende dall’esigenza di un disegno razionale: le prime forme assicurative hanno ad oggetto la vecchiaia, l’invalidità, e la tubercolosi e, solo in seguito, la malattia in generale.

Con la realizzazione del mutualismo sanitario e l’istituzione dell’assicurazione pubblica obbligatoria, però, si compiono i primi passi della pubblicizzazione: in questo periodo sono approvati il t.u. delle leggi sanitarie, R.d. 27.7.1934, n. 1265, che riporta l’obbligo delle istituzioni ospedaliere di cura gratuita dei non abbienti (salvo rimborso da parte del comune di residenza), e la cd. legge Petragnani, R.d. 30.9.1938, n. 163, che regola il regime convenzionale tra i comuni e le amministrazioni ospedaliere, per le prestazioni ambulatoriali rese sempre ai non abbienti. Ancora in questi provvedimenti, tuttavia, e fino all’approvazione della Costituzione, la prospettiva è quella della funzione di vigilanza e di igiene. Per il resto, la salute è connessa alla qualifica di lavoratore e la sua tutela rientra prevalentemente nelle funzioni relative all’occupazione e alla previdenza.

Sebbene i pubblici poteri non si preoccupino dell’erogazione delle prestazioni se non in via residuale, rimettendo l’iniziativa ai privati, tuttavia, limitatamente ai lavoratori, la beneficenza viene gradualmente sostituita dal contributo pubblico, che diviene parte fondamentale delle spese sanitarie sostenute nell’ambito del nuovo sistema composito di sicurezza sociale. Del costo delle prestazioni rese a chi non rientra tra i beneficiari del sistema assicurativo, ma risulti indigente, si fanno carico, invece, i comuni, oppure i privati; il resto della popolazione paga le proprie cure.

Fino all’approvazione della carta costituzionale, il privato è chiamato ad agire in funzione suppletivo-integrativa, rispetto ai limiti e alle carenze dello Stato, dei comuni, e del meccanismo assicurativo.

Il quadro costituzionale e la sua attuazione

La situazione muta, quanto meno sotto il profilo dell’affermazione del diritto alla salute e della sua tutela, a partire dalla metà del secolo scorso e per effetto dell’ampia previsione costituzionale contenuta nell’art. 32. A quale formula di intervento si faccia riferimento, però, è tutt’altro che chiaro: diversamente da quanto accade per altri settori, come ad esempio l’istruzione, la Costituzione non individua uno specifico modello, né regola l’alternativa tra pubblico e privato. La lettura dell’art. 32 lascia spazio ad interpretazioni divergenti e apre alla variegata e multiforme combinazione di elementi pubblicistici e privatistici nell’ambito del servizio sanitario. Si discute, addirittura, se una dichiarazione così piena del diritto del singolo, quale quella contenuta nella disposizione citata, includa il dovere dello Stato di intervenire in maniera diretta, attraverso la costituzione di un apparato sanitario pubblico, oppure se essa lasci spazio ad un intervento in via indiretta mediante regolazione dell’iniziativa privata, se la caratterizzazione del servizio sanitario come servizio pubblico obbligatorio ad attivazione necessaria comporti che l’erogazione sia rimessa esclusivamente alle strutture pubbliche, oppure semplicemente che la tutela della salute sia sistematicamente disciplinata e programmata – ove le prestazioni siano fornite dai privati – oppure se alle cure possano provvedere direttamente solo i pubblici poteri, e se la scelta in ordine all’intervento diretto o indiretto spetti al legislatore.

Frattanto, rappresentano tappe importanti nella costruzione del servizio nazionale l’approvazione della l. 13.2.1958, n. 296, e della l. 12.2.1968, n. 132, cd. legge Mariotti. Il primo provvedimento istituisce il Ministero della salute, dando autonomo rilievo alla materia, attraverso la costituzione di un vertice politico; il secondo disciplina in maniera organica l’attività ospedaliera, regola la programmazione dell’attività di ospedali pubblici e privati, disciplina la presenza di istituti ospedalieri sul territorio, trasforma gli ospedali in enti pubblici dotati di autonomia, sganciandoli dalle opere pie, da quelle benefiche, nonché dagli enti previdenziali. È poi con i decreti di trasferimento di funzioni alle regioni, nella metà degli anni Settanta del secolo scorso, nonché con la cd. legge ponte, d.l. 8.7.1974, convertito in l. 17.8.1974, n. 386, che si gettano le basi per il definitivo superamento del sistema mutualistico e la costituzione del servizio sanitario nazionale.

Il passaggio avviene con l’approvazione della l. n. 833/1978, che stabilisce che la tutela della salute sia garantita attraverso un servizio sanitario pubblico organizzato sotto forma di servizio nazionale. La copertura è probabilmente il profilo di maggiore novità di questo provvedimento, nel quale gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione a favore della persona sono globalmente presi in considerazione e universalmente garantiti, per la maggior parte attraverso la fiscalità generale, e a condizioni di accesso eque. Sotto il profilo organizzativo, la legge istitutiva del servizio nazionale sviluppa una distribuzione territoriale omogenea del servizio, attraverso la costituzione delle unità sanitarie locali, ma senza tralasciare la presenza privata; quest’ultima si colloca accanto all’offerta pubblica, e ne costituisce parte integrante, inquadrata nella programmazione regionale e attraverso il convenzionamento. All’utente si assicura libertà di scelta in relazione al regime di assistenza diretta, entro i limiti dell’organizzazione del servizio. Non è dato, invece, analogo margine di scelta per il regime di assistenza cd. indiretta: l’eventualità di rivolgersi alle strutture non convenzionate, salvo rimborso successivo da parte del pubblico erario, è considerata eccezionale, dal momento che l’intervento pubblico è concentrato sul funzionamento di un apparato per l’erogazione delle cure, a spese della collettività.

Alla legge istitutiva del servizio sanitario nazionale fanno seguito le tre grandi riforme approvate con il d.lgs. n. 502/1992, con il d.lgs. n. 517/1993 e con il d.lgs. n. 229/1999, che contribuiscono a delineare il sistema attuale, muovendo nella direzione dell’aziendalizzazione e della regionalizzazione.

I tre interventi si pongono in una linea di discontinuità con il disegno della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, sotto più profili. Mentre si trasformano le precedenti unità sanitarie locali in aziende, enti pubblici dotati di personalità giuridica e autonomia, si introduce anche un principio di equiparazione tra strutture pubbliche e strutture private, lasciando libera scelta al paziente. Diversamente rispetto al sistema delineato dal legislatore del 1978, le aziende sono allocate in ambito regionale e svolgono, assieme all’amministrazione regionale, le principali funzioni amministrative: parte dei compiti erogativi può essere rimessa a strutture ospedaliere organizzate in aziende distinte, oppure a presidi interni alle stesse aziende.

Accanto alle prestazioni offerte dalle strutture pubbliche, è data all’utente la possibilità di rivolgersi alle strutture private, le cui cure possono essere coperte dal pubblico erario, quando esse siano parte del servizio regionale pubblico, per effetto dell’accreditamento e della stipula di un accordo con l’amministrazione regionale.

Gli indirizzi che guidano le prime due grandi riforme, sono, tuttavia, in gran parte rivisti dalla terza riforma, che mira a rispondere alle esigenze di contenimento della spesa, attraverso la razionalizzazione, con il consolidamento del precedente disegno regionale, attraverso interventi di regolamentazione, con la disciplina dell’attività libero-professionale privata nell’ambito delle strutture pubbliche (cd. intramoenia), attraverso misure di contenimento, con il rafforzamento del collegamento tra prestazioni essenziali e risorse disponibili, nonché attraverso misure di programmazione, con la parziale revisione dei provvedimenti di accesso alla fornitura di servizio pubblico.

La differenziazione regionale

La differenziazione regionale, che affonda le sue radici nell’evoluzione storica e politica delle realtà locali, è contemplata nella suddivisione di competenze del titolo V della Costituzione del 2001: la definizione della potestà esclusiva statale sui livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, co. 2, lett. m, Cost.) e di quella concorrente Stato-regioni sulla tutela della salute (art. 117, co. 3, Cost.), lascia allo Stato la responsabilità sulle scelte di fondo relative all’organizzazione, alla natura e alla misura dell’intervento pubblico, e affida alle regioni la decisione in ordine alla distribuzione delle funzioni.

Coerentemente con questo disegno, i modelli regionali si distinguono anzitutto per le scelte di governo, che si sostanziano nel differente ruolo assegnato alle aziende sanitarie locali. In alcuni contesti, ad esempio, le prestazioni sanitarie sono fornite da enti giuridicamente distinti rispetto alle aziende sanitarie locali, organizzati in forma di aziende ospedaliere; in altre, tali prestazioni sono fornite anche dalle aziende sanitarie locali, che incorporano le strutture eroganti, organizzate in presidi ospedalieri. Il significato di queste scelte è abbastanza chiaro: nel primo modello, l’amministrazione affida il servizio ad altri soggetti, e riserva a sé solo l’attività di programmazione, regolazione e finanziamento; nel secondo, l’amministrazione gestisce direttamente il servizio, e fornisce le prestazioni, e in altra parte, programma, regola e finanzia. Come differenza fondamentale, quindi, nell’uno, le aziende svolgono prevalentemente un ruolo di regolatori e di finanziatori, mentre, nell’altro, esse contribuiscono anche alla fornitura del servizio. Ne possono derivare conseguenze di rilievo in riferimento proprio alla parità tra gli operatori, pubblici e privati, con implicazioni sulla concorrenza e sulla libertà di scelta dell’utente.

La seconda variabile distintiva dei singoli modelli regionali si esprime attraverso la definizione dei requisiti per l’autorizzazione, l’accreditamento e gli accordi. Se la decisione in ordine all’organizzazione dei diversi sistemi regionali rientra nella competenza delle regioni, queste ultime individuano le forme di gestione del servizio, pur nei limiti stabiliti dai principi fissati dallo Stato: possono risultarne, quindi, ampie differenze di sistema, che vanno oltre le linee generali dell’organizzazione sanitaria, e che determinano diversi equilibri nella distribuzione dell’offerta pubblica e della presenza privata all’interno del servizio pubblico.

In altre parole, la definizione, da parte delle regioni, dei requisiti minimi e ulteriori per l’autorizzazione, l’accreditamento e gli accordi, può incidere sulla combinazione pubblico-privato, con l’effetto di estendere, ovvero limitare, l’accesso ai privati: i fattori di differenziazione regionale si misurano prevalentemente nel rapporto tra i requisiti di accesso al servizio pubblico regionale e la programmazione, nella definizione dell’amministrazione competente in ordine al rilascio dell’accreditamento, nonché nei controlli.

Una terza variabile è costituita dalle prestazioni assicurate alla popolazione. Al di sopra e oltre la soglia comune dettata dalla competenza statale trasversale in materia di livelli essenziali, le regioni possono differenziare la propria offerta.

La disciplina dei livelli essenziali di assistenza è ancora affidata a quanto stabilito con il d.P.C.M. 29.11.2001. Dopo diversi precedenti tentativi infruttuosi, la nuova regolamentazione dei livelli essenziali di assistenza è stata approvata definitiva con d.P.C.M. 12.01.2017, in attuazione di quanto previsto con il Patto per la salute 2014-2016, e secondo il procedimento ordinario, delineato con d.l. 13.9.2012, n. 158, convertito dalla l. 8.11.2012, n. 189, e rivisto e integrato con l. 28.12.2015, n. 208. Negli anni passati il mancato aggiornamento dei livelli di assistenza ha rappresentato un vulnus proprio per la garanzia del diritto alla salute. Le decisioni in materia richiedono valutazioni di carattere tecnico, sull’appropriatezza delle cure, sulle quali gioca un ruolo fondamentale l’amministrazione centrale (Ministero della salute, su cui si v. infra), ma anche di carattere finanziario, sul loro dimensionamento, in ordine alle quali interviene l’amministrazione finanziaria (Ministero dell’economia e delle finanze). Ad evitare future situazioni di stallo, le fonti citate hanno previsto, oltre alla prima approvazione, anche tempi, responsabilità e procedure per l’aggiornamento continuo dei livelli di assistenza.

Le interazioni tra pubblico e privato nella sanità: le prestazioni pubbliche rese dai privati

Le interazioni tra la sanità pubblica e quella privata nel servizio nazionale sono molte e diverse. L’offerta di prestazioni sanitarie da parte di enti privati nell’ambito del servizio sanitario pubblico è il risultato più evidente – e anche il più rilevante – di un fenomeno che tuttavia è ben più ampio. Vale la pena ricordare che nel settore sanitario operano tanto strutture private assoggettate a vincoli pubblicistici, quanto strutture pubbliche chiamate a rispettare moduli privatistici. Questi ultimi riguardano sia l’organizzazione, sia la gestione, e sono stati introdotti nella convinzione che, limitatamente ad alcuni aspetti, essi possano contribuire ad aumentare l’efficienza, l’economicità e l’efficacia dell’intervento pubblico. Basti pensare alla organizzazione sotto forma di azienda degli enti pubblici di regolazione ed erogazione locale, allo svolgimento di attività privata libero-professionale da parte del personale delle pubbliche amministrazioni, nell’ambito o al di fuori della struttura di servizio (cd. attività intra-muraria, ovvero extra-muraria).

Considerato nella sua accezione globale, poi, il rapporto tra pubblico e privato nella sanità determina diversi modelli sanitari, che si caratterizzano per la loro configurazione come modelli “a sistema nazionale” oppure come modelli assicurativi, in base alle scelte di fondo in ordine al profilo organizzativo dell’intervento.

Nel nostro ordinamento, al modello assicurativo è dato uno spazio residuale, che si esprime nella regolamentazione pubblica dei fondi sanitari integrativi. Questi ultimi, possono utilmente integrare il servizio pubblico, ma, soprattutto in considerazione del rilievo assegnato alle finalità redistributive, essi non rappresentano, in Italia, una reale alternativa al servizio organizzato in forma di amministrazione nazionale.

La rilevanza pubblicistica dei fondi sanitari è stata evidenziata soprattutto a partire dal d.lgs. n. 229/1999, che ne ha disciplinato le due principali tipologie, classificando come integrativi in senso stretto, i fondi destinati a coprire le prestazioni escluse dal servizio pubblico e/o parzialmente a carico dell’utente, oppure, come alternativi, quelli finalizzati ad operare in funzione sostitutiva del servizio pubblico, e ne ha regolato i requisiti. Negli anni successivi, si è prevista la deducibilità degli oneri, si sono individuati gli ambiti di intervento – poi estesi anche alle spese per le prestazioni sociali – si sono regolate le procedure di costituzione, registrazione e controllo.

Sempre in funzione integrativa del servizio sanitario nazionale, a quanto appena decritto, e sempre nell’ottica della valutazione della configurazione del binomio tra componenti pubblicistiche e privatistiche nel settore sanitario, occorre considerare la regolamentazione delle attività libero-professionali svolte da parte dei medici impiegati presso l’amministrazione sanitaria pubblica.

Si tratta di una questione risalente, sollevata ben prima dell’istituzione del servizio sanitario (v. art. 48, lett. d, l. n. 132/1968), e certamente di un tema generale del diritto amministrativo, che, tuttavia, assume un rilievo specifico in questo settore, per la configurazione che assume l’attività sanitaria, e per la compresenza, accanto all’interesse privato del medico professionista – che vede valorizzata la propria professionalità – e di quello dell’utente – che può farsi curare a tariffe calmierate, programmando il proprio intervento, da un professionista di fiducia – di un interesse pubblico all’integrazione del servizio sanitario nazionale – che si esprime sotto diversi aspetti, dalle economie di gestione, all’aumento delle entrate, alla riduzione degli oneri di ammortamento del costo delle apparecchiature.

Affrontare il tema dell’attività libero-professionale e della sua disciplina è risultato arduo già negli anni Novanta del secolo scorso: dopo diversi tentativi di regolamentazione (con l. 30.12.1991, n. 412, l. 23.12.1996, n. 662, e, in seguito, con l. 23.12.1998, n. 448), dapprima, il d.lgs. n. 502/1992 ha richiesto di destinare spazi all’interno delle strutture pubbliche, poi, il d.lgs. n. 229/1999, art. 13, ha circoscritto l’esercizio dell’attività professionale dei dirigenti. Alla l. 3.8.2007, n. 120, che ha fornito alla materia la prima normativa organica, sono seguiti negli anni successivi, e soprattutto in tempi più recenti, interventi di razionalizzazione, definizione e contenimento (ad esempio, con d.l. 13.9.2012, n. 158, convertito in l. 8.11.2012, n. 189).

Retribuite separatamente, e finanziate in forma privata – o mediante spesa cd. out of pocket o per il tramite di fondi sanitari – le cure rese in regime intramurario sono sottoposte ad una serie di condizioni: le prestazioni devono rientrare nell’ambito della programmazione aziendale, essere svolte al di fuori dell’orario di lavoro, in fasce orarie distinte rispetto a quelle dedicate all’attività istituzionale, e in locali appositamente adibiti, e non possono superare determinati limiti quantitativi. Particolare attenzione deve essere prestata, infine, alla corretta informazione agli utenti, in ordine alle condizioni e alle procedure. Ulteriori misure di monitoraggio, controllo e sanzione, infine, sono previste per la gestione del controverso rapporto tra l’attività professionale del dipendente pubblico e l’amministrazione dei tempi di attesa per gli utenti del servizio pubblico, per la prevenzione di conflitti di interesse e a scongiurare forme di concorrenza sleale.

Lo snodo centrale per comprendere il ruolo della componente pubblica e di quella privata in un modello sanitario organizzato in forma di sistema nazionale quale quello italiano, tuttavia, è rappresentato dal regime per l’accesso degli operatori alle attività sanitarie.

I principali interventi degli anni Novanta del secolo scorso sono mirati in prevalenza al controllo preventivo sull’accesso al settore sanitario, ma, come si è scritto, in misura diversa: mentre il d.lgs. n. 502/1992 ha adottato un’ottica di maggiore apertura, con il d.lgs. n. 229/1999 si è perseguito l’obiettivo di maggiore contenimento.

L’individuazione degli erogatori di prestazioni finanziate con risorse pubbliche si sviluppa secondo moduli procedimentali tipici, che si sviluppano in quattro livelli, ai sensi dell’art. 8 ss., d.lgs. n. 502/1992, finalizzati al rilascio di un provvedimento, ovvero alla stipula di un accordo: l’autorizzazione alla realizzazione di strutture sanitarie, l’autorizzazione all’esercizio di attività sanitarie, l’accreditamento e gli accordi contrattuali (cd. quattro “A”).

Se con i primi due strumenti citati si assicura il rispetto dei presupposti minimi per l’attività sanitaria in generale, gli altri sono collegati dalla finalità ultima di rendere accessibili risorse pubbliche a soggetti privati: in particolare l’accreditamento è propedeutico a fornire prestazioni sanitarie nell’ambito del servizio pubblico, mentre l’accordo è necessario per remunerare le prestazioni a spese del servizio pubblico attraverso l’assegnazione della capacità operativa massima per struttura.

Proprio per la loro diversa funzione, nonché per il fatto di presidiare l’accesso ad attività che assumono una connotazione di volta in volta diversamente rilevante in termini pubblicistici per la specifica connessione con l’organizzazione e il finanziamento del servizio sanitario pubblico, tali procedimenti presuppongono anche livelli, criteri e meccanismi differenziati di controllo.

Queste determinazioni riguardano sia le strutture pubbliche, sia quelle private, ma solo le due autorizzazioni rappresentano il presupposto necessario affinché le seconde possano operare. Nel rispondere all’obiettivo di garantire all’utente la libertà di scelta, l’atto di accreditamento è propedeutico al successivo accordo, che consente il rimborso della spesa sostenuta per le cure erogate a spese del pubblico erario. In quanto tale, esso è obbligatorio per le strutture pubbliche, ed è richiesto ai soli privati che vogliano essere inclusi nel servizio pubblico. Al contempo, dal rilascio dell’accreditamento non si deriva né alcun obbligo per l’amministrazione regionale di pervenire alla stipula dell’accordo, né alcun vincolo di remunerazione delle prestazioni eventualmente rese dalle singole strutture, che si fonda, invece, sugli accordi. Dagli accordi finalizzati all’acquisto di prestazioni da parte delle aziende sanitarie locali resta fuori una parte rilevante del servizio sanitario, vale a dire le prestazioni erogate direttamente dagli ospedali istituiti come presidi di azienda sanitaria locale – quelli cioè non trasformati in azienda – che rimangono pertanto incardinati nell’azienda sanitaria di riferimento.

Benché distinti, tutti i provvedimenti citati sono oggi accomunati dal perseguimento dei due interessi, di programmazione degli interventi e di contenimento della spesa. L’accreditamento è, infatti, insieme all’accordo, il principale strumento di programmazione del servizio e di utilizzazione delle risorse nonché, di regolazione, ed insieme a questo, trae derivazione dalla programmazione regionale, che fissa il volume delle prestazioni da ripartire in accreditamento e delle risorse assegnate dalle aziende locali, in sede di stipula di accordi e/o contratti (nell’ambito della determinazione complessiva delle risorse finanziarie effettuata dal Consiglio regionale, ai sensi dell’art. 8 quinquies, d.lgs. n. 502/1992).

Oltre all’accreditamento e agli accordi contrattuali, che sono diversamente legati al vincolo di programmazione e alla disponibilità delle risorse, anche le autorizzazioni, che sono rilasciate dall’amministrazione comunale ai sensi dell’art. 8 ter, d.lgs n. 502/1992, sulla base di requisiti minimi stabiliti a livello statale, fatte salve ulteriori determinazioni regionali, previa verifica di compatibilità con il fabbisogno regionale, con la distribuzione razionale delle strutture e l’erogazione funzionale del servizio per area territoriale.

Ai tratti fondamentali individuati in sede statale per l’accreditamento, corrispondono più livelli di diversificazione. Il d.P.R. 14.1.1997 ha definito i requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private. Rispetto ai criteri e alle procedure definiti dal legislatore statale per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private, le regioni determinano i requisiti ulteriori per l’accreditamento, nonché le procedure, le condizioni di revoca e i controlli. Un secondo profilo, invece, più specificamente amministrativo, è rappresentato dallo stadio di attuazione della disciplina, con particolare riferimento alla gestione del processo di transizione tra il precedente sistema di convenzionamento e quello attuale.

La sanità transfrontaliera

Il diritto alla salute va oggi riconsiderato alla luce della Direttiva 2011/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9.3.2011, concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera.

Recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. 4.3.2014, n. 38, la direttiva consente ai cittadini europei di scegliere liberamente il luogo di cura in regime di assistenza indiretta: il paziente è, quindi, tenuto ad anticipare i costi delle cure ricevute all’estero, salvo successivo rimborso. Rientrano nell’applicazione della direttiva le prestazioni erogate dal proprio sistema sanitario, ad eccezione dell’assistenza di lunga durata, dell’accesso ai trapianti e ai programmi pubblici di vaccinazione contro le malattie contagiose.

La disciplina mira a fornire assistenza sanitaria sicura e di qualità e a tutelare i diritti dei pazienti: sono strumentali, rispetto a questo obiettivo, la diffusione delle informazioni, la cooperazione e la mutua assistenza tra i sistemi sanitari degli Stati membri.

L’obiettivo di garantire ai cittadini europei la scelta del luogo di cura nell’ambito del territorio Ue è perseguito nel rispetto delle competenze nazionali: se si escludono le regole relative ai punti di contatto nazionali, responsabili per la circolazione delle informazioni e per la gestione dei processi, il nuovo regime infatti prescinde dalle scelte nazionali relative all’organizzazione e alla prestazione dell’assistenza sanitaria. Il funzionamento del sistema dipende in larga misura dalle scelte in ordine all’autorizzazione preventiva, nonché ai criteri di rimborso, dai metodi per garantire la sicurezza e la qualità delle prestazioni, dalla cooperazione fra autorità nazionali (ad esempio con riferimento al riconoscimento delle prescrizioni), e dalla costituzione delle reti di riferimento nell’assistenza, nonché dalla corretta circolazione delle informazioni attraverso i punti di contatto, dalla definizione e dal funzionamento delle relative procedure amministrative. Quali che siano le implicazioni delle soluzioni per le varianti citate, e a prescindere dalla considerazione attuale degli esiti del recepimento nazionale nonché dai risultati della piena attuazione della direttiva, è innegabile che, oltre alla moltiplicazione delle possibilità di cura offerte ai cittadini europei, l’interazione tra modelli sanitari profondamente diversi, per effetto della loro messa in connessione rappresenta, d’ora in avanti, un’occasione di verifica e di valutazione ulteriore sul funzionamento dei singoli sistemi.

I problemi, le tendenze recenti e le prospettive future

L’apertura ai privati nell’ambito del servizio pubblico e la differenziazione regionale – tratti distintivi del nostro sistema sanitario nazionale, come anticipato già nelle premesse di questo lavoro – avrebbero dovuto garantire, il primo, una efficace cooperazione in funzione integrativa, e, il secondo, la valorizzazione delle diversità, sia amministrative, sia di contesto.

Gli esiti prodotti sinora sono tutt’altro che coerenti, tra dichiarazioni di parità e di concorrenza tra pubblico e privato e manifestazioni di discrezionalità e vincoli, in sede di attuazione.

Sotto il profilo dell’assetto normativo e amministrativo, anzitutto, negli ultimi anni il collegamento tra l’accesso al mercato e le esigenze di programmazione si è rafforzato come meccanismo di contenimento della spesa, anche a causa dei crescenti vincoli di bilancio e dell’aggravarsi della situazione economica generale. L’utilizzo dello strumento della programmazione anche in questa chiave ha inciso sul margine di operatività dei fornitori di prestazioni sanitarie, pubblici e privati. All’accreditamento, si è assegnato carattere organizzativo, per le amministrazioni pubbliche, e natura concessoria, per le strutture private. I vincoli e le regole indicati per gli erogatori, infine, hanno trovato, in molti casi, applicazione diversificata, tra fornitori pubblici e privati.

Quanto alle differenze di sistema, che si esprimono nei diversi modelli di governo (oltre che nella distribuzione dei ruoli tra operatori pubblici e strutture private) gli esiti sono stati diversi, sia in termini di spesa, sia di qualità del servizio. I risultati, peraltro, non si associano sempre in maniera coerente con le scelte di sistema – in termini di governance, oppure di interazione tra pubblico e privato – ma, più che altro, riflettono il grado di virtuosità di alcune amministrazioni, rispetto ad altre.

Per fronteggiare i cattivi risultati di bilancio, negli ultimi anni, alla gestione dell’amministrazione regionale sono stati affiancati organi governativi, attraverso lo strumento del commissariamento e con la predisposizione dei cd. piano di rientro dai deficit sanitari regionali per le realtà meno virtuose. Si tratta di accordi siglati tra l’amministrazione centrale e le amministrazioni regionali, con lo scopo di riportare in equilibrio i bilanci delle regioni in difficoltà, anche attraverso il contributo statale.

Pensati per risolvere alcuni problemi, e rivolti prevalentemente al risanamento sotto il profilo finanziario, più che a quello relativo alla qualità dei servizi i piani di rientro rischiano comunque di agire da moltiplicatore per altri.

Profonde differenze hanno riguardato sempre più negli ultimi anni anche i risultati in termini di qualità delle prestazioni: i dati sulla mobilità regionale rappresentano una conferma al riguardo. L’autorizzazione a ricorrere ai servizi di amministrazioni diverse da quelle del luogo di residenza, previa accordi interregionali di compensazione, dovrebbe naturalmente consentire al cittadino di usufruire di prestazioni ad alta complessità erogate da centri specializzati naturalmente dislocati variamente nel territorio nazionale. Il fatto che le richieste di mobilità si siano indirizzate, negli ultimi anni - anche o forse prevalentemente - verso cure cd. a bassa complessità, manifesta quanto i servizi regionali differiscano sotto il profilo della garanzia del diritto alla salute, oltre che da un punto di vista organizzativo. Senza contare che sempre più di frequente, la misura di tali garanzie si valuta nella quantificazione dei tempi di cura. L’ampiezza delle liste di attesa per ricevere prestazioni, dunque, è un altro fattore a detrimento della tutela della salute; rispetto ad esso, è controverso quanto soluzioni integrative/alternative – quali il ricorso alle cure intra-murarie – agiscano da deterrente o come amplificatore.

Rispetto al quadro tracciato emergono, sempre con particolare riferimento all’ultimo periodo, per alcuni versi, istanze di armonizzazione, indirizzate alla regolazione dell’accesso al settore, e, per altri, forme o tentativi di centralizzazione formale, oppure “di ritorno”. Una prima è quella che si è manifestata, dal basso, all’interno della conferenza Stato regioni e che, a partire dal patto per la salute 2010-2012, ha condotto alla ricerca di una maggiore uniformità di ritorno dei requisiti di autorizzazione, accreditamento e accordo. Una seconda ha agito dall’alto, attraverso le recenti proposte di modifica del quadro costituzionale. Una terza è costituita, appunto, dall’affiancamento di organi dell’amministrazione centrale statale alle amministrazioni regionali, attraverso lo strumento dei piani di rientro. In riferimento a quest’ultimo profilo – e non solo – deve essere valutata la l. 13.11.2009, n. 172, che ha istituito il Ministero della salute, scorporandone le funzioni da quelle di competenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Al contempo, il provvedimento ha disposto il coinvolgimento del Ministero dell’economia e delle finanze per una serie di decisioni: tra queste, non solo quelle relative alla programmazione tecnico-sanitaria di rilievo nazionale, ma anche all’indirizzo, al coordinamento e al monitoraggio delle attività tecniche sanitarie regionali, per il concorso dello Stato al finanziamento, all’organizzazione dei servizi sanitari, e alle assunzioni, entro i profili di carattere finanziario.

A queste tendenze si aggiungono le implicazioni derivanti dai processi di razionalizzazione e di contenimento della spesa.

Rispetto alle progressive riduzioni dei margini di spesa, iniziano ad emergere da più parti preoccupazioni, che vanno a investire la sostenibilità del servizio sanitario nazionale e la copertura universale, con risultati già evidenti, che si sostanziano nell’aumento della domanda di prestazioni private (spesa cd. out of pocket) oppure intra-murarie, oppure addirittura nella cd. rinuncia alle cure.

Fonti normative

art. 32 Cost.; art. 117 Cost.; d.lgs. 30.12.1992, n. 502 e s.m.

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