SANGUE

Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)

SANGUE (XXX, p. 664; App. II, 11, p. 782)

Sergio PIOMELLI
Armando Edilio RAGGIO-GUARNASCHELLI

La moderna ematologia ha potuto negli ultimi anni utilizzare metodiche di ricerca che hanno completamente rivoluzionato la tradizionale concezione per la quale l'ematologia era considerata prevalentemente legata alla morfologia.

Per la prima volta gli ematologi sono stati in grado di scorgere, al di là degli aspetti visivi delle cellule ematiche, un quadro dinamico del sistema eritropoietico; inoltre sono state introdotte, come ipotesi di lavoro, concezioni teoriche nuove che spesso sono risultate largamente fruttuose. Questa visione globale e approfondita, che ancora pochi anni or sono non era nemmeno sperabile, è conseguenza della reciproca întegrazione di tecniche quali quelle dei radio-isotopi, che sono capaci di seguire nel tempo i fenomeni connessi al mantenimento di una massa sanguigna costante e di ottenerne una accurata misura quantitativa, con precise tecniche analitiche, quali sono ad esempio quelle chimico-fisiche che permettono di studiare la struttura della molecola di emoglobina fin nei singoli aminoacidi o le tecniche biochimiche che permettono di studiare i fenomeni che forniscono l'energia alle cellule fin nei singoli passaggi.

I maggiori progressi sono stati compiuti nello studio della fisiopatologia dei globuli rossi, soprattutto per la maggiore facilità con la quale è possibile studiare questi componenti corpuscolati del sangue rispetto ai globuli bianchi ed alle piastrine.

Tra i più importanti progressi in campo di fisiopatologia dei globuli rossi c'è il fatto che è oggi possibile una classificazione razionale delle sindromi emolitiche, un gruppo di emopatie finora ben difficilmente inquadrabili.

Le tecniche di ricerca che sono risultate di maggiore importanza negli ultimi anni sono: 1) l'uso di sostanze radioattive per "marcare" gli elementi corpuscolati del sangue; 2) l'analisi chimico-fisica della struttura dell'emoglobina, sue frazioni e varianti; 3) lo studio delle attività enzimatiche degli elementi corpuscolati; 4) le tecniche per la determinazione degli anticorpi incompleti.

L'importanza delle modalità tecniche nel determinare l'acquisizione di nuove conoscenze è tale che è opportuno lasciarsi guidare da queste per cercare di elencare i più importanti progressi in ematologia negli ultimi anni.

Uso di sostanze radioattive in ematologia. Studî sul metabolismo del ferro, sul ciclo evolutivo dei globuli rossi, sulle anemie megalocitiche. - Il mantenimento di una massa costante di globuli rossi in circolazione è il risultato di un preciso equilibrio tra il numero di globuli rossi che vengono quotidianamente a maturazione nel midollo e immessi in circolo ed il numero di globuli rossi che vengono ogni giorno distrutti. Tale numero è dipendente dal volume totale della massa sanguigna, dalla velocità di formazione e dalla velocità di distruzione. L'uso di isotopi radioattivi permette di misurare questi dati con accuratezza e di dare valori quantitativi allo svolgersi della eritropoiesi, misurata nel vivente.

Un posto preminente nello studio della eritropoiesi spetta agli isotopi del ferro: il Fe55, e soprattutto il più recente e maneggevole Fe59. L'uso di tali isotopi si avvantaggia della situazione particolare del ricambio del ferro: l'organismo mobilizza lentamente la propria scorta di tale minerale (circa 3 g, per un individuo adulto), così che vi è una minima eliminazione di esso (circa un mg al giorno), cui corrisponde un minimo assorbimento giornaliero, in quantità identica. Il ferro assorbito è in massima parte utilizzato per la sintesi dell'emoglobina dei globuli rossi e solo in piccola parte per la sintesi della mioglobina (proteina strutturale delle fibre muscolari) e di alcuni enzimi (prevalentemente enzimi respiratorî cellulari) contenenti ferro. Infine, allorché i globuli rossi, al termine del ciclo di vita, vengono distrutti, il ferro viene rapidamente staccato dall'emoglobina e riutilizzato per la produzione di nuovi globuli rossi. Una piccolissima dose di ferro radioattivo iniettata viene pertanto mescolata al ferro presente nell'organismo e permette di seguire nel tempo lo svolgersi delle successive fasi dell'eritropoiesi.

Il ferro innanzi tutto viene rapidamente fissato dalla transferrina, una proteina del s. specificamente deputata al suo trasporto, e quindi scompare dal s. circolante (a una velocità tale che dopo 90 minuti una metà del minerale iniettato è scomparsa). Poiché una piccola quantità di ferro libera è sempre presente nel s., il fatto che il ferro iniettato scompaia dalla circolazione dimostra che nel s. vi è un continuo movimento di ferro libero che deriva dai globuli rossi distrutti e va alle sedi di formazione. Il ferro radioattivo è rapidamente accumulato nel midollo osseo. L'intervallo di tempo tra scomparsa del ferro radioattivo dal s. e la comparsa di globuli rossi contenenti ferro radioattivo in circolazione corrisponde al tempo di maturazione midollare: in condizioni ordinarie, dopo 8 giorni il ferro iniettato si ritrova interamente nei globuli rossi circolanti. È possibile quindi con l'uso del ferro radioattivo misurare la velocità di formazione di nuovi globuli rossi. Al termine del ciclo di vita di questi il ferro radioattivo liberato durante la distruzione viene però rapidamente riutilizzato per formare nuovi globuli rossi: non è possibile quindi con l'uso di questo isotopo misurare l'intervallo di tempo in cui i globuli rossi neoformati restano in circolazione (durata di vita media), ma, nel normale, tale informazione è stata ottenuta con precisione utilizzando un altro composto marcato, la glicina, un aminoacido che entra a far parte non solo della parte proteica dell'emoglobina, ma anche della parte prostetica, l'eme. Utilizzando glicina "marcata" è stato possibile stabilire che i globuli rossi hanno una durata di vita pressoché uniforme di circa 120 giorni e che la emoglobina dei globuli rossi non viene più ricambiata.

La durata di vita dei globuli rossi può essere anche misurata, sia pure con minore, ma pur sempre buona, approssimazione, in modo che comporta una indagine meno complessa e con minor costo utilizzando un altro isotopo radioattivo: il Cr51.

La combinazione dell'uso di ferro e cromo radioattivo nello stesso individuo permette di misurare quantitativamente sia la massa circolante, sia le due fasi di produzione e di distruzione dei globuli rossi.

L'impiego dei radioisotopi ha permesso di confermare che nell'uomo normale adulto il volume sanguigno è di circa 5 litri (2,2 litri di globuli rossi); che l'organismo produce giornalmente 20 cm3 di globuli rossi (g 6,6 di emoglobina) e che esso ne distrugge una quantità identica.

Lo studio dinamico dell'eritropoiesi per mezzo di questi isotopi radioattivi è risultato particolarmente utile nell'analisi della situazione fisiopatologica delle sindromi emolitiche.

L'uso di globuli rossi marcati con Cr51 permette di distinguere le anemie emolitiche corpuscolari (nelle quali la durata di vita dei globuli rossi è accorciata per un difetto strutturale) dalle forme extracorpuscolari (in cui i globuli rossi sono strutturalmente normali, ma la durata di vita è accorciata perché fattori estrinseci ne provocano la distruzione). I globuli rossi dei pazienti con anemia corpuscolare hanno infatti una durata di vita minore del normale, sia nel paziente stesso, sia se vengono trasfusi ad un individuo normale; d'altro canto i globuli rossi di soggetti sani hanno una durata di vita normale allorché vengono trasfusi in questi pazienti: il difetto, quindi, è legato esclusivamente ai globuli rossi del paziente e nessuna influenza viene esercitata dall'ambiente nel quale essi circolano. Una situazione completamente opposta si osserva invece nelle anemie extracorpuscolari, in cui si osserva che non solo i globuli rossi del malato ma anche quelli di soggetti normali (allorché gli vengano trasfusi) hanno una durata di vita accorciata; d'altro canto i globuli rossi del paziente hanno durata di vita normale se trasfusi in un individuo normale: in questi casi infatti essi sono strutturalmente normali, ma vi è in circolazione nel sangue un fattore extracorpuscolare il quale esercita la propria azione lesiva su tutti i globuli rossi circolanti, indipendentemente dal fatto che appartengano, o no, al paziente.

In condizioni ordinarie, i globuli rossi che giungono al termine del proprio ciclo di vita vengono distrutti dalle cellule del cosiddetto sistema reticolo-istiocitario, le quali sono prevalentemente distribuite nel fegato e nella milza.

L'uso dei globuli rossi marcati con Cr51 permette di precisare la sede di distruzione dei globuli rossi: infatti la radioattività aumenta progressivamente a livello degli organi dove la distruzione dei globuli rossi è più intensa. Se l'aumento della radioattività (misurato con un contatore di superficie) è più intenso sulla milza che non sul fegato, si può anticipare che l'asportazione chirurgica della milza risulterà di notevole giovamento clinico.

Un altro capitolo dell'ematologia che ha ricevuto notevole ausilio dall'uso di materiale radioattivo è quello delle anemie megalocitiche. Queste, caratterizzate dalla presenza in circolo di globuli rossi di volume maggiore della norma (megalociti) sono dovute a una alterazione del metabolismo degli acidi nucleici, secondaria ad un insufficiente assorbimento di principî alimentari, tra cui, in primo luogo, acido folico e vitamina B12. Quantunque l'alterazione dell'eritropoiesi sia analoga nelle varie sindromi, il meccanismo che la produce può essere profondamente diverso: nell'anemia perniciosa, il difetto è dovuto alla mancanza di una muco-proteina del succo gastrico (il cosiddetto fattore intrinseco), il cui compito è di facilitare l'assorbimento della vitamina B12; nella sprue il difetto è invece legato ad una ipersensibilità della mucosa intestinale al glutine (una proteina del frumento) che causa uno stato di irritazione cronica, per cui l'assorbimento di numerosi principî alimentari, ed anche della vitamina B12, è ostacolato; nelle deficienze di acido folico, l'alterato metabolismo è legato ad un insufficiente apporto alimentare o ad un ostacolato assorbimento (in genere da parte di farmaci) dell'acido folico. È evidente l'importanza di una corretta diagnosi in quanto la terapia opportuna è profondamente diversa a seconda della differente causa patogenetica. Inoltre, una inadeguata terapia dell'anemia perniciosa a mezzo di acido folico potrebbe avere il risultato paradosso di migliorare l'anemia, ma di causare gravi lesioni del sistema nervoso, in quanto l'acido folico può infatti sostituire la vitamina B12 nella sua attività eritropoietica, ma col risultato di impoverire ulteriormente le già scarsissime riserve di vitamina B12 dell'organismo, sottraendole al sistema nervoso, al cui metabolismo è indispensabile.

Analisi strutturale dell'emoglobina. - L'analisi chimico-fisica dell'emoglobina ha consentito di precisare le alterazioni strutturali di questa proteina che sono alla base di alcune forme di anemie emolitiche costituzionali, le cosiddette emoglobinopatie (v. emoglobina, in questa App.).

Studio delle attività enzimatiche degli elementi corpuscolati; enzimopatie (favismo, emoglobinuria parossistica notturna, ecc.). - I progressi nel campo della biochimica compiuti negli ultimi anni hanno condotto all'analisi delle capacità enzimatiche delle cellule del sangue sia normali sia patologiche. Una delle più interessanti scoperte in campo di ematologia negli ultimi anni, è la dimostrazione di un alterato metabolismo del ciclo ossidativo del glucosio in alcune forme di anemia emolitica da fattori tossici alimentari o medicamentosi. Merito di questa scoperta è soprattutto di A. Alving e della sua scuola. Questi ricercatori, studiando il patrimonio enzimatico dei globuli rossi di individui in cui la somministrazione di primachina (un antimalarico) scatena gravi crisi emolitiche, dimostrarono che il movente di queste reazioni non è una allergia al farmaco, come era stato precedentemente ritenuto, ma un difetto congenito del patrimonio enzimatico dei globuli rossi e precisamente una marcata riduzione dell'attività della glucosio-6-fosfato-deidrogenasi, un enzima che catalizza una fase del ciclo ossidativo del glucosio nei globuli rossi. Successivamente fu dimostrato da ricercatori italiani che lo stesso difetto enzimatico è anche presente nei globuli rossi di individui che abbiano avuto crisi emolitiche dopo ingestione di fave (una condizione nota sotto il nome di favismo, diffusa in Sardegna). Il fatto, però che, nelle famiglie nelle quali è presente il difetto enzimatico, si trovino individui enzimopenici che non presentano crisi emolitiche dopo ingestione di fave, rende opportuno ritenere che l'enzimopenia sia causa necessaria ma non sufficiente allo scatenamento della crisi emolitica stessa e che qualche altro fattore concomitante sia indispensabile.

Lo spostamento delle indagini sul favismo dal livello clinico a quello biochimico ha reso possibile per la prima volta una chiara impostazione del problema dell'ereditarietà di questa affezione che era stata finora vagamente classificata come malattia a "distribuzione familiare". E stato possibile dimostrare che il gene responsabile della malattia è localizzato nell'eterocromosoma X e pertanto viene trasmesso secondo lo schema dell'eredità diaginica. La maggiore frequenza della malattia nel sesso maschile è così spiegata geneticamente. Nei maschi si distinguono due fenotipi: enzimopenico e normale, a seconda se hanno ereditato o meno il cromosoma con l'allele per l'enzimopenia; nelle femmine sono possibili invece tre fenotipi: enzimopenico, intermedio, normale, a seconda se ambedue, uno solo, o nessuno dei cromosomi X è portatore dell'allele in questione. Nelle femmine intermedie il livello dell'enzima è soltanto diminuito, ma permane la capacità di trasmettere il difetto alla discendenza. Conferma alla modalità di trasmissione dell'enzimopenia, viene dalle ricerche di M. Siniscalco e coll. (1961) che hanno studiato la segregazione dell'enzimopenia in famiglie ove era presente anche il daltonismo, che veniva usato come marcatore del cromosoma X. Questi autori hanno così definitivamente provato che il gene per l'enzimopenia è localizzato sull'eterocromosoma X, ad una distanza molto breve dal gene per il daltonismo.

In questi ultimi anni è stato anche osservato che, contrariamente a quanto si riteneva, il favismo, o meglio, il deficit dell'enzima glucosio-6-fosfato-deidrogenasi, ha una notevole diffusione nel mondo e che la sua distribuzione è sovrapponibile a quella della malaria. Gli studî popolazionistici in questo senso sono in favore dell'ipotesi che il gene responsabile per questa enzimopenia, come quelli per la talassemia e per alcune altre emoglobinopatie ereditarie, sia andato accumulandosi nelle aree malariche, principalmente attraverso un meccanismo di selezione naturale, probabilmente a causa della minore recettività per il parassita malarico dei globuli rossi di individui portatori di tali geni, che tutti producono alterazioni dei globuli rossi.

Anche in altre anemie emolitiche da difetto corpuscolare sono stati dimostrati difetti enzimatici, ma non è così evidente in queste forme come nel favismo il rapporto tra il difetto enzimatico e l'alterazione metabolica.

La emoglobinuria parossistica notturna è una sindrome emolitica non familiare, molto grave, che insorge generalmente in età adulta, della quale è caratteristico l'accentuarsi dell'emolisi nel corso delle ore del sonno; l'emolisi, inoltre, avviene direttamente nel s. circolante, senza intervento della milza, per cui l'emoglobina si libera direttamente in circolo; in condizioni ordinarie una piccolissima frazione dei globuli rossi viene distrutta in circolo e quindi una piccolissima quantità di emoglobina si libera nel s.; alcune proteine, le cosiddette "aptoglobine" provvedono a legare questa piccola quantità di emoglobina formando un complesso ad alto peso molecolare il quale non riesce a passare il filtro renale; nella emoglobinuria parossistica notturna la quantità di emoglobina libera presente nel s. supera di gran lunga la capacità delle aptoglobine e si ha pertanto un passaggio di emoglobina nelle urine. In questa forma morbosa sono stati dimostrati due difetti enzimatici; uno a carico dei globuli rossi, rappresentato dalla diminuzione dell'acetilcolinesterasi e uno a carico dei leucociti, che sono privi della fosfatasi alcalina.

Alterazioni metaboliche sono sospettabili anche in altre forme di itteri emolitici congeniti; quali l'ittero emolitico costituzionale sferocitico (tipo Minkowsky-Chauffard), che è una condizione ereditaria, caratterizzata dalla tendenza dei globuli rossi alla forma sferica, anziché alla normale forma biconcava e dalla distruzione prevalente delle emazie nella milza, per cui la splenectomia porta alla guarigione clinica. I globuli rossi di pazienti affetti da questa forma morbosa si emolizzano spontaneamente allorché il s. viene lasciato per 24 ore a 37 °C in condizioni di sterilità (fenomeno cosiddetto della "autoemolisi"); se però si aggiunge una piccola quantità di glucosio al sangue l'emolisi non avviene; in altre forme, quali ad esempio il cosiddetto ittero emolitico costituzionale non sferocitico (una rara forma morbosa nella quale, a differenza dalla condizione precedente, non si osservano alterazioni di forma dei globuli rossi) l'"autoemolisi" non viene corretta dall'aggiunta di glucosio bensì dall'aggiunta di sostanze contenti radicali fosforici ad alto livello energetico, quali l'adenosintrifosfato e l'adenosindifosfato. È probabile, quindi, che in queste forme di anemia emolitica il movente sia un difetto dei meccanismi energetici dei globuli rossi: il glucosio ed i fosfati sono infatti tra le principali fonti di energia cellulare; non è però ancora noto in queste forme morbose il preciso punto in cui il difetto metabolico è localizzato nella catena dei processi energeciti cellulari. Nessun difetto enzimatico, invece, è stato dimostrato nell'ittero emolitico costituzionale ellittocitico, una forma morbosa analoga alla sferocitosi, in cui l'alterazione morfologica dei globuli rossi è prevalentemente la tendenza ad una forma ellittica.

Tecniche per la determinazione degli anticorpi incompleti e loro impieghi. - Storicamente la prima dimostrazione di anticorpi di tipo cosiddetto incompleto è stata ottenuta nella malattia emolitica del neonato, nota anche come eritroblastosi fetale. Tale malattia si può presentare sotto quadri clinici profondamente diversi, ma il substrato è unico: la iperemolisi immunitaria, e le diversità sono soprattutto funzione dell'entità e durata della emolisi. Il "primum movens" della malattia emolitica del neonato è la iso-immunizzazione materno-fetale: la risposta, cioè, dell'organismo materno a sostanze di origine paterna che, presenti nei globuli rossi del feto ed assenti nella madre, hanno carattere di antigeni.

La presenza di determinati antigeni caratterizza il gruppo sanguigno dell'individuo. Tra le isoimmunizzazioni materno-fetali, la più nota, perché più frequente e prima ad essere dimostrata, è quella da incompatibilità nei riguardi dell'antigene D del sistema Rh; ma per quanto meno di frequente, isoimmunizzazioni possono aversi anche come conseguenza di diversità di gruppo Kell-Cellano, Kidd, Jay, M-N-Ss, di altri antigeni del sistema Rh e per il gruppo A-B-O (in quest'ultimo caso la possibilità di isoimmunizzazione sembra limitata a donne di gruppo O che procreano figli di gruppo B e, soprattutto A, specie A1). La malattia emolitica del neonato non si osserva durante la prima gravidanza incompatibile, ma la frequenza aumenta con le successive gravidanze; si osserva, però, con aumentata frequenza, durante la prima gravidanza, qualora la madre sia stata già sensibilizzata all'antigene presente nel feto da una precedente trasfusione di s. contenente tale antigene (di qui l'importanza di evitare trasfusioni di s. da marito a moglie); si può anche, sia pure raramente, osservare, per motivi ignoti, nel corso della prima gravidanza, nel caso di isoimmunizzazione da incompatibilità nel sistema A-B-O.

Gli anticorpi di tipo incompleto, responsabili della malattia emolitica del neonato si distinguono dagli altri anticorpi (completi) in quanto, pur legandosi all'antigene, non possono essere dimostrati, come questi ultimi, semplicemente mettendoli a contatto con gli antigeni relativi in soluzione salina, ma bisogna ricorrere a particolari artifizî tecnici; un'altra differenza importante è la capacità, da parte degli anticorpi incompleti, di attraversare la barriera placentare, il che consente loro di esercitare l'azione lesiva sui globuli rossi del feto.

Fra gli artifizî tecnici adatti a dimostrare gli anticorpi incompleti, uno dei più comuni, pur se non il più sensibile, è quello di fare la reazione in un mezzo ad elevato contenuto proteico (per lo più albumina bovina) oppure di modificare i globuli rossi in modo da renderli agglutinabili dagli anticorpi incompleti anche in soluzione salina: le sostanze che riescono a modificare i globuli rossi in tale modo sono gli enzimi proteolitici (tripsina, papaina, ficina). Ma, tra tutte le prove, la più sensibile e la più specifica per la dimostrazione degli anticorpi incompleti è la prova di Coombs-Moreschi (dai nomi dell'autore che per primo la propose in patologia umana e dell'autore che, per primo, nel lontano 1908, utilizzò il principio su cui la prova è basata). Tale prova si avvale del fatto che gli anticorpi sono delle globuline, per cui, allorché vengono a contatto con l'antigene (in questo caso con i globuli rossi) ne ricoprono la superficie a guisa di mantello; nel caso degli anticorpi completi, le cellule ricoperte dall'anticorpo si agglutinano tra di loro; nel caso degli anticorpi incompleti non si ottiene la agglutinazione. In quest'ultimo caso, però, i globuli rossi sono tuttavia ricoperti di anticorpi, per cui aggiungendo un siero antiglobuline (un anticorpo cioè che reagisce con le globuline) questo reagisce con le globuline anticorpali presenti sui globuli rossi e provoca l'agglutinazione del complesso anticorpo incompleto-globulo rosso. Naturalmente, per ciascuna specie animale, occorre un siero antiglobuline preparato iniettando globuline di quella specie in un animale di specie diversa: nel caso dell'uomo, un siero antiglobuline umane si prepara comunemente iniettando globuline umane nel coniglio. Come conseguenza del principio su enunciato, allorché le emazie vengono saggiate con siero antiglobuline, sono agglutinate nel caso siano rivestite da uno strato di anticorpi, mentre non sono agglutinate in assenza di tale rivestimento: questa è la prova diretta di Coombs. Analogamente la presenza di anticorpi incompleti nel siero può essere dimostrata mettendo in contatto il siero con le emazie sospette di aver provocato la iso-immunizzazione, in modo da provocarne il rivestimento con gli anticorpi; successivamente, aggiungendo il siero anti-globuline, si ottiene l'agglutinazione, se nel siero sono presenti anticorpi: è questa la prova indiretta di Coombs.

L'uso di queste varie tecniche per la dimostrazione degli anticorpi incompleti ha permesso di dimostrarne la presenza sui globuli rossi di pazienti di anemie emolitiche acquisite. Tale dimostrazione ha aperto l'orizzonte ad una nuova branca dell'ematologia, l'immuno-ematologia, basata sull'ipotesi che, per cause tuttora sconosciute, un individuo reagisca contro alcuni costituenti del proprio organismo con la produzione di anticorpi, in maniera cioè analoga al tipo di reazione che l'organismo esercita contro sostanze estranee. Gli anticorpi diretti contro sostanze presenti nello stesso individuo vengono chiamati auto-anticorpi. Per quanto la concezione teorica dell'immuno-ematologia urti contro l'horror autotoxicus, (con cui Erlich definì l'innata incapacità ad ottenere produzione di anticorpi in un animale stimolandolo con l'iniezione di sostanze presenti nell'animale stesso) e tuttora manchi la dimostrazione sperimentale di tale possibilità, l'indirizzo che informa l'immuno-ematologia ha dato impulso a una già larga messe di ricerche e di acquisizioni. È incontestabile, inoltre, la presenza, in patologia umana, di sostanze che, per le caratteristiche chimico-fisiche e le proprietà biologiche, si comportano in maniera pressoché indistinguibile dagli anticorpi incompleti. Pur quindi con ampie riserve sull'esatto significato biologico degli autoanticorpi, la loro importanza patogenetica rimane tra le più importanti acquisizioni della moderna ematologia.

Tra le ipotesi che tendono a provare la natura di auto-sensibilizzazione delle malattie emolitiche acquisite, una corrente di ricerche attribuisce notevole importanza all'analogia tra queste malattie e la cosiddetta "panagglutinabilità" o fenomeno di Thompson e Friedenreich. Alcuni virus (tra questi anche i banali virus influenzali) nonché alcuni batterî (i vibrioni colerici in particolare) mediante degli enzimi cosiddetti RDE (Receptor Destroying Enzyme = enzima distruttore dei recettori) sono in grado di modificare la struttura dei gruppi glicoprotidici situati alla superficie dei globuli rossi; si verifica dopo la loro azione sui globuli rossi la messa in evidenza del cosiddetto antigene T. Globuli rossi così modificati sono "panagglutinabili", cioè agglutinabili da qualsiasi siero umano, poiché agglutinine anti-T sono sempre presenti nel sangue di individui normali. Qualora si riuscisse a legare il fenomeno della panagglutinabilità, che avviene in provetta, con le malattie emolitiche acquisite, che invece avvengono nel vivente, la causa dell'autoimmunizzazione si potrebbe far risalire ad una pregressa infezione virale: in favore di questa ipotesi è il fatto che una infezione virale precede di regola lo scatenarsi della malattia da auto-immunizzazione.

Clinicamente le anemie emolitiche acquisite si dividono in acute e croniche ed entrambe, a loro volta, in idiopatiche ed in sintomatiche. Le forme acute di anemia emolitica da autoanticorpi corrispondono alla cosiddetta "sindrome di Lederer-Brill", una anemia emolitica acuta a rapida insorgenza. Arbitraria è, nelle forme acute, la divisione in forme idiopatiche e forme secondarie, a seconda che sia dimostrabile, o meno, una pregressa infezione virale, in quanto l'insorgenza dell'anemia può verificarsi a volte anche molto tempo dopo la guarigione della infezione eziologicamente responsabile. Le forme croniche idiopatiche di anemia emolitica da autoanticorpi comprendono, accanto alle forme legate alla presenza di auto-anticorpi del tipo incompleto, le sindromi da autoanticorpi a frigore, anticorpi cioè che si fissano sugli eritrociti in ambiente freddo, ma esplicano la loro azione lesiva a caldo (cosiddette emolisine bifasiche) e le sindromi emolitiche parossistiche da freddo con manifestazioni Raynaud-simili. Queste ultime forme sono legate alla presenza in circolo di un elevato titolo di anticorpi che, in ambiente freddo, agglutinano i globuli rossi: clinicamente l'esposizione al freddo della superficie corporea si traduce in una emolisi rapidissima, con liberazione di notevole quantità di emoglobina in circolo e conseguente eliminazione di emoglobina nelle urine; in questi pazienti, inoltre, si osservano fenomeni di ischemia alle estremità in conseguenza dell'esposizione al freddo, analogamente a quanto si osserva nella sindrome di Raynaud.

Numerose sono le malattie in grado di provocare una anemia cronica da autoanticorpi e principalmente sono rappresentate da emopatie (leucemia, linfogranuloma maligno), neoplasie (linfosarcoma, carcinoma), mesenchimopatie (periarterite nodosa, lupus eritematoso), più raramente infezioni croniche (lues, tubercolosi). Le anemie emolitiche da autoanticorpi, secondarie ad una di queste cause, traggono giovamento dal migliorare della malattia primaria.

In analogia con quanto è stato dimostrato per i globuli rossi, si ritiene da numerosi autori che anche per le piastrine ed i leucociti si possa ammettere la autoimmunizzazione. Lo studio immunologico delle piastrinopenie e delle leucopenie urta però contro difficoltà difficilmente superabili perché intrinseche alla natura stessa di questi costituenti corpuscolati del sangue.

Da varie scuole ematologiche sono stati messi in evidenza cosiddetti "autoanticorpi antipiastrinici"; ma le metodiche utilizzate per tale dimostrazione, in vista anche delle difficoltà teniche, non hanno caratteristiche di precisione paragonabili a tecniche in uso per la dimostrazione di anticorpi antiglobuli rossi, e, anche nelle mani dei più strenui assertori della loro specificità, danno reperti del tutto incostanti e variabili. Analoga situazione si avvera per i cosiddetti "autoanticorpi antileucocitarî". Il progresso tecnico nella capacità di dimostrazione di queste sostanze chiarirà eventualmente la validità di questa ipotesi. Nel caso però di talune forme di piastrinopenie che si osservano dopo somministrazione di farmaci, quali ad esempio la piastrinopenia da chinidina o da Sedormid, si è riusciti a dimostrare chiaramente la presenza di anticorpi antipiastrinici. Questi anticorpi, però, non reagiscono né con le piastrine né con il farmaco presi indipendentemente, ma reagiscono solo allorché sono presenti sia le piastiine, sia il farmaco: sono cioè diretti contro il complesso piastrine-farmaco; è evidente che non si può in questo caso parlare di autoimmunizzazione.

L'estensione del concetto di autoimmunizzazione ad altre sindromi in cui è possibile tale patogenesi ha portato alla identificazione del cosiddetto fattore L. E. (lupus eritematoso) o fattore di Haserick, dal nome del ricercatore che lo ha individuato. Tale fattore, che è, come gli autoanticorpi, una globulina, agisce sui nuclei cellulari ed è dimostrabile nel siero in quanto determina una lisi dei nuclei degli elementi mononucleati del sangue alla quale, come fatto del tutto secondario, segue la fagocitosi da parte di un granulocita neutrofilo: granulociti, che ingolfano nel citoplasma residui omogeneizzati di un nucleo cellulare sono chiamati cellule L. E. Tale fenomeno si ritiene dalla maggioranza degli autori sia di tipo immunitario. Sostanze di tipo anticorporale sono state anche riscontrate nel s. di individui affetti da altre malattie; ricordiamo il "fattore reumatoide" nel s. di pazienti affetti da artrite reumatoide, le globuline anti-tiroide in alcune forme di tiroidite cronica; una larga schiera di ricercatori ritiene, inoltre, oggi, che la patogenesi auto-immunitaria possa anche essere responsabile di alcune forme di nefropatie. D'altro canto l'estensione della patogenesi autoimmunitaria ad altre malattie ematologiche quali le porpore vascolari e la emofilia, che era stata avanzata sull'onda dei primi entusiami, è stata, almeno alla luce delle attuali conoscenze, invalidata da ricerche cliniche e sperimentali.

La teoria della autoimmunizzazione, quindi, pur se basata su principî teorici tutt'altro che chiari, ha largamente contribuito a migliorare le nostre conoscenze non solo in ematologia, ma in varî campi della medicina.

Bibl.: G. Di Guglielmo, Le anemie emolitiche, Roma 1954; A. Marmont, Immuno-ematologia, in Attualità in ematologia, Roma 1955; J. Dausset, Immunohématologie biologique et clinique, Parigi 1956; P. L. Mollison, Blood transfusion in clinical medicine, Oxford 1956; M. Wintrobe, Clinical hematology, Filadelfia 1956; A. Ferrata, E. Storti, Le malattie del sangue, Milano 1958; Biochemistry of Human Genetics. A Ciba Foundation Symposium, Londra 1959; H. Harris, Human biochemical Genetics, Cambridge 1959; F. Stohlman, The kinetics of cellular proliferation, New York 1959; J. V. Dacie, The haemolytic Anaemias, New York 1960; J. B. Stanbury, J. B. Wyngaarden e D. S. Frederickson, The metabolic basis of inherited disease, New York 1960; L. G. Lajtha, The use of isotopes in haematology, Oxford 1961.

Eritrosedimentazione.

Le modalità con cui in una colonna di sangue reso incoagulabile gli eritrociti si separano dal plasma, sono state oggetto di ulteriori studî; la determinazione della velocità con cui il fenomeno si svolge (velocità di sedimentazione = V. S.) è divenuta una prova di laboratorio di uso corrente.

Ovviamente la eritrosedimentazione è un fenomeno osservabile esclusivamente "in vitro"; infatti "in vivo" gli eritrociti rimangono in sospensione grazie al continuo movimento di rimescolamento che il s. subisce durante la circolazione; essa è rilevabile solo nel s. reso incoagulabile perché, anche nei casi nei quali essa è enormemente accelerata, se non coesistono gravi difetti della emocoagulazione, questa interviene sempre prima che il fenomeno abbia tempo di estrinsecarsi.

La separazione dalla parte liquida di quella corpuscolata del s., praticamente degli eritrociti, avviene per gravità, ma la velocità con la quale si compie è condizionata da molteplici fattori, solo in parte noti: alcuni estrinseci (tra cui la temperatura ambientale, e, soprattutto, la verticalità della colonna ematica), altri intrinseci. Questi ultimi sono rappresentati dalle caratteristiche fisiche dei globuli rossi (numero, forma, peso specifico) e dai caratteri fisico-chimici del plasma; un ruolo essenziale è rivestito dagli aumenti delle sieroproteine a conformazione fibrillare (fibrinogeno e, subordinatamente, globuline α e β). Il meccanismo con il quale gli aumenti dei colloidi fibrillari accelerano la V. S. è tutt'ora ignoto e delle molte ipotesi emesse al riguardo nessuna si può considerare pienamente soddisfacente.

Le osservazioni eseguite con il sedigrafo hanno dimostrato che nella V. S. si devono distinguere tre fasi e precisamente: 1) una fase iniziale o lenta, nella quale si formano gli aggregati eritrocitari (i cosiddetti "rouleaux" che costituiscono la premessa indispensabile della sedimentazione (gli eritrociti isolati non sedimentano); 2) una fase intermedia o veloce, nella quale si ha la caduta degli eritrociti e la cui durata è inversamente proporzionale alla velocità con la quale questa caduta avviene; 3) una fase terminale o lenta, nella quale avviene lo stipamento degli eritrociti sedimentati.

Applicazioni cliniche della V. S. - È attribuito a J. Hunter il merito di avere per primo, nel 1779, constatato che una accelerata separazione della parte corpuscolata dalla liquida caratterizzava il sangue degli individui affetti da lesioni infiammatorie e che la rapidità della separazione era in certo senso proporzionale alla gravità della lesione. Successivamente Ch. F. Nasse nel 1836, J. Davy nel 1839, il Muller nel 1884 constatarono che in particolari condizioni si aveva una rapida separazione degli eritrociti dal plasma, ma non tentarono di spiegare il fenomeno, che soltanto nel 1917 venne studiato su basi scientifiche da R. Fahraeus. Da allora le osservazioni sul comportamento della V. S. nelle varie condizioni fisiologiche e patologiche si sono moltiplicate e i risultati ottenuti furono tali da far assurgere ben presto la determinazione della V. S. al ruolo di ricerca clinica della massima importanza.

È essenziale, però, ricordare che la V. S. è una prova completamente priva di specificità e, di conseguenza, le sue modificazioni non consentono di orientare la diagnosi verso una particolare malattia. Essa, invece, è preziosa a scopo selettivo perché, grazie alla sua estrema sensibilità e alla precocità delle sue modificazioni (24-30 h dall'inizio della malattia), un suo aumento permette di affermare l'esistenza di uno stato patologico; al contrario una V. S. nei limiti della norma non è sufficiente per affermare lo stato di salute perché, anche se rare, esistono malattie (tra le più comuni, sono da ricordare le infezioni salmonellari) che non si accompagnano a suoi aumenti.

Le più importanti applicazioni diagnostiche della V. S. sono la tubercolosi polmonare (per la quale rappresenta uno dei più sicuri mezzi per distinguere le infezioni attive silenti da quelle spente), le artropatie (nelle quali permette di differenziare le forme infiammatorie, e segnatamente la malattia reumatica da quelle degenerative), i processi essudativi, specie pleurici, che non si possono considerare spenti finché la V. S. non è ritornata alla norma, e l'infarto del miocardio nel quale la ricerca, certamente inferiore ad altre indagini per quello che riguarda una diagnosi precoce, è l'indice più sicuro di guarigione.

Metodi di determinazione e valori normali. - Tra i molti metodi proposti per la determinazione della V. S., è comunemente impiegato quello di Westergren, col quale si misura in mm l'altezza della colonna plasmatica che si separa in 1 h e in 2 h da una colonna ematica costituita da 4 parti di sangue e da 1 parte di soluzione anticoagulante (citrato di sodio al 3,8%), alta 200 mm e con diametro di mm 2,5.

Fisiologicamente la V. S. è più elevata nella donna che nell'uomo e la ragione di ciò non è completamente nota, il minor ematocrito proprio del sangue femminile non essendo sufficiente da solo a spiegare questo comportamento. Unica condizione fisiologica in cui si ha sicuramente aumento della V. S. è la gravidanza; contrariamente ad una opinione molto diffusa, sembra sicuramente dimostrato che la digestione non è in grado di interferire sull'andamento della prova: perciò non è indispensabile eseguire, come è consuetudine, la determinazione esclusivamente a digiuno.

In linea di massima, per il metodo di Westergren, si considerano normali i seguenti valori:

e si considera la V. S. modicamente aumentata quando, dopo 1 h, l'altezza della colonna plasmatica non supera i 20 mm, nettamente aumentata quando è compresa tra 21 e 50 mm, fortemente aumentata se è di 51-90 mm e fortissimamente aumentata quando supera i 90 mm. Praticamente priva di significato è la lettura che talora viene eseguita dopo 24 h; questa lettura, limitatamente ai casi nei quali la V. S. è aumentata in maniera tale da garantire entro questo tempo la fine della terza fase, può al più fornire una indicazione molto approssimativa del volume globulare (ematocrito).

È consuetudine accompagnare i valori della V. S. con l'indice di Katz; questo non è altro che una formula aritmetica ideata per esprimere la velocità con la quale gli eritrociti sedimentano durante la seconda fase, che è quella clinicamente significativa, e si calcola risolvendo:

(a = sedimentazione dopo 1 h; b = sedimentazione dopo 2 h).

È essenziale ricordare che l'indice di Katz assolve il suo compito solo nei casi nei quali la sedimentazione, durante la seconda ora, è almeno eguale o maggiore di quella della prima ora; non così quando essa è inferiore perche ciò sta a significare che prima dello scadere delle 2 h si è già iniziata l'ultima fase, cioè il rallentamento della sedimentazione provocato esclusivamente dal fattore fisico dell'ammassamento degli eritrociti per cui, quando la colonna eritricitaria è vicina ad esprimere l'ematocrito, il fenomeno della sedimentazione deve considerarsi ultimato. Ne consegue che nelle V. S. molto elevate, l'indice di Katz non solo è privo di significato, ma calcolarlo costituisce uno sbaglio perché fornisce una valutazione del fenomeno errata in difetto. Ciò è poco noto ed è, invece, diffusa la tendenza a dare, in ogni caso, più importanza all'indice di Katz che ai valori delle signole letture.

Bibl.: R. Fahraeus, in Hygiea, LXXX (1918), p. 369; id., in Acta Medica Scandinava, LV (1921), p. 1; Ch. Wunderly e F. Whurmann, in Klinische Wochenschrift, XXII (1943), p. 587; A. Ferrata e E. Storti, Le malattie del sangue, I, Milano 1958; A.E. Raggio Guarnaschelli, Le analisi cliniche, Roma 1961.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

TAG

Granulocita neutrofilo

Adenosintrifosfato

Artrite reumatoide

Selezione naturale

Fosfatasi alcalina