Salario minimo, 50 cent

Il Libro dell'Anno 2013

Muhammad Yunus

Salario minimo, 50 cent

L’industria dell’abbigliamento del Bangladesh deve essere riformata, non distrutta, dice il Nobel per la pace bengalese, Muhammad Yunus. Basterebbe che i compratori stranieri stabilissero una retribuzione minima di 50 centesimi l’ora per garantire il benessere della forza lavoro, senza per questo perdere in competitività.

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Per i bengalesi, la tragedia nella fabbrica tessile a Savar è un simbolo del nostro fallimento come nazione. La crepa che ha causato il crollo dell’edificio ci ha dimostrato che, se non affrontiamo le crepe nei nostri sistemi, come nazione finiremo in macerie. Oggi, le anime di coloro che hanno perso la vita a Rana Plaza guardano quello che stiamo facendo, ascoltano ciò che diciamo. L’ultimo respiro di quelle anime ci circonda.

Abbiamo imparato qualcosa da questa terribile perdita di vite umane? O faremo il nostro dovere esprimendo semplicemente il nostro profondo cordoglio? Cosa dobbiamo fare, ora che veniamo a conoscenza di un incendio mortale in un’altra fabbrica di Dhaka? Importanti questioni sono state sollevate circa il futuro dell’industria tessile. Papa Francesco ha detto che i buyers trattano i lavoratori tessili come se fossero degli schiavi. Un grande buyer straniero, la Disney, ha deciso di lasciare il Bangladesh. Altri potrebbero seguirne l’esempio. Se ciò accade, il nostro futuro sociale ed economico sarà gravemente danneggiato. Questa industria ha portato enormi cambiamenti nella nostra società, trasformando la vita delle donne. Non possiamo permettere che venga distrutta. Al contrario, i bengalesi devono essere uniti come nazione per rafforzare l’industria dell’abbigliamento e le aziende straniere devono fare la loro parte. Propongo che i compratori stranieri fissino congiuntamente un salario minimo internazionale per l’industria, che potrebbe essere di circa 50 centesimi di dollaro l’ora, il doppio di quello usuale del Bangladesh. Questo salario minimo dovrebbe essere parte integrante della riforma dell’industria e contribuirebbe a prevenire future tragedie. Dobbiamo far capire alle aziende internazionali che, mentre i lavoratori sono fisicamente in Bangladesh, questi stessi stanno contribuendo ai loro affari: loro sono gli attori. La distanza fisica non dovrebbe essere un motivo per ignorare il benessere di questa forza lavoro.

Certamente, dobbiamo essere pronti a una reazione negativa del mercato. Alcuni sostengono che il Bangladesh perderebbe la competitività che si è guadagnata offrendo una forza lavoro più economica. Per mantenere la propria competitività, il Bangladesh dovrebbe valorizzarsi in altri modi, per esempio aumentando la produttività e la capacità di lavoro specializzato, riguadagnando la fiducia dei buyers e garantendo ai lavoratori il welfare. Ma se non saremo in grado di stabilire un salario minimo internazionale, non potremo far uscire i lavoratori dalla penosa categoria di ‘lavoratore schiavo’, così come definito dal papa.

Ottenere l’appoggio per il salario minimo non sarà facile, ma attraverso un onesto dialogo con i politici, gli imprenditori, i cittadini, i gruppi religiosi e i media dei paesi consumatori, tale obiettivo può essere raggiunto. In passato, ho cercato di convincere i buyers stranieri, ma senza successo. Ora, dopo la tragedia di Savar, il problema ha acquisito una nuova urgenza. Voglio mobilitare i miei amici del Bangladesh e delle altre parti del mondo per rendere, questa volta, gli sforzi più forti e persistenti. Non sarebbe necessario per tutte le aziende adottare nello stesso tempo il salario minimo. Se alcune aziende leader prendessero l’iniziativa, le altre le seguirebbero. C’è anche un altro modo concreto per contribuire a garantire standard migliori per i lavoratori tessili del Bangladesh. Ipotizziamo che una fabbrica produca e venda un pezzo di abbigliamento per 5 dollari, che verrà poi confezionato e spedito a New York. Questi 5 dollari includono non solo la produzione, l’imballaggio, la spedizione, il profitto e la gestione, ma, indirettamente, comprendono anche la quota che va ai coltivatori di cotone, per la filatura, e il costo della tessitura.

Quando i clienti degli Stati Uniti comprano questo articolo da un negozio al prezzo di 35 dollari, sono soddisfatti per aver fatto un affare. Ma chi è stato coinvolto nella produzione ha ricevuto nell’insieme solo 5 dollari. Ulteriori 30 dollari sono stati aggiunti negli Stati Uniti per vendere il prodotto al consumatore finale. Ora, con un piccolo sforzo, potremmo ottenere un enorme impatto sulla vita dei lavoratori.

Un consumatore in un centro commerciale potrebbe sentirsi disturbato se gli venisse chiesto di pagare 35,50 dollari invece di 35? La mia risposta è no, non se ne accorgerebbe neppure. Se riuscissimo a creare un fondo per il welfare dei lavoratori dell’industria tessile in Bangladesh con quegli ulteriori 50 centesimi, potremmo risolvere la maggior parte dei problemi che i lavoratori affrontano: la sicurezza, l’ambiente di lavoro, l’assistenza sanitaria, l’alloggio, la salute dei loro figli, la formazione, l’assistenza all’infanzia, la pensione, la vecchiaia. Tutto potrebbe essere gestito attraverso questo fondo. Il Bangladesh esporta abbigliamento per un valore di 18 miliardi di dollari annui. Se tutti gli acquirenti di abbigliamento accettassero questa proposta, il fondo riceverebbe 1,8 miliardi di dollari ogni anno. Verrebbero versati 500 dollari nel fondo per ognuno dei 3,6 milioni di lavoratori. Tutto ciò che dobbiamo fare è vendere il capo di abbigliamento a 35,50 dollari invece che a 35. Un cambiamento appena percettibile a livello di prezzo potrebbe fare miracoli. Certo, gli acquirenti internazionali possono controbattere che 50 centesimi in più ridurrebbero la domanda del prodotto e che i loro profitti potrebbero diminuire. Ma si potrebbe stipulare un accordo in base al quale le loro vendite salirebbero anziché diminuire.

I 50 centesimi extra potrebbero essere uno strumento di marketing per rendere il prodotto più attraente per i consumatori. Potremmo mettere un tag speciale su ogni capo di abbigliamento, che dica: «Da parte dei lavoratori del Bangladesh, grazie. Stiamo garantendo il benessere dei lavoratori». Potrebbe essere vidimato dalla Grameen Bank, dall’ONG Brac o da qualche altra rispettata organizzazione internazionale. Potrebbe essere apposto un bel logo.

Se i consumatori vedessero che un’istituzione ben nota e di fiducia si è assunta la responsabilità di garantire il presente e il futuro dei lavoratori che operano nell’industria tessile, pagherebbero volentieri i 50 centesimi in più. I compratori sarebbero orgogliosi di sostenere il prodotto e la società, piuttosto che sentirsi in colpa perché indossano un prodotto realizzato in condizioni di lavoro difficili.

Non mi aspetto che tutte le imprese mettano in pratica immediatamente la mia proposta. Spero che qualcuno si faccia avanti per sperimentarla e che i governi dei loro paesi, le organizzazioni che lavorano per proteggere i diritti dei lavoratori, i gruppi di cittadini, i gruppi religiosi e dei media facciano un passo avanti per sostenerla. Questo problema dovrebbe attirare ancora più urgentemente l’attenzione oggi, alla luce delle morti di Savar.

Portare via dal Bangladesh le industrie non è la soluzione. Sarebbe un danno per il Bangladesh e per i compratori stranieri. Non vi è alcun senso nel lasciare un paese che ha beneficiato molto della loro attività, un paese che potrebbe continuare a realizzare un rapido e visibile progresso economico e sociale grazie a loro, un paese che resterebbe loro sempre grato. Credo che sarebbe preferibile rimanere in Bangladesh ed essere onorati di dare vita a una nuova società ed economia. Sono in atto cambiamenti nel mondo del lavoro. Anche se sono piccoli cambiamenti, si stanno comunque verificando. Noi possiamo accelerare questo cambiamento.

La tragedia di Savar ha creato una grande ferita e un dolore profondo negli animi degli abitanti di questo paese. Prego che da questo profondo dolore si possa trovare un modo per risolvere i problemi della nostra vita nazionale. Quando abbiamo osservato la tragedia consumarsi sui nostri schermi televisivi – centinaia di persone inermi morte e ferite – siamo divenuti consapevoli di ciò che il nostro sistema disfunzionale ha determinato. Dopo tutto questo, potremo restare ad aspettare che la tragedia si ripeta ancora una volta?

Quando saremo davvero consapevoli?

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