RUSSIA

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Russia

Berardo Cori
Giuseppe Mureddu
Adriano Guerra
ENCICLOPEDIA ITALIANA VI APPENDICE TAB russia 01.jpg

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(XXX, p. 264; App. II, ii, p. 756; III, ii, p. 638; V, iv, p. 587; v. anche urss, XXXIV, p. 816; App. I, p. 1098; II, ii, p. 1065; III, ii, p. 1043; IV, iii, p. 754; V, v, p. 685)

Geografia umana ed economica

di Berardo Cori

Massimo erede e successore dell'URSS, capofila della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI, v. in questa Appendice), la R., formatasi nel 1991, ha assunto anche il nome di Federazione Russa con il Trattato federale del 1992. È il maggior paese del mondo per superficie (oltre 17,1 milioni di km²) e uno dei più notevoli per popolazione (147.963.500 ab. nel 1999). La Costituzione della Federazione Russa, che è d'impronta nettamente presidenziale e che ha ridimensionato le prerogative inizialmente accordate agli Stati membri (diritto di secessione, prevalenza della legislazione locale su quella federale), è stata approvata nel 1993.

Nella CSI, che raggruppa 12 Stati (tutti i componenti già federati nell'antica URSS, tranne Estonia, Lettonia e Lituania), la R. rappresenta senz'altro lo Stato-guida, anche se i legami istituzionali con gli altri membri sono complessivamente tenui. I legami di fatto variano invece da una certa tendenza alla riaggregazione politica (con la Bielorussia è stata costituita una più stretta e specifica Comunità delle Repubbliche Indipendenti nel 1996-97 e con l'Ucraina è stato firmato un significativo 'trattato di amicizia' nel 1997) a una più frequente cooperazione militare e integrazione economica (in particolare con alcuni paesi dell'Asia centrale: accordi del 1996 di R. e Bielorussia con Kazakistan e Kirghizistan); essi sono comunque resi complessi dalla massiccia presenza in tali Stati di minoranze russe (soprattutto, nell'ordine, in Kazakistan, Ucraina, Kirghizistan).

La struttura interna della Federazione Russa è complessa, comportando non solo 22 repubbliche federate, ma anche un certo numero di unità territoriali autonome (10 circondari od okrugi, una provincia, due città e 6 territori o krai), tutte collocate all'interno di quella che è di gran lunga la maggiore delle repubbliche, la R. in senso stretto: questa, aggiungendo alle unità autonome le 49 province ordinarie (oblasti), occupa oltre il 70% della superficie e include quasi l'85% della popolazione dell'intera Federazione. Tra le altre repubbliche federate, la più estesa è di gran lunga quella degli Jacuti (oltre 3,1 milioni di km², con appena un milione di ab.), seguita a distanza dalla Repubblica dei Comi (415.900 km²) e dalla Repubblica dei Buriati (351.300 km²); la più popolosa è invece la Repubblica dei Baschiri o Baškortostan (oltre 4,1 milioni di ab.), seguita da quella dei Tatari, o Tatarstan (3,8 milioni di ab.).

Mentre non vengono sollevate per il momento le due possibili rivendicazioni russe 'esterne' sulla Crimea (v. ucraina, in questa Appendice) e sull'Ossezia meridionale (v. georgia, in questa Appendice), e ancor più quella sul Kazakistan settentrionale in cui si concentra una forte minoranza russofona (v. kazakistan, in questa Appendice), all'interno della Federazione moti indipendentisti hanno insanguinato a lungo, nell'area ciscaucasica, la Cecenia. Questa repubblica federata, separatasi dall'Inguscezia con la quale costituiva a suo tempo una repubblica autonoma dell'URSS, si era autoproclamata indipendente già nel 1991 (col nome autoctono di Ičkeria dal 1994), provocando alla lunga un duro e sanguinoso intervento militare russo (1994-96); con gli accordi del 1996, la definizione dello status della Cecenia è stata rinviata a un referendum da tenersi nel 2001, ma il conflitto si è acceso nuovamente nel 1999 (v. oltre: Storia). Decise aspirazioni a una maggiore autonomia - se non addirittura all'indipendenza - caratterizzano non solo altre repubbliche federate (il Tatarstan nel medio bacino del Volga, cui è stata concessa un'autonomia speciale nel 1994; il Baškortostan; la Carelia al confine con la Finlandia; Tuva in Siberia), ma anche remoti krai siberiani come quelli di Chabarovsk e del Primor´e, lontanissimi da Mosca, e addirittura semplici oblasti come quella di Sverdlovsk ('Repubblica degli Urali', proclamata nel 1993 e poi caduta nel nulla). Il tutto nel quadro di una diffusa aspirazione all'autogoverno motivata da ragioni etniche, dalle grandi distanze, e soprattutto dall'aspirazione delle comunità locali al controllo delle proprie risorse: per es. in Cecenia il petrolio, e ancor più la rendita di posizione di cui gode questa repubblica, in quanto attraversata dall'oleodotto (danneggiato e bloccato più volte durante la recente guerra civile) che da Baku e dal Caspio conduce a Novorossijsk, porto russo di esportazione sul Mar Nero.

In questo complicato intrecciarsi di rivendicazioni di appartenenza e di indipendenza, di tendenze alla riaggregazione e di minacce di secessione, è appena il caso di notare che, mentre le frontiere occidentali della R. non sono ormai più contestate da nessuno, un lembo di territorio russo è, pacatamente ma continuativamente, rivendicato a oriente dal Giappone: le isole Curili.

Popolazione

La popolazione della Federazione Russa risulta praticamente a crescita zero, se non in lieve diminuzione: infatti la vitalità demografica di alcune delle minoranze etniche e i flussi di rientro di Russi da talune delle repubbliche ex sovietiche (centro-asiatiche e caucasiche in particolare) sono più che bilanciati dal comportamento demografico di tipo senile della grande maggioranza della popolazione: il tasso di natalità è sceso al di sotto del 10‰ e quello di mortalità sfiora il 14‰ (1997).

Una decina di città si situa fra il milione e il milione e mezzo di abitanti (valori sostanzialmente stazionari negli ultimi decenni): sono per lo più capoluoghi di grosse oblasti della R. in senso stretto, tranne Ufa e Kazan´ che svolgono funzioni di capitali delle due principali fra le repubbliche federate minori (quelle dei Baschiri e dei Tatari). Su queste città si ergono i due vertici della rete urbana russa: San Pietroburgo, la più settentrionale metropoli della Terra, con 4,7 milioni di ab. (è sotto la protezione dell'UNESCO con il progetto Patrimonio 2001), e Mosca, distesa a macchia d'olio attorno al Cremlino (profondamente rinnovata nel suo volto, almeno nel centro, negli ultimi anni del millennio, in particolare con la riapertura e la rivalorizzazione delle splendide chiese ortodosse), con oltre 8,5 milioni di abitanti: questi due centri urbani sono gli unici ad avere status di 'città autonoma' nell'ambito della Federazione Russa. Il revisionismo toponomastico, che aveva portato, a partire dal 1990, al ripristino di molti degli antichi nomi di città dell'epoca presovietica, si è bruscamente arrestato: così Caricyn è tornata a chiamarsi Volgograd, e Togliatti ha conservato il suo nome dopo l'apposito referendum del 1996.

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Dal punto di vista etnico l'83% della popolazione della Federazione è costituito da Russi veri e propri (1994): essi rappresentano la grande maggioranza degli abitanti della Russia in senso stretto, ma anche la maggioranza o almeno una forte minoranza nelle altre repubbliche federate: dal 74% in Carelia al 27% nella Repubblica dei Ciuvasci. Nell'insieme della Federazione, la principale minoranza etnica interna è costituita dai Tatari (quasi il 4% della popolazione totale e il 49% di quella della loro specifica repubblica) e quella esterna dagli Ucraini (oltre il 2% della popolazione totale). Di peso inferiore le altre minoranze, sia interne (Ciuvasci, Baschiri, Mordvini, Ceceni - tutti organizzati in proprie repubbliche federate - e altri, per lo più titolari di territori autonomi all'interno della Russia in senso stretto), sia esterne (Bielorussi ecc.). Da ricordare che al di fuori della Russia, nelle altre repubbliche dell'ex URSS (comprese quelle baltiche che non fanno parte della CSI), vivono ancora quasi 25 milioni di Russi. Sul piano religioso, i Russi etnici - quelli credenti - sono in massima parte cristiani ortodossi (35÷40 milioni di praticanti secondo una valutazione del 1996), e la Chiesa ortodossa gode di una certa posizione di privilegio anche a livello politico; peraltro, Tatari, Ceceni e altri gruppi sono musulmani, i Buriati sono buddisti e non mancano gruppi ebrei (che hanno una loro provincia autonoma in seno alla Repubblica Russa). I culti ortodosso, musulmano, buddista ed ebraico sono in qualche misura protetti dallo Stato, in quanto considerati "culti tradizionali della Russia" secondo una legge del 1997, la quale in un certo senso discrimina le confessioni religiose minoritarie, compresa quella cattolica (tabb. 2a e 2b).

Condizioni economiche

Il sistema economico russo ha avuto negli anni Novanta un'evoluzione tumultuosa, con aspetti contraddittori: da un lato, è stato decisamente avviato un processo di liberalizzazione, privatizzazione e razionalizzazione delle strutture produttive; dall'altro, si sono verificati fenomeni profondamente negativi, dimostrati sia dal cattivo andamento degli indicatori macroeconomici, sia dal diffondersi di elementi di disorganizzazione, squilibrio sociale, corruzione e vera e propria criminalità economica. Così, il contributo del settore privato alla formazione del PIL ufficiale si è quintuplicato (toccando il 70% del totale, con punte vicine al 100% nel settore commerciale), e quello all'impiego totale si è raddoppiato (superando il 35%) fra il 1990 e il 1995, proseguendo su questa tendenza negli anni successivi. Nello stesso tempo, però, nonostante massicci aiuti finanziari occidentali (e investimenti veri e propri, ma in misura assai minore), la produzione materiale (sia dell'economia rurale sia di quella industriale) è notevolmente diminuita, abbassando ulteriormente la già modesta produttività.

Notevoli le varianti regionali, in questo sistema economico che è in stato di grande fluidità: il grado di privatizzazione varia considerevolmente da provincia a provincia, a seconda delle politiche adottate dalle autorità locali; esistono poi zone franche alla periferia del paese (Kaliningrad, Siberia estremo-orientale, Sachalin ecc.), completamente aperte agli investitori stranieri.

Nell'immenso e poco ospitale spazio russo, l'agricoltura in senso stretto - settore in cui la privatizzazione procede con grande lentezza, per la scarsa propensione all'imprenditorialità della popolazione rurale da tempo assuefatta al collettivismo - continua a occupare solo una minima parte (fra il 7 e l'8%, soprattutto le 'terre nere', tra la foresta e la steppa) della superficie totale, utilizzata essenzialmente per cereali, piante sarchiate e da olio nonché piante tessili. Così, nonostante una serie di raccolti cattivi (che hanno costretto il paese a una costosa ripresa delle importazioni di cereali dall'estero), la R. resta saldamente il primo produttore mondiale assoluto di orzo e di avena, tra i primissimi di segale e di patate e tra i primi per quanto riguarda il grano, nonché un discreto produttore di zucchero di barbabietola, olio di girasole, lino e canapa. Non vanno dimenticati gli ortaggi (primi fra tutti i cavoli), tradizionale coltura privata sotto tutti i regimi.

Un altro 5% della superficie territoriale russa è tenuto, nella fascia delle steppe, a foraggi e pascoli, sui quali (ma anche nelle stalle familiari) vive un consistente patrimonio zootecnico, bovino e suino e, in minor misura, ovino, peraltro in fortissima diminuzione numerica negli ultimi anni. Estesissima, invece, la superficie forestale (sostanzialmente coincidente con la taiga), circa il 45% del totale, dalla quale deriva una delle più importanti produzioni di legname del mondo (ma anch'essa è in diminuzione) e alla quale si connette un vasto settore industriale, che ha come punti di arrivo la cartotecnica e il mobilificio. Importante anche la pesca, sia quella marittima (la R. ha perso molti litorali ex sovietici, ma non la pescosa costa murmana e il litorale del Pacifico) sia quella fluviale (basso Volga).

Dal sottosuolo russo, notoriamente ricchissimo di risorse, continuano a essere estratti minerali d'ogni genere, in forti quantità (ma in genere decrescenti, anche per timidi tentativi di razionalizzazione, di chiusura dei giacimenti marginali e di eliminazione delle principali diseconomie). La R. resta fra i maggiori produttori mondiali di minerali energetici (carbone, lignite, petrolio, uranio) e il primo assoluto per il gas naturale (più di un quarto della produzione mondiale), protagonista del settore forse più dinamico e promettente di tutta l'economia russa. La R. occupa ottime posizioni, nelle classifiche mondiali, anche per l'estrazione di metalli ordinari e preziosi (ferro, oro ecc.). Frequente obsolescenza tecnica, necessità di investimenti, ricerca di sbocchi sono i principali problemi attuali del settore, che pure resta il più importante dell'economia russa nell'ambito delle esportazioni e come catalizzatore di capitali stranieri.

La produzione di energia elettrica, anch'essa in calo ma pur sempre quarta nel mondo, deriva in massima parte da centrali termiche tradizionali; segue per importanza l'apporto delle centrali idriche, mentre il nucleare contribuisce per il 10% circa del totale. Fra le numerose centrali nucleari, alcune, come quelle di Sosnovyj Bor (presso San Pietroburgo), Smolensk e Kursk sembrano decisamente a rischio, almeno secondo gli standard di sicurezza occidentali, e i progetti per il loro ammodernamento o risanamento vanno molto a rilento; più in generale, l'inquinamento ambientale raggiunge in R., nella maggior parte delle aree industriali, livelli elevatissimi.

Il massiccio apparato produttivo dell'industria russa - nella quale la privatizzazione avanza, fra sorde resistenze negli ambienti più diversi, ma è in molti casi solo un'operazione di facciata e limitata ad alcuni settori - continua a fornire produzioni assai importanti soprattutto nelle branche di base, tuttavia quantitativamente stazionarie o più spesso in calo (acciaio, cemento, acido solforico): si ripresentano gli stessi problemi tecnici, economici e finanziari già segnalati per l'attività mineraria. Ristagno produttivo, persistente arretratezza tecnologica e organizzativa, nonché riluttanza nei confronti delle pur necessarie ristrutturazioni, caratterizzano con poche varianti tutto il settore manifatturiero. Qualche eccezione in positivo si ha nelle industrie produttrici di beni di consumo, pur minacciate dalla liberalizzazione delle importazioni di tali beni dall'estero.

Un'evoluzione più brillante sembra connotare quel settore terziario che così a lungo era rimasto compresso in passato. Commerci al minuto e servizi, i cui prezzi sono stati liberalizzati già nel 1991 - sia pure con successivi passi indietro - sono ormai in grande maggioranza privatizzati (a Mosca nella loro totalità). Il commercio estero si sviluppa - anche perché partito da livelli molto modesti - a tassi di crescita elevati; più di metà delle esportazioni, peraltro, continua a essere rappresentata dalla classica voce 'minerali e metalli'. La R. cerca in tutti i modi di mantenere - e di aumentare con nuovi progetti di condutture - il proprio fruttuoso controllo sulle crescenti e promettenti esportazioni di idrocarburi dal Mar Caspio e dai paesi centro-asiatici della CSI. La bilancia commerciale, nonostante tutto, è costantemente positiva, e si vanno rapidamente diversificando i partner: ormai i quattro quinti degli scambi (in valore) si realizzano al di fuori della CSI.

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Politica economica e finanziaria

di  Giuseppe Mureddu

La R. si affaccia al nuovo millennio in una situazione economica estremamente difficile. Contrariamente a quanto i fautori delle terapie d'urto avevano profetizzato sul passaggio all'economia di mercato, l'obiettivo della stabilizzazione dell'economia è ben lontano dall'essere realizzato, e tanto più problematico appare l'avvio di un nuovo sviluppo. Ingredienti principali della negativa realtà economica sono lo smantellamento dell'apparato industriale, l'inflazione galoppante, l'accumulo di arretrati nei pagamenti, la grave crisi del settore bancario, l'assenza di un sistema fiscale in grado di finanziare le spese dello Stato, la svalutazione incontrollabile del rublo, l'insolvenza del debito interno ed estero, la fuga di capitali, la povertà crescente di larghe masse della popolazione. Dopo l'ebbrezza iniziale, il cocktail perverso di questi ingredienti ha fatto cadere i 'giovani riformatori', e rischia di mettere in forse l'irreversibilità stessa del processo di trasformazione dei meccanismi dell'economia nazionale e il pieno inserimento della R. nel commercio e nella finanza mondiale. In sintesi, l'esperienza russa costituisce, almeno attualmente, la sconfitta più clamorosa tra i tentativi di transizione rapida dalla pianificazione centralizzata al mercato.

A prescindere dal dibattito sui meccanismi della transizione, il problema principale resta quello di rimettere in moto la crescita del sistema produttivo. La caduta dell'attività economica è di dimensioni drammatiche: il PIL è andato dimezzandosi rispetto al 1990, e in particolare non si è verificata la ripresa degli investimenti fissi (nel 1998 meno di un quinto di quelli del 1990); l'indice della produzione industriale non raggiungeva nel 1998 il 40% del livello del 1990.

Dopo aver raggiunto un tasso a quattro cifre (oltre 1300%) nel 1992, l'inflazione sembrava essere rientrata nella normalità (47,8% nel 1996 e 14,7% nel 1997) in seguito a strette creditizie e in presenza di forti ritardi nei pagamenti di salari e stipendi; ma la crescita dei prezzi è ripresa nel 1998 (27,7%), e nei primi due trimestri del 1999 sono stati registrati tassi assai più elevati di quelli nei corrispondenti trimestri del 1998. Gli arretrati nei pagamenti sono giunti a dimensioni tali da essere sufficienti, essi soli, a paralizzare qualsiasi economia. Quelli del settore statale ammontano a circa 4 miliardi di dollari, per lo più stipendi e pensioni, ma anche debiti verso le imprese statali; queste ultime, a loro volta, non pagano altre società, e così via, e in tale maniera viene messa in moto una catena di mancati pagamenti, in parte sostituiti con baratto, che supera la cifra inverosimile di 90 miliardi di dollari (corrispondente a oltre la metà dell'insieme delle transazioni interne).

L'abnorme processo di privatizzazione ha seguito un percorso di accaparramento selvaggio, consentendo a una fascia ristretta di persone (ex dirigenti di imprese statali, neobanchieri e finanzieri alleati della leadership politica) di concentrare nelle loro mani, a costo basso o nullo, la parte più redditizia dei grandi monopoli statali; ma non è riuscito, allo stesso tempo, a imprimere un nuovo impulso agli investimenti e alla produzione, mantenendo la preesistente inefficienza, o dando luogo a chiusure definitive anziché a ristrutturazioni.

Il sistema creditizio, che aveva avuto uno sviluppo impetuoso trainato da operazioni speculative, è giunto allo sfascio. Quasi la metà delle oltre 1500 banche esistenti è praticamente alla bancarotta, ma molte delle altre, anche non coinvolte nella speculazione in titoli di Stato e più attente all'analisi dei rischi, sono state travolte dalla crisi di liquidità del sistema, da cui non si salvano neppure i maggiori istituti di credito: anche la Inkombank, la seconda banca commerciale, ha sospeso le operazioni con i clienti e ha chiesto di essere messa sotto amministrazione temporanea dalla Banca centrale. Il nuovo sistema fiscale, reso necessario dalla trasformazione della natura stessa delle entrate e delle uscite del bilancio dello Stato, non funziona: i meccanismi di imposizione sono farraginosi (troppe aliquote e troppo elevate), non esiste una vera amministrazione tributaria, l'evasione è enorme. Ciò rende vani i tentativi di contenere il deficit statale.

Così un fittizio finanziamento del bilancio dello Stato, scartata l'ipotesi di stampare moneta e non potendo cancellare gli impegni di spesa, è avvenuto semplicemente rinviando i pagamenti: prima non pagando stipendi e forniture, quindi non rimborsando il debito pubblico interno a breve emesso a interessi anche superiori al 200% e cresciuto vertiginosamente negli ultimi anni. All'insolvenza del debito interno, dichiarata ufficialmente nell'agosto 1998 (circa 40 miliardi di dollari, di cui oltre un terzo in mano a banche straniere), si è aggiunta più di recente la dichiarazione di default del debito estero in valuta. Si tratta complessivamente di 180 miliardi di dollari, per i quali i pagamenti in scadenza (interessi e rimborso capitale) ammontano a 3 miliardi nel 1998 e 19 miliardi nel 1999. Una ventina di miliardi è costituita da debiti, già in moratoria, delle banche russe nei confronti del sistema bancario internazionale (contratti forward rublo/dollaro e crediti per operazioni import-export); la parte più consistente è costituita da debiti dello Stato russo verso altri Stati (debito sovrano), solo in parte ereditati dal periodo sovietico (circa 40 miliardi). Nei tre mesi successivi alla crisi finanziaria dell'agosto 1998, il rublo ha perso il 60% del suo valore rispetto al dollaro, dopo che una sconsiderata politica di sostegno di una parità sovrastimata aveva prosciugato le riserve valutarie della Banca centrale. Considerando l'intero periodo 1991-98 il rublo si è svalutato di oltre il 5000%. Congelati i finanziamenti del Fondo monetario internazionale (FMI) e degli altri creditori pubblici internazionali, anche gli investimenti stranieri, già insufficienti, prendono direzioni più sicure, mentre continua la fuga di capitali nazionali all'estero.

Una R., quindi, dall'economia devastata, in cui si alimentano problemi sociali di gravità mai sperimentata dalla Prima guerra mondiale, sintetizzabili nel dato riguardante la crescente quota di popolazione al di sotto della soglia della povertà, e rintracciabili persino nel dato epocale relativo al calo demografico. Di fronte a tale situazione ognuno in R. è impegnato ad accusare gli altri degli errori commessi, piuttosto che a indicare prospettive di intervento in campo economico. È difficile pertanto fare previsioni sulle azioni che verranno intraprese. L'incertezza sulla situazione politica accresce questa difficoltà: ancora oggi, dopo sette anni di R. postsovietica, non è riuscita ad affermarsi una linea politica - da cui dipende qualsiasi disegno di trasformazione dell'economia - che presenti chiarezza, coerenza e continuità. Le diverse componenti del frammentato quadro politico, tuttavia, propongono strategie in campo economico così vaghe da apparire simili tra loro e da rendere assai probabile l'affermarsi di una linea di compromesso, che mantenga i risultati acquisiti del passaggio all'economia di mercato, ma con un ripensamento sul ruolo del controllo e dell'orientamento pubblico.

In questo quadro già drammatico, si è inserita nella seconda metà del 1999 la crisi generata dallo scandalo connesso all'appropriazione indebita dei prestiti del FMI in occasione della crisi del rublo dell'agosto 1998. Nel corso della prima metà del 1999, superata la fase più acuta della crisi valutaria del 1998, le politiche economiche sono state nuovamente orientate in senso restrittivo, determinando un rallentamento dell'inflazione rispetto agli ultimi mesi del 1998. La svalutazione del rublo ha favorito una riduzione delle importazioni, senza tuttavia promuovere una significativa ripresa delle esportazioni. Conseguentemente, nel primo semestre del 1999, il PIL in termini reali è risultato inferiore di circa l'1% rispetto al corrispondente periodo del precedente anno. I problemi di fondo, di natura strutturale, della R. restano comunque tutti ancora sostanzialmente irrisolti. I margini di manovra per ripristinare condizioni di normalità economica, senza alimentare pericolose tensioni sociali e mantenendo al tempo stesso i cambiamenti strutturali intervenuti, sono oggettivamente assai ristretti. Le possibili direzioni di intervento in campo economico - concernenti sia gli obiettivi iniziali della transizione sia i nuovi problemi intervenuti nella prima fase di essa - si riconducono a quattro principali percorsi obbligati.

Priorità assoluta ha la politica industriale: abbandonata la speranza di recuperare almeno un terzo dell'apparato produttivo, considerato ormai superato, si tratta di evitare il collasso del resto delle imprese che, anche quando sono relativamente efficienti, rischiano la chiusura per mancanza di mezzi finanziari. Mentre appaiono poco credibili le voci in merito a ipotetiche rinazionalizzazioni, governo e Parlamento sembrano orientarsi verso una verifica della capacità di funzionamento delle imprese privatizzate, la riconversione dell'oboronka (apparato industriale militare) e il boicottaggio di joint ventures per lo sfruttamento di risorse naturali. Orientamento dagli esiti meno incerti è invece l'intenzione di avviare una politica di finanziamenti pubblici non più destinati agli intermediari finanziari, ma direttamente alle imprese e mirati alla realizzazione di nuovi investimenti.

Il secondo nodo da sciogliere è quello della costruzione di un sistema fiscale meno esoso e più efficiente. Le misure finora prese hanno prodotto un aumento delle entrate e una riduzione delle spese, ma restano incerte e insufficienti per riportare ordine nella finanza pubblica.

Altra questione fondamentale da affrontare è il risanamento del sistema bancario e finanziario. Sul primo fronte il governo ha erogato nel 1998 crediti di stabilizzazione per 35 miliardi di rubli (2 miliardi di dollari) alle principali banche commerciali in difficoltà, ma si è trattato solo di un intervento tampone, per di più accompagnato da forti sospetti di uso improprio dei fondi. Sulla politica monetaria le intenzioni governative oscillano tra un'espansione della liquidità ancorata alle riserve auree e una creazione di base monetaria sufficiente a pagare tutti gli arretrati e a ridare liquidità al sistema; tra l'uso prevalente di strumenti di mercato (tassi di interesse) e il rafforzamento di controlli quantitativi e strumenti amministrativi; tra libera fluttuazione e controllo del cambio (parità di riferimento e ripristino di vincoli valutari, come l'obbligo imposto alle imprese di convertire in rubli il 75% degli incassi in divise estere).

Infine, costituisce un percorso obbligato la rinegoziazione del debito estero: nessun paese può permettersi di essere insolvente senza essere messo al margine della comunità economica internazionale. Il riscadenzamento e la ridenominazione in rubli del debito in dollari delle banche russe è un primo passo, già effettuato nell'ambito del Club di Parigi, in questa direzione, ma certo non verso la ricostituzione di un clima di fiducia. La rinegoziazione del debito sovrano procede più lentamente e non può prescindere dagli orientamenti dei paesi più industrializzati e dal FMI in merito alla stabilizzazione del sistema finanziario mondiale: tocca alla R. approntare le condizioni che rendano praticabile un piano finanziario analogo a quello recentemente adottato per la ristrutturazione del debito estero del Brasile.

È ragionevole ritenere che queste direzioni di politica economica dovranno essere seguite da qualunque compagine governativa possibile nell'incerto quadro politico della Russia. In ogni caso, il paese dovrà affrontare, senza contare troppo su aiuti esterni, un periodo di assestamento della propria economia, che si annuncia lungo e difficile; e dovrà anche adattarsi a un certo ridimensionamento del proprio ruolo economico e politico in campo internazionale.

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Storia

di Adriano Guerra

La Russia o Federazione Russa è nata come Stato indipendente il 25 dicembre 1991, quando l'ultimo presidente dell'URSS, M. Gorbačëv, ha lasciato definitivamente il Cremlino sul quale la bandiera russa aveva sostituito quella sovietica. Poche settimane prima, l'8 dicembre 1991, i presidenti delle repubbliche russa, ucraina e bielorussa, in quanto Stati fondatori dell'URSS perché firmatari del Trattato del 1922, riunitisi presso Minsk, capitale della Bielorussia, avevano proclamato che l'Unione Sovietica "quale soggetto di diritto internazionale e quale realtà geopolitica" aveva cessato di esistere. Di fatto però già il 22 giugno 1990, nel pieno del processo di disgregazione dell'Unione Sovietica, il Soviet supremo di quella che era ancora la Repubblica socialista federativa sovietica russa (RSFSR) aveva proclamato, come già avevano fatto o stavano facendo una dopo l'altra anche le altre repubbliche federate nell'URSS, la propria sovranità (di fatto la preminenza delle leggi della singola repubblica rispetto a quelle dell'Unione).

Il processo di disgregazione dello Stato sovietico e della formazione al suo interno di quindici nuovi Stati, che, con l'esclusione delle tre Repubbliche baltiche, diedero vita fra l'8 e il 21 dicembre 1991 alla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI, v. in questa Appendice), aveva subito una brusca accelerazione nell'agosto del 1991 in seguito all'attuazione e poi al fallimento del golpe messo in atto contro Gorbačëv, allora alla testa dell'URSS, dai suoi più stretti collaboratori. Nel determinare la sconfitta dei golpisti decisivo fu il ruolo avuto dal Parlamento della Repubblica russa e dal suo presidente, B. El´cin. Questi aveva invitato la popolazione di Mosca a raggiungere la sede del Parlamento della RSFSR, per difenderla dalla minaccia di un attacco militare da parte dei golpisti e affermare nel contempo il primato delle istituzioni repubblicane su quelle sovietiche. In seguito al successo dell'iniziativa di El´cin, e dopo l'uscita di scena dei promotori del fallito colpo di Stato e il ritorno di Gorbačëv a Mosca dalla Crimea dove era stato trattenuto a forza, si accentuò il confronto, conclusosi appunto il 25 dicembre 1991, fra il presidente dell'URSS e quello della Russia.

Il nuovo Stato - che prese subito il formale impegno di far propri gli obblighi assunti dall'URSS, in primo luogo sui temi del disarmo e, con gli altri paesi della CSI, sul pagamento del debito estero - ottenne immediatamente il massimo riconoscimento internazionale e già il 27 dicembre poteva ricoprire, presso il Consiglio di sicurezza dell'ONU, il seggio che era stato dell'URSS. Il 23 maggio 1992 infine El´cin - che il mese successivo si sarebbe recato negli Stati Uniti per sottoscrivere col presidente G. Bush il trattato Start-1 sulla riduzione degli arsenali nucleari - poté annunciare che la R. sarebbe presto diventata la sola potenza nucleare dell'area. E questo perché le altre tre Repubbliche ex sovietiche sui territori delle quali erano state collocate testate nucleari - la Bielorussia, l'Ucraina e il Kazakistan - avevano sottoscritto un accordo per il trasferimento delle testate stesse nel territorio russo (in realtà però il Kazakistan e soprattutto l'Ucraina utilizzeranno a lungo la 'carta nucleare' come arma di pressione nei confronti degli Stati Uniti e della Russia). Sin dal primo momento, poi, la R. si era presentata come garante della sicurezza dell'intera area ex sovietica, fatta eccezione per il territorio delle tre Repubbliche baltiche, assumendo così gravosi impegni politici, economici e anche militari, soprattutto nei punti dove erano in corso conflitti nazionali, e cioè nella Moldavia (nel Transdnestr, abitato prevalentemente dalla popolazione russa, era nata, col decisivo contributo di forze armate russe, la Repubblica del Dnestr), nel Nagorno-Karabah (conteso fra l'Armenia e l'Azerbaigian), nell'Ossezia del Sud (che lasciando la Georgia voleva unirsi all'Ossezia del Nord, nell'ambito della Federazione Russa), nell'Abkhasia (in rivolta per ottenere l'indipendenza dalla Georgia), e ancora all'interno del Tagikistan (dove iniziava allora una vera e propria guerra civile). La diplomazia di Mosca cercò, e non senza successo, di ottenere dall'Occidente il riconoscimento del ruolo particolare rivendicato, e di fatto esercitato, dalla R. nei confronti degli altri paesi della CSI (il 'vicino estero', come si incominciò a dire a Mosca), specie dei paesi a maggioranza musulmana dell'Asia centrale e dunque più esposti alle spinte del fondamentalismo islamico provenienti dall'Iran e dall'Afghānistān.

Particolarmente delicato si rivelò sin dal primo momento il conflitto che si era aperto con l'Ucraina per la Crimea (dopo che il Parlamento russo aveva dichiarato nullo il trattato col quale nel 1954 Chruščëv aveva assegnato la penisola all'Ucraina), nonché per la divisione della flotta ex sovietica stanziata nel Mar Nero e per il controllo della base navale di Sebastopoli. Di fatto a un accordo assai ampio, seppure ancora parziale, e articolato fra Mosca e Kiev si giunse soltanto nel maggio 1997.

Nella politica interna i primi compiti che i dirigenti del nuovo Stato dovettero affrontare nel pieno di una situazione economica e sociale disastrosa - per cui divenne necessario rivolgersi ai paesi dell'Occidente con richieste di aiuti di ogni genere e soprattutto alimentari, così da attenuare il pericolo di carestie - furono quelli relativi alla creazione di un sistema politico democratico-parlamentare, in luogo di quello basato sul dissolto 'partito unico-partito di Stato', e all'avvio di una politica di radicale riforma del sistema economico liquidando, o riducendo ai minimi termini, il ruolo dello 'Stato padrone'. E questo per quel che riguarda sia l'assetto proprietario, con l'avvio di una politica di generale privatizzazione nei settori dell'industria, dell'agricoltura e della distribuzione, sia i compiti di direzione e di gestione diretta dell'economia.

I radicali provvedimenti presi dai dirigenti politici e dagli economisti vicini a E. Gajdar, ministro delle Finanze e poi (dal 15 giugno 1992) primo ministro ad interim, se da un lato, accogliendo le richieste del FMI e della Banca mondiale, permisero di aprire a un sistema economico sino ad allora del tutto chiuso la via del mercato e dell'ingresso nel paese di capitali e di prodotti stranieri, dall'altro ebbero immediatamente gravi conseguenze su un'economia già dissestata nonché sulle condizioni di vita della maggioranza della popolazione. Da qui, subito dopo la liberalizzazione dei prezzi decisa il 2 gennaio 1992, che colpì pesantemente salari, stipendi e pensioni, l'avvio - nell'assenza pressoché totale di regole e di controlli - della 'privatizzazione selvaggia' che favorì, insieme agli uomini della vecchia nomenklatura (ministri dei vari settori produttivi o direttori di fabbrica che diventavano ora presidenti dei nuovi consigli di amministrazione) e a folle di piccoli, intraprendenti imprenditori, soprattutto nelle città e nei settori della distribuzione, anche vecchie e nuove organizzazioni mafiose.

Per far fronte alle tensioni sociali e alla pressione dell'opposizione che intanto prendeva forza all'interno del Parlamento repubblicano, El´cin aveva allontanato (2 aprile 1992) per qualche tempo Gajdar dal governo, e sacrificato il suo uomo di fiducia G. Barbulis che perdeva l'incarico di vice premier. Infine, allo scopo di dare una forma, o meglio una vernice popolare, alla privatizzazione (che aveva intanto investito i settori delle piccole e medie aziende e quelli della distribuzione, arrestandosi però di fronte alle grandi aziende industriali e all'agricoltura), faceva distribuire a tutti i cittadini speciali buoni-quota della proprietà sociale del valore di 10.000 rubli (40 dollari) l'uno.

Nonostante i sostegni politici ed economici accordati dai paesi occidentali e dal Giappone (24 miliardi di dollari secondo la decisione presa dal G7 a Bonn nel luglio 1992, alla condizione però che il programma di riforma avviato venisse portato avanti con continuità e coerenza) e nonostante i provvedimenti presi, anzi in parte in conseguenza di essi oltreché a causa del peso della situazione che il nuovo Stato aveva ereditato, non solo non si ebbe l'auspicata ripresa dell'economia, ma vi fu la caduta di tutti gli indici economici. Il PIL diminuì nel 1992 del 19% rispetto all'anno precedente, la produzione industriale del 18,1%, quella agricola del 12%, mentre il tasso di inflazione risultava al 1353%. E questo mentre, sotto la spinta di una privatizzazione caratterizzata dall'assenza di ogni controllo da parte dello Stato - per cui si lasciava un enorme spazio alle organizzazioni mafiose le cui attività nei vari settori, dal traffico della droga al riciclaggio del denaro 'sporco', si espandevano anche al di là dei confini -, mutamenti profondi investivano il tessuto sociale. Espressione della nuova R. diventavano così da una parte i 'nuovi ricchi' - gli uomini e i gruppi che utilizzando spesso le posizioni di potere già detenute nel periodo sovietico avevano potuto collegarsi alle organizzazioni mafiose e ai gruppi economici e finanziari dell'Occidente interessati a penetrare nel mercato postsovietico - e, dall'altra, tutti coloro che, nello stesso momento in cui vedevano venire a mancare, almeno in parte, il sostegno della politica egualitaristica dello Stato, erano esclusi dalle possibilità offerte dal nuovo corso politico ed economico. Nel contempo, gli spazi che la politica di privatizzazione e di introduzione del mercato aveva aperto, soprattutto nelle grandi città, a una moltitudine di 'nuovi imprenditori', assegnavano alla 'seconda economia' - quella del lavoro sommerso e della seconda occupazione - proporzioni notevoli, dando origine alla formazione di nuovi gruppi sociali intermedi.

A caratterizzare la fase d'avvio del nuovo Stato, prima e ancor più delle crescenti difficoltà economiche e della mobilità sociale determinata dall'avvio del nuovo corso di politica economica, furono però i conflitti e le tensioni connessi sia con il processo ancora in atto di disgregazione del vecchio Stato unitario, sia con l'apparire sulla scena di forti movimenti nazionali e nazionalistici che richiedevano il distacco da Mosca. Queste spinte non solo non erano cessate col crollo dell'URSS e la nascita delle nuove realtà statali, ma continuavano e anzi si intensificavano all'interno della R. come al di là dei suoi confini, soprattutto dove erano presenti - è il caso dell'Ucraina, della Moldavia e del Kazakistan - forti minoranze di popolazione di nazionalità russa. Così, quando il 31 marzo 1992 i rappresentanti delle 21 Repubbliche autonome presenti nella R. vennero chiamati a confermare il loro legame con Mosca, i dirigenti di tre di esse (la Cecenia, il Tatarstan e Tuva) rifiutarono di sottoscrivere il nuovo Trattato federale, aprendo un conflitto, anzi una serie di conflitti (che nel caso della Cecenia, già autoproclamatasi indipendente, portarono a veri e propri confronti militari) che gettò una pesante ipoteca sul futuro e sulla natura dello Stato russo. Allo scopo di frenare le spinte centrifughe - presenti in vari casi, da San Pietroburgo agli Urali, alla Siberia orientale (ove nel 1993 quattordici assemblee elettive, immediatamente sconfessate da Mosca, avevano tentato di dar vita a una Repubblica siberiana), anche all'interno delle aree dove era prevalente la popolazione russa - il potere centrale fu indotto a sottoscrivere via via con alcune Repubbliche (la Jacuzia, il Tatarstan, il Baškortostan, la Carelia e altre) una serie di trattati con i quali veniva loro riconosciuto un certo numero di diritti, concernenti in primo luogo la proprietà del suolo e del sottosuolo e dunque le ricchezze naturali, nonché spazi di autonomia anche sui temi della politica estera e del commercio estero. Così facendo però si alimentavano inevitabilmente nuove richieste da parte non solo delle Repubbliche escluse ma anche di alcune province e territori che già godevano di una certa autonomia, nonché spinte di segno opposto da parte del nazionalismo 'grande russo'.

Per quel che riguarda i problemi della trasformazione del sistema politico, la mancanza di esperienze di vita democratica del gruppo dirigente, composto da uomini provenienti quasi esclusivamente dalle file del PCUS, e in particolare, secondo vari osservatori, il rifiuto di dar vita a un'Assemblea costituente col compito di dare al nuovo Stato ordinamenti e strutture a esso confacenti, determinarono l'apertura di conflitti politici e sociali assai gravi. E questo perché, accanto alle istituzioni e alle situazioni nuove nate con la perestrojka di Gorbačëv, del tutto operanti ma non ancora legittimate - prima di tutto la presidenza col ruolo che essa aveva assunto con El´cin, i partiti politici nati a decine ma ancora privi di una base costituzionale all'interno di una società civile che incominciava a formarsi, ma fondamentalmente estranea a gran parte della popolazione -, continuavano a sussistere sulla base della vecchia Costituzione, solo in parte modificata, le strutture del passato.

Particolarmente grave fu il conflitto (reso palese dal mancato rinnovo, nella primavera del 1993, dei poteri straordinari attribuiti a El´cin nel novembre 1991) che si aprì ben presto fra El´cin e la maggioranza del Parlamento sui problemi relativi alla politica economica e alla richiesta di un maggior controllo parlamentare sull'operato dell'esecutivo. A poco a poco emerse un confronto durissimo fra il presidente da una parte, e il vicepresidente della Federazione A. Ruckoj e il presidente del Parlamento R. Chasbulatov dall'altra. Il confronto si concluse nell'ottobre del 1993 con il sanguinoso assalto delle forze militari fedeli a El´cin alla 'Casa bianca' e la resa dei deputati che vi si erano asserragliati lanciando proclami di rivolta alle forze armate, in risposta al decreto di scioglimento del Parlamento emesso da El´cin. Di fatto, soltanto due anni dopo il crollo dell'URSS, con il referendum popolare e le elezioni politiche del 12 dicembre 1993, la R. poté adottare la sua prima Costituzione assumendo la formula di una repubblica presidenziale federativa, con l'assegnazione al presidente di poteri ancora più vasti nei confronti del Parlamento e del governo, e poté eleggere il suo primo Parlamento (Duma).

Il risultato delle elezioni politiche, che videro il successo del Partito liberal-democratico (nazionalista e sciovinista) di V. Žirinovskij (24,22%) e del Partito comunista di G. Zjuganov (12,35%), determinò però il riaprirsi del conflitto fra il presidente - e il governo del presidente, dal dicembre 1992 affidato a V. Černomyrdin - e il Parlamento. Né si era di fronte soltanto a un confronto sul piano istituzionale. Il successo dell'opposizione soprattutto fra i giovani e fra i lavoratori delle grandi aziende statali del complesso militare-industriale minacciate, oltreché dal crollo del sistema economico, dalle riforme avviate o proposte, mostrava che in vaste aree del paese - non però a Mosca e a San Pietroburgo, dove le liste favorevoli al nuovo corso ottennero una chiara affermazione - si guardava con ostilità ai nuovi dirigenti e con preoccupazione al futuro. L'abilità politica di El´cin - che inserì nella compagine governativa, dalla quale vennero allontanati alcuni ministri riformisti, un certo numero di uomini non invisi all'opposizione comunista - e l'uso accorto, sempre da parte di El´cin, delle prerogative presidenziali previste da una Carta costituzionale che, come si è detto, aveva fortemente ridotto il potere del Parlamento, limitarono però la portata e la gravità del conflitto stesso. E questo anche se il presidente dovette fare i conti (oltre che con la maggioranza della Duma) con le divisioni intervenute all'interno delle forze politiche - quelle facenti capo a E. Gajdar (Scelta della Russia, 15,51%), G.Javlinskij (Jabloko, 7,83%), N. Travkin (Partito democratico, 5,52%) nonché ai sindaci di Mosca e di San Pietroburgo, G. Popov e A. Sobčak - che lo avevano sostenuto nella prima fase.

Un ruolo importante ebbe certamente sin dal primo momento il sostegno accordato a El´cin e alla sua politica dagli Stati Uniti e in generale dai paesi occidentali, nonché - seppure attraverso atti di imposizione che dovevano ben presto rivelarsi a un tempo inadeguati e soprattutto scarsamente controllati e che le forze di opposizione poterono utilizzare nella loro battaglia - dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Sul versante asiatico, mentre fruttuosi accordi, dapprima per la normalizzazione della situazione lungo le frontiere e poi per ampi scambi economici e commerciali, furono raggiunti con la Cina, più difficile si rivelò stabilire significative intese col Giappone, soprattutto per il rifiuto di Mosca di accettare la discussione sulla questione delle isole Curili rivendicate da Tokyo.

Senza troppe scosse si giunse, nel dicembre 1995, a nuove elezioni politiche che videro, accanto a un netto regresso di Žirinovskij (11,06%), un notevole incremento di voti da parte del Partito comunista di Zjuganov (22,31%), una formazione politica che, espressione all'inizio dell'ala dei 'conservatori' del PCUS, e cioè delle forze che all'interno del partito si erano opposte a Gorbačëv spingendosi sino a organizzare il fallito golpe dell'agosto 1991, trovava ora nuovi e crescenti consensi, anche agitando e facendo proprie parole d'ordine nazionaliste ('l'idea russa') e nostalgiche, nelle aree sociali più colpite dalle riforme di El´cin. Le elezioni segnarono in particolare la netta sconfitta, insieme alle altre forze del centro democratico presentatesi divise, di Nostra casa Russia (9,89%), la formazione politica creata da Černomyrdin che era stata presentata, sia pure in modo informale, come il 'partito del presidente'. Difficile stabilire se, e fino a che punto, la sconfitta di El´cin e delle forze politiche nate insieme al nuovo Stato russo possa essere attribuita alle conseguenze della vera e propria guerra scatenata, ma senza fortuna, da El´cin nel dicembre del 1994 contro la Cecenia, la repubblica caucasica che, con il generale Dž. Dudaev, si era proclamata indipendente già nel 1991. In realtà però, più che contro le spinte pacifiste, El´cin dovette misurarsi con le spinte nazionalistiche contrastanti che il sanguinoso conflitto e il susseguirsi degli insuccessi delle forze russe impegnate sul campo alimentavano. In particolare quelle 'grandi russe' che con Žirinovskij e, nei termini di un 'ritorno all'URSS', con Zjuganov, auspicavano il ritorno all'impero russo da un lato e, dall'altro, quelle che in varie forme e in vari punti del paese chiedevano il distacco da Mosca.

Per far fronte alla minaccia e in previsione di una difficile campagna elettorale - quella per l'elezione del presidente indetta per il giugno 1996 - che lo vedeva, secondo i sondaggi, perdente, El´cin, allontanando dal governo il vicepremier A. Čubais e il ministro degli Esteri A. Kozyrev, e poi sostituendo quest'ultimo con E. Primakov, contrario alle posizioni fortemente 'occidentalistiche' che avevano caratterizzato la politica estera russa, operò per attenuare i contrasti con la maggioranza della Duma. Nello stesso tempo, avviando un'iniziativa per l'unione fra la R. e la Bielorussia, sancita il 22 marzo 1996 e aperta anche al Kazakistan nonché, ma senza successo, all'Ucraina e alla Moldavia, tentò di rispondere con un atto concreto a coloro che propugnavano il 'ritorno all'URSS'. Nello stesso periodo, seppur costretto - come si saprà, ma solo successivamente, per una grave forma di ischemia al miocardio - a prolungate assenze dal Cremlino, avviò un'iniziativa di pace verso la Cecenia. Non si era ancora però di fronte alla rinuncia alla soluzione militare, per cui i combattimenti proseguirono sino e oltre la morte di Dudaev, la cui base venne raggiunta da un missile il 21 marzo 1996. La presentazione da parte di El´cin di un piano di pace per la Cecenia permise comunque di migliorare le relazioni politiche ed economiche coi paesi occidentali che, seppur continuando a guardare al conflitto scoppiato nel Caucaso come a un problema interno della R., avevano raffreddato - anche per le pressioni delle loro opinioni pubbliche - le relazioni con Mosca. Un altro terreno sul quale El´cin puntò per alimentare i consensi fu quello della lotta contro la corruzione e la mafia. Tutto si tradusse nuovamente però nel solito brusco allontanamento di un gruppo di uomini di potere (tra i quali M. Barzukov, capo del Consiglio federale di sicurezza), divenuti impopolari perché al centro di una serie di grossi scandali.

All'attivo di El´cin vi era poi una serie di segnali - la caduta netta del tasso di inflazione passato dal 1353% del 1992 al 190,1% del 1995, al 47,8% del 1996, e ancora l'aumento della produzione in un primo gruppo di settori - che parevano indicativi di un avvio seppur timido della ripresa economica. In realtà gli indubbi miglioramenti intervenuti negli indici dell'economia e i successi conseguiti nello stesso periodo nella politica della privatizzazione - che però, come si è già detto, avveniva nella forma dell'appropriazione dei beni pubblici da parte di un ristretto gruppo oligarchico (già alla fine del 1995 oltre 14.000 aziende medio-grandi, comprendenti 15 milioni di lavoratori, e cioè il 70% degli addetti dell'industria, avevano lasciato il settore statale) - si tradussero solo in minima parte nel miglioramento delle condizioni di vita della popolazione più povera. Basti dire che la riduzione del tasso di inflazione fu conseguita grazie, soprattutto, al ritardato e, in molti casi, mancato pagamento di salari e di stipendi (il debito interno accumulato dallo Stato per questa voce andrà via via aumentando fino a raggiungere nel 1998 la cifra di 40 miliardi di dollari). Da qui l'avvio di un forte movimento di scioperi da parte, in particolare, di oltre 500.000 minatori.

Ad assicurare la vittoria di El´cin - le cui reali condizioni di salute, aggravatesi alla fine della campagna elettorale, vennero tenute nascoste alla popolazione - al secondo turno delle elezioni presidenziali contro Zjuganov (giugno 1996) furono - oltre l'appoggio di A.Lebed, di G. Javlinskij e di altri candidati che pure si erano presentati al primo turno su posizioni fortemente critiche nei confronti del presidente - le crescenti preoccupazioni con le quali l'opinione pubblica democratica guardava al possibile successo di Zjuganov (32% a fronte del 35% di voti andati a El´cin al primo turno). Né le preoccupazioni scomparvero del tutto dopo il voto (El´cin ebbe il 53,7%, Zjuganov il 40,4%), quando si seppe che il presidente avrebbe dovuto sottoporsi - cosa che avvenne, e con esito positivo, il 5 novembre - a un difficile intervento chirurgico. Tuttavia la scelta da lui compiuta con la nomina del generale Lebed - un personaggio molto popolare per il contributo che aveva dato alla difesa della minoranza russa nella Moldavia e poi allo scioglimento della crisi in quella repubblica - alla testa del Consiglio di sicurezza e poi a responsabile delle trattative coi rivoltosi ceceni, sembrò fugare i dubbi che erano sorti sulla stabilità del regime. Incertezze e rischi per la stabilità tornarono però a farsi evidenti quando, nell'ottobre dello stesso anno, El´cin ruppe clamorosamente con Lebed, pur avallando la politica di quest'ultimo verso la Cecenia, per cui già nei primi giorni del 1997 si giunse al ritiro dalla Repubblica del Caucaso delle ultime truppe russe.

Il 1997 parve aprirsi sotto il segno della normalizzazione con l'entrata in vigore il 1° gennaio del nuovo codice penale (il nuovo codice civile era stato introdotto nel marzo dell'anno precedente). Sul piano politico, ad attenuare le preoccupazioni dettate dall'assenza alla testa del paese di un gruppo dirigente sufficientemente unito e in grado di garantire stabilità di fronte a una successione che si annunciava difficile, anche se le condizioni di salute di El´cin erano tornate normali, vi fu la nomina di due vice primi ministri, Čubais, responsabile delle Finanze, e soprattutto B. Nemcov, il giovane governatore della regione di Nižnij Novgorod, divenuta una delle aree ove la linea delle riforme era stata perseguita con più successo. Anche sul piano economico non mancarono successi (alla fine dell'anno si erano registrati aumenti dello 0,9% del PIL, dell'1,9% della produzione industriale e del 3,5% del reddito pro capite, mentre l'inflazione si era attestata sul 14,7%), che trovarono significativi riconoscimenti al G-7 di Denver (20-22 giugno). Poche settimane prima El´cin e il presidente della Cecenia A. Maskhadov avevano sottoscritto il trattato di pace fra la R. e la Cecenia che, seppure rinviava al 2001 la decisione sulla definizione dei rapporti fra Mosca e Groznyj, riconosceva però di fatto alla repubblica caucasica, autoproclamatasi intanto 'Repubblica islamica', un'indipendenza pressoché assoluta. La fine della guerra in Cecenia permise alla R. di intervenire con più forza nel conflitto politico-economico attorno alle questioni dello sfruttamento e delle vie di trasporto del petrolio del Caspio, conflitto che aveva, e continua ad avere, come protagonisti, oltre alle repubbliche rivierasche dell'ex URSS, anche l'Iran, la Turchia e le compagnie petrolifere di vari altri paesi, fra le quali quelle degli Stati Uniti.

Gli indubbi successi conseguiti nel campo delle relazioni internazionali dalla diplomazia russa vennero in parte offuscati nel momento in cui, ponendo fine a una lunga fase di titubanze e respingendo le tesi russe contrarie all'allargamento a est della NATO, i paesi occidentali, sia pure negando ogni carattere discriminatorio e antirusso all'iniziativa (con la R. era stato raggiunto del resto nel maggio del 1994 un accordo di 'partnership per la pace'), decisero di accogliere nell'alleanza atlantica la Polonia, la Repubblica Ceca e l'Ungheria (luglio 1997; ingresso formalizzato nel marzo 1999). La R. venne così a trovarsi ancora più isolata. Ridimensionato, anche per la decisa posizione antiamericana e antioccidentale della maggioranza comunista e nazionalista della Duma, l'iniziale orientamento 'occidentalistico', anche la riscoperta della dimensione, e conseguentemente della vocazione, 'eurasiatica' non portò a un rafforzamento della posizione e della collocazione internazionale del paese. Del tutto velleitario si dimostrò il tentativo di portare coerentemente avanti le posizioni autonome, non collimanti con quelle degli Stati Uniti e dei paesi occidentali, in più occasioni inizialmente assunte sulla scena internazionale con dichiarazioni ufficiali e prese di posizione al Consiglio di sicurezza dell'ONU, per es. nei giorni della guerra del Golfo (1990-91) contro l'Iraq di Saddām Ḥusayn, o nei vari conflitti scoppiati nell'ex Iugoslavia. Nei momenti decisivi quella che prevalse sempre - e certo per il peso della dipendenza economica dall'Occidente - era stata la linea del rifiuto di ogni ipotesi di rottura con gli Stati Uniti e i suoi alleati. In più di un caso i 'rapporti particolari' che la R. aveva ereditato dall'URSS con l'Iraq, la Serbia di Milošević, così come con l'Iran e altre realtà del Terzo Mondo, vennero però utilizzati, a volte con successo, per favorire la ricerca di soluzioni di compromesso.

Il carattere precario della relativa stabilità politica ed economica che aveva caratterizzato il 1997 venne alla luce quando, all'inizio del 1998, la crisi che aveva investito le borse asiatiche cominciò a ripercuotersi pesantemente sull'economia russa. Quest'ultima infatti si presentava fortemente indebolita, oltre che per le mancate entrate tributarie (per il rifiuto della Duma di varare un'adeguata legge fiscale), per l'indebitamento, enormemente accresciutosi in seguito all'emissione su larga scala di buoni del tesoro e obbligazioni federali sui quali si giunse a pagare interessi sino al 150%, e ancora per la caduta del prezzo internazionale del petrolio. Dopo un primo crollo del rublo e della Borsa di Mosca avvenuto a metà gennaio El´cin, anche per ottenere nuovi aiuti internazionali (che vennero stanziati a metà luglio da parte del Fondo monetario internazionale nella misura di 22,6 miliardi di dollari), puntò, sostituendo alla testa del governo Černomyrdin con il trentacinquenne 'riformista' S. Kirenko, sulla ripresa della linea 'monetarista' e dell'accoglimento più rigido delle condizioni poste dal FMI. Il susseguirsi dei crolli delle Borse asiatiche e il rifiuto della Duma di far proprio il pacchetto di misure anticrisi proposto dal governo, ma soprattutto la debolezza strutturale dell'economia e del sistema economico e finanziario russo, portarono però a una serie di nuovi crolli della Borsa di Mosca - ai quali El´cin e Kirenko tentarono di far fronte con la svalutazione del rublo (17 agosto) - e quindi all'aprirsi di una grave crisi politica.

In una situazione confusa, mentre i prezzi salivano alle stelle, l'inflazione tornava a galoppare, il sistema bancario si sfasciava, i gruppi sociali che erano stati protagonisti e avevano tratto vantaggio dalla politica economica sino ad allora perseguita venivano duramente colpiti insieme ai ceti più poveri, e i rapporti centro-periferia si allentavano paurosamente (in alcuni casi i dirigenti locali assumevano di fatto poteri non previsti dalla Costituzione federale apprestandosi persino a battere moneta sul posto), si giunse all'allontanamento di Kirenko (23 agosto 1998) e al momentaneo ritorno sulla scena di Černomyrdin, incaricato da El´cin di dar vita a un governo che godesse dell'appoggio della Duma. L'opposizione dei comunisti di Zjuganov e dei loro alleati che continuavano a chiedere le dimissioni di El´cin (nei confronti del quale veniva aperto anche un procedimento di impeachment basato sulle vecchie accuse riguardanti il ruolo da lui giocato nei giorni dello scioglimento dell'URSS, dell'assalto militare contro la Casa bianca dell'ottobre 1993 e dell'avvio della guerra di Cecenia) bloccò però il tentativo. Così, mentre l'Occidente proclamava che solo sulla base di serie garanzie circa la ripresa della politica di riforme la R. avrebbe potuto contare di nuovo sui crediti e sugli aiuti promessi e dopo che Černomyrdin venne battuto due volte dal voto della Duma, si giunse al conferimento dell'incarico al ministro degli Esteri Primakov (10 sett. 1998) con l'impegno di favorire, sia pure nella proclamata continuità della linea delle riforme, il rafforzamento del ruolo dello Stato nell'economia. Era quello che avevano chiesto i comunisti di Zjuganov che, con alcuni uomini - tra i quali Ju. Masljukov, nominato primo vicepremier - entrarono a far parte del governo di coalizione che venne faticosamente formato e dal quale risultarono esclusi i 'riformisti monetaristi' alla cui politica era stata addebitata la responsabilità della crisi.

Nell'anno successivo, il 1999, tutti gli elementi della profonda e complessa crisi - relativi al campo politico-istituzionale ed economico-finanziario, nonché quelli che riguardavano insieme la collocazione internazionale e l'identità stessa della R. - vennero alla luce in modo convulso e drammatico. Innanzitutto esplosero, con un susseguirsi di rivelazioni, gravissimi scandali che, toccando da vicino i centri stessi del potere, mostravano come i legami fra organizzazioni criminali e politica avessero raggiunto livelli, sempre meno sopportabili, di una vera e propria 'questione morale'. In una prima fase, col defenestramento, attuato attraverso metodi ricattatori, del procuratore Ju. Skuratov, che appariva fortemente impegnato nella lotta contro la corruzione ai vertici dello Stato e, insieme, con l'apertura di una serie di iniziative giudiziarie nei confronti di personaggi di primo piano della vita pubblica (B. Berezovskij, A. Bykov, S. Stankevič e altri), sembrò prevalere la tendenza a soffocare, o almeno a limitare, la portata dello scandalo, che riesploderà nel modo più vigoroso nei mesi di agosto e settembre coinvolgendo direttamente, da un lato, per una serie di oscuri episodi sui quali stava indagando anche la magistratura svizzera, lo stesso presidente e i suoi familiari, e dall'altro, quando vennero alla luce inquietanti episodi riguardanti operazioni speculative, oltre a molte banche private, anche la Banca centrale. Risultò infatti che questa, utilizzando fondi provenienti dai prestiti del Fondo monetario, aveva trasferito miliardi di dollari negli Stati Uniti dove poteva contare sulla complicità di funzionari di istituti finanziari locali. La dimensione internazionale assunta dallo scandalo venne a determinare insieme al blocco dei crediti del Fondo monetario internazionale, un brusco aggravamento delle relazioni della R. con gli Stati Uniti e con l'Occidente, relazioni che in precedenza erano migliorate dopo il successo dell'iniziativa di mediazione portata avanti nella seconda metà di aprile, su incarico di El´cin, da Černomyrdyn a Belgrado per indurre Milošević a ritirare le truppe dal Kosovo dopo l'intervento militare della NATO. Accolta con soddisfazione dai governi e dalle forze politiche dell'Occidente, l'iniziativa di Mosca era stata però fortemente criticata in patria dalla maggioranza della Duma - che per manifestare solidarietà a Milošević era giunta a proporre che la Serbia entrasse a far parte dell'istituenda unione fra la Russia e la Bielorussia - e da un'opinione pubblica all'interno della quale erano prevalse spinte nazionalistiche e antioccidentali. Queste spinte avevano trovato poi un nuovo impulso quando El´cin aveva sostituito Primakov, che aveva sin lì goduto del sostanziale appoggio dell'opposizione comunista e nazionalista, con S. Stepašin (19 maggio). Mentre con la nascita di una nuova coalizione di centro-sinistra formata da Primakov, dal sindaco di Mosca Ju. Luzkov e da un gruppo di governatori in rottura con El´cin, si avviava la campagna per le elezioni parlamentari, si aprì, con l'aggravarsi delle relazioni fra il potere centrale e le forze moderate di Groznyj, la crisi che doveva portare alla seconda guerra cecena. La nuova crisi cecena modificò nettamente la situazione anche a Mosca - dove El´cin, che pure aveva superato indenne gli scogli dell'impeachment, perdeva rapidamente consensi e veniva da più parti invitato a dimettersi per il susseguirsi di notizie sugli scandali - e venne utilizzata, se non provocata - come si ventilò da più parti - dalle forze impegnate nella lotta per il potere. All'inizio, la decisione di intervenire di nuovo con le armi nella Repubblica del Caucaso venne motivata con le esigenze della battaglia contro il terrorismo e contro il fondamentalismo islamico dopo che il 5 agosto gruppi di indipendentisti wahabiti ceceni avevano occupato alcuni villaggi del confinante Dagestan. Tre giorni dopo El´cin allontanava il primo ministro Stepašin e lo sostituiva con V. Putin, responsabile dei Servizi di sicurezza (l'ex KGB). In risposta a una serie di attentati terroristici attribuiti ai terroristi ceceni (ma anche, da più parti, ai servizi di sicurezza russi) che si susseguirono dal 31 agosto al 16 settembre causando oltre 200 vittime, vi fu il 23 settembre, con il bombardamento della capitale cecena Groznyj, l'inizio di una sanguinosa guerra aerea. Obiettivo dichiarato del potere centrale, forte del sostegno crescente di pressoché tutte le forze politiche e della popolazione, era quello di "annientare ovunque si trovino" i terroristi, come affermò il primo ministro Putin. A partire dal 1° ottobre, quando le truppe russe attraversarono il confine ceceno, il conflitto assunse però l'aspetto di una guerra per la riconquista della Repubblica ribelle, così da annullare di fatto il trattato del 31 agosto 1996, contenente l'impegno a definire entro il 2001 la definitiva collocazione della Cecenia. Respingendo - perché considerata una inammissibile ingerenza interna - ogni proposta proveniente dall'Occidente (OCSE, Consiglio d'Europa, G7) perché venisse imboccata la via di una soluzione politica della crisi, e ostacolando le iniziative di aiuto umanitario avviate o proposte a livello internazionale a favore della popolazione civile e in particolare dei feriti e dei profughi (oltre 200.000 Ceceni si erano rifugiati nella vicina Inguscezia), il primo ministro Putin fece così assumere alle operazioni militari dimensioni sempre più vaste. La svolta impressa alla guerra e l'ondata nazionalistica, sostanzialmente antioccidentale, che l'accompagnava e sosteneva, determinarono un netto e rapido mutamento negli orientamenti degli elettori. Nelle elezioni del 19 dicembre, i comunisti di Zjuganov riuscirono a mantenere (con il 24,2%) la maggioranza relativa, ma un clamoroso successo lo ottenne il partito Unità, fondato solo tre mesi prima dal ministro della protezione civile S. Šojgu a sostegno di Putin, mentre il partito di Luzkov-Primakov, che solo poche settimane prima veniva dato per vincente, risultò sconfitto con il 13,1%. Dopo la sconfitta dei suoi avversari, cogliendo l'occasione favorevole e avendo ottenuta ogni garanzia per quel che riguardava l'immunità, il 31 dicembre 1999 El´cin uscì improvvisamente di scena indicando in Putin il suo candidato alle elezioni presidenziali indette per il 26 marzo 2000. Aveva termine così la prima fase, quella dominata dalla presidenza El´cin, della vita della nuova Russia. Con i nuovi equilibri politici nati dalle elezioni di dicembre la stabilità politica poteva dirsi acquisita. Ma a testimoniare la vastità e la gravità dei danni provocati nel tessuto sociale sia dal mancato decollo dell'economia sia dall'affermarsi a ogni livello dei fenomeni di corruzione, vi era poi la quotidiana realtà di una criminalità in continuo aumento e sempre più agguerrita. Infine, nonostante che, a conclusione di sanguinosi combattimenti, le truppe russe fossero riuscite a occupare all'inizio del febbraio 2000 Groznyj, la questione della 'tenuta' della Federazione entro i confini del dicembre 1991, soprattutto, ma non solo, per quel che riguardava l'area del Caucaso, si presentava, all'inizio del nuovo secolo, tutt'altro che risolta. Era questa l'eredità che la R. di El´cin lasciava a Putin, eletto presidente il 26 marzo al primo turno con oltre il 53% dei voti sull'onda di una volontà di ripresa e di non nascoste aspirazioni all'idea del rilancio di una 'grande Russia'.

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