Rosmini e Gioberti

Croce e Gentile (2016)

Rosmini e Gioberti

Luciano Malusa

Una tesi di laurea che è ben più di uno scritto giovanile

Quando, come allievo della Scuola Normale, si avviò a concludere i suoi studi presso la facoltà di Filosofia dell’Università di Pisa, il laureando Gentile scelse una ricerca sul pensiero di due filosofi cattolici del Risorgimento italiano, Antonio Rosmini-Serbati e Vincenzo Gioberti. Tale scelta si spiega con la sua presa di coscienza circa la necessità di ridare alla filosofia italiana uno spazio che la ponesse allo stesso livello delle altre filosofie europee. In un rapporto quasi filiale con Donato Jaja, uno degli ultimi discepoli di Bertrando Spaventa (cfr. Carteggio Gentile-Jaja, a cura di M. Sandirocco, 2 voll., 1969), Gentile guardava alla tesi come a un momento di comprensione del proprio orientamento futuro, sulla scia degli insegnamenti del suo maestro. Non scelse però di studiare gli esponenti dell’hegelismo napoletano, di cui la cultura filosofica in Italia si era quasi dimenticata; scelse, invece, due filosofi cattolici il cui orientamento era stato interpretato da Spaventa in senso progressivo per lo sviluppo del pensiero italiano.

A tale scelta Gentile era arrivato in quanto convinto che essi avessero rinnovato la cultura in Italia, e che le loro dottrine metafisiche e gnoseologiche avessero interagito con le filosofie moderne più avanzate, creando opzioni interessanti per il superamento e inveramento di grandi pensatori come Immanuel Kant e Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Gentile affrontò un nodo storiografico e metodologico rilevante per gli studi, mostrando come da filosofi di grande levatura scaturissero orientamenti che andavano oltre i loro intenti, e che configuravano una conquista decisiva per le sorti dell’Italia: una filosofia dello spirito sorta da un movimento di rinnovamento nazionale che aveva posto il cristianesimo quale orientamento di fondo.

Nell’atto di iniziare la sua tesi, nel 1896, Gentile aveva ben presente che Rosmini si era pronunciato contro l’idealismo immanente di Hegel e aveva radicalmente criticato la sua dialettica, e che aveva ritenuto di dover superare la dottrina kantiana delle categorie considerandola eccessiva. Tuttavia ritenne di poter presentare il sistema di Rosmini e le dottrine di Gioberti nelle loro linee innovative, in quanto offrivano revisioni sostanziali del pensiero metafisico e ontologico. Impostò il suo lavoro richiamandosi soprattutto agli scritti di Spaventa, a partire da quelli che avrebbe pubblicato di lì a poco (Scritti filosofici, raccolti e pubblicati con note e con un discorso sulla vita e sulle opere dell’autore da Giovanni Gentile, 1900) o negli anni successivi (Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, 23 novembre-23 dicembre 1861 [1862], pubblicato da Gentile con il titolo La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, con note e appendice di documenti, 1908, 19262), e dallo scritto spaventiano sulla filosofia di Gioberti (La filosofia di Gioberti, 1863, 18862).

Gentile si laureò il 5 luglio 1897, e licenziò poi il libro per la stampa nell’agosto 1898 (cfr. Carteggio Gentile-Jaja, cit., 1° vol., pp. 22-35: lettera del 16 settembre 1897). L’opera, con il titolo Rosmini e Gioberti, venne stampata presso Nistri a Pisa nel 1898.

Già prima di sostenere la discussione di laurea, Gentile aveva intrapreso un intenso rapporto con Croce, discutendo con lui sulla concezione materialistica della storia (cfr. la lettera del 17 gennaio 1897, in Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, 1° vol., 1972, pp. 17-28). Riprese a occuparsi di pensiero italiano solo quando, essendosi iscritto nell’estate del 1897 presso l’Istituto di studi superiori di Firenze, al fine di conseguire il perfezionamento in filosofia sotto la guida del neokantiano Felice Tocco, si orientò alla scelta dell’argomento della tesi, pensando di lavorare per la rinascita dell’idealismo.

Avendo affrontato dapprima una filosofia nata dalla costola hegeliana, all’apparenza materialistica, riscontrando che Karl Marx era stato poi travisato dai seguaci (cfr. La filosofia di Marx. Studi critici, 1899), Gentile decise di dedicarsi alla rivalutazione dell’hegelismo napoletano, studiandone la genesi. Intraprese pertanto, sotto la guida di Tocco – del quale però non condivise le tesi metodologiche (cfr. Le origini della filosofia contemporanea in Italia, 3° vol., I neokantiani e gli hegeliani, t. 1, 1921, nuova ed. rivista da V. Bellezza, 1957, pp. 47-75; e Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, d’ora in poi SFI, 2° vol., 1969, pp. 461-75) –, un ampio lavoro di ricerca, che completava quanto egli aveva prodotto con la tesi di laurea: una storia della filosofia italiana dall’Illuminismo napoletano all’età della Restaurazione, nel corso della quale si era delineato l’orientamento spiritualistico, con Pasquale Galluppi.

La tesi di perfezionamento fu pubblicata nel 1903, con il titolo Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche (e poi ripresa con il titolo Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, 1930, 19373, ora in SFI, 1° vol., 1969, pp. 447-644). Nel Rosmini e Gioberti Gentile aveva tracciato la storia del rinnovamento speculativo e spirituale dell’età della Restaurazione nell’Italia settentrionale; nel lavoro Dal Genovesi al Galluppi tracciò invece la storia del pensiero italiano nel Meridione, dall’eredità vichiana attraverso l’Illuminismo, fino a pervenire allo spiritualismo e alla preparazione del rinnovamento idealistico. Il punto di congiunzione tra i due lavori era il pensiero di Galluppi (su cui cfr. Rosmini e Gioberti, 19552, d’ora in poi RG, pp. 53-61; SFI, 1° vol., pp. 732-36), ma dominante era la figura di Spaventa. Decisivi appaiono i riferimenti alla tesi sulla circolazione del pensiero italiano, nella prefazione al Rosmini e Gioberti:

Quel gran fatto della circolazione del pensiero europeo, che a noi pare risultato più cospicuo, cui sia pervenuta in Italia la critica della nostra storia filosofica, e che avrebbe dovuto fissare definitivamente innanzi agli occhi di tutti il valore che nello svolgimento della filosofia moderna devesi attribuire ai nostri, e fra essi specialmente a Rosmini, quel gran fatto o si è assolutamente negato, per non essersi punto capito, o non ha più attirato e diretto l’attenzione degli studiosi, per non essersi capito abbastanza (RG, pp. X-XI; SFI, 1° vol., p. 696).

Le sorti della filosofia italiana – che aveva precorso le linee fondamentali dell’idealismo in Europa, ma che era poi rimasta al di sotto del livello raggiunto dal pensiero in Germania e in Francia – rimasero una preoccupazione di Gentile quando poi, con l’inizio della collaborazione alla «Critica», intese delineare gli orientamenti della filosofia in Italia dopo la morte dei due grandi filosofi, nel periodo in cui si stavano affermando le originali posizioni dell’hegelismo critico di Spaventa. Parallelamente agli articoli sulla Filosofia in Italia dopo il 1850, pubblicati tra il 1903 e il 1914 sulla «Critica» (e poi raccolti nel citato Le origini della filosofia contemporanea in Italia), Gentile sviluppò un proprio originale pensiero sul concetto della storia della filosofia, che illustrò nelle lezioni palermitane (cfr. la prolusione letta il 10 gennaio 1907, Il concetto della storia della filosofia, poi pubblicata sulla «Rivista filosofica», 1908, 10, pp. 421-64).

Dopo questi anni, però, Gentile pubblicò ben poco di originale su Rosmini. In alcune edizioni di testi scolastici illustrò gli elementi di innovazione che potevano scaturire dalla lettura delle opere del pensatore roveretano: cfr. l’edizione ridotta (Il principio della morale, 1914) dei Principi della scienza morale e storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale (1837); l’edizione (Del principio supremo della metodica e l’educazione dell’infanzia: con altri scritti pedagogici, 1916) dell’opera Del principio supremo della metodica e di alcune sue applicazioni in servigio dell’umana educazione (1857); e infine l’edizione parziale (Introduzione alla filosofia: estratti, 1925) dell’Introduzione alla filosofia (1850).

Gioberti ricevette, comparativamente, più cure sotto il profilo dell’evidenziazione di dottrine significative. Di lui Gentile ripubblicò (Nuova protologia, 2 voll., 1912) i testi inediti raccolti molti anni prima da Giuseppe Massari (Della protologia, 2 voll., 1857), confrontandoli con brani delle opere edite, senza però intervenire con una vera e propria curatela. Promosse e curò – con la collaborazione prima di Gustavo Balsamo Crivelli e poi, alla morte di questi, di Mario Menghini – la pubblicazione delle lettere (Epistolario, 12 voll., 1927-1937). S’impegnò in studi critici e in diverse recensioni su aspetti significativi della produzione giobertiana (cfr. il loro elenco nell’introduzione di E. Garin a SFI, 1° vol., pp. 684-88).

Ampie citazioni e diversi riferimenti ai due pensatori cattolici sono presenti anche nell’ultimo anno della vita di Gentile. A Firenze, in data 4 novembre 1943, egli preparò una nuova edizione della sua tesi di laurea; dopo aver aderito nel mese precedente alla Repubblica sociale italiana ed essere stato nominato presidente dell’Accademia d’Italia, compiva così uno dei primi atti nella sua nuova veste di ‘padre nobile’ del regime fascista repubblicano (cfr. Malusa 2013): rielaborando, in vista di una futura pubblicazione, il lavoro che aveva scritto con giovanile entusiasmo, rendeva omaggio ai due filosofi del Risorgimento. Gentile riconosceva che

il Rosmini e il Gioberti oggi son più vivi che un secolo fa; più vivi di quando io presi a studiarli. Oggi siamo in grado d’intenderli meglio, e di sentire anche i motivi spirituali del loro filosofare, quando l’Italia doveva farsi una fede per risorgere moralmente e politicamente. E oggi siamo da capo (RG, p. XIX; SFI, 1° vol., p. 701).

Con questa nuova edizione, che in parte solamente correggeva e aggiornava il lavoro di tesi, Gentile intendeva incitare a una nuova fede nell’Italia. «Non vorremmo certo rinunziare alle speranze ed ai propositi, che animarono gl’Italiani di cento anni fa; perché malgrado tutto siamo ancora vivi; e vita è avvenire. Perciò fede, perciò pensare» (RG, p. XIX; SFI, 1° vol., p. 701).

A Rosmini fu dedicato l’ultimo lavoro di Gentile, apparso dopo la morte, avvenuta il 15 aprile 1944. Infatti il 1° giugno di quell’anno furono pubblicate, sulla rivista fiorentina che egli dirigeva, tredici lettere inviate da Ruggiero Bonghi a Rosmini tra il 1851 e il 1853, e rinvenute presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze (Dal carteggio di Ruggero [sic] Bonghi. Lettere ad Antonio Rosmini, «Nuova antologia», 1944, 432, pp. 65-81). Il manoscritto di questo lavoro si trovava sulla scrivania del filosofo quando fu ucciso. Negli ultimi giorni della sua vita, Gentile fu attento anche nei confronti di Gioberti: nella terza edizione accresciuta (1944) della sua opera I profeti del Risorgimento italiano (1923) inserì infatti nuovi saggi su di lui e su Giuseppe Mazzini.

Il manoscritto corretto del Rosmini e Gioberti rimase, dopo la tragica morte del filosofo, tra le sue carte, venendo quindi ‘riscoperto’ e pubblicato, come accennato, nel 1955, con il titolo Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del Risorgimento, quale 18° vol. delle Opere complete di Giovanni Gentile. Citiamo da questa seconda edizione, che rispecchia lo stato d’animo ultimo del filosofo. L’opera ebbe un’ulteriore edizione nel 1958, quale 25° vol. delle Opere complete, che riportava in appendice alcuni scritti sul ‘vero Rosmini’, e che fu poi compresa nella citata raccolta degli studi storici di Gentile curata da Eugenio Garin (SFI, 1° vol., pp. 695-898).

Le linee d’interpretazione della filosofia rosminiana

Gentile pensava di valorizzare due grandi esperienze speculative che per loro vie erano pervenute a dare risoluzione a problematiche rilevanti per la filosofia. Non si proponeva di dimostrare l’insussistenza o meno delle accuse formulate dalla Congregazione del Sant’Uffizio contro alcuni scritti rosminiani. Non dedicò attenzione alle polemiche scatenate dal decreto Post obitum, del 1887. Neppure intese pronunciarsi sulla condanna che nel 1852 le opere di Gioberti avevano subito da parte della stessa Congregazione (cfr. Vincenzo Gioberti e le Congregazioni romane, 2011).

La tesi intendeva scavare con gli strumenti della ricerca storica nell’ambito del rinnovamento del pensiero spiritualistico durante il nostro Risorgimento, vagliando influssi e verificando contatti ed effettive discepolanze. In questa metodologia Gentile era sollecitato dal suo professore di storia della letteratura italiana a Pisa, Alessandro D’Ancona. Dire che Gentile è solo ed esclusivamente legato alle metodologie della scuola storica, di cui D’Ancona era rappresentante autorevole, sarebbe esagerato. Tuttavia non si devono sottovalutare le scelte di metodo, di approfondimento delle circostanze e degli influssi materiali compiute nella sua tesi, e dovute anche alla frequentazione di D’Ancona (cfr. Carteggio Gentile-D’Ancona, a cura di C. Bonomo, 1973).

I capitoli della prima parte del lavoro sono di carattere storico, ma denotano insieme l’accuratezza nella documentazione e la preoccupazione di compiere un’introduzione adeguata alla trattazione speculativa. Al pensiero italiano dal 1815 al 1830 viene dedicato il primo capitolo, incentrato sulla rinascita del pensiero cattolico; il secondo capitolo, sulla genesi del rosminianesimo, si apre con una trattazione dell’affermarsi del sensismo in Italia e della graduale penetrazione della filosofia kantiana; il terzo capitolo tratta della formazione del pensiero di Gioberti, che si muove tra Rosmini e Galluppi. Gentile descrive minutamente nel quarto capitolo la polemica tra Rosmini e Gioberti, utilizzando i dati storici che spiegano lo scatenarsi e l’evoluzione di essa. La lezione della scuola storica serve a Gentile per tracciare un ritratto storico-psicologico dei due protagonisti, mentre con abilità introduce elementi di un’esegesi di testi che documentino un progressivo affermarsi in loro delle dottrine e delle posizioni di un kantismo critico.

La distinzione tra una storia erudita e una storia filosofica, compiuta da Gentile in questo volume (e citata nella recensione di Croce, «Rassegna critica della letteratura italiana», 1899, 4, pp. 79-93, poi in Pagine sparse, 1° vol., Letteratura e cultura, 1943, pp. 30-34), non pare fondata, se si pensa che l’erudizione sparsa a piene mani viene poi subordinata a una valutazione complessiva in chiave del tutto filosofica. Nello studio di un pensatore, afferma infatti Gentile, occorre considerare con maggiore attenzione non tanto quello che egli ha realmente inteso affermare quanto ciò che logicamente il suo pensiero induce ad affermare. Un filosofo non è mai interprete felice di se stesso.

Un sistema filosofico non si può né intendere né valutare né perciò collocare nella sua reale posizione storica, se si prende tal quale è stato esposto dall’autore, e gli si attribuisce per l’appunto il significato medesimo che questi riflettendo sul suo proprio pensiero e facendosi storico di sé medesimo credette di potergli attribuire (RG, p. 42; SFI, 1° vol., p. 726).

Tuttavia, quando lo studioso rileva una discrepanza tra le intenzioni e le conseguenze nell’elaborazione di una dottrina, non pronuncia una riserva o una condanna contro la prospettiva filosofica in cui l’autore si è trovato. Per Gentile il modo di essere di certe dottrine tradizionali va inteso nella sua originaria motivazione. Nessun filosofo dev’essere posto in contrasto con se stesso: le sue intenzioni e scelte vanno esposte nella loro reale consistenza.

Gentile valuta in maniera positiva il ruolo svolto dal cattolicesimo nell’ambito della ‘ripresa’ dello spirito italiano:

E quel riversarsi degli spiriti nel cattolicismo non senza un desiderio confidente di rinnovarne e rinfrescarne le forme e l’anima, non fu caso o capriccio o arte degli uomini. La sua concomitanza con le aspirazioni politiche a cui si ridestava la coscienza nazionale, con le tendenze letterarie riformatrici e col nuovo orientamento speculativo del pensiero, ne dimostra già la necessità storica e la rispondenza a un reale e universale bisogno degli animi: quale si manifesta nelle opere dei grandi, ma altresì in certi fenomeni della cultura comune (RG, p. 27; SFI, 1° vol., p. 718).

Però successivamente afferma che il contesto dogmatico cattolico in cui si muovono le filosofie rosminiana e giobertiana non rappresenta l’elemento decisivo della faticosa conquista dell’atto spirituale.

Distinguere il pensiero che è eterno, dalle forme storiche transeunti, che la cognizione e l’intelligenza della storia ci fan riconoscere, e individuare. Questo non s’è fatto finora dalla nostra critica storica (RG, p. 42; SFI, 1° vol., p. 726).

Secondo Gentile, la novità apportata da Rosmini nel Nuovo saggio sull’origine delle idee (4 voll., 1830) consiste nel sostenere che la dottrina kantiana trova la sua realizzazione nell’unicità della categoria dell’essere. Per Rosmini, l’idea dell’essere è allo stesso tempo condizione a priori per la conoscenza e oggetto intuito dalla mente. Gentile afferma che tale «oggetto conosciuto» non può essere un’idea alla stregua di un’idea innata o di un concetto, bensì l’attività della mente, la quale si costituisce come pensiero che si pensa. Gentile non ignora che per Rosmini l’idea dell’essere è intesa come presenza alla mente, che la intuisce senza immedesimarsi con essa. Eppure ritiene si possa affermare che per il roveretano la mente pensi l’oggetto identificandosi con l’essere ideale. Trattando della percezione intellettiva, così com’è illustrata nel Nuovo saggio, Gentile scrive che essa

non può essere altro che un giudizio, una sintesi primitiva [...] la quale suppone necessariamente una attività sintetica originaria, che renda possibile l’unità del concetto, data la materia fornita dal senso e la forma prestata dall’intelletto (RG, p. 185; SFI, 1° vol., p. 803).

L’intuito assume il suo significato non in riferimento puramente all’oggetto ideale, ma in riferimento alla sintesi di oggetto e di soggetto, che si richiamano a vicenda (cfr. RG, pp. 193-97; SFI, 1° vol., pp. 807-13). Consapevole però che il roveretano pone l’assoluta oggettività dell’essere di fronte alla mente come criterio per affermare la possibilità di cogliere il vero, Gentile si sforza d’indebolire il fondamento della dottrina dell’intuito. Per provare che l’affermazione rosminiana che l’intuito dell’essere «costituisce, forma il pensiero» va intesa nel senso che l’essere e il pensiero sono in costante relazione, Gentile nega che la necessità dell’intuito possa darsi in riferimento all’opposizione tra pensiero ed essere (cfr. RG, p. 211; SFI, 1° vol., p. 817). Così Gentile interpreta la posizione rosminiana:

Con l’intuito rosminiano s’è creduto che rimanesse fuori ed opposta soltanto la forma dell’oggetto; ma a torto, poiché la forma senza il contenuto non è se non un prodotto dell’astrazione; e l’unità della forma e del contenuto non è che nel soggetto (RG, p. 213; SFI, 1° vol., p. 818).

Secondo Gentile, nell’ambito del Nuovo saggio, l’essere va inteso come quella condizione formale del conoscere che non si può considerare separata dall’atto del conoscere.

L’intuito rosminiano non è una passività assoluta dello spirito rispetto all’oggetto, come pur vorrebbe essere. Offrendo la possibilità, fornisce infatti una categoria, una forma, che nello spirito non è anteriore alla percezione intellettiva, se non logicamente (RG, p. 217; SFI, 1° vol., p. 820).

L’essere ideale rende possibile la conoscenza in quanto nell’unità della coscienza si incontrano sensazione e idealità. L’intuito serve a costituire l’intelletto, la sua capacità di intendere; l’immagine dell’essere, creata dall’intelletto, si unisce alla sensibilità e dà origine al conoscere (cfr. RG, pp. 238-39; SFI, 1° vol., pp. 830-31).

L’intuito [...] serve nel Rosmini a far dire oggettività la soggettività di Kant, ossia la vera soggettività, sostituendola a quella soggettività kantiana, intesa a torto alla maniera dell’antropologismo individuale di Protagora. Il che dimostra essersi formato il giusto concetto della soggettività (oggettività vera), che, siccome necessaria ed universale, credette fondarsi su un che di comune e costitutivo di ogni intelletto umano e di ogni intelletto possibile, e reputò non potersi più appellare soggettività (RG, pp. 249-50; SFI, 1° vol., p. 837).

Chiamare l’attività dello spirito in termini di soggettività o di oggettività è una questione di parole, asserisce Gentile, intendendo dire che Rosmini ha raggiunto la stessa consapevolezza della posizione kantiana, che pure si proponeva di combattere.

Gentile riserva alle pagine della Teosofia (ed. postuma a cura di F. Paoli, P. Perez, 5 voll., 1859-1874) l’ultima parte dell’esposizione del pensiero di Rosmini, quando esamina l’essere ideale nel suo ruolo dialettico, in rapporto con l’essere reale e con l’essere morale. Fa riferimento soprattutto, nella Teosofia, al 3° vol. (L’Essere trino, 1864). Gentile si limita a stabilire un confronto con le dottrine kantiane, rilevando anche in questo luogo che esse hanno ricevuto dall’interpretazione rosminiana un chiarimento significativo. Non giunge però ad affermare che Rosmini ha reso più coerente la posizione kantiana, facendola passare dal criticismo all’idealismo, addirittura alla filosofia del Soggetto trascendentale.

La polemica tra Rosmini e Gioberti come crescita del pensiero italiano

Nel capitolo in cui esamina le critiche di Gioberti a Rosmini, il giovane storico della filosofia espone innanzitutto le analogie e le vicinanze tra la visione rosminiana e quella giobertiana. Egli è convinto che la polemica è stata sovente nutrita di malintesi; infatti l’attitudine di Gioberti a criticare la gnoseologia di Rosmini al fine di superarne i presunti limiti soggettivistici crea spesso esasperazioni. Gioberti, in un certo senso, dipende da Rosmini nella «falsa maniera di intendere il nuovo soggettivismo»; addirittura accosta e fonde sensismo con soggettivismo e crea una nuova categoria di pensiero da combattere, il «razionalismo psicologico o psicologismo», che ritorce poi contro Rosmini (RG, pp. 257-59; SFI, 1° vol., pp. 840-42).

La posizione di Gioberti muta quando egli intende la teoria rosminiana dell’intuito come «intuizione immanente dell’Idea». Poi egli introduce la «riflessione», che non è più condizione di coscienza, ma «atto di coscienza», che chiarifica e determina l’Idea. Infatti, se è vero che la riflessione «si deve considerare come una funzione determinatrice dell’intuito», fondata sull’unità del soggetto; e se è anche vero che la percezione intellettiva rosminiana è assimilabile alla riflessione giobertiana, cui si aggiunge la «parola», tuttavia, secondo Gentile, Gioberti è convinto che non si possa considerare la riflessione quale ripiegamento del soggetto sulle proprie operazioni. Secondo il filosofo torinese la «riflessione psicologica» non coglie il pensiero come tale, ma coglie solo il pensiero come sensibile interno. Soltanto la «riflessione ontologica» coglie l’Idea (cfr. RG, pp. 264-80; SFI, 1° vol., pp. 845-53).

Gentile ritiene però che Gioberti, proclamando il distacco tra la propria teorica dell’Idea e quella di Rosmini, compia un atto fittizio. In effetti si tratta di un’accentuazione volta ad affermare l’unitarietà del riferimento all’Idea.

Il Gioberti, dunque, senza riuscire a dimostrare l’insufficienza della riflessione rosminiana, con la critica di questa e col volervi sostituire una riflessione più compiuta, mirava a porre su più solido fondamento la oggettività del conoscere, e a giustificare più sicuramente quella vera sintesi a priori che per questa via accettava, attraverso il Rosmini, da Kant; fondandola su quell’unità indissolubile di identico e di diverso, di uno e molteplice, di universale e di particolare, di necessario e di contingente, nella quale è la vita e la spiegazione del pensiero e del mondo; unità, del resto, di cui sentì pure bisogno Rosmini (RG, p. 281; SFI, 1° vol., p. 854).

La controversia tra i due filosofi pone in luce, secondo Gentile, la grandezza del loro pensiero nella direzione di un’affermazione ‘forte’ di tipo idealistico. In questo senso si può dire che entrambi hanno insieme ragione e torto. Gioberti intende andare oltre Rosmini servendosi del principio «pensare è giudicare», e concepisce la «formola ideale». Rosmini non intende che l’intuito sia da considerarsi in sé propriamente pensare, in quanto esso è «pura condizione del pensiero».

Gentile rileva sovente il formarsi di equivoci tra i due pensatori, nello scambio reciproco di accuse e di controaccuse. Gioberti, con l’identificare il Primo ontologico con il Primo psicologico nella nozione di Primo filosofico, compie un passo essenziale verso il «nuovo grande soggettivismo della scienza»: ma Rosmini lo aveva preceduto con l’Idea dell’essere intesa quale Primo filosofico, nel senso di condizione a priori del conoscere (cfr. RG, pp. 284-85; SFI, 1° vol., p. 856). La parte più rilevante della loro aspra controversia verte sui concetti di realtà e di possibilità: ma alla fin fine entrambi affermano che realtà e possibilità (o pensabilità) sono modi dell’essere, e quindi si rapportano tra di loro. La realtà e la pensabilità appartengono all’Essere. Questo significa che quest’Essere pensa le realtà finite in quanto le crea, e che viene pensato dalle menti finite come creatore (cfr. RG, pp. 299-309; SFI, 1° vol., pp. 862-69).

Gentile afferma che Rosmini non giunge alla conclusione, adombrata da Gioberti, che Dio sia non solo ragione delle cose, ma ragione delle cose in quanto da noi conosciute.

Dunque siffatta ragione assoluta, assoluta mente, assoluto spirito è necessariamente (come l’oggetto dell’intuito rosminiano) nel fondo della nostra cognizione, cioè del nostro pensiero, radice dell’intelligibile e del reale (RG, p. 310; SFI, 1° vol., p. 869).

Con la formula ideale Gioberti ha fatto dell’Ente creatore l’oggetto dell’intuito, oggetto però immanente alla funzione dell’intuito. L’Ente è allora l’a priori «indefettibile e costitutivo della nostra conoscenza». Questo passo compiuto da Gioberti non è però in contraddizione con il significato rosminiano di intuito: egli aggiunge soltanto una determinazione nuova a esso. L’intuito non è più solo «una funzione produttiva dell’essere»: esso ora è posto nell’Ente, «causa e ragione della indefinita realtà» (RG, p. 312; SFI, 1° vol., p. 870).

La polemica tra Rosmini e Gioberti si concluse, a parere di Gentile, senza né vinti né vincitori. Gioberti era partito dalla dottrina rosminiana dell’intuito per procedere oltre essa, con la dottrina del Primo ontologico, che comprendeva il Primo psicologico. Ma, per Gentile, Gioberti, nel rinnegare che si dia un intuito autentico del Primo psicologico, aveva finito con l’eliminare la dualità. Intelligibili e reali, afferma Gentile, «rampollano necessariamente da un’unità sostanziale» (RG, p. 315; SFI, 1° vol., p. 872). Realtà e idealità sono aspetti del medesimo processo. Questa posizione, afferma Gentile, ha reso possibile alla filosofia italiana di porsi in evidenza nei confronti delle altre componenti del pensiero europeo.

Questa è in vero la novità del Gioberti: l’essere indeterminato, ideale, infecondo del Rosmini, al quale pareva che la realtà si dovesse aggiunger da fuori per dar luogo alla conoscenza effettiva, diventa produttivo; e tale può diventare perché di ideale si fa realissimo e nella stessa indeterminatezza pone la massima determinazione dell’assoluto. [...] Quando il Gioberti ha identificato l’assoluto, sostegno dell’intelligibile, coll’assoluto, causa del reale, nel Primo ontologico, e il processo ontologico col processo logico, è già superata la posizione rosminiana (kantiana) di oggetto opposto al soggetto. [...] Il Primo ontologico per la sua genesi è soggettivo; ma intanto egli è principio di ogni realtà, è il supremo oggetto, il vero reale, l’assoluto. Il soggetto e l’oggetto, ciascuno per sé e opposto all’altro, non esistono più: siamo innanzi al vero soggetto che è anche oggetto e al vero oggetto che è anche soggetto (RG, pp. 315-16; SFI, 1° vol., pp. 872-73).

Dopo la fine della polemica con Gioberti, Rosmini affronterà nuovamente il problema dell’Essere ideale, tenendo proprio presenti le critiche del rivale. Gentile ritorna a occuparsi della Teosofia, considerando che in essa avviene un completamento delle dottrine ideologiche e di quelle ontologiche. L’Essere ideale rimane comunque termine dell’intuizione anche nel contesto della dottrina delle tre forme dell’essere. Nella Teosofia la dottrina dell’essere ideale si trasforma nella dottrina dell’«essere iniziale», che, secondo Gentile, «è principio, rispetto all’intelletto, delle altre forme dell’essere» (RG, p. 319; SFI, 1° vol., p. 874). L’idealità, secondo Gentile, diviene per Rosmini la forma dell’essere la quale si rapporta alla realtà e che, in questa relazione, rende possibile la moralità, come forma mediatrice, sotto il segno dell’appetibilità e bontà dell’essere. Gentile illustra con finezza questa nuova posizione del pensiero rosminiano, e ritiene che nel mantenimento dell’idealità nei confronti della realtà stia la vera differenza nei confronti di Gioberti:

La critica del Gioberti conserva ogni sua ragione anche contro la Teosofia, la cui dottrina era stata da lui intrinsecamente superata. Ma questo superare del Gioberti, se è vero ciò che della sua critica s’è discorso, non è negare ma inverare. Lo stesso Primo del Rosmini di psicologico si fa ontologico, rinunziando a quel suo in sé inconoscibile, che era un vero e proprio caput mortuum. E se l’essere iniziale della Teosofia non ha più questo caput mortuum, acquista il suo giusto valore e diviene veramente ragione di ogni realtà e moralità. Insomma, il soggettivismo (idealismo) rosminiano è vinto dall’oggettivismo (ontologismo) giobertiano, non in quanto questo gli si oppone, ma in quanto lo sviluppa e gli conferisce il suo proprio valore. Aveva ragione il Rosmini a sostenere l’idealità dell’essere oggetto dell’intuito; ma perché questo potesse sfuggire alle critiche del Gioberti, doveva ancora acquistare il valore del Primo ontologico giobertiano. E in questo valore si assolve e conchiude la nostra filosofia del Risorgimento (RG, p. 321; SFI, 1° vol., p. 875).

La critica al lavoro di Gentile

Il lavoro di Gentile fu variamente giudicato. Come sopra accennato, già nel 1899 venne positivamente recensito da Croce. Non venne però studiato e commentato adeguatamente al suo apparire. Gli studiosi di Rosmini di matrice cattolica, cui la metodologia interpretativa di Gentile non era piaciuta, si astennero momentaneamente dal criticare il lavoro. Dopo la celebrazione del primo centenario della nascita del grande roveretano (che Gentile stesso aveva ricordato) si era stabilita una situazione di tregua nell’ambito della Chiesa e la cessazione delle polemiche seguite alla condanna del 1887, con il citato decreto Post obitum della Congregazione del Sant’Uffizio (sul quale cfr. Antonio Rosmini e la Congregazione del Sant’Uffizio, 2008), sembrava apportare ai padri rosminiani e ai seguaci in filosofia del grande roveretano la possibilità di trovare nuovamente spazio. Non era prudente che i sacerdoti rosminiani e gli studiosi dessero peso a uno scritto che accreditava in pieno le posizioni censorie del Sant’Uffizio. La prudenza dei padri rosminiani arrivò fino a differire la diffusione dei volumi dell’edizione dell’Epistolario completo di Rosmini, pubblicato da loro in 13 volumi a Casale Monferrato tra il 1887 e il 1894 (su tutte queste vicende e sulla ‘prudenza’ cfr. Malusa, Zanardi 2013).

Il laico ‛rosminiano’ Carlo Caviglione ruppe nel 1903 il silenzio degli studiosi. In una parte del suo volume Il rimorso. Saggio di psicologia e metafisica criticò l’interpretazione gentiliana che collocava la verità delle posizioni rosminiane nel contesto della riforma del kantismo. Il saggio di Caviglione venne recensito dal pedagogista Giuseppe Lombardo-Radice, sulla «Critica» (1906, 4, pp. 218-21). Caviglione ribatté ai suoi rilievi sulla stessa rivista (Qual è il vero Rosmini?, 1906, 4, pp. 328-31). A questo intervento ne seguirono due di Gentile, sempre sulla «Critica» (Postilla, 1906, 4, pp. 331-32; Ancora del vero Rosmini e di un principio di storia della filosofia, 1907, 5, pp. 169-72). La polemica si ampliò con l’intervento della «Rivista rosminiana di filosofia e di cultura», che aveva iniziato le sue pubblicazioni nel 1906, sotto la direzione di un altro laico ‘rosminiano’, Giuseppe Morando (cfr. le note di Caviglione e di Morando, 1906-1907, 1, pp. 47-57 e 533-45, e di Morando, 1907-1908, 2, pp. 466-76).

Una contrapposizione, divenuta famosa tra gli studiosi, pose il ‘vero Rosmini’ come altra cosa rispetto al ‘Rosmini vero’ (cfr. i chiarimenti di De Lucia 2005a). Gentile e Lombardo-Radice individuarono nell’interpretazione che vedeva Rosmini riformatore del criticismo kantiano, l’indicazione per la cultura filosofica del ‘vero Rosmini’, da valorizzare nonostante il suo intento apologetico della religione. A detta dei due esponenti della cultura idealistica, i rosminiani, nel loro rivendicare la fedeltà al ‘Rosmini vero’, combattevano una battaglia di retroguardia, in quanto si contrapponevano invano a una lettura tanto interessante quanto necessaria per salvaguardare il significato attuale di Rosmini (e di Gioberti). Gentile chiuse la polemica con un articolo sulla «Critica» (1911, 9, pp. 195-206), in cui, recensendo, assieme a un saggio di Pantaleo Carabellese (Intuito e sintesi primitiva in A. Rosmini, «Rivista di filosofia», 1911, 3, 1, pp. 78-96), anche un libro di Caviglione che conteneva i testi delle varie fasi della polemica (Il Rosmini vero. Saggio di interpretazione, 1911), liquidava la posizione dei rosminiani come perdente. Gentile ripubblicò questi testi nell’opera Frammenti di storia della filosofia del 1926 (poi furono collocati in appendice alla terza edizione di Rosmini e Gioberti, 1958, pp. 325-62, e in SFI, 1° vol., pp. 879-98).

Gli studiosi rosminiani si ritrassero dalla disputa sul ‘Rosmini vero’, che aveva coinvolto anche Piero Martinetti, e si dedicarono – prima solo sulla loro rivista e in seguito, dal 1927, anche sul bollettino religioso «Charitas» – a difendere in modo prudente, ma tenace, l’ortodossia cattolica di Rosmini. Gentile dimostrò di capire lo ‘stile’ di questi studiosi, e intrecciò, dopo la sua venuta all’Università di Roma (1917), un rapporto di amicizia e di stima con padre Giuseppe Bozzetti, preposito generale dell’Istituto, nella sede di S. Giovanni in Porta Latina, ottenendo, secondo le testimonianze fornite a Paolo De Lucia dal padre Remo Bessero Belti, gesti di solidarietà affettuosa in occasione di lutti familiari che toccarono il filosofo.

L’interpretazione di Gentile ricevette subito, come sopra accennato, l’avallo di Croce, che nella sua recensione sottolineò il richiamo a Spaventa e riscontrò in Gentile un progresso rispetto alla metodologia del pensatore abruzzese. Croce affermò che Gentile aveva interpretato con successo l’opera e il pensiero dei due filosofi in senso storico e psicologico, e che al contempo aveva inverato tale tipo di studio con una valorizzazione preziosa dell’aspetto speculativo:

Spaventa profondo nell’indagine degli elementi vitali e permanenti del pensiero dei filosofi da lui studiati, non dava attenzione al resto, ossia alla forza storica, e, come a lui pareva, accidentale dell’opera loro (recensione in «Rassegna critica della letteratura italiana», cit., poi in Pagine sparse, cit., p. 33).

Per Croce questi elementi, su cui Spaventa non aveva posto attenzione, erano soprattutto l’elemento psicologico della costruzione delle filosofie di Rosmini e Gioberti, ma anche «la ricostruzione storica delle condizioni sociali e ideologiche d’Italia» (p. 33). Secondo Croce, Gentile aveva inserito le speculazioni dei nostri filosofi del Risorgimento entro il loro giusto momento storico e aveva illustrato bene le esigenze che essi avvertivano nel loro impegnarsi filosoficamente.

Molti anni dopo la sua recensione del 1899, Croce, nel saggio Del Gioberti filosofo («La Critica», 1942, 40, pp. 1-18), criticò la decisione di iniziare l’edizione nazionale delle opere di Gioberti, voluta da Gentile, con la collaborazione di Enrico Castelli, considerando la filosofia del pensatore piemontese come una sorta di teologia mascherata. In questo testo Croce scriveva esattamente l’opposto rispetto agli elogi rivolti un tempo a Gentile per l’interpretazione della filosofia di Rosmini: «Le scritture filosofiche di Gioberti sono tutte piene di miti giudaici, cristiani e cattolici, accolti dall’autore e da lui dichiarati parte integrante, e anzi signoreggiante, del suo pensiero» (p. 1). In realtà Gentile non aveva offerto sponde al Gioberti cattolico per rendere le sue visioni degne del rigore filosofico, ma aveva affermato che entro la tradizione cattolica si era delineata, grazie al pensatore piemontese, un’apertura all’immanenza, travagliata ma autentica. Del resto questo era avvenuto anche per Rosmini. Ora Croce, dopo la rottura con l’antico collaboratore, mutava metro di giudizio sulle interpretazioni di lui (cfr. Malusa 2005).

Il Rosmini e Gioberti e l’interpretazione in nuce del «destino idealistico» del pensiero italiano

Lo scritto giovanile gentiliano rappresenta nella produzione del pensatore di Castelvetrano un inizio di rilievo, che segna una rivalutazione certamente sui generis, ma importante, dei due pensatori del Risorgimento. Non riguarda per la verità un modo di intendere al meglio questi pensatori, e finisce quindi con l’essere fuorviante, specialmente per Rosmini. Il significato dell’idea dell’essere nel sistema rosminiano, non è inteso oggi più nel senso dell’unità del sapere concepita idealisticamente, nell’immanenza del conoscere e dell’esistere. Viene inteso dalla maggior parte degli studiosi come un’affermazione della trascendenza divina, manifestata anche attraverso la possibilità della mente di dire l’essere in senso univoco nel suo aspetto universalissimo.

Per quel che riguarda Gioberti, il significato dell’opera gentiliana risiede nell’aver chiarito determinati atteggiamenti del filosofo torinese di fronte alla sintesi rosminiana, e di aver pure indicato un tipo di interpretazione (oggi non più sostenuto da buona parte degli studiosi) che riguarda un modo di intendere intuito e riflessione che troppo assimila la posizione giobertiana alla visione attualistica. Nel complesso, però, il Gioberti presentato da Gentile nei suoi scritti di natura storiografica risulta ancora attendibile, anche alla luce degli studi recenti. Significativo il giudizio di un acuto studioso come Paolo De Lucia (2005b), il quale riscontra il valore teoretico di quel libro:

Il volume su Rosmini e Gioberti, infatti, offrendo la formulazione più compiuta e stringente di quell’interpretazione di Rosmini come del “Kant italiano”, che Bertrando Spaventa aveva iniziato a prospettare, ha segnato la ripresa dell’interesse per il pensiero del filosofo trentino; dopo Gentile, tutti i tentativi di individuare il senso profondo della speculazione rosminiana, saranno messi in atto avendo presente – come punto di riferimento e come polo dialettico di confronto – la sua interpretazione, il problema del superamento della quale non è ancora del tutto alle nostre spalle (p. 183).

La tesi di laurea del 1897 rappresenta un punto fermo per la critica storico-filosofica e per la teoresi, anche se, dagli studi storici di oggi, risalta un altro elemento: dei due pensatori del nostro Risorgimento rimane da approfondire il nesso tra la loro fondazione teoretica, non più considerabile come contrastante e disgiunta (e in ciò Gentile aveva ragione), e il ruolo civile e morale che hanno avuto per la fondazione della coscienza politica del nostro Paese. Gentile voleva evidenziare anche questo aspetto, ma ha finito con il far prevalere il suo interesse per approfondire le interpretazioni di Spaventa e Jaja. Tuttavia, nonostante questo limite, nel contesto della grande stagione del pensiero italiano e del forte impulso dato da Gentile alla questione della riforma scolastica italiana e alla formazione delle classi dirigenti (cfr. Malusa 2011), l’aver interpretato in senso laico i due pensatori del Risorgimento fu un contributo rilevante dato a una comprensione piena del movimento risorgimentale che aveva portato all’unità italiana, con la sua componente cattolica.

Bibliografia

V.A. Bellezza, Bibliografia degli scritti di Giovanni Gentile, Firenze 1950.

L. Malusa, Filosofia e religione nelle pagine del giovane Gentile. La genesi della visione gentiliana della tradizione etico-religiosa in Italia anteriormente all’adesione “liberale” al fascismo (1920-1923), «Rivista di filosofia neo-scolastica», 1995, 87, 1, pp. 83-118.

A. Passoni, Donato Jaja nella formazione di Giovanni Gentile. Il problema del metodo tra critica gnoseologica e deduzione metafisica, «Rivista di storia della filosofia», 2000, 55, pp. 205-28.

P. De Lucia, Idealismo e spiritualismo. La disputa protonovecentesca sul “vero Rosmini”, in Idealismo e anti-idealismo nella filosofia italiana del Novecento, Atti del Convegno, Palermo 25-27 marzo 2004, a cura di P. Di Giovanni, Milano 2005a, pp. 109-20.

P. De Lucia, L’istanza metempirica del filosofare. Metafisica e religione nel pensiero degli hegeliani d’Italia, Genova 2005b.

L. Malusa, Riflessioni su alcuni passi della giobertiana “Filosofia della rivelazione”: a proposito di una “stroncatura” di Croce, in Studi in onore di Girolamo Cotroneo, 2° vol., Filosofia ed etica, a cura di G. Giordano, Soveria Mannelli 2005, pp. 265-92.

Antonio Rosmini e la Congregazione del Sant’Uffizio. Atti e documenti inediti della condanna del 1887, a cura di L. Malusa, P. De Lucia, E. Guglielmi, Milano 2008.

L. Malusa, L’Università di Giovanni Gentile, in L’idea di Università tra passato e futuro, a cura di R. Celada Ballanti, L. Mauro, Genova 2011, pp. 60-77.

Vincenzo Gioberti e le Congregazioni romane. Il processo del 1849-1852: i giudizi, le procedure e la condanna nei documenti inediti dell’Indice e del Sant’Uffizio, a cura di L. Malusa, P. De Lucia, Pisa-Roma 2011.

L. Malusa, Antonio Rosmini-Serbati, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Ottava appendice. Filosofia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 415-22.

M. Mustè, Vincenzo Gioberti, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Ottava appendice. Filosofia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 441-48.

L. Malusa, L’ultimo gesto di coerenza di Giovanni Gentile: la fedeltà all’Università “fascista”, «Rivista rosminiana di filosofia e cultura», 2013, 107, 1, pp. 37-62.

L. Malusa, S. Zanardi, Le lettere di Antonio Rosmini-Serbati: un “cantiere” per lo studioso. Introduzione all’epistolario rosminiano, Venezia 2013.