Romolo e i re di Roma

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Romolo e i re di Roma

Mario Reale

Romolo rappresenta per M. il fondatore autoctono di Roma, sebbene, ovviamente, egli abbia presente l’importante tradizione troiana (ancora Sallustio, De bello Catilinae 6, 1, riteneva Enea fondatore di Roma). Nel finale di I i (da qui in poi s’intenda sempre Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio), Enea e Romolo sono pareggiati, in quanto entrambi possibili fondatori (cfr. pure I i 11), ma qui lo scopo è di mostrare che Roma, «in qualunque modo», ebbe «principio libero», cui segue, peraltro, un richiamo alle «leggi fatte da Romolo, Numa e gli altri re». Dopo di ciò, la leggenda troiana è interamente dimenticata; Enea è citato solo un’altra volta, non proprio nelle vesti di fondatore (II viii 24). L’interesse che M. rivolge a Romolo, al solito senza alcun gusto antiquario, è rilevante soprattutto per il rapporto del periodo regio con la successiva storia repubblicana. Che si tratti di continuità tra monarchia e repubblica, nel segno di caratteri originari e costitutivi, o dell’età regia come importante, ma incompiuto prologo, o infine di una storia repubblicana riposante interamente su sé stessa, in ogni caso la storia arcaica di Roma costituisce in M. un importante tema di riflessione, che scende fin nelle articolazioni profonde dei Discorsi.

La formula «Romolo e gli altri re», che M. talvolta usa, è in realtà solo abbreviativa. Da un lato, M. sembra applicare anche all’età monarchica il criterio di ascesa (i primi quattro re) e di decadenza (il secolo della monarchia etrusca e della «grande Roma dei Tarquini»); dall’altro, distingue bene i singoli re, a ognuno assegnando il valore simbolico, virtù o vizio, che la tradizione attribuiva loro (I xix 2, 11-12). La qualità che, in generale, M. più apprezza, salvo che per il caso in parte eccezionale di Numa, è la virtù guerriera (I xix, xxi). Romolo, «ferocissimo e bellicoso», è il modello da «ripigliare», ma non sembra esserci una «bontà» del primo ordinatore che agisca in maniera duratura. La forza originaria, estensiva e protettiva, di Romolo legislatore non abbraccia nemmeno il periodo monarchico.

Tra i re di Roma, il più importante, dopo Romolo, è senza dubbio Numa, protagonista del capitolo sulla «religione de’ Romani». M. ritiene, anzi, che a Numa spetti il «primo grado» rispetto a Romolo, e che a lui Roma fu «più obligata» (I xi 9; cfr. I x 2-3). La valutazione è eccessiva, e M. si è lasciato prendere la mano dal tema della religione, pur importante e non del tutto riducibile a instrumentum regni, fino a sovvertire la consueta gerarchia delle «cagioni» di grandezza, di Roma e delle repubbliche. Ma il retto ordine è, in più luoghi, ristabilito. Così, la «virtù di Romolo fu tanta che la potette dare spazio a Numa», e, secondo i precetti del Principe, «chi somiglierà Numa, lo terrà o non terrà [lo stato] secondo che i tempi o la fortuna gli girerà sotto», ma chi somiglierà al «prudente» e «bellicoso» Romolo «lo terrà in ogni modo, se da una ostinata ed eccessiva forza non gli è tolto». Insomma, «somigliare Romolo, e non Numa» (I xix 13). Si può dire che Numa è visto da M. come una sorta di co-istitutore di Roma: fondando le «arti della pace» e le «obedienze civili» attraverso la religione, «cosa assolutamente necessaria a volere mantenere una civiltà», colmò le carenze di Romolo, che pure era stato autore del primo «nascimento» e della prima «educazione» della città. Non a Romolo, ma a Numa, circa la sua elezione, è riservata una nota provvidenzialistica. D’altra parte, la continuità tra periodo regio e storia repubblicana è, per certi aspetti, meglio visibile in Numa che non in Romolo. La religione fu costituita da Numa «in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica»; e ciò «facilitò qualunque impresa» dei Romani, che stimavano «più la potenza di Dio che quella degli uomini». La religione introdotta da Numa fu «intra le prime cagioni della felicità di quella città» (I xi 2-3, 17).

Se ne ha una riprova a proposito della «battitura estrinseca» di Roma, in occasione della presa della città da parte dei Galli intorno al 390 a.C. La premessa dell’evento è che delle «constituzioni buone ordinate da Romolo e da quegli altri principi prudenti, si cominciasse a tenere meno conto che non era ragionevole e necessario a mantenere il vivere libero». Ed ecco che venne l’«accidente estrinseco», a volere che Roma «ripigliasse nuova vita e nuova virtù». In realtà ciò che si era «maculato» in Roma, e dalla cui purificazione dipese la «rinascita», non erano tanto gli ordini di Romolo, ma piuttosto quelli di Numa. Come in Livio, fu l’inosservanza delle cerimonie rituali, della «religione e della giustizia», del sacro ius gentium, che determinò il disastro, del resto, al tempo stesso, provvidenziale occasione («era necessario che...»), simili alle occasioni che la fortuna offrì a Romolo e agli altri sommi fondatori (Principe vi, Romolo però non ricompare in xxvi); la salvezza, difatti, la «riduzione verso il principio», venne dal ristabilimento di «tutti gli ordini dell’antica religione» (III i 11 e segg.). Della religione dei Romani, M. richiama più volte la forza indissolubile del giuramento, illustrata da esempi lontani nel tempo come la vicenda di Manlio Torquato e il gesto di Scipione dopo la «rotta» di Canne (I xi 4 e segg.). La forza, stimolatrice e protettiva della religione, istituita da Numa, certamente si prolunga, per M., nel vivo della storia repubblicana. Quanto a Romolo, le cose sono, in ogni senso, più complesse. Agide e Cleomene volevano riportare gli Spartani, quando la città sembrava loro indebolita, «intra quelli termini che le leggi di Licurgo gli avevano rinchiusi» (I ix 15 e segg.). La domanda è se, nella logica di M., fosse possibile, in un periodo di crisi della storia repubblicana di Roma, un ritorno, come per Licurgo, agli «ordini» di Romolo, supremo e duraturo legislatore.

All’opposto dell’età dei buoni re, troviamo la decadenza monarchica: i due Tarquini e, pare, persino Servio Tullio. Considerando «a quanta corruzione erano venuti quelli re», era «necessario o che i re si estinguessono in Roma o che Roma in brevissimo tempo divenisse debole e di nessuno valore», corrotta fin nelle «membra» o nel «busto»; e perciò fu «felicità grande» di Roma quella che i re, anche qui con un pathos provvidenziale, «diventassero corrotti presto». Far rivivere, in età repubblicana, l’eredità del periodo regio, sarebbe stato in ogni caso difficile; difatti, a garanzia della libertà, ancora incorrotto il popolo, «bastò solo farlo giurare che non consentirebbe mai che a Roma alcuno regnasse» (I xvii 2, 7, 12). Tarquinio Prisco e Servio Tullio, forse considerato etrusco per la tradizione che lo identificava con il leggendario Mastarna (incongruo su Servio, mero omaggio alla tradizione, il giudizio di I xlix 2), sono trattati insieme, ed entrambi criticati per non essersi saputi «assicurare», per l’ingenuità politica di credere che un titolo legale, o «beneficii nuovi» contro «ingiurie vecchie», bastassero, vivendo ancora gli eredi spodestati del vecchio re, a conservare il regno (III iv). Nel capitolo su «Tarquinio Superbo», è notevole come M., ridotti, e anzi sottilmente negati, gli elementi favolistici della tradizione, su cui Livio a lungo si sofferma, riconduca la fine del regno a una stringente analisi politica: la vera causa della «cacciata», già disposti gli animi alla ribellione, fu il cattivo e «tirannico» governo di Tarquinio, odioso al senato e alla plebe, dimentico degli «antichi ordini» del regno (III v). La fine della monarchia è dipinta da M., sulla scorta di Livio, con colori foschi, segnata da morti violente, che, da un lato, ricordano il clima che dominerà molte fasi della vicenda imperiale, e dall’altro rinviano alla Stimmung del Principe. In effetti, questi due capitoli del terzo libro potrebbero da tanti segni (compresa la conquista «istraordinaria e odiosa» del regno, che sarebbe stata «comportata» qualora ci fosse stato un buon governo), appartenere al Principe; anche se il finale di III v rinvia piuttosto al buon principe di I x.

L’età regia di Roma è, per M., generatrice di pensieri che vanno ben oltre l’arcaica vicenda. In particolare, è importante il tema della successione al principato, che dapprima compare, ex abrupto, in I xi 20-22, quindi è trattato in I xvii 13-15, e ritorna, infine, con insistenza e qualche ansia, nei capitoli seguenti; ma già del resto si era detto, in I ix 9, che «non è la cosa ordinata per durare molto quando la rimanga sopra le spalle d’uno». La questione della «corta vita» degli uomini, e perciò anche di un principe eccellente, con la rovina, in conseguenza della morte, di uno Stato che riposi solo sulla sua virtù, costituisce una riflessione in sostanza nuova rispetto allo stesso Principe: un pensiero triste, coronato tuttavia da un finale più lieto. Certo, la virtù del primo principe può essere «rinfrescata con la successione», ma ciò «rade volte accade» (I xi 20-21). Nell’analisi dei re di Roma, M. appunto esplora questa difficile possibilità.

A Roma era necessario un prudente ordinatore, «ma era bene poi necessario che gli altri re ripigliassero la virtù di Romolo», che altrimenti la città sarebbe divenuta «effeminata, e preda de’ suoi vicini». Il lungo regno di Numa, già sospetto per ciò e per aver esiliato la guerra da Roma, riposa sulla straordinaria virtù di Romolo, ma se, dopo di lui, non fosse venuto il bellicoso «Tullo» e infine Anco Marcio, il regno sarebbe rovinato (I xix 3). «Due continove successioni di principi virtuosi sono sufficienti ad acquistare il mondo», e tuttavia non sarà da fondarsi troppo sul caso di Filippo di Macedonia e di Alessandro Magno (I xx). Piuttosto è interessante, come via d’uscita, l’accenno all’ammirato modello del regno di Francia, dove il «pericolo» dell’avvento di un «principe debole» è neutralizzato dagli «ordini suoi antichi» (I xix 10). Ma diretta e ancor più sicura è la salvezza costituita dagli ordinamenti repubblicani. «Cacciati i re», vennero meno nella Repubblica quei «pericoli» della successione caratteristici di un regno. Ben al di là di Filippo e Alessandro, una Repubblica come Roma ebbe modo di eleggere, «per suffragi liberi», non «solamente due successioni ma infiniti principi virtuosissimi che sono l’uno dell’altro successori» (I xx). Come stempera e fa arioso il drammatico problema dei Ghiribizzi al Soderino e di Principe xxv, circa gli «impetuosi» e i «respettivi» (cfr. III ix), così, la repubblica, oltre ai tanti vantaggi indicati in II ii, risolve anche il tormentato rovello sul problema della successione. E l’intero argomento non depone proprio a favore di un’ideale continuità tra l’età regia e le istituzioni repubblicane.

In I ix, oltre che nel Principe, si trova una figurazione di Romolo a tutto tondo: fondatore, legislatore e principe pleno iure di Roma. Del resto, è «regola generale» che, a ordinare bene uno Stato, sia uno solo, «dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione». Il fratricidio di Romolo s’iscrive, con giustificata legittimità, in questo quadro, dove l’esclusiva «autorità» è necessaria per «formare leggi a proposito del bene comune». Quando più forte è il potere che l’eroe fondatore «si ha preso» virtuosamente, tanto meno lo deve affidare all’incertezza della successione (I ix 5-8, 14). Ma, al tempo stesso, Romolo legislatore, in forza della sua stessa «autorità», determina un mutamento d’«ordine», il passaggio dal principato alla repubblica. Il problema della successione è risolto dalla regola per cui, se uno solo è «atto a ordinare», l’«edificato» non dura a lungo se non è affidato alla «cura di molti». Il principe legislatore opera in sé una sorta di kènosis, in cui si coronano i fini più alti della sua azione. Romolo ordinò «subito» un senato con il quale «consigliarsi», e, anzi, sulla base della cui «opinione» deliberare; ancor più, si svestì della parte essenziale del suo potere, riservandosi la sola autorità di comandare gli eserciti e di «ragunare» il senato. Al di là delle fonti, M. sembra pensare Romolo come una sorta di re di Francia, magari non al modo di Principe xix, dove al re sembrano riservati i soli diritti di «grazia», ma a quello di I xvi, che mantiene al monarca la prerogativa «dell’armi e del danaio». Il segno più forte della «mente» previdente e lungimirante di Romolo sta nella capacità di contenere in sé le istituzioni repubblicane. Divenuta Roma «libera», dopo i re, «non fu innovato alcun ordine dello antico», tranne la sostituzione al re «perpetuo» di due consoli annuali: «il che testifica tutti gli ordini primi di quella città essere stati più conformi a uno vivere civile e libero che a uno assoluto e tirannico» (I ix 13).

Si può partire di qui per cercare di seguire un’altra figurazione machiavelliana di Romolo, quella che lo propone come un legislatore importante, ma incompiuto. Del resto, già nel fulgore di legislatore solitario e assoluto, Romolo restava pur sempre una parte dell’intero, costituito anche da Numa. Se tutti i sommi legislatori, a cominciare da Licurgo, sono ricorsi a Dio, è evidente che Romolo è un legislatore incompleto, di potenza solo «mondana», non anche autore, con l’appoggio divino, di «ordini nuovi e inusitati» (I xi 10-13). L’asserto che dalla repubblica «non fu innovato alcun ordine», che il passaggio dalla monarchia a una carica collegiale e circoscritta nel tempo non meritasse neanche il nome di «innovazione», suona paradossale alla mentalità di un antico repubblicano e alla teoria stessa di Machiavelli. Ma qui siamo nel punto più alto del tentativo di assegnare a Romolo un pieno ruolo di protettivo legislatore, che copra con il suo manto tutta la positiva storia repubblicana. L’affermazione resta tuttavia eccessiva. Se Roma si godeva, già sotto Romolo, un «vivere civile e libero», in che cosa consisterà mai la «libertà» conquistata dalla repubblica? Si potrebbe dire, certo, che gli uomini, «quando sono governati bene, non cercono né vogliono altra libertà» (III v 12); ma questo sarebbe andar contro la profonda ispirazione dei Discorsi. In ogni caso, affrontando da una diversa prospettiva il problema, M. osserva che

Romolo e tutti gli altri re fecero molte e buone leggi, conformi ancora al vivere libero; ma perché il fine loro fu fondare un regno e non una republica, quando quella città rimase libera vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate (I ii 31).

Tuttavia i pensieri erano con evidenza contrastanti, se, subito appresso, si torna a una limitata «innovazione»: cacciati i re, si istituirono i due consoli, in cui si trasfuse la «potestà regia», e, d’altra parte, operante anche il senato romuleo, a Roma «restavale solo a dare luogo al governo popolare», figlio sì dei tumulti, ma che qui sembra ricomporsi in un quadro di predestinato compimento (I ii 32-34).

Infine, troviamo nei Discorsi non più Romolo supremo e decisivo nomoteta, esemplare al tempo stesso dell’autorità fondatrice e della realtà repubblicana, né legislatore incompiuto, ma figura assente dalla storia repubblicana, da consegnare alla remota antichità. La somma «felicità» di una città sta nell’«abbattersi» in un prudente legislatore che, come Licurgo a Sparta, dia, da «solo» e «ad un tratto», leggi che, senza essere «ricorrette» o «corrotte», assicurino ai cittadini un lunghissimo tempo di sicurezza e di pace, «sanza alcuno tumulto pericoloso». Al contrario, «tiene qualche grado d’infelicità» la città che, come Roma, non avendo avuto tale felice sorte, è «necessitata da sé medesima riordinarsi», a darsi leggi «a caso e in più volte e secondo li accidenti» (I ii 3-8). Il «caso» significa assenza dell’antiveggente «mente» del legislatore che instaura necessità, e configura una storia affidata alla «cura» e alla razionalità di molti uomini (la res publica non frutto di un solo ingegno, di cui diceva Cicerone), capaci di trarre lezione dalle cose stesse, dagli imprevedibili «accidenti», liberi di sfidare, rischiosamente, il tempo. M. richiama i «pericoli» della storia romana priva di legislatore, che pure non è certo quella di Firenze, sprezzantemente posta fuori da ogni «diritto cammino», poiché anche le città che abbiano preso il «principio buono» e possono diventare «perfette», «mai si ordineranno sanza pericolo». La prospettiva di I ix è in qualche modo mantenuta, ma lì, in presenza del legislatore, la fondazione collettiva sembrava impossibile (i molti «non sono atti a ordinare una cosa»), mentre in I ii, assunta la prospettiva di Roma affidata alle sue sole forze, «mondane» e collettive, si tratta di tenere insieme difficoltà e grandezza.

Uno svolgimento del tema di Roma senza legislatore, si trova in I xlix. Si parte anche qui dalle «molte leggi» fatte da Romolo e gli altri re, ma la circostanza è debole o ineffettuale, poiché, nel «maneggiare quella città», sempre si «scoprivono nuove necessità», e occorreva, pertanto, «creare nuovi ordini». Se Roma, che ebbe «principio libero», incontrò, per la «occorrenzia degli accidenti» e il «caso», «difficultà grande» a «fare nuovi ordini in favore del vivere libero», si può capire quale fosse la sorte di città che, come Firenze, erano nate da un principio «disordinato», «immediate servo». Anche ora, la gerarchia della felicità va dal legislatore, qui sottinteso, alla disperata situazione di Firenze. Di mezzo, Roma priva di legislatore, è «necessitata da sé medesima riordinarsi», seppur nel «pericolo». Ma, infine, Roma fu «ordinata da sé medesima e da tanti uomini prudenti». Il divario con le repubbliche infelicissime è incommensurabile, i buoni esempi illustrati nel capitolo, istituti quali la censura e l’appello al popolo, mostrano come Roma seppe affrontare con fortunata audacia la sfida del tempo e, muovendo dal «principio buono», attraverso la «disunione» di plebe e senato, necessaria alla «grandezza» e in potenza «pericolosa», divenne una «republica perfetta».

M. sembra ragionare al modo di un antico repubblicano. A Roma, era forte l’esecrazione del nome e dell’autorità regia, la consapevolezza del pericolo estremo costituito dal ripresentarsi di una figura, di solito presunta, di re-tiranno, che M. esplora, con ogni ansia, specie nel libro primo dei Discorsi. Ma vi operava altresì il bisogno di una permanenza di storia, attraverso forme di connessione con l’arcaica vicenda regale, come si vede persino dalla duratura continuità, studiata oggi da molti lati, di istituti simboli e termini, come interrex o rex sacrificolus (cfr. I xxv). Fierezza, da un lato, dell’autocreazione collettiva e dell’autonomia della repubblica, e bisogno, dall’altro, di ricomporre l’antica lacerazione, riconoscendo la protettiva continuità di una lunga storia, soprattutto riguardo all’eroe fondatore, auspice, come in Virgilio, dell’«imperium» romano, sterminato quanto la Terra. Certo, il collegamento esplicito si ebbe, alla fine della repubblica, con Cesare, per il quale Theodor Mommsen trovava più giusto il titolo di re, novello Servio Tullio; ma già la precedente storia repubblicana era attraversata da questa tensione. In quanto compiuto legislatore, nei Discorsi Romolo forse esprime, in un momento di dubbio, con l’occhio volto alla crisi e alla consumazione finale, una sorta di rassicurazione circa la consistenza della repubblica. Bisognerebbe qui indagare cosa significhi, secondo l’ordine del testo che ci è pervenuto, il fatto che, in I xi, Romolo venga, con una sfasatura riconosciuta dallo stesso M., dopo le istituzioni repubblicane e le disunioni civili, e quale sia il peso del modello licurgheo, certo solo per la politica interna. D’altra parte, la consapevolezza dell’autonoma forza della repubblica, «ordinata da sé medesima» e priva di un provvidenziale legislatore, una volta sottratta al confronto diretto con Sparta, potrebbe esprimere l’intatta ammirazione di M. per la grandezza di Roma, divenuta quasi signora della guerra e padrona del tempo (per es., in II i, sebbene anche qui compaia la forza originaria del «primo datore di leggi»). In ogni caso, quando in uno scrittore della statura di M. si trovano giudizi discordanti, come Romolo compiuto legislatore e Romolo assente, non è possibile né arrestarsi alla «contraddizione», né scegliere una delle tesi contrastanti; occorre, evitando facili compromessi, cercare di capire da quali complessi pensieri nascano le dissonanze.

Bibliografia: Fonti: Tito Livio, Ab Urbe condita libri I; Plutarco, Vite: Romolo, Numa; Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane.

Per gli studi critici si vedano: M. Reale, Machiavelli, la politica e il problema del tempo. Un doppio cominciamento della storia romana? A proposito di Romolo in Discorsi I 9, «La cultura», 1985, 23, pp. 45-123; G. Sasso, Machiavelli e Romolo, «La cultura», 1985, 23, poi in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1986, pp. 119-66.

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