ROMAGNA

Enciclopedia Italiana (1936)

ROMAGNA (A. T., 24-25-26)

Mario LONGHENA
Antonio BANDINI BUTI
Carlo TAGLIAVINI
Alfredo BONACCORSI
Luigi SIMEONI

Regione dell'Italia settentrionale che nelle varie epoche ha assunto limiti diversi, tanto che di essa si hanno definizioni ora più ampie, ora più ristrette, risultandone un significato di "Romagna" con qualche incertezza. Taluni estendono a tutta l'Emilia orientale il significato di Romagna, sì da comprendere in essa le 4 provincie di Forlì, Ravenna, Ferrara e Bologna, allargando assai i confini che della Romagna dà Dante: "il Po, il monte, la marina e il Reno"; altri la restringono a più brevi confini, limitandola quasi alle due provincie di Forlì e di Ravenna e a qualche comune del Bolognese orientale e non escludendo parecchi comuni costituenti la cosiddetta Romagna toscana. Abbiamo così due concezioni dei limiti della Romagna, forse ugualmente vere e rispondenti a momenti diversi della sua storia. Geograficamente non c'è preferenza né per l'una né per l'altra ragione: i loro limiti non separano veramente regioni naturali diverse. Ma nella coscienza popolare è chiaro che la Romagna è intesa nel suo ambito più ristretto. Ora questa persuasione, che è frutto di storia vissuta insieme, di caratteri vicini, di costumi e di gusti quasi uguali, è il più forte argomento che militi in favore della tesi che vuole una Romagna meno ampia. A questa tesi si attiene la presente voce, che trova quindi la sua logica integrazione in quanto è detto nella voce emilia, alla quale pertanto si rinvia.

I limiti della Romagna così intesa hanno questo sviluppo: partendo dal mare, là dove nell'Adriatico sbocca il Reno, che segue l'antico corso del Po di Primaro, e che separa le valli ferraresi dalla provincia di Ravenna, il confine lo risale fin oltre Lavezzola, cioè fino alla confluenza del Sillaro. Di qui - dove i comuni di Argenta e di Consélice si toccano - il torrente Sillaro può fare da limite; e risalendolo e tenendosi sulla sua destra si è certi di stare sempre in territorio romagnolo. Un po' prima delle sorgenti del Sillaro, al M. dei Tre Poggioli, dove sono i "Casoni di Romagna", si devia verso E. fino a raggiungere il Santerno. Quasi tutti gli alti corsi dei fiumi romagnoli sono oltre il confine amministrativo dell'Emilia: perciò verso S. il confine è assai irregolare, e lo era ancor più nel passato, quando molti comuni, appartenenti ora alla provincia di Forlì, erano con Firenze. Il confine taglia il Santerno e la strada Imola-Firenzuola presso a poco all'altezza dei monti Pratolungo-Faggiola, e separa Castel del Rio e Casola Valsenio, comuni romagnoli, dai comuni toscani di Firenzuola e di Palazzuolo. Il Senio, il Sintria e il Lamone sono pure esclusi nei loro tronchi più alti; ma dopo quest'ultimo corso d'acqua, il confine risale fino alla linea del crinale e la segue dall'Alpe di San Benedetto al M. Falterona e all'Alpe di Serra. È questa la parte inclusa di recente e rimasta fuori dalla Romagna per tanto tempo, mentre indubbiamente ha caratteri più vicini alla Romagna che alla Toscana. Dal M. Fumaiolo il confine volge a N. dividendo la Romagna dal Montefeltro e dalla Repubblica di San Marino: questa, Romagna schietta, quello con qualche elemento romagnolo, mescolato a elementi marchigiani. Anche qui la linea di confine è assai irregolare. A sinistra del Foglia il confine, presa una direzione verso N., va a finire all'Adriatico: il Tavollo divide la Romagna dalle Marche. Gran parte della costa dell'Emilia - dalla foce del Tavollo a quella del Reno - spetta alla Romagna. L'area della Romagna, entro i limiti ora tracciati, è di 5193 kmq., sui quali vivono 753.013 ab., cioè 145 ab. per kmq., densità uguale a quella della provincia di Forlì e di poco inferiore a quella di Ravenna, sempre superiore a quella del regno, e uguale, o solo di pochissimo inferiore dell'intera Emilia. La Romagna così definita ha forma di trapezio, con due lati paralleli, l'uno guardante il mare, l'altro contermine al Bolognese e due lati convergenti, i lati del fiume Po e della linea montuosa.

La Romagna partecipa della natura dell'Emilia: ha parti piane uniformi, ridenti colline e anche una zona montuosa di discreta altezza. La regione pianeggiante va dal mare fino al confine nordico e a quello occidentale, oltrepassa la via Emilia e si avanza alle prime alture; viene seconda la zona collinosa, che è poca nel Ravennate, abbraccia più terre nel Forlivese e ancora più nell'Imolese; ultima è la regione montuosa, quasi per intero costituita dall'ex-circondario di Rocca S. Casciano

Si può dire che la Romagna sia costituita dai fiumi che vi scorrono e che hanno finito per dare una forma a tutta la pianura che si stende oltre la via Emilia, la quale appare come la vera separatrice del colle dal piano. E a questa grande arteria giungono i varî contrafforti che diramano dalla linea del crinale: i principali, quelli che dividono le vallate maggiori, sono otto, ma altri ce ne sono minori che separano il fiume principale dagli affluenti. C'è il contrafforte che s'eleva fra la valle del Sillaro e quella del Santerno e che si divide in due, abbracciando la minore vallata del Sellustra. Benché non alto e con uno sviluppo quasi pianeggiante, non accoglie nessun centro di qualche importanza, poiché tutti i luoghi abitati sono posti sul suo fianco orientale, verso il corso del Santerno. Fra questo corso d'acqua e il Senio si snoda il contrafforte che muove dal Passo Ronchi di Berna, a 1148 m., con fianchi franosi e rotti e cime superiori ai 1000 m. Anche questo, più dell'altro, respinge da sé ogni centro, che ha finito per raccogliersi nella più comoda vallata del Senio. Il contrafforte fra Senio e Lamone, che si dirama a O. del Passo di Marradi e chiude insieme col precedente, entro una ben limitata valle, il Senio, termina, dopo avere in più d'una cima superato i 1000 m., in modeste colline che svaniscono nella pianura. Più complesso è il contrafforte fra Lamone e Montone, perché da esso partono a sinistra contrafforti minori dividenti i varî affluenti di destra del Lamone, torrenti della Valle e Tramazzo, onde tre contrafforti si notano, tutti e tre interessanti, e per le cime a cui s'innalzano e per le magnifiche colline che scendono a ventaglio nella pianura fra Faenza e Forlì. Anche non semplice è la linea di monti che divide il Montone e il Ronco, i due fiumi che verso la foce finiscono in un unico letto, poiché il Montone è separato dal Rabbi, lungo il fiume principale, da un ramo che si stacca dalla linea spartiacque fra il Passo di S. Godenzo e quello degli Orticai, mentre fra Rabbi e Ronco corrono i monti che muovendo dal M. Falco, presso il Falterona, si tengono per buon tratto ad altezza superiore ai 1000 m., per terminare nelle colline fertili e popolate dove s'innalza la Rocca delle Caminate e dove sta Meldola. Fra Ronco e Savio il contrafforte comincia dal M. Cucco; ma ben presto si divide in due rami, dei quali il più orientale accoglie il torrente Borello, separandolo dal Savio, per formare le alture, sui cui declivî stanno Sarsina e Mercato Saraceno.

Il bacino del Savio, nella parte alta, è adiacente a quelli del Ronco, dell'Arno, del Tevere e della Marecchia, perciò il suo contrafforte con la Marecchia, ristretto da principio, si allarga. Anzi il fiume, nato dai fianchi occidentali di un contrafforte del M. Fumaiolo, fa un arco convesso a O. fino a raggiungere la strada del Passo dei Mandrioli. Le maggiori alture che diramano dal Fumaiolo s'elevano a occidente fra il Savio e il Fanante, ma la linea spartiacque fra i due bacini corre verso E. Al Monte della Perticara cessa l'adiacenza con la Marecchia e comincia quella con i tre corsi d'acqua che vantano di essere gli eredi del romano Rubicone: l'Uso, il Fiumicino e il Pisciatello, e in mezzo a essi colline amene, su cui stanno paesi agricoli, come Sogliano e Scorticata, Longiano e Roversano, Poggio Berni e Roncofreddo.

Ancora un altro contrafforte - e non dei meno interessanti - separa i due bacini assai vicini del Marecchia e del Foglia: ma questo, poiché i due fiumi nascono oltre i confini della Romagna, è nel Montefeltro. Alto dapprima, si abbassa poi per rialzarsi parecchio nel M. Carpegna, dove si scinde in due; e mentre il ramo emiliano, che è più a NE. si suddivide per accogliere i torrenti Ausa e Marano, l'altro, in parte emiliano, in parte marchigiano, si eleva, partendo dal Carpegna, tra il Conca e il Foglia prima, tra il Conca e il Tavollo poi. Alla Romagna non spettano che le minori colline, perché il confine corre irregolarmente presso la costa e la repubblica di S. Marino s'incunea nella Romagna. S. Giovanni in Marignano, Morciano, Saludecio e Montefiorito, sono i paesi che sorgono fra il Tavollo e il Conca; Montescudo e Coriano, fra il Conca e il Marano; Verucchio, fra il Marano e il Marecchia: tutti su colline e davanti al mare.

Il resto della Romagna che sta a N. della via Emilia, tranne brevi colline che le s'innalzano fiancheggiandola, a settentrione, è pianura uguale, scendente verso il basso corso del Reno e verso il mare. Questa pianura è tutta solcata da torrenti che, mano mano si procede verso il mare, sono incurvati in guisa da formare un arco concavo a oriente. Caratteristici poi sono questi corsi d'acqua, poiché di essi alcuni costituiscono, nel loro corso inferiore, un portocanale atto a ricevere le modeste imbarcazioni pescherecce, altri hanno l'ultima parte o canalizzata o sfociante le acque soverchie in casse di colmata. Frequenti poi sono i canali, in gran parte irrigatorî: qualcuno, come il canale Corsini, serve alla navigazione e al commercio.

Il Tavollo, che fa per un po' da confine, sfocia in mare nell'ancoraggio di Cattolica; il Conca, spesso ampio e ghiaioso, va al mare fra Cattolica e Riccione; il torrente Maranello, o Melo, il portocanale di Riccione, e il torrente Marano, hanno foci vicine, e quest'ultimo fa in parte da confine alla repubblica di S. Marino. Di tutti più importante è il Marecchia, che incomincia la serie dei corsi d'acqua arcuati; ha ampio bacino, ma limitati deflussi estivi, tanto che se non fossero alcune polle d'acqua che verso la foce dànno tributo continuo, rimarrebbe nell'ultima parte quasi asciutto. Seguono, l'Uso che ha foce vicino a Bellaria, a N. di Rimini, il Pisciatello o Rubicone Cesenate, che rasenta Savignano, e il Pisciatello, affluente di quest'ultimo, i quali subiscono molte trasformazioni idrografiche, cosi che gli antichi caratteri sono cancellati, e hanno poveri deflussi estivi, onde la loro scarsa utilizzazione e per l'industria e per l'agricoltura, mentre le piene, per piogge, sono veramente notevoli, sebbene i due bacini siano di modesta superficie e modesta sia la lunghezza degli alvei. Di recente fu posto fine alla dibattuta questione intorno all'identificazione di uno di essi col Rubicone, l'antico confine tra la Gallia Cisalpina e l'Italia, dal quale Cesare, passando dalla sponda sinistra alla destra, dichiarò guerra a Roma; e fu scelto il Fiumicino. Così sono cessate le dispute secolari fra borgo e borgo, tutti ambiziosi dell'onore di essere stati per primi attraversati dal grande romano, quasi che non spettasse tale onore a Rimini, che forse per prima udì le parole cesariane d'incitamento ai soldati.

Il Savio è uno dei più bei fiumi di Romagna, e "bagna il fianco" a Cesena per poi scorrere nella pianura, pure esso arcuato. Nato, come il Marecchia, dal gruppo del Fumaiolo, discretamente lungo e con ampio bacino, è corso d'acqua con regime abbastanza regolare, poiché per nove mesi ha quasi ricchezza di deflussi e solo per tre - non sempre - ha forti magre, e se non può alimentare industrie che non comportino qualche riduzione o anche sospensione nei mesi estivi, è adatto a irrigare campi, perché le magre coincidono con i periodi in cui l'irrigazione è meno necessaria.

Varî canali si staccano da esso, la maggior parte a monte di Cesena; ma tutti sono a uso industriale, sì che il regime del Savio ne è poco turbato: principale è quello del Molino di Cento. Anche le saline di Cervia utilizzano acque derivate dal fiume, che si scarica nel mare attraverso l'estremo lembo meridionale della pineta di Ravenna.

Tra Forlimpopoli e Cesena, attraversa la via Emilia il Bevano, corso d'acqua che nasce dalle colline di Bertinoro e scorre quasi tutto in pianura, mettendo foce nel Fosso Ghiaia, con cui altri canali comunicano, legando così e il Savio e i Fiumi Uniti, i quali rappresentano la somma di tre grossi torrenti, il Montone, il Rabbi e il Ronco. È uno dei primi affluenti del Montone quel fosso di Acqua Cheta che ci richiama alla mente la cascata descritta da Dante e il ritiro di S. Benedetto dell'Alpe; e il maggiore tributario, più grande del Montone stesso, è il Rabbi, il quale nasce dal M. Falco, alle cui falde ha principio anche il Ronco, così che tale monte si può considerare come "il vertice del bacino dei Fiumi Uniti" L'unico alveo che ne raccoglie le acque e le porta, mescolate, per 9,25 km., ai mare è del 1736, e fu scavato per liberare Ravenna dalle inondazioni che giungevano fino alle sue mura e si scaricavano nella fossa, ora detta canale dei Molini. Quest'ultima trasformazione idrografica, operata dall'uomo, è ben poca cosa rispetto alle molte vicende attraversate da questi fiumi nel corso inferiore, quando sfociavano entro un'ampia laguna - avanzo del profondo golfo padano - e anche nel corso medio, ché il Montone, nelle vicinanze di Forlì, spostò il suo corso verso occidente, andando a invadere il letto dell'ultimo tronco del torrente Cosina. Frequenti canali si staccano dai tre fiumi, a vario uso, irrigatorio e industriale: così il canale di Schiavonia muove dal Montone un po' a valle di Terra del Sole, produce forza motrice e poi torna nel fiume ond'è venuto. Dal Rabbi si stacca il canale di Ravaldino, che attraversa la città di Forlì, in parte scoperto, in parte in fogna, e va a scaricarsi nel Ronco, a Coccolía; e dal Ronco ha origine il canale di Meldola, detto poi dei Molini, che ne restituisce tutto il deflusso, e parte pure l'altro degli Argini o dei Molini, che nulla ridà, perché per mezzo di altri fossi e scoli versa tutte le acque nel torrente Bevano.

Mano mano che si procede verso occidente, più risentito è l'arco che devono fare i fiumi partenti dall'Appennino e sfocianti isolatamente al mare, e il Lamone è l'ultimo, ché gli altri più occidentali continuano a versarsi nel Reno. Le vicende a cui il tempo ha sottoposto le acque del Lamone o Amone, sono numerose: basti dire che nell'evo moderno hanno avuto sei sistemazioni diverse e che, quasi tormentate da un destino irrequieto, non si sono ancora messe sulla via definitiva. Affluente prima del Po di Primaro (e tornato in seguito, per breve tempo, a esso), rivolto poi nelle valli di Savarna e di Sant'Egidio che, "spagliando" aveva il compito di colmare, portato da ultimo al mare per un alveo, non ha ancora perseguito l'opera sua, né l'uomo ha ultimato quello che doveva; onde qui continua il lavoro di bonifica e di drizzamento delle acque. Suo affluente è il Marzeno, e suo canale importante è il naviglio Zanelli, agricolo-industriale, che termina nel Po di Primaro, dopo avere attraversato tutta la pianura romagnola. Il Senio, il Santerno e il Sillaro sono i tre fiumi romagnoli più occidentali: tutti e tre vanno a finire nel Reno canalizzato, con la successione indicata, da oriente a occidente. Il primo ha scarsità di tributarî, fossatelli di modeste acque: solo il Sintria, che è il maggiore, contribuisce assai nei momenti di piena: da esso deriva il canale di Lugo o di Fusignano, che ne porta via le acque per avviarle al Reno.

Il Santerno, che nasce dal crinale dell'Appennino e ha nel Rovigo il suo più poderoso tributario, perde quasi tutte le sue acque nel canale dei Molini di Imola, che direttamente va al Reno, correndo alla sinistra del torrente e scaricandosi a Bastia. Del pari il Sillaro ha scarsità di acque, ché solo il torrente di Piancaldoli, ricco di sorgenti, gli dà un discreto tributo, e del pari un canale, quello di Medicina, gli sottrae, in tempo dì magra, il suo deflusso modesto, restituendoglielo presso lo sbocco nel Reno.

Fu detto che spetta alla Romagna il basso corso del Reno: ad essa appartiene la sponda destra, dalle foci del Sillaro al mare. E in questo tratto fu detto che si scaricano i tre torrenti Sillaro, Santerno e Senio: aggiungiamo che varî canali vi giungono, come quelli di Bonacquisto o di Conselice, un po' prima delle foci del Santerno, quelli di Fusignano e di Vela, un po' prima della Madonna del Bosco; il canale Naviglio, derivato dal Lamone presso Faenza, e lo scolo Pignatta. Antico tributario del Po, il Reno è uno dei fiumi che ha avuto più numerose e larghe modificazioni nel corso inferiore. Prima dell'epoca storica, avendo con i suoi materiali ostruito gli sbocchi nel Po, spandeva le sue acque nelle campagne basse della valle padana, inondandole da Bologna a Ferrara: allora solo un canale - che nei primi anni del Trecento fu ostruito - gli pemmetteva la comunicazione col Po. Di poi tutta la sua vita e legata alla ricerca di uno sbocco meno dannoso per le campagne vicine: il ritorno diretto al Po fu tentato ancora, ma il fiume fu poi ricondotto a versarsi nelle valli di San Martino, nel Ferrarese, e da ultimo in un ramo, il solo dei due rimasto vivo, nei quali si divideva il Po di Ferrara, e ciò continua da verso la metà del Settecento.

Raddrizzamenti di parte del Po di Primaro, escavazioni di alvei, come il cavo Benedettino, hanno posto termine alle variazioni del basso Reno, contro il quale finisce sulla sponda destra, verso nord, la Romagna. Tutto lo spazio che comprende la via Emilia, il corso del Sillaro, dalla via Emilia al Reno, la linea del Reno, dallo sfocio del Sillaro al mare, la spiaggia dell'Adriatico, fra le foci del Reno e quelle della Marecchia - solcato da canali, da cavi, da scoli, da fosse che allacciano i varî corsi d'acqua e s'intrecciano in mille direzioni - è piano, uguale e va lentamente scendendo al mare e al Reno. Lungo il mare, tagliata dalle foci dei fiumi e con frequenti "pialasse", specialmente a nord, è una terra che l'uomo sta a poco a poco trasformando per soggiorno estivo, con villini e alberghi.

Esclusi pochi centri urbani lungo la via Bologna-Ravenna, come Massa Lombarda, Lugo, Bagnacavallo e Russi, Fusignano e Alfonsine a N. della strada medesima, e di Ravenna, tutta la forza cittadina si raccoglie lungo la via Emilia: Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Rimini, sorgono su di essa.

Forlì è fra le provincie dell'Emilia quella che nel 1932 aveva più larga area data al frumento, e Ravenna, assai più piccola, veniva seconda: questa con oltre 69 mila ettari, quella con 86 mila. Così per i vini, nel 1931, Ravenna veniva dopo Modena, che è più vasta, con 767 mila ettolitri, e Forlì occupava il quarto posto con 587 mila ettolitri: e le cifre dell'anno precedente dànno un indice anche maggiore. Del pari notevole è la produzione delle barbabietole da zucchero: Ravenna, nel 1931, era seconda e veniva dopo Ferrara che, con Rovigo, produce quasi la metà di tutte le barbabietole che si coltivano in Italia: Forlì era assai al di sotto, ma con cifra tuttavia rilevante. Posto di prim'ordine occupano le due provincie nella coltivazione degli alberi da frutta.

La Romagna non manca d'industrie, poiché Faenza, Forlì, Cesena e Ravenna, alimentano opifici che lavorano prodotti del luogo e hanno industrie di nobilissima tradizione. La provincia di Forlì, oltre a una fonte clorurato-sodica a Riccione, ne ha undici di acque minerali nel comune di Bertinoro, alcune delle quali, come quelle della Fratta, di Panighina e del Rio Salso, di buona rinomanza; ha miniere di zolfo a Cesena e Mercato Saraceno, e saline che contano quasi un millennio di vita a Cervia, lunghe 6 km. e larghe da 1 a 2 km., dalle quali si estraggono oltre centomila quintali di sale. Inoltre, nei comuni di Borghi, Bertinoro, Cesena e Civitella, esistono cave di gesso e di alberese e d'una qualità di pietra da calce, detta spungone; nel capoluogo e a Cesena zuccherifici, e a Faenza (che ha fama per i suoi lavori di ebanisteria) l'antica industria delle maioliche, che risale al sec. XVI, alla quale la città dedica le sue migliori energie, poiché vi esistono un museo che raccoglie ottimi pezzi e una regia scuola che prepara operai e capifabbrica. Sempre nel capoluogo, che pure ha fornaci e una fabbrica di maioliche, si producono polveri piriche e prosperano delle filande, mentre a Riccione si trovano industrie di pomodoro e Rimini ha un'officina ferroviaria.

La provincia di Ravenna ha due luoghi ricchi di acque minerali, Brisighella e Riolo, questo più famoso e frequentato del primo; ha zuccherifici a Mezzano, Classe e Massalombarda, e nel capoluogo fabbriche di calce, cemento e laterizî, una fonderia di ghisa, uno stabilimento di concimi chimici e un iutificio, mentre Massalombarda, gran produttrice di frutta, lavora marmellate.

Con tutto questo, le cifre della potenza industriale, che pure rappresentano un aumento su quelle del 1910, sono modeste: Forlì ha un numero assai esiguo di esercizî: soltanto 6288 con 25.151 operai, subito preceduta da Ravenna che conta 6734 esercizî, ma con soli 21.144 operai.

Il commercio, che nasce dall'agricoltura e dall'industria, è attivo e si svolge negli affollati mercati delle città, per le molte vie che solcano la Romagna, piane e montuose, per le ferrovie e per i porti scaglionati dalla foce del Tavollo a quella del Reno. La principale arteria è la via Emilia: la Romea, lungo l'Adriatico, antica e famosa, sarà ripristinata per intero, fino a Venezia. Nella pianura due ottime strade congiungono Ravenna a Ferrara e a Bologna, mentre strade raccordate longitudinalmente a queste conducono alla via Emilia. Così da Ravenna si giunge a Forlì, Russi è unita direttamente a Faenza, Lugo a Castel Bolognese, e Massalombarda a Imola. Famose sono pure le strade che dalla via Emilia, risalendo il corso dei fiumi romagnoli, giungono fino ai valichi appenninici per scendere nell'Umbria o in Toscana. Così la strada del Marecchia che porta al Montefeltro e quindi a Borgo San Sepolcro: quella che movendo da Cesena, segue la vallata del Savio e a San Pietro in Bagno s'unisce con l'altra che da Forlì, per Meldola, Civitella e Galeata, arriva a S. Sofia: il Passo dei Mandrioli è il punto più alto, donde poi si scende a Bibbiena. A Galeata la raggiunge un raccordo che porta a Rocca S. Casciano, sull'altra strada del Montone che comincia un po' a O. di Forlì, e giunge al Passo di S. Godenzo e poi, per Dicomano, divisa in due rami, a Pontassieve e a S. Lorenzo. A Portico sbocca in questa la minore arteria Faenza-Modigliana-Tredozio, che segue le valli del Tramazzo e del Marzeno. Infine, da Faenza e da Imola, salgono per il Lamone e il Santerno le due strade che, per Colla di Casaglia e per il Giogo, arrivano a Borgo San Lorenzo e a San Piero a Sieve.

Le ferrovie sono tracciate con la stessa logica delle strade ordinarie: quindi abbiamo la ferrovia Rimini-Bologna, la Rimini-Ravenna-Ferrara, allacciate dalle minori Ravenna-Russi-Faenza, Russi-Massalombarda- Bologna, Lugo-Castel Bolognese. Inoltre la regione è servita dalla Faenza-Firenze. Tutte queste linee, oltre avere un valore interregionale, mirano a raccogliere tutte le energie intorno all'antica capitale della Romagna, Ravenna, e al suo antichissimo porto. Ma se Ravenna riunisce quasi tutte le linee in sé, anche il porto, più modesto, di Rimini ha cercato, con la breve ferrovia di San Marino e con l'altra, pure breve, di Mercatino Marecchia, di spingere il suo retroterra fino alla vicina repubblica.

Bibl.: Cardinal Anglico, Descrizione intiera della Provincia di Romagna, in M. Fantuzzi, Monumenti ravennati dei secoli di mezzo, Venezia 1801 segg., volumi V e VI; A. Vesi, Dissertazione sui veri confini della Romagna; G. Pasolini Zanelli, Gite in Romagna, Firenze 1880; E. Rosetti, Emilia e Romagna, in Boll. Soc. geogr. italiana, 1889; id., La Romagna, Milano 1894; G. B. Comelli, Dei confini naturali e politici della Romagna, in Atti e Memorie della R. Deputaz. di storia patria per le Romagne, 1908; F. Vöchting, Die Romagna, Karlsruhe 1927; A. R. Toniolo, Le grandi bonifiche del Ravennate e del Ferrarese, in L'Universo, 1927, pp. 143-193; V. Cian, L'ora della Romagna, Bologna 1928.

Folklore.

La popolazione delle campagne si conserva abbastanza fedele alle antiche costumanze. Così il contadino è ancora orgoglioso del suo plaustro ornato a fiorami e a rabeschi sgargianti, con le effigie protettrici di S. Antonio, di S. Giorgio e della Madonna del Fuoco; delle tipiche coperte per i buoi, di tela greggia a fregi color ruggine, talvolta tenute ferme da cavallette di legno dipinte a vivaci colori; e, verso l'estremità del timone, a impedire la discesa del giogo, inalbera la sonante caveja dagli anell (v. caveja). Alle corna dei buoi, specie se vengono condotti al mercato, si avvolgono grossi cordoni di lana rossa che ricadono ai fianchi.

Avanzo di tradizioni pagane sono i fuochi (fugarén) che si accendono per i campi all'imbrunire, specialmente in principio di marzo, mese considerato infausto all'agricoltura, ma anche la sera del 4 febbraio per la festa della Madonna del Fuoco, venerata a Forlì. La sera dell'Epifania, comitive di giovani fanno il giro delle case coloniche per cantare la Pasquela e ricevere doni. Il giovedì di mezza Quaresima si festeggia la Segavecchia, con particolare solennità a Forlimpopoli. Il sabato santo, quando si slegano le campane, i devoti corrono ai primi rintocchi a bagnarsi gli occhi per preservarli da ogni male; e così la mattina di San Giovanni (24 giugno), con acqua in cui siano rimasti immersi durante la notte fiori ed erbe aromatiche. La majè, maggiolata, conserva dell'antico "piantar majo" la fronda di betulla posta ora sui veroni a presunta protezione delle case contro le formiche. A Cervia, il giorno dell'Ascensione, ha luogo lo sposalizio del mare, cerimonia analoga a quella veneziana; ivi, per la festa di San Lorenzo (10 agosto) accorre gente da ogni parte della Romagna per fare il bagno, che si ritiene valga per sette e preservi da una malattia.

La sfogliatura del granturco, la trebbiatura del frumento e specialmente la "gramolatura" della canapa sono ancora occasioni di festosi convegni e di vicende sentimentali: si cantano le vecchie canzoni popolari, rimesse in auge dai Canterini romagnoli (v.), si svolgono le singolari pratiche della galanteria rusticana, di cui fanno parte anche manifestazioni di spregio, usate però sempre più raramente, come la bidunèda, che è una clamorosa serenata a suon di bidoni di petrolio, e la fasulera che consiste nel cospargere di fagioli e di chicchi di mais o di ghiande il terreno davanti a una casa.

Si crede che indossando una camicia nuova a Natale si risparmî una malattia; che mangiando uva fresea la mattina di Capodanno si abbia danaro per tutto l'anno; che la cenere del ceppo natalizio scongiuri la grandine d'estate; che il versare ai piedi di una vite un po' del vino avanzato dal pranzo di Natale assicuri un copioso raccolto. Nel pranzo natalizio non mancano mai i cappelletti. La minestra pasquale è invece la tardura, affine alla "panata" dei Toscani. Altre minestre tipiche sono i passatelli (passadèn) di pane grattugiato, formaggio e uova, i mafrìgul (minuzzoli fini di pasta cotti nel brodo) e le parpadelle (larghe fettucce all'uovo condite con le rigaglie di pollo); specialità del litorale adriatico è il brodetto (zuppa di pesce). Assurta ad altezza di simbolo e cantata dai poeti locali, dal Pascoli allo Spallicci, è la piè, specie di schiacciata senza lievito, che si cuoce in un testo d'argilla (teggia) e viene consumata in sostituzione del pane. Dolci tipici del carnevale sono le castagnole, intrise di farina, latte, uova, zucchero, liquore, che vengono fritte, come le ciàcar ("chiacchiere"), la piadina freta, lo zamblon, grande ciambella cotta al forno.

Per quel che riguarda il costume, è ancora diffusissima per gli uomini la capparella, mantello a due facce, con l'interno prevalentemente scozzese. In testa molti contadini portano ancora la galozza, cupola di feltro grigio o marrone, con risvolto. Per i lavori dei campi usano vestiti di casalinga mezza lana (ordito di canapa e battuto di lana, prevalentemente del color ruggine detto cosacco) o di rigatino (ordito e battuto di canapa, di color turchiniccio). Nelle montagne prevale la giacca alla cacciatora di bisetto, fatta in casa. I carrettieri hanno una sciarpa rossa alla cintola.

Le donne portano ancora il barnús, corpetto sovrapposto alla gonna, la quale è di colore scuro a righe o a disegni, spesso con gala arricciata in fondo. Sotto il corpetto è il busto di cotone a righe e la camicia arricciata al collo. Alla cintola è legato il grembiule di rigatino con due tasche sovrapposte. In testa, un fazzoletto a tinte vivaci (nel Ravennate, prevalentemente nero) annodato sotto il collo e dietro la nuca. Ai piedi le pianelle (nel Ravennate suvreti, per la suola di sughero).

Una preziosa raccolta di suppellettile folklorica è nel Museo etnografico romagnolo di Forlì.

Bibl.: Molte notizie sono nei periodici locali: Il plaustro (Forlì 1911 segg.); La Piê (ivi 1920 segg.); La Romagna (1904-1928). Inoltre: M. Placucci, Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, Palermo 1885; G. G. Bagli, Saggi di studi sui proverbi, i pregiudizi e la poesia popolare in Romagna, in Atti e Mem. Stor. Patr. Prov. Romagna, s. 3ª, III, IV, 1885; s. 3ª, IV, 1886; G. Mengozzi, La Cerere della Romagna-Toscana, Rocca S. Casciano 1888; E. Lovarini, Canti popolari cesenati, Cesena 1895; R. Rimbocchi, La Romagna nell'opera di G. Pascoli, in La Romagna, XI (1915); B. Pratella, Saggio di gridi, cori e danze del popolo italiano, Bologna 1919; id., Poesie, narrazioni e tradizioni popolari in Romagna, Forlì 1922; A. Grilli, in Aspetti del passato, ivi 1920; G. Nardi, Proverbi, frasi e modi proverbiali del Ravennate, Imola 1922; T. Nediani, Vecchia e nuova Romagna, Pistoia 1914; id., in La collana senza filo, Milano 1920; M Spallicci, La poesia popolare romagnola, Forlì 1921; A.Spallicci, Tele stampate romagnole, in La Piê, X (1929); id., Arti decorative in Romagna, in Arte e decorazione, aprile 1928; id., Mangiari di Romagna, in Ospitalità italiana, agosto 1931; A. Bandini Buti, La caveja dagli aneli, in Le Vie d'Italia, marzo 1929; id., La cantarèna, in La Lettura, ottobre 1934; N. Massaroli, Paganesimo ed umanesimo nella letter. popol. romagn., Varese 1922; id., Antiche rappresentazioni sacre in Romagna, e altri studî in La Piê, luglio 1920, aprile 1921, novembre-dicembre 1921; P. Poletti, Vecchia Ravenna, Ravenna 1924; L. De Nardis (Livio Carloni), Raccolta di tradizioni popolari, in La Piê, dal gennaio 1924 all'aprile 1932; C. Piancastelli, Nuovi accenni a superstizioni e pregiudizi in Romagna nel sec. XVIII, Bologna 1931 (nozze Allocatelli-Vidau); id., Saggio di una bibliografia delle tradizioni popolari della Romagna, I, ivi 1933 (nozze Campana-Fabi); E. Cavazzuti, Amori e nozze dei contadini romagnoli, in Lares, 1932; E. Calderini, Il costume popolare in Italia, Milano 1934. V. inoltre la bibliografia di: Letteratura dialettale, e di: Musica popolare.

Letteratura dialettale.

Antonio Morri, autore del migliore Vocabolario romagnolo-italiano (Faenza 1840), nella prefazione all'opera sua, dichiarava di non sapere che si fosse mai pubblicata una sola riga in dialetto romagnolo, il che fa uno strano contrasto con la ricchezza di produzioni antiche del vicino dialetto bolognese (cfr. VII, p. 346). Pure il Morri s'ingannava, e qualche documento dialettale romagnolo antico esiste; a prescindere dagli elementi dialettali sparsi nelle cronache forlivesi di Leone Cobelli (1440-1500) e di Andrea Bernardi detto Novacula (1450-1522), che non hanno carattere letterario e poco giovano anche come documenti linguistici, già sullo scorcio del Quattrocento o nei primissîmi anni del Cinquecento troviamo una Commedia Nuova di un ignoto Pier Francesco da Faenza, stampata a Firenze senza anno, in cui un personaggio che rappresenta "un vilano" parla in dialetto romagnolo e più precisamente faentino. Il più importante documento della letteratura dialettale romagnola antica è però un poema eroico originariamente in dodici canti, ma di cui restano solo tre canti e 34 strofe del quarto, di autore anonimo, in dialetto cesenate, intitolato Pulon Matt, il cui manoscritto é conservato nella Biblioteca Malatestiana di Cesena. Tanto questo poema (che risente molto l'influsso dell'Ariosto), quanto la commedia faentina furono pubblicati da G. Bagli (Bologna 1887), ma in modo assai imperfetto. Al principio del Cinquecento risalgono alcuni sonetti ravennatî di Bernardino Catti, pubblicati a Venezia nel 1502, nel volume Lydii Catti Carmina et Eglogae. Alla prima metà del sec. XVII appartiene una composizione ravennate Batistonata, o frottole, dove si scuoprono le furbarie delle contadine, fanciulli, villani, cittadini, gentiluomini, mercanti, procuratori, dottori, ecc., composta e recitata in tempo di Carnovale da Lodouico Gabbusio da Ravenna, in 851 versi con un'aggiunta di Proverbii Ravegnani tradotti in buona lingua toscana, che è una specie di glossario; la composizione è conservata fra i manoscritti della Biblioteca Nazionale di Firenze (Magl. cl. VII, n, 174); il glossario fu pubblicato da A. Aruch in Arch. Glott. Ital., XVIII, pp. 533-41. Al principio del sec. XVIII risalgono tre sonetti di Giandomenico Michilesi (1647-1734) e alla fine (1799) quattro sonetti di Iacopo Landoni (1772-1835), tutti in dialetto ravennate. Nel 1840 si pubblicò a Faenza il citato Vocabolario del Morri, grosso volume che fu il primo e il più sicuro mezzo di far conoscere il dialetto romagnolo (cfr. la recensione contemporanea nel Propugnatore, VI, pp. 325-336). Basandosi solo sui materiali del Morri, A. Mussafia pubblicó nel 1871 la sua celebre Darstellung der romagnolischen Mundart che l'Ascoli (Archivio Glott. It., II, p. 400) definì "la prima analisi compiuta che di un dialetto italiano la scienza possa vantare". Sempre nel 1840, si pubblicava a Lugo una Scelta di poesie italiane e romagnole di don Pietro Santoni Fusignanese, raccolte da Giacinto Calgarini, di cui una cinquantina di pagine comprendono componimenti poetici fusignanesi. Il fodivese Giuseppe Acquisti pubblicò a Forlì mel 1844, con le sole iniziali A. G. una raccolta di Poesie forlivesi. Altri componimenti poetici inediti dell'Acquisti, del Santoni e di Domenico Ghinassi di Lugo furono riprodotti come saggio dei dialetti romagnoli, da B. Biondelli, nel suo Saggio sui dialetti gallo-italici (Milano 1853, pp. 364-378). Fra i varî autori dialettali moderni, ricorderemo: per Faenza, G. Cantagalli (Cinquanta sonetti in dialetto faentino, Faenza 1908; Nuovi cinquanta sonetti in dialetto faentino, ivi 1912); per Forlì, Aldo Spallicci, poeta molto produttivo, di cui ricorderemo: I Campiun d' Furlè (Forlì 1910), La cavéja dagli anèl (Genova 1912), La zarladora (Forlì 1918), La bioiga (ivi 1919), Rumagna (s. a.), Fior d'adecc (Forlì 1930); per Ravenna, E. Guberti (Casa Miccheri, due atti comici in dialetto ravennate, Ravenna 1911; Al tatar, ivi 1922).

La raccolta della letteratura popolare s'inizia nel 1818 col noto volume di M. Placucci, Usi e pregiudizj de' contadini della Romagna, ristampato da G. Pitré, in Arch. trad. pop., III (1884) e IV (1885). Seguirono poi: G. Bellucci (Breve saggio di canti popolari romagnoli, in La gioventù, II, 1863, Saggi di canti popolari romagnoli raccolti nell'Agro Cervese, in Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, XII, 1893, p. 406 segg.); G. Bagli con numerose pubblicazioni (Saggio di studi sui proverbi, i pregiudizi e la poesia popolare di Romagna, Bologna 1886; Saggio di novelle e fiabe in dialetto romagnolo, ivi 1887; Amor materno nel dialetto romagnolo, ivi 1896); O. Guerrini (autore anche di alcuni Sonetti romagnoli, ivi 1920) c0n Alcuni canti popolari romagnoli (ivi 1880; per nozze Carducci Ghaccarini); T. Randi, con un Saggio di canti popolari romagnoli raccolti nel territorio di Cotignola (ivi 1891); B. Pergoli, con un Saggio ai canti popolari romagnoli (Forlì 1893); E. Lovarini, che pubblicò Canti popolan cesenati (Padova 1903); Cfr. inoltre: M. Spallicci, La poesia popolare romagnola (Forlì 1921); B. Pratella, Poesie, narrazioni e tradizioni popolari in Romagna (ivi s. a.); G. Nardi, Proverbi, frasi e modi proverbiali del Ravennate (Imola 1922), e altri.

Alla rinascita dello studio delle tradizioni popolari romagnole ha molto giovato la rivista La Piê, rassegna mensile d'illustrazione romagnola, diretta da A. Spallicci.

Bibl.: S. Muratori, Da Bernardino Catti a Giandomenico Michilesi (Per la storia della poesia popolare romagnola dal sec. XV al XVIII) in La Romagna, VII (1910), fasc. 3-4; F. Schürr, Romagnolische Dialektstudien, I, Lautlehre alter Texte, in Sitzb. d. Akad. Wiss. (Philol.-Hist. Kl.), Vienna 1918, pp. 1-14.

Musica popolare.

Lo sviluppo e il progresso della vita moderna non hanno spento le caratteristiche tradizioni musicali del popolo romagnolo. Primitività, in genuità, schiettezza, impeto, passione di parte si placano e si fondono, generalmente - e non soltanto nell'arte rustica e popolare - in un'espressione mite di canto.

Gli strambotti e i rispetti vengono intonati a voce alta e si dicono cante o canti alla stesa. Le urazion si cantano nelle veglie d'inverno anche in coro. Il trescone, e' triscöun, canzone a ballo, è cantato e danzato. Si ballano ancora le danze cantate sul ritmo della tarantella: i bergamesch. La sfogliatura del granturco e la gramolatura della canapa vengono accompagnate da canzoni e stornelli, anche satirici, con botta e risposta. L'uso del cantare la maggiolata, ben vegna maz..., è, purtroppo, quasi scomparso. La donna lombarda, canto epico-lirico che rimonta probabilmente al Quattrocento, appartenente alla poesia narrativa, che si trova in diverse regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia, ecc.), e con diverse stesure anche nella stessa Romagna (Forlì, Lugo), è specialmente efficace nella versione di Forlì (v. italia, XIX, p. 969). Fra innesti e contaminazioni, il lungo cammino della canzone popolare trova anche qui la sua forma non discontinua, rinnovandosi, spontanea e incosciente, sia pure in minima parte, si potrebbe dire con l'inclusione dell'ambiente, nel tono cioè e nella risonanza della regione ove trasmigra. Il vocalizzo di talune canzoni romagnole, alternando la semplice linea melodica, colorisce il canto - come si può vedere, p. es., in Mariulin e nel canto alla stesa, in italiano, Mi voglio fare un vestito e tutto nero, raccolto da F. B. Pratella e anche da G. Fara, del quale J. Tiersot riporta un esempio trascrivendolo senza stanghette di misura - e reca insieme un valore espressivo, un senso musicale, oltre che una varietà nell'unità da un capo all'altro della melodia, e un rapporto giubilatorio derivato probabilmente dagli Alleluia gregoriani.

Il canto di culla Fa la nanna bambin quasi danza, in maggiore, assai grazioso, in cui si avverte nell'insieme una forma circolare, contiene più specificamente quattro incisi codali a guisa di filastrocca, ma col carattere di nenia e di riposo tipico del genere:

Sono da ricordare curiose ninne-nanne, che dal motivo di queste prendon pretesto per storie di appuntamenti e altro, come, p. es., quella di Predappio, la cui musica appare alquanto generica, o per lo meno non indigena, e comune ad altri tipi di altre regioni, pur essendo suadente e cantabile. Si tratta di un falso segnale, di una canna fatta cadere dal vento: È stato il vento ch' l'ha butê zo la cana, - Mimena fa la nana, che e' bab u vo' durmì. L'amante comprende: Ho inteso, bela, quello che vuoi dire - A vegn ed mana sera, se e bech u vo durmire.

L'Anello attacca come improvvisando, e il coro risponde alla voce sola con un ritmo di danza spazioso:

Lo stornello Fior di bombace, in minore, svolgentesi fra tensione e riposo, con una blanda cadenza femminile, ha un'espressione intensamente malinconica:

E la cenciaiola canta nelle vie di Lugo, facendo un arpeggio che pare uno squillo e che probabilmente è stato preso dalla tromba:

L'accompagnamento delle melodie, con l'organetto, il violino, la chitarra, qui come nelle altre regioni d'Italia, appare in genere relativamente moderno (terze ed altri intervalli consonanti, arpeggi, ripetizione di accordi, forme di danza ottocentesche, qualche risposta) e non è che la conseguenza, come avverte J. Tiersot, della pratica proveniente dalla musica scritta "avec laquelle le peuple italien est familier plus que celui d'aucun autre pays".

Il popolo romagnolo sente la sua vita piena nel lavoro, specialmente dei campi: la campagna con le spalliere dei colli ammantati di verde le strade interminabili tra siepi vive - e nella bassa Romagna senza visione laterale, con gli argini dei fiumi, i filari sempre uniformi - i campi ricchi di olmi e coloritissimi con le viti a festone, le zone di bonifica dall'aspetto un po' monotono, le città tranquille in cui si sente il buon odore della terra, perché la vita loro è essenzialmente un portato dell'agricoltura; intonano la gente di Romagna all'ambiente naturale della regione. A sera, lungo gli stradali, risuonano talora i eanti delle risaiole che tornano dal lavoro. Le canzoni di questo popolo sono dunque ariose, illuminate, spesso brucianti anche per il modo di canto, ma, nel tempo stesso, gentili: onde il verso del Pascoli Romagna solatìa, dolce paese, trova rispondenza anche nella musica popolare.

Le città hanno una stagione d'opera allestita talvolta con tale impegno da stare al confronto di centri più importanti. Gli abitanti di Cesena, p. es., sono conosciuti per le loro doti di "orecchianti" e per la turbolenta, ma giustificata esigenza verso gli artisti lirici. Anche la gente di campagna accorre numerosa agli spettacoli.

Nel 1920 venne fondata l'Istituzione dei Canterini Romagnoli da F. B. Pratella, C. Martuzzi, A. Beltramelli, A. Spallicci, allo scopo di diffondere la canzone popolare.

Bibl.: B. Pergoli, Saggi di canti popolari romagnoli, con appendice musicale di Pedrelli, Forlì 1894; E. Levi, Fiorita di canti tardizionali del popolo italiano, Firenze 1895; F. B. Pratella, Saggio di gridi, cori e danze del popolo italiano, Bologna 1919; G. Fara, L'anima musicale d'Italia, con esempî musicali, Roma 1921; F. B. Pratella, Il canzoniere dei canterini romagnoli (Poesia e musica), Lugo 1923; G. Cocchiara, L'anima del popolo italiano, con musiche raccolte da F. B. Pratella, Milano 1929; J. Tiersot, La chanson populaire (Italie), in Encycl. de la musique, Parigi 1930; A. F. Fantucci, Ninne-nanne romagnole, con esempî musicali, in Riv. di Ferrara, III (1935); P. Toschi, Romagna solatìa, con musiche trascritte da P. Toschi, F. B. Pratella e C. Martuzzi, Milano.

Storia.

La Romagna non formò in età romana un'unità politica né amministrativa autonoma; nell'ordinamento augusteo fu inclusa nella regione VIII (Emilia) e v. quindi sotto tale voce la storia antica del paese. Nella divisione dioclezianea fece parte del distretto Ae nilia et Liguria. Occupata dai Barbari (Odoacre e Goti), riconquistata dai Bizantini fu per lungo tempo il centro del dominio bizantino in Italia (v. pentapoli; ravenna). E appunto dopo l'invasione longobarda l'Italia fu divisa in Longobardia e Romania (possessi bizantini), onde si formò il nome che poi rimase a indicare particolarmente la regione dell'Esarcato.

Con il crollo della signoria bizantina comincia per la Romagna una condizione incerta durata varî secoli, non solo per lo stato di fatto ma anche di diritto, in quanto molto dubbio è il testo esatto delle donazioni di Pipino e Carlomagno, e un esplicito riconoscimento del diritto papale non si ha che nel sec. XIII con gl'imperatori Ottone IV, Federico II, e Rodolfo I. Con quest'ultimo, dal 1278, l'esercizio dell'autorità papale è veramente legittimo, mentre per l'epoca antecedente vi sono testimonianze contraddittorie. La storia di Romagna può, sotto l'aspetto dei rapporti col suo signore, il papa, essere divisa in questi periodi: 751-1278, in cui l'esercizio effettivo della signoria è dell'imperatore; 1278-1503, in cui il diritto papale è, malgrado alcuni tentativi d' instaurazione, usurpato di fatto da comuni e signorie; 1503-1796 in cui la signoria pontificia viene esercitata a pieno; infine, superata l'epoca francese (1796-1814) abbiamo l'età fra il 1814 e il 1859, che è di quasi continua occupazione austriaca, per tenere testa alle ribellioni continuamente rinnovantisi.

Se Pipino e Carlomagno aveano appagato le aspirazioni del papato, donandogli le terre greche, è certo però che l'autorità dei re d'Italia e degl'imperatori vi si esercitò in pieno con i conti franchi, nei trattati con Venezia (che mettevano le città di Romagna nelle stesse condizioni di quelle del regno), con le diete tenute a Ravenna (Lodovico II nell'871), con le donazioni dei suoi beni demaniali, come quelle che incontriamo in diplomi di re Ugo. A San Leo, poi, che pure sarebbe fra i territorî donati, cessa l'indipendenza del regno italico con la cattura di Berengario II (962). Al contrario è dal papa che, nel 984, Tedaldo di Canossa riceve la signoria di Ferrara, che cesserà solo con Matilde nel 1115. L'autorità regia e imperiale molto si giova della rivalità verso Roma dell'arcivescovado di Ravenna, che si atteggia a vero successore dell'esarca scomparso. Nel 999 Ottone III investe la chiesa di Ravenna, oltreché del distretto di Ravenna, dei comitati di Ferrara, Imola, Comacchio e altri minori. Nel 1080, non a caso, a Bressanone viene eletto antipapa Ghiberto arcivescovo di Ravenna (Clemente III), che poteva sostenere la causa scismatica e imperiale con larghi mezzi proprî. Ma intanto il movimento comunale fa sorgere una situazione nuova, mettendo quasi fuori questione i diritti dei due pretendenti alla signoria della regione. Anche se non si può facilmente accettare che il consolato nelle varie città romagnole si avesse già nel sec. XI (e anche prima, come vogliono gli antichi storici locali), pure si può credere che nel 1116, quendo Bologna otteneva da Enrico V un indiretto riconoscimento della sua autonomia, le varie città romagnole godessero di un'organizzazione comunale più o meno ufficiale. Le sue prime manifestazioni sono, al solito, le rivalità e le guerre per assicurarsi un più vasto territorio dipendente dal centro cittadino: e l'alta Romagna, ossia Bologna e Faenza, sarà contro la bassa Romagna, ossia Forlì, sostenuta da Forlimpopoli e Ravenna, per Castel Leone. Bologna a sua volta comincerà il suo più che secolare sforzo per sottomettere Imola, per lo più associata con Faenza; mentre Ferrara, per i suoi interessi sul Po e le relazioni della famiglia che ben presto vi acquista il predominio, si mescola piuttosto alle lotte della Marca. Nella lotta con Federico I, la Romania è, con la Marchia e la Lombardia, uno dei tre gruppi della Lega comunemente detta Lombarda. In realtà, vi presero parte soprattutto Bologna e Ferrara: perché, sebbene nel 1173 apparisse fra i rettori anche un console di Rimini e aderissero negli anni di assenza dell'imperatore anche Imola, Faenza, S. Cassiano, Ravenna; pure, quando nel 1177 si addivenne in Venezia alla tregua di sei anni, troviamo dichiarati come aderenti imperiali Imola, Faenza, Ravenna, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Rimini e Castrocaro. L'invasione di Cristiano di Magonza in Romagna, neI 1176, dovette essere la causa di questo mutamento. Alla pace di Costanza, invece, solo Faenza partecipa con Bologna; mentre Imola, S. Cassiano e Ferrara, assenti, hanno facoltà di aderire entro due mesi.

Dopo Costanza vi è, da parte degl'imperatori svevi, uno sforzo di affermarsi nella Romagna, che conduce alla nomina di Marquardo di Anweiler a conte di Romagna e marchese di Ancona, da parte di Enrico VI. Ma la morte prematura di questo e la crisi dell'impero offrono finalmente al papato il mezzo di far valere le sue aspirazioni, e Innocenzo III ottiene nel 1201 da Ottone IV, da lui preferito nella lotta dinastica, non più la solita conferma generica delle terre della Chiesa, ma la determinazione esplicita di quali fossero, e fra esse troviamo nominate l'exarcatus Ravennae e Bertinoro; in uguale maniera dovette farla Federico II nel 1213 nel diploma di Egra. Tuttavia, è sempre un riconoscimento teorico, cui non corrisponde un esercizio di effettivi poteri, perché Ottone IV e poi Federico II nominano dei conti di Romagna, che intervengono a difendere Imola contro le pretese di Faenza e Bologna, e più tardi Federico nel 1231 convocherà una dieta a Ravenna senza proteste da parte del papa, come nel 1226 vi aveva raccolto contingenti militari. Scoppiato poi il dissidio fra il papa e l'imperatore, Federico occupò Ravenna e assediò Faenza. Solo con Rodolfo d'Asburgo, quando l'impero, o meglio la Germania ripugnano a una politica italiana, il papato può veramente far valere i diritti riconosciutigli. Rodolfo aveva ripetuto la conferma di Federico, pur mandando legati a ricevere giuramenti e tasse anche in Romagna, ma Innocenzo V e Niccolò III intervengono energicamente ed esigono e ottengono che questi atti siano annullati (1278) e che se ne dia notizia ai podestà e capitani di Bologna, Imola, Faenza, Forlì, Forlimpopoli, Bertinoro, Cesena, Ravenna, Rimini, Cervia, oltre a Urbino, Montefeltro, ecc.: il nuovo conte papale di Romagna, Bertoldo Orsini, il nipote stesso del papa, fa riconoscere la propria autorità e interviene nella vita delle varie città. Comincia così una nuova fase della storia della Romagna, ma il papato impiegherà tre secoli a fare di essa un dominio effettivo (Ferrara è ripresa solo nel 1598), perché, anche se la sua signoria non è in diritto negata, di fatto è esercitata da signori e comuni che non sempre pagano il censo loro prescritto. Non manca al papato la volontà di affermare il suo dominio, ed è caratteristico che le più energiche realizzazioni si ebbero finché i papi erano ad Avignone, quando la rivolta contro la loro signoria, lontana ed esercitata per lo più da Francesi, aveva quasi un carattere nazionale. Gl'interventi papali furono quelli dei tre legati Bertrando del Poggetto (1327-34), presto caduto, di Egidio Albornoz (1353-1367), più abile e moderato, e di Roberto di Ginevra dopo la rivolta del 1375, che fu caratterizzato dai massacri compiuti dai suoi mercenarî a Cesena e Faenza. Di questo periodo (1371) rimane una minuta descrizione della Romagna fatta compilare dal legato cardinale Anglico. Lo scisma d'Occidente doveva quasi subito diminuire notevolmente i risultati di queste sottomissioni, perché ritornano le signorie degli Alidosi ad Imola, dei Manfredi a Faenza, degli Ordelaffi a Forlì, dei Malatesta a Rimini, dei Da Polenta a Ravenna, mentre Ferrara è sempre degli Estensi e a Bologna comincia ad affermarsi la famiglia dei Bentivoglio, che dominò nella seconda metà del Quattrocento sino al 1506. Le tragedie delle piccole e violente dinastie romagnole sono troppo note per ricordarle. Più importante è da notare come la Romagna, non avendo trovato il suo assetto politico in un forte stato regionale, è nel Quattrocento il terreno ove s'incontrano e si combattono le ambizioni dei maggiori stati vicini, Milano, Firenze e Venezia, a cui le continue discordie locali offrono facile occasione d'intervento. I Visconti del resto avevano cominciato già a introdurvisi con Giovanni divenuto signore di Bologna (1350), e contro Bernabò aveva lottato soprattutto l'Albornoz. Firenze cerca d'impedire questa ingerenza per lei pericolosa, mentre Venezia aspira ad allargarsi sulla costa adriatica e ad avere in Romagna un territorio ricco di grani e un vivaio di buoni soldati e condottieri come nessun'altra regione italiana potrebbe darle. La fortuna degli Sforza da Cotignola non ne è che l'esempio più clamoroso. Così Venezia s'insedia nel 1440 a Ravenna e tenterà, alla caduta del Borgia, di estendersi assai più, aspirazione che le sarà fatale.

A complicare una situazione già torbida si aggiunge ultimo il nepotismo papale, che con Sisto IV insedierà il nipote Riario a Imola e Forlì (1473-1480) e nel 1499 con Cesare Borgia cercherà di creare uno stato unitario al posto delle piccole signorie. La morte di Alessandro VI (1503) fa precipitare il nuovo stato che pareva organizzato con abilità e non era sgradito, per l'ordine ristabilito, ai sudditi; e Giulio II cerca di utilizzare l'opera del Borgia per il papato, ma Venezia gli occupa Faenza, Rimini, oltre ad altre temporanee occupazioni. Il papa, ripresa nel 1506 Bologna, di fronte ai rifiuti di Venezia di restituire le due città aderisce alla Lega di Cambrai e la Repubblica, sconfitta ad Agnadello dai Francesi (1509), deve così restituire anche Ravenna. Dopo oscillazioni dovute alla guerra generale e agl'interventi francesi contro il papa (battaglia di Ravenna 1512) la Romagna diviene veramente pontificia e nel 1598 anche Ferrara viene rivendicata, all'estinzione della linea legittima degli Estensi.

La Romagna sottomessa al papato e libera dalle sue piccole corti di tiranni non trovò né tranquillità né prosperità. Anche cessato il pericolo di guerra per cui Venezia rioccupò Ravenna dal 1527 al 1529, il papato, assorbito nel sec. XVI da gravi preoccupazioni politiche e religiose, senza continuità d' indirizzo e vera forza militare, non seppe frenare le fazioni dei nobili, che si scatenarono sanguinose nelle varie città, e ne furono talora le vere dominatrici. Esse si chiamano ancora con i vecchi nomi di guelfi e ghibellini, ma non è che una tradizione di rancori familiari: così a Ravenna sono in lotta Rasponi e Leonardi, a Rimini Ricciardelli e Tignoli, a Cesena Venturelli e Bottini, a Forlì Numai e Sirugli, a Imola Vicini e Sassatelli (i primi sarebbero i ghibellini).

A frenare questa rovinosa faziosità sorsero spontanee associazioni di gente popolare unita con giuramento per mantenere la pace e sterminare i disturbatori di essa. Il governo si affrettò a favorirle e conceder loro il permesso di portare le armi, costituendole in una specie di magistratura popolare detta i Pacifici, di numero vario (i 90 a Forlì nel 1540): in fatto anche questo rimedio poco valse a frenare una riottosità che aveva bisogno di un indirizzo assoluto e costante di governo e solo lentamente andò attenuandosi senza mai scomparire. La restaurazione pontificia potè avvenire quando cominciava per l'Italia la decadenza economica, ma un paese di economia quasi solo agricola e assai fertile doveva risentirne minor danno che le altre provincie.

In questo periodo di quasi tre secoli, le guerre solo occasionalmente toccarono il paese: durante la guerra di Successione di Spagna, nel 1709, per il breve conflitto tra il papa Clemente XI e l'imperatore, e nella guerra di Successione d'Austria, in quanto nel 1741-1743 campeggiarono in Romagna gli Austro-Sardi contro gli Ispano-Napoletani. Col 1796, la Romagna, parte per insurrezione, parte per invasione, fu perduta per il papa: prima ancora che il trattato di Tolentino (17 febbraio 1797) stabilisca la cessione, Bologna e Ferrara hanno già nel Congresso di Modena (ottobre 1796) formato la Cispadana, mentre a Forlì e Ravenna, Faenza, Rimini dopo una breve occupazione francese (giugno-luglio 1796) era stato restaurato il dominio papale.

Unita alla Cispadana prima e alla Cisalpina poi, dopo l'occupazione austriaca dal giugno 1799 al luglio 1800 la Romagna fece parte della Repubblica italiana e del Regno italico, divisa nei dipartimenti del Basso Po (Ferrara), Reno (Bologna, Imola, Cento) e Rubicone (Forlì, Ravenna, Rimini). Al cadere dell'impero napoleonico la Romagna dal dicembre del 1813 sino al maggio del 1815 fu occupata successivamente da Austriaci e Napoletani, prima uniti, poi nel 1815 in lotta, quando il Murat da Rimini lanciava il 30 marzo agli Italiani col noto proclama l'eccitazione a combattere per l'indipendenza e l'unità. Il governo Pontificio restaurato ricostituì le tre legazioni di Romagna, Bologna e Ferrara, e cominciò così quell'ininterrotta serie di agitazioni, rivolte e repressioni, e interventi stranieri che fecero della Romagna la regione più irrequieta d'Italia. Rimasta tranquilla nel 1820-21, essa insorge nel 1831 (4 febbraio) e proclama decaduto il governo papale e costitisce con le altre regioni pontificie lo stato delle "Provincie Unite Italiane", abbattuto nel marzo dagli Austriaci; ma l'agitazione perdura vivace dopo il loro ritiro e provoca il loro ritorno nel gennaio 1832 fino al 1838: a Ferrara e Comacchio poi vi era stabilmente fino dal Congresso di Vienna un presidio austriaco. Partiti gli Austriaci, ricominciarono le agitazioni con moti nel 1843 e 1845; questo diede occasione al celebre opuscolo del d'Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna. Le sue vicende nel 1846-49 non sono diverse da quelle del resto dello stato pontificio: dopo aver salutato con entusiasmo l'indirizzo liberale di Pio IX, essa aderì alla Repubblica romana, ma nel maggio 1849 venne occupata dalle truppe austriache, che vi rimasero sino al 12 giugno 1859, esercitando un vero dominio in materia politica senza riguardi all'autorità papale. La fine dell'occupazione austriaca segnò il crollo del governo pontificio, sostituito da governi provvisorî formati da elementi moderati preparati dalla Società Nazionale. Ad essi subentrò come commissario regio M. d'Azeglio, poi ritirato questo dopo Villafranca, il col. Leonetto Cipriani (2 agosto-9 novembre '59), indi L. C. Farini, dittatore dell'Emilia (così egli volle chiamata la Romagna unita ai ducati) sino al plebiscito (11-12 marzo 1860) e all'annessione al regno (21 marzo 1860).

Bibl.: A. Vesi, Storia di Romagna, ecc., Bologna 1845-48, voll. 3; E. Rosetti, La Romagna, geografia e storia, Milano 1894; S. Bernicoli, Governi di Ravenna e Romagna dalla fine del sec. XII al XIX, Ravenna 1898; Cardinal Anglico, Descriptio Romandiolae (1371), in Fantuzzi, Monum. ravennati, I, pp. 1-108; Codex diplom. dominii tempor. Sanctae Sedis, a cura di A. Theiner, Roma 1862, II; P. D. Pasolini, I tiranni di Romagna e i papi nel Medioevo, Imola 1888; La Romagna al principio del sec. XVIII, a cura di A. Forlì e S. Bernicoli, Ravenna 1899; L. Rava, La restaur. pontif. in Romagna e A. Frignani, Bologna 1899; A. Zanolini, La rivol. nello stato romano nel 1831, ivi 1878; L. C. Farini, Lo stato rom. dal 1815 al 1850, Firenze 1850; M. D'Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna, Lugano 1847; A. Comandini, Cospir. di Romagna, ecc., Bologna 1899; A. Gennarelli, Il gov. pontif. nella Romagna, ecc., Firenze 1860.

V. tavv. CCXLIX-CCLII.

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