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ROMA

di Vittorio ROSSI - Michelangelo GUIDI - Mario GIORDANI - Bruno MIGLIORINI - Roberto ALMAGIA - Giuseppe LUGLI - Carlo CECCHELLI - Giuseppe CARDINALI - Arnaldo MOMIGLIANO - Mario NICCOLI - Arnaldo MOMIGLIANO - Vincenzo ARANGIO-RUIZ - Francesco CALASSO - Gino FUNAIOLI - Gustavo GIOVANNONI - Ranuccio BIANCHI BANDINELLI - Secondina Lorenzina CESANO - Giuseppe MARCHETTI LONGHI - Alberto Maria GHISALBERTI - Carlo CECCHELLI - Gustavo GIOVANNONI - Federico HERMANIN - Secondina Lorenzina CESANO - Giuseppe MARCHETTI LONGHI - Giorgio FALCO - Alberto Maria GHISALBERTI - Pietro TACCHI VENTURI - Federico HERMANIN - Romolo GIRALDI - Giuseppe MARCHETTI LONGHI - Alberto Maria GHISALBERTI - Pietro TACCHI VENTURI - Alberto CAMETTI - Romolo GIRALDI - Virgilio TESTA - Maria ORTIZ - Roberto ALMAGIA - Luigi GIAMBENE - Alberto PINCHERLE - Pietro FEDELE - G. Tuc. N. Tu.E. Al.A. F. A. U.s.A. F. A. U.*A. F. A. U.R. Vu.E.C. - Enciclopedia Italiana (1936)
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ROMA (A. T., 24-25-26).

SOMMARIO. - Il nome (p. 589); Roma antica (p. 593); Roma medievale (p. 749); Roma nel Rinascimento (p. 780); Roma nel Sei e Settecento (p. 802); Roma dalla fine del Settecento al 1870 (p. 827); Roma capitale (p. 841); L'idea di Roma (p. 906).

TAVOLE CXLI-CCXLVIII; TAVOLE A COLORI.

IL NOME. - Già gli antichi, naturalmente, si erano domandato quale fosse l'etimologia del nome dell'Urbe; ma le loro spiegazioni non reggono alla critica. Che Roma derivi da Romulus è impossibile, e ovvio, invece, il contrario (cfr., del resto, già Philarg., Ad Verg. Ecl. I, 19: Roma ante Romulum fuit, et ab ea sibi Romulum nomen adquisivisse Marianus Lupercaliorum poeta sic ostendit, ecc.). L'etimo greco ‛Ρώμη "forza", che è la spiegazione più generalmente accolta nell'antichità, implicherebbe predominanza o influenza greca, storicamente inammissibile, su quelli che fondarono e denominarono l'Urbe. Ma non si può dire che la scienza moderna sia giunta a una soluzione definitiva del problema etimologico. Secondo che i primi stanziamenti siano stati italici ovvero etruschi, converrà dar la preferenza a una spiegazione italica ovvero etrusca; e come gli storici oscillano, così i linguisti. Fra le spiegazioni italiche, due sono possibili. Una fa risalire il nome di Roma a quello di Rumon, attestato da Servio come antico nome del Tevere. In origine romanus avrebbe significato "fluviale", e una traccia di ciò resterebbe nel nome della Porta Romana o Romanula della cinta primitiva, a cui nella cinta serviana corrispose la Porta Flumentana. L'altra spiegazione identificherebbe Roma con ruma "mammella", che sarebbe stato il nome dato al Palatino per le sue due vette comparate a un seno. Maggior seguito ha avuto negli ultimi decennî l'etimo etrusco proposto da W. Schulze, il quale fa derivare il nome della città dal gentilizio etrusco dei Ruma. In conclusione, allo stato odierno degli studî, il problema etimologico deve essere considerato ancora aperto.

Accanto a Roma, da molteplici testimonianze antiche sappiamo che l'Urbe dové avere un nome segreto, che solo gl'iniziati potevano pronunziare in determinate circostanze e con determinati riti. Quale esso fosse, non è possibile dire.

BIBL.: Oltre alle principali storie di Roma, v., per l'etimo Rumon, W. Corssen, in Zeitschr. vergl. Sprachf., X (1861), pp. 17-20; id., Über Ausspr., Vokalismus und Betonung der lat. Spr., 2ª ed., Lipsia 1868-70, passim; I. Guidi, in Arch. Soc. rom. st. patria, I (1878), pp. 189-191; id., in Bull. Comm. arch. com., s. 2ª, IX (1881), pp. 63-73; L. Ceci, in Arch. glott. it., suppl. VI (1898), pp. 19-29; per l'etimo ruma, B. Migliorini, in Roma, VI (1928), pp. 447-451; per l'etimo Ruma gentilizio, W. Schulze, Zur Gesch. lat. Eigennamen, Berlino 1904, pp. 579-582 e, un po' diversamente, G. Herbig, Berl. phil. Wochenschr., XXXVI (1911), coll. 1440-1448 e 1472-1480.

Sul nome segreto di Roma, v. i passi raccolti da W. A. Becker, Handbuch der röm. Altertümer, II, I, Lipsia 1884, pp. 14-15 e cfr. R. Hirzel, Der Name, Lipsia 1918, p. 22 n.

GEOGRAFIA FISICA. - Situazione e topografia. - La città di Roma è situata - se prendiamo come caposaldo il Campidoglio posto nel cuore dell'antico centro urbano - a circa 41° 53′ 33″ lat. N., a 12° 29′ 31″ long. E. e a 38 m. s. m. (la Torre meridiana del nuovo osservatorio di Monte Mario è 1′ 52″ più a nord e circa 2′ più a ovest); dal mare dista oggi, in linea d'aria, circa 23,5 km. (Parco di Castel Fusano), dal Faro di Fiumara, presso l'idroscalo, circa 26,5 km., dalla Porta Marina di Ostia, dove correva la linea di costa alla fine della repubblica romana, km. 21. La città è in mezzo a una pianura ondulata, la Campagna Romana, limitata a NO. dai Monti Sabatini, distanti circa 25 km., a E. dai Monti Tiburtini e Prenestini, le cui falde distano dal centro della città quasi altrettanto, a SE. dai Colli Laziali o Monti Albani, più vicini (17-18 km.); tale pianura è traversata da NE. a SO. dal Tevere, che vi forma numerosi meandri ed è raggiunto a sinistra dall'Aniene a monte della città. Questa si sviluppa in prevalenza sulla sinistra del fiume, in parte sul fondo valle, in parte su modesti rilievi, per il che l'altitudine varia notevolmente da un punto all'altro (v. oltre).

Il fondo valle del Tevere, largo oltre 3 km. così a monte di Prima Porta come a valle della Magliana, nell'intervallo (circa 20 km.) si restringe notevolmente più volte perché le colline si avvicinano al fiume: esso è ancora di circa 2 km. all'aeroporto del Littorio, ma si riduce a 11/4 km. tra M. Mario e i Colli Parioli, si allarga di nuovo a oltre 21/4 km. tra il Vaticano e il Pincio, poi presenta un'altra più notevole angustia, riducendosi a meno di 1 km. tra il lungo dorso del Gianicolo sulla destra, il Campidoglio, il Palatino, l'Aventino a sinistra; più a valle, a sud di S. Paolo, è di nuovo largo 11/2-2 km. circa. Proprio nell'anzidetto punto più angusto, dove il fiume fa una svolta intorno al Gianicolo, il suo alveo si biforca per la presenza di un'isola - l'isola Tiberina - che facilita il passaggio da una riva all'altra; a questo punto corrisponde il più antico centro urbano, costituitosi sulla riva sinistra del fiume sulle tre colline anzidette che più direttamente scendono verso il fiume (su di esso incombono, anzi, ripide, le pendici dell'Aventino) e prestissimo allargatosi su altre vicine.

Queste colline, le quali un tempo erano alquanto più elevate e separate da bassure più accentuate che non siano adesso - dopo tanto lavoro artificiale di spianamento e colmamento - sono prevalentemente costituite da pozzolane grigio-scure o rosso-brune e da tufi di ceneri e lapilli eruttati dal Vulcano Laziale, qualche volta ricoperti, nelle parti più alte, da placche di sabbia e ghiaia di origine fluvio-lacustre. Esse rappresentano in sostanza l'estrema propaggine nord-occidentale dell'espandimento vulcanico dell'apparato laziale, che in origine formava una sorta di ripiano inclinato verso il Tevere, ripiano che l'erosione dei piccoli corsi d'acqua affluenti ad esso da sinistra ha sbocconcellato e suddiviso in ristretti lembi a sommità spianate ed a fianchi originariamente talora assai ripidi, perché l'erosione era molto attiva, esercitandosi su materiali poco resistenti. Tale l'origine dei classici Sette Colli, separati primitivamente da bassure e vallecole, nelle quali appaiono depositi calcariferi di acqua dolce. Il più elevato tra quei colli era ed è tuttora il Capitolino (59 m.), che ha conservato in alcune parti periferiche, al pari del Palatino e dell'Aventino, pendenze assai ripide, mentre il Quirinale, il Viminale, il Celio, l'Esquilino hanno subito maggiori spianamenti. Colmate sono state in parte notevole le bassure che li separavano (la più ampia corrisponde all'area dei Fori e del Colosseo) e quasi scomparse sono alcune vallecole, come quella tra il Pincio e il Quirinale, quella tra l'Esquilino e il Celio, ben visibili rimangono quella a sud del Celio e del Palatino, percorsa dall'Acqua Mariana, ora in parte coperta, e quella a sud dell'Aventino, percorsa dalla Marrana della Caffarella o Acquataccio, l'antico Almone.

Le colline sulla destra del Tevere - Monte Mario, il Vaticano, il Gianicolo e Monteverde - sono costituite in prevalenza da ghiaie e sabbie, in parte rappresentanti antiche dune cementate, oppure depositi di spiaggia, cui sovrastano talora tufi vulcanici; nelle valli interposte, più ampie che sulla opposta sponda (Valle dell'Inferno, Valle delle Fornaci), come pure alle falde orientali di Monte Mario e del Gianicolo, affiorano marne grigie o azzurrognole, alternate con sabbie fini, del Pliocene. Anche le pendici di queste colline prospicienti sul Tevere erano talora in origine, e in parte sono rimaste tuttora, notevolmente ripide.

In città il livello medio del Tevere è a poco meno di 12 m. s. m.; l'isola Tiberina è alta 16 m. Le parti più basse della città (13,5-20 m.) sono quelle situate nel fondo valle, costituito dai depositi alluvionali del fiume stesso: il peristilio del Pantheon è a 13,4 m., Piazza della Bocca della Verità a 13 m., Porta S. Paolo a 14, Porta del Popolo a 17, Piazza Venezia a 20; sulla destra del fiume S. Pietro è a 19 m. e così pure Piazza Mazzini. Degli antichi colli, il più alto è, come si è detto, il Campidoglio (59 m.); il Palatino è alto 51 m., il Quirinale 47, l'Aventino 45, il Celio 48, l'Esquilino 31. Verso NE. il ripiano sul quale si è oggi ampiamente estesa la città, tende a rialzarsi: Porta Pia, il punto più alto della cinta murata sulla sinistra, è a 64 m.; e altezze simili si raggiungono nei cosiddetti Colli Parioli che a nord scendono ripidi sul Tevere (Villa Glori, 63 m.; collina prospiciente l'Acqua Acetosa, 67; M. Antenne al confluente dell'Aniene, 64 m.). La sommità del Pincio è a 51 m., con un dislivello di ben 34 m. sulla sottostante Piazza del Popolo. Sulla destra del Tevere le colline sono più elevate: il Gianicolo 88 metri (Casina dei Quattro Venti) con un dislivello di ben 64 m. sul vicino fondo valle (Ministero dell'educazione nazionale), onde la necessità di rampe di accesso e di scale; il Vaticano raggiunge 80 m. e Monte Mario 146 m.; circondato ormai da quartieri urbani, esso è il punto più alto della città, sovrastante di ben 130 m. il sottostante fondo valle. I frequenti dislivelli, che costituiscono una caratteristica della città, tendono dunque ad accentuarsi con l'estendersi dell'abitato verso la periferia.

La presenza di collinette a sommità spianate e a fianchi piuttosto ripidi, facili perciò a difendere, sulla sinistra del Tevere in prossimità dell'isola fluviale e di un passaggio del fiume, difeso a sua volta sulla destra da un dosso eminente (Gianicolo), sono forse le cause topografiche che hanno favorito il sorgere del primo centro urbano; ma altre caratteristiche della situazione geografica ne hanno senza dubbio agevolato poi il successivo sviluppo. Fra queste principale è la presenza del Tevere, la maggiore arteria fluviale dell'Italia peninsulare, navigabile fino all'altezza di Roma dalle imbarcazioni dei tempi antichi, onde la città godeva dei vantaggi della comunicazione col mare. A monte la grande vallata costituiva poi una via naturale di accesso vetso l'interno della penisola, risalita perciò da antiche vie, correnti non sul fondo, facilmente inondabile, ma sulle prossime colline (vie Salaria e Tiberina).

Anche l'Aniene, confluente poco a monte, costituiva una via di accesso nel cuore della regione montuosa appenninica; e Tevere e Aniene offrivano poi ottime difese per la città dai lati di ovest, nord e nord-est. Altre vie naturali convergevano verso il Tevere all'incirca all'altezza di Roma: da sud quella che, risalendo il Sacco, per la depressione fra i Colli Laziali e i Monti Prenestini, si dirigeva verso il fiume; da nord quella corrente, attraverso l'accidentato paese etrusco, all'incirca sullo spartiacque fra il basso Tevere e i piccoli fiumi affluenti direttamente al Tirreno. Il sito di Roma, dove il fiume veniva risalito dal mare fino a un punto di facile guado, rappresentava dunque una convergenza di molte vie naturali. Infine si ponga mente alla presenza intorno a Roma di una grande pianura, offrente ampî spazî pascolativi, preziosi in epoche nelle quali l'economia s' imperniava sull'allevamento, e utilizzati, fino da età remotissime, anche dai popoli montanari circostanti per soggiorno invernale delle greggi; onde in questi popoli Roma ebbe dei clienti obbligati, non appena riuscì ad estendere il suo dominio su tutta la regione pianeggiante che la circondava, il Lazio, cioè, nel senso più stretto e più antico del termine (v. LAZIO).

Costruita in buona parte sui materiali eruttati dal Vulcano Laziale, Roma non fu tuttavia spettatrice delle eruzioni di questo vulcano, spento del tutto già in lontane età preistoriche; fu invece frequentemente scossa da terremoti anche violenti. Si dice che nel 560 a. C. il suolo tremasse per quarantadue giorni consecutivi e che scosse numerose e frequenti continuassero per tutto l'anno successivo. Terremoti violenti di origine locale si ricordano poi negli anni 2-3, 15 (crollo di una parte considerevole delle mura), 85, 94, 116 (o 117), 191, 223 (settembre), 258, 392, 441 (e anni seguenti), 477 (quaranta giorni di scosse), 553, 790, 896, 1287, 1321, 1330, 1403 (17 marzo), 1425, 1712, 1811 (18 febbraio), 1812 (22 marzo), 1895 (1° novembre). Roma avvertì poi spesso terremoti originatisi in centri sismici di regioni vicine: ad es., quelli dell'801, del 1389, del 1703, del 1915 (13 gennaio), derivanti da centri dell'Umbria o dell'Abruzzo, e parecchi di quelli che ebbero il loro centro sui Colli Laziali (1748, 1751, 1752, 1800, 1806, 1829, 1855, 1873, 1892, 1897, 1899, ecc.). Nei secoli più recenti i danni causati dai terremoti non furono tuttavia in complesso di grande entità e per le epoche più antiche le notizie che accennano a disastri edilizî gravissimi sono forse, come spesso avviene, esagerate. Non pare che si siano verificate a Roma scosse di grado superiore ai VII e VIII della scala Mercalli. Sembra poi che negli ultimi secoli la frequenza dei terremoti, o almeno di quelli d'origine locale, sia diminuita. Più dannose riuscirono invece spesso le inondazioni del Tevere, specialmente nelle parti più basse della città, che corrispondono a parti importanti del vecchio centro urbano; moltissime ne sono ricordate a partire dall'età classica, fin dalla quale la regolazione del fiumi in città costituì un problema di vitale importanza, più volte affrontata, ma adeguatamente risolto soltanto in tempi recenti (v. TEVERE).

Clima. - Roma è, con Padova e Bologna, la città italiana per la quale si posseggono osservazioni meteorologiche risalenti ad epoca più remota. Infatti fin dal 1782 s'iniziano le serie regolari (precedute da alcune serie saltuarie ancor più antiche), che con brevi interruzioni si continuano in quelle attuali; dal 1811 la serie è assolutamcme ininterrotta ed è rappresentata da misure ottenute con strumenti collocati al Collegio Romano, a circa 59 m. s. m. Si hanno dunque oltre 120 anni di dati per tutti gli elementi essenziali, pressione barometrica, temperatura e umidità dell'aria, stato del cielo, direzione delle correnti aeree, piogge e meteore particolari (neve, grandine, brina, ecc.); i valori normali che si ottengono in base alle medie calcolate hanno dunque un alto grado di sicurezza.

Il clima di Roma è influenzato dalla situazione centrale nella penisola, dalla presenza di una pianura intorno alla città e soprattutto dalla prossimità del Mare Tirreno. La temperatura media annua è di 15°,4, quella del mese più caldo, il luglio, è di 24°,5, ma l'agosto è quasi altrettanto caldo (24°,1); la temperatura media del mese più freddo, il gennaio, è di 7°; gli altri due mesi invernali sono sensibilmente meno freddi (media del dicembre 8°,1, del febbraio 8°,2); l'escursione annua è di 17°,5, abbastanza notevole per una città così vicina al mare.

Le temperature più elevate si verificano di solito dalla prima quindicina di luglio alla prima quindicina di agosto, in concomitanza col permanere di aree anticicloniche sul Mediterraneo e con l'assenza o attenuazione dei venti occidentali; in media si hanno 34 giorni con temperature superiori a 300, quasi egualmente ripartiti fra luglio e agosto; non è raro il caso che temperature superiori a 30° si verifichino in settembre; meno frequentemente ciò avviene nel giugno. Come massimi assoluti si registrarono 42° nel luglio 1845, 40°,1 il 3 luglio 1905, 38°,2 nell'agosto 1928, ecc.; eccezionalmente 38°,5 il 29 giugno 1935. Roma rientra perciò nella zona dell'Italia centrale a temperatura estiva notevolmente elevata.

Gl'inverni sono in genere miti: in media non si hanno più di 11-12 giorni all'anno con temperature inferiori a 0° e 7 con temperature inferiori a −10. Queste basse temperature prevalgono in gennaio; meno frequenti sono in dicembre e in febbraio, rare, ma non sconosciute, in marzo. Minimi assoluti fino a − 5° furono talora registrati in tutti e tre i mesi invernali; in qualche rarissimo caso il termometro è sceso a − 8°. Le basse temperature sono sovente accompagnate da vento di tramontana e da secchezza dell'aria. Ma la mitezza dell'inverno è indicata anche dal fatto che assai raramente si verifica una lunga sequela di giorni consecutivi con temperature inferiori a zero. Nell'annata 1844, che fu la più rigida, se ne ebbero in tutto l'inverno 55, nel 1880, 34; ma vi furono, per contro, anni, nei quali la temperatura non discese mai sotto zero (1838, 1873, 1910, ecc.).

Da taluni si accenna ai forti squilibrî diurni di temperatura, soprattutto in certe stagioni, come a un carattere saliente del clima di Roma; in realtà l'escursione diurna, che è di 9°,6 come media dell'anno, si abbassa d'inverno (con un minimo di 7°,2 in dicembre), ma si eleva nei mesi estivi, fino a raggiungere la media di 12° in luglio. Quest'elevata escursione estiva rende più tollerabili le caldure meridiane, poiché ad esse segue d'ordinario una mite temperatura serale e notturna.

I venti di gran lunga predominanti a Roma sono anzitutto quelli del settore compreso fra N. e ENE., poi quelli del settore che va da S. a OSO.; i primi dominano in modo segnalato d'inverno e, un po' meno, in autunno, i secondi in estate e, secondariamente, in primavera. In tali stagioni questi ultimi venti, rinforzati spesso nel pomeriggio dalla brezza marina, esercitano una ben nota azione mitigatrice della temperatura (ponentino). Invece di autunno i venti di O. e SO., pur assai frequenti, apportano pioggia e maltempo.

L'umidità relativa dell'aria dall'ottobre al febbraio è vicina o superiore al 70%, inferiore al 60% dal giugno all'agosto, compresa fra 60 e 70% nei mesi rimanenti.

La media dei giorni sereni è di 84 l'anno, quella dei giorni coperti di 54; gli altri sono misti. Frequentemente accade che il cielo, nuvoloso nelle ore meridiane, tenda a rasserenarsi verso sera, il che conferisce spesso una particolare attrattiva ai tramonti romani.

Una particolarità del clima di Roma sono le nebbie serotine e mattutine, frequenti sia d' estate sia d' inverno, ma per cause diverse. Le nebbie estive sono dovute all'elevata evaporazione diurna, che provoca l'accumularsi nell'alta atmosfera di una rilevante quantità di vapor d'acqua tendente a condensarsi, a sera, sotto l'influsso dei venti marini di ponente relativamente freschi. Le nebbie invernali sono in genere in dipendenza di alte pressioni barometriche che favoriscono la condensazione in massa del vapor d'acqua lungo il corso del Tevere; per conseguenza le parti della città più vicine al fiume sono particolarmente soggette a tale fenomeno.

La quantità media annua della pioggia a Roma è di 831,3 mm. l'anno. Assai netta è la prevalenza autunnale e la notevole scarsità estiva. Più dell'80% della pioggia cade dal settembre all'aprile, meno del 20% nei mesi rimanenti. I mesi più piovosi sono l'ottobre e il novembre; seguono dicembre e gennaio, poi marzo; il febbraio è di regola meno piovoso del marzo, e d'aprile piove all'incirca come di febbraio; poi la piovosità diminuisce per raggiungere il minimo in luglio. In questo mese si ritiene tuttavia frequente una pioggia temporalesca intorno al 26 luglio (burrasca di Sant'Anna) e in effetto dal 1825 al 1930 si verificò 52 volte un acquazzone nei giorni 24-26 luglio: in media, dunque, circa un anno sì e uno no. In circa 150 anni, da quando si hanno misure della quantità di pioggia, l'annata più piovosa fu il 1900 con 1470 mm., la più secca n 1834 con 319 mm. soli. Annate piovosissime furono il 1796-97, il 1826, il 1872, il 1875, il 1878, il 1900-01, il 1905-07, il 1915; periodi secchi, il 1819-21, il 1825, il 1845-47, il 1863-66. Alcuni studiosi hanno sostenuto l'esistenza di un ritmo regolare nell'alternanza di periodi piovosi e periodi secchi, ma il fatto non si può ritenere finora definitivamente dimostrato.

È probabile che nella quantità di pioggia vi siano differenze di qualche rilievo tra una regione e l'altra di Roma, però mancano finora osservazioni precise al riguardo.

La neve a Roma è un fenomeno non molto frequente, ma neppur così raro come si potrebbe presumere data la latitudine e l'altitudine; in media si hanno nell'anno meno di 2 giorni con neve, ma in taluni anni se ne registrarono 7, 8 e perfino 9 (1808 e 1895); si ebbero invece spesso anche più anni consecutivi senza neve (1790-91; 1797-98; 1804-06; 1872-73; 1902.05). La neve non si accumula mai a considerevole altezza, né permane a lungo sul suolo: raro è il caso che si formi uno strato superiore a 10 cm., rarissimo il perdurar del mantello nevoso per più giorni; si cita come fatto assolutamente eccezionale che nel 1796 la neve rimase a coprire il suolo per una settimana, dall'11 al 18 dicembre. Il mese di maggior frequenza della neve è il gennaio, cui segue il febbraio; dicembre e marzo vengono dopo, quasi alla pari. La grandine non è frequente e rappresenta un fenomeno essenzialmente invernale e primaverile: da giugno a novembre le grandinate sono rare, e rarissime in agosto e settembre. La maggior frequenza si ha in marzo; seguono dicembre e febbraio, poi aprile e gennaio. In autunno e soprattutto in estate si hanno talora temporali, e quelli estivi si ripetono sovente per più giorni di seguito quasi alla stessa ora (tropee). La seguente tabella dà i valori normali per i principali elementi del clima di Roma:

BIBL.: G. Ponzi, Storia fisica del suolo di Roma, Roma 1858; F. Cerroti, Le inondazioni di Roma e i provvedimenti che possono ripararvi, ivi 1872; Monografia di Roma e della Campagna Romana, ivi, 1878 (soprattutto gli scritti di F. Giordano sulle condizioni topografiche e fisiche di Roma e di P. Mantovani sulla geologia); F. Eredia, Il clima di Roma, ivi 1911 (con bibliografia); V. Groh, I primordi di Roma, in Rend. Pont. Accad. di archeol., 1925; E. Majo, Sulle variazioni di lungo periodo nella quantità e nella frequenza delle pioggie annuali a Roma, in La meteorologia pratica, 1927; E. Clerici, La costituzione geologica del suolo di Roma, ecc., in Atti I Congr. naz. di studi romani, II, Roma 1929; G. De Angelis d'Ossat, La geologia e le catacombe romane, in Mem. Pont. Accad. nuovi lincei, 1930-32; G. Martinelli, La sismicità in Roma, in Atti II Congr. di studi romani, III, Roma 1931; Istituto di studi romani, Le scienze fisiche e biologiche in Roma e nel Lazio, Roma 1933 (soprattutto gli articoli di E. Clerici sulla Geologia, di F. Eredia sul Clima, di C. Alessandri e G. Agamennone sui Terremoti); W. M. Davis, The Seven Hills of Rome, in Bull. Americ. Geogr. Society, New York 1912; P. Fraccaro, I fattori geografici della grandezza di Roma, in La geografia, 1926, pp. 84-100.

Roma antica.

SOMMARIO. - ARCHEOLOGIA E TOPOGRAFIA: Archeologia e topografia classica (p. 593); Archeologia e topografia cristiana (p. 607). - STORIA: Età regia e repubblicana (p. 611); Età imperiale (p. 628); Il cristianesimo a Roma nei primi tre secoli (p. 654). - VITA ECONOMICA E SVILUPPO DEMOGRAFICO: Età regia e repubblicana (p. 658); Età imperiale (p. 661). - RELIGIONE (p. 664). - DIRITTO: Diritto privato (p. 669); Diritto pubblico (p. 687); Diritto penale (p. 691); Diritto romano comune (p. 693). - LETTERATURA (p. 699). - ARTE: Architettura classica (p. 714); Architettura cristiana (p. 728); Arti figurative (p. 729). - NUMISMATICA, (p. 745).

ARCHEOLOGIA E TOPOGRAFIA

ARCHEOLOGIA E TOPOGRAFIA CLASSICA.

I primi accenni di vita sui colli che formarono poi la città di Roma appaiono all'inizio del primo millennio a. C., quasi contemporaneamente in più località diverse, cioè sull'Esquilino, sul Palatino, nella valle intermedia fra i due colli suddetti, sul Quirinale e sulla riva destra del Tevere, anche sul Gianicolo. Ancor prima della fondazione della città, nel senso storico in cui noi la intendiamo, su queste colline si aggirava una popolazione di pastori, discesi dai Monti Albani per sfruttare ricchi pascoli della pianura tiberina all'ombra dei boschi che, assai rigogliosi in quel tempo, rivestivano le cime dei colli. Di questi boschi rimane il ricordo fino in età classica nella toponomastica locale: basterà ricordare il collis Viminalis dai vimini, il Fagutal dai faggi, il Querquetulanus dalle querce, l'Aesculetum dagli ischi, e poi i numerosi laureta, corneta, querceta, buxeta, ecc., sparsi un po' dappertutto.

Stagni paludosi e fossi profondi, percorsi da piccoli corsi d'acqua, si altemavano con le rupestri colline, così da dare alla regione un aspetto silvestre e malsano, accentuato dai forti dislivelli che esistevano in quell'età remota fra il monte e il piano.

Ancora nell'età storica si ricordava fra il Palatino e il Campidoglio la palude del Velabrum, dove il Tevere formava un ampio sacco, specialmente durante le piene, e dove affluivano gli scoli non solo dei monti più prossimi, ma anche dell'Esquilino e del Quirinale, con un rivo all'aperto che fu poi la Cloaca Massima. Altra palude di notevole estensione era la palus Caprae o Capreae, nel Campo Marzio, nel luogo che ancora ai giorni nostri conserva il nome di Valle, fra il Pantheon, la chiesa di S. Andrea e il palazzo Massimo. Il nome di Caprae si deve forse mettere in relazione con le mandre pascolanti nei dintorni, che si riparavano dai raggi del sole nei vicini boschi (luci), che troviamo più tardi consacrati a Marte (lucus Mavortianus), a Minerva e alla Vittoria.

Di tutti i pagi ricordati dalla tradizione, i più importanti erano quelli del Palatino, del Campidoglio, unito al Quirinale, dell'Esquilino e del Celio.

Con le sponde quasi interamente a picco e con la palude intorno, il Palatino rappresentava la città ideale per un popolo, pastore e guerriero nello stesso tempo, interessato più d'ogni altro al commercio, che la testa di ponte del Tevere permetteva agevolmente di sfruttare.

Perciò il colle fu occupato dal nucleo più importante di queste popolazioni latine, scese dai Colli Albani: esse stabilirono un mercato permanente del bestiame nella pianura immediatamente sottoposta al Palatino che prese, appunto per questo, il nome di foro Boario. L'importanza della città andò a mano a mano aumentando con l'intensificarsi del traffico, che spingeva i popoli della bassa Sabina verso il litorale tirreno in cerca del sale, mentre allettava gli Etruschi a venire giù a vendere i loro prodotti di vasellame e di monili di bronzo e di ferro alle popolazioni ancora rozze del Lazio e della Campania.

Ed ecco sorgere così la nuova città. Il piccolo popolo comincia a fortificarsi sul colle, a costituirsi con leggi proprie, ad imporre ai vicini la propria volontà (metà dell'VIII secolo a. C.).

È questa la prima fase di Roma, la Roma Quadrata, o città del Palatino, fortificata con muro e fossato, e fornita di quattro porte nei punti in cui le condizioni del terreno lo permettevano. Romolo, secondo la suggestiva leggenda, ne traccia il solco sacro (v. POMERIO), o sulcus primigenius, incominciando dal Foro Boario, di là dall'Ara Massima di Ercole, e passando poi per l'Ara di Conso, le Curie Vecchie e il Sacello dei Lari fino al Foro Romano (Tac., Ann. XII, 24).

Viene quindi la seconda fase nella quale la città dovette allargarsi al Campidoglio e alla valle che separava questo dal Palatino, valle che fu prosciugata e scelta come centro comune dei mercati, e divenne il Foro Romano.

Con successivi ampliamenti (per la questione del Settimonzio v. appresso: Storia, Età regia e repubblicana) si giunse alla città cosiddetta serviana, distinta in quattro regioni, così denominate: 1. Suburana, nome derivato dall'antichissimo pagus Succusanus (donde Suburanus) che occupava nell'età preistorica il Celio; 2. Esquilina, che comprendeva le sommità dell'Oppio, del Cispio, del Fagutale, con la groppa più avanzata delle Carine; 3. Collina, cioè l'unione del Quirinale col Viminale; 4. Palatina, con le tre vette già ricordate Palatium, Germalus (Cermalus secondo l'ortografia epigrafica) e Velia. Il limite estremo delle regioni corrispondeva probabilmente alla linea del pomerio così allargato, fatta eccezione per il Campidoglio che era entro i limiti del pomerio, ma era fuori delle regioni; l'Aventino era fuori sia dell'uno sia delle altre: il punto di convergenza di tutte le regioni era ai piedi della Velia, dove sorse poi la Meta Sudante.

Studî recenti fanno ritenere che già la città così formata avesse una linea stabile di mura, se non proprio per tutto il perimetro, almeno sui colli principali con segmenti intermedî di raccordo. Queste mura erano fatte di un tufo granulare di facile sfaldamento, che si trova nello stesso territorio urbano, e che fu tagliato in pani parallelepipedi dell'altezza di circa 25 cm. Avanzi ancora in posto si possono vedere specialmente sul Palatino, sul Campidoglio e sul Quirinale.

Pochi sono i monumenti di questa età così remota che rimangono ancora visibili. Il più antico è certamente il sepolcreto arcaico del Foro Romano; non sappiamo a quale gruppo di abitanti abbia appartenuto, ma è certo che fu in uso fra il sec. IX e il VII a. C., e cessò alla fine di questo secolo, o al principio del seguente, quando cioè, secondo Livio (I, 35), fu prosciugata tutta la valle del Foro e fu fondato il primo mercato stabile. Le tombe seguono il doppio rito a cremazione e a inumazione con probabile precedenza della prima: la suppellettile, assai modesta, dimostra una popolazione di gente povera e limitata alle falde di qualcuno dei colli più prossimi, forse dell'Esquilino; gli oggetti sono simili a quelli rinvenuti nella necropoli del Colle Cispio e in tombe sporadiche ai piedi delle Mura dette Serviane.

Seguono, in ordine di tempo, le due cisterne del Palatino, una coperta a thólos, con pozzo laterale per l'estrazione dell'acqua, e l'altra più grande a cielo scoperto, ambedue tagliate e ostruite dalle mura del sec. IV a blocchi di tufo litoide. Sono generalmente datate al sec. VI a. C. e attribuite alla primitiva popolazione del Germalo. Alla fine del secolo stesso e agl'inizî del seguente appartengono i primitivi avanzi della Regia nel Foro, della cloaca Massima, del Tullianum sotto il carcere Mamertino e di alcuni cunicoli, anche nel Foro, per la canalizzazione delle acque piovane scendenti nella valle dai prossimi colli.

Nel 510 la tradizione annalistica ricorda la fondazione del tempio di Giove Capitolino; tale data è confermata dagli avanzi rimasti del nucleo più interno di fondazione del podio, oggi racchiusi nel Museo Mussolini, e dal ritrovamento in Veio di un gruppo di sculture in terracotta policroma, analoghe e contemporanee a quelle che gli storici ci dicono modellate dallo scultore veiente Vulca, per il coronamento del tempio di Giove. Infine sono ancora visibili nel Foro gli avanzi dei primitivi templi di Saturno (498) e dei Castori (484), e quelli dei Rostra Vetera (438) presso il Comizio.

Circa il 390 avviene la grande catastrofe dell'incendio gallico.

Un ricordo dell'incendio gallico si ha forse nel Lapis Niger, cioè in quel recinto sacro che si trova nel Foro, lastricato di marmo nero, che nasconde la famosa stele scritta, oltre ad un tronco di cono in pietra e ad un basamento di carattere forse sepolcrale. Qualunque sia la spiegazione del testo della stele, che si può considerare come uno dei più antichi testi latini conosciuti, sta di fatto che quei monumenti furono profanati per un'azione violenta e furono poi riconsacrati, sebbene in parte distrutti, mediante un sacrificio espiatorio, di cui numerosi resti furono rinvenuti nello scavo eseguito da G. Boni nel 1899.

Camillo, subito dopo cacciati i Galli, si diede a restaurare alcuni dei principali monumenti distrutti, tra cui il tempio di Vesta, i Rostri e altri edifici nel Foro; il tempio della Mater Matuta, presso il Tevere, la Cloaca Massima, le sostruzioni (o le mura?) del Campidoglio, ed eresse un nuovo tempio ai piedi del colle stesso, in onore della dea Concordia e in ringraziamento della pace ristabilita fra i patrizî e i plebei (367). Allo stesso tempo risale probabilmente la costruzione, o almeno l'inizio, delle mura a grandi blocchi di tufo litoide, comunemente dette Serviane, che includono nella cinta anche l'Aventino, il Colle Oppio e le Carine.

Di queste mura conosciamo quasi tutto il perimetro, per i frequenti avanzi venuti in luce in varie epoche e in parte tuttora visibili. Solo per le pendici orientali dell'Esquilino e del Celio esistono dei dubbî, come anche per il sito preciso di alcune porte. La costruzione si protrasse fin verso la metà del secolo, rinforzando gradualmente le parti più deboli della vecchia cinta e soprattutto la linea tra il Quirinale, il Viminale e l'Esquilino, che, essendo situata tutta in piano, era più esposta agli attacchi. Qui appunto fu provveduto con la costruzione del famoso agger, grande bastione formato da un triplice sistema di difesa, muro, terrapieno e fossa, per la lunghezza di 1350 m., dalla porta Collina (Via XX Settembre, angolo via Goito) fino alla porta Esquilina (arco detto di Gallieno, presso S. Vito).

Preoccupati in queste opere di difesa, necessarie per evitare il ripetersi di un simile disastro, i Romani trascurarono l'interno della città, lasciando che ciascuno costruisse a suo modo, senza un piano regolatore e senza precise norme da parte dello stato. Livio (V, 56, 2) lamenta questo procedimento per cui antiquata deinde lege promiscue urbs aedificari coepta, onde ne risultò che forma urbis sit occupatae magis quam divisae similis.

Dopo questo primo periodo di febbrile attività edilizia, seguì un notevole rallentamento. Le fonti infatti ci ricordano solo pochi edifici sacri o pubblici costruiti o rinnovati in quel tempo, come quello di Apollo in Campo Martio (353), quello di Giunone Moneta sull'Arce (343), quello di Giove Statore sulla Velia (296), quelli di Giove Vincitore e della Vittoria sul Palatino (295 e 293) e quello di Esculapio nell'Isola Tiberina (292). Ad Appio Claudio censore si debbono due delle opere di maggiore utilità per il popolo romano, e cioè la costruzione (312) della Via Appia da Roma a Capua, destinata a fornire un più rapido passaggio alle truppe che si recavano nel sud, e il primo acquedotto (Aqua Appia) extraurbano con uno speco lungo oltre sedici chilometri. Poco dopo fu costruito un secondo acquedotto a cura del censore Manio Curio Dentato (Anio Vetus, 272), che ebbe la lunghezza di quarantatré miglia dalle chiuse dell'Aniene fino a Roma.

Altri templi sorgono in seguito: di Giano e della Speranza nel Foro Olitorio (261), della Tempestas presso la Porta Capena. Nel 221 fu costruito nei Prata Flaminia il Circo Flaminio, e pochi anni dopo Q. Fabio Massimo innalzò il tempio di Venere Ericina mentre Ti. Sempronio Gracco eresse quello della Libertà sull'Aventino (238) e M. Marcello quello dell'Onore e della Virtù, nel 192 fu eretto sul Palatino il tempio della Magna Mater.

Intanto per la popolazione notevolmente accresciuta si fa sentire sempre più urgente il problema di un approvvigionamento stabile della città e di luoghi al coperto per le riunioni politiche e per i mercati; ecco sorgere perciò nel Foro le prime basiliche in muratura: la Porcia (184), la Fulvia-Emilia (179) e la Sempronia (170); presso il Tevere i portici Aemilia, Octavia e post Navalia, per la vendita al popolo delle derrate alimentari, trasportate dal porto di Ostia fino a Roma.

Sono ancora di questo tempo il tempio di Giunone Regina (179) presso il Circo Flaminio e altri monumenti minori.

Il Foro Romano, prosciugato ormai in tutta la sua estensione, comincia ad acquistare un aspetto stabile e decoroso; i fori Boario e Olitorio si arricchiscono di vasti edifici in muratura; intorno al Circo Flaminio sorgono numerosi i templi che le esigenze del culto consigliavano di lasciare fuori del pomerio. Negli scavi del Largo Argentina sono apparsi due di questi templi che presentano ancora nella loro struttura interna parti che possono essere ascritte a questo periodo, senza peraltro poter precisare le divinità eponime.

La seconda metà del secolo, durante la quale non mancano edifici di carattere sacro come i templi di Giove Statore e di Giunone Regina nel portico di Metello, è peraltro caratterizzata da notevoli opere pubbliche, tra cui la pavimentazione a grandi poligoni di lava basaltina della Via Sacra, del Clivo Capitolino, del Clivo Argentario, e di altre strade. Viene condotta in Roma (44), con un percorso di oltre 91 km., una nuova sorgente, presa sempre nell'alta valle dell'Aniene, che dall'autore del progetto, Q. Marcius Rex, prese il nome di Marcia.

Fu questa per tutta l'antichità, e lo è ancora oggi, la migliore acqua di Roma, che per la sua enorme portata di 19.041 metri cubi nelle ventiquattro ore serviva ai bisogni di tutti i quartieri della città, e arrivava fino nel Trastevere. Nel 126 fu condotta una terza sorgente, la Tepula, dal X miglio della Via Latina fino al castello di divisione presso la Porta Maggiore.

Sul Tevere vengono gettati i primi due ponti in muratura, che sono l'Emilio (142) e il Milvio (109), mentre vengono sistemate e lastricate le vie extraurbane e specialmente l'Appia, la Latina e la Flaminia.

È questo il periodo delle più vive lotte civili e della fine delle lunghe guerre puniche, terminate nel 146 con la distruzione di Cartagine. Anche l'edilizia in Roma risente di questo periodo così fortunoso, poiché per quasi mezzo secolo non sono più eretti nuovi templi, ma soltanto restaurati quelli già esistenti. Alla dittatura di Silla si deve la prima sistemazione regolare della città, specialmente nella regione tra il Campidoglio e il Foro Romano, sistemati il Comizio e i Rostri, viene fatta una nuova pavimentazione per tutta l'area centrale del Foro, limitata da pozzi sacri, e vengono restaurati: la Curia Hostilia, il Lacus Curtius, la Regia e la casa delle Vestali; infine, quasi a creare uno sfondo monumentale al Foro dalla parte del Campidoglio, viene innalzato a cura di Q. Lutazio Catulo quel maestoso edificio, modello di architettura e di tecnica costruttiva, che è il Tabularium.

Né l'attività di Silla si limita al solo centro urbano, poiché vengono costruiti o riedificati nel basso corso del Tevere l'Emporium, nel Campo Marzio il tempio di Ercole Custode, nel Foro Boario i due templi della Fortuna Virile e della Mater Matuta, e altri minori sul Campidoglio e sul Quirinale. Con Silla s'inizia nell'architettura un sistema nuovo che si fonda sopra una realistica applicazione dell'arco e della vòlta, alleggerendo i muri mediante quel sistema costruttivo detto opus incertum (v. INCERTA, OPERA), mentre si cominciano a usare nelle costruzioni marmi rari portati dalla Grecia e dall'Oriente con grande scandalo dei vecchi Romani, abituati ancora alle pareti di pietra intonacate e dipinte a finto marmo. Una mania di fasto invade i ricchi, e ovunque sorgono palazzi sontuosi e ville monumentali, che da una parte risalgono fino ai colli Albani, Tusculani e Tiburtini, dall'altra scendono fino al mare di Laurento, di Lavinio e di Anzio.

Un piano generale di riordinamento della città fu concepito da Cesare con la legge de urbe augenda, che contemplava il deviamento del corso del Tevere sotto i monti Vaticani e la completa bonifica del Campo Marzio. Disgraziatamente la morte prematura non gli permise di tradurre in atto il vasto programma, e questo fu solo in parte attuato da Augusto e da Agrippa. Tuttavia Cesare lasciò monumenti di notevole importanza: la Basilica Giulia nel Foro, il nuovo Foro, che da lui prese il nome, con il tempio di Venere Genitrice, per il quale egli dovette espropriare un'area considerevole occupata già da privati, il grande teatro presso il Foro Olitorio, che Augusto ultimò dedicandolo a suo genero Marcello, la sistemazione del pavimento nel Foro, e quei grandiosi giardini nel Trastevere, che con gesto munifico furono da lui messi a disposizione del popolo, donando allo stato il tempio della Fors Fortuna che vi era incluso, oltre ai signa, cioè ai cimelî, ai quadri e a tutti gli oggetti preziosi che egli aveva portati con sé come trofei dalle guerre di Gallia, di Egitto, del Bosforo e di Africa. Quasi contemporaneamente sorgevano sul Pincio gli Horti Luculliani per opera di Lucullo, e gli Horti Sallustiani che Sallustio creò fra il Quirinale e il Pin cioè che restarono per tutto l'impero i più grandi e i più ricchi dell'Urbe.

Mentre Cesare pensava piuttosto ad ampliare il vecchio centro della città, Pompeo iniziava la bonifica del Campo Marzio, che doveva poi proseguire, per oltre due secoli, a cura degl'imperatori con uno sviluppo graduale e continuo dal centro verso la periferia.

Il Campo Marzio diviene da questo momento il nuovo centro urbano, anzi il centro aristocratico, meta di passeggio e di ritrovo coi suoi numerosi portici, con i teatri, ecc. Nei secoli precedenti solo alcuni templi erano stati eretti nei pressi del Circo Flaminio, tra cui i più noti erano quelli di Apollo, di Marte, di Bellona, dei Lari Permarini e di Ercole Custode; lo stesso Circo Flaminio era ancora parte di muratura e parte di legno, così come era stato sistemato nel 220 a. C.

Pompeo osò per il primo costruire un teatro stabile, e di proporzioni tali da rimanere anche in seguito il più grande e il più bello di Roma. Poiché la legge vietava la costruzione dei teatri in muratura, per eludere tali disposizioni egli innalzò nel centro della cavea un tempio a Venere Vincitrice, cui il teatro doveva servire quasi da esedra sacra posta dinnanzi, come, ad es., nei grandi santuarî di Gabii e di Tivoli. In tal modo egli poté dedicare il nuovo edificio nel 52 a. C. durante il suo terzo consolato, esibendo cacce di animali feroci, giostre e altri spettacoli che riempirono il popolo di meraviglia.

Dietro il teatro, secondo le prescrizioni dell'architettura romana espresse da Vitruvio (De arch., V, 9, 1), Pompeo innalzò un grande portico per dare riparo agli spettatori in caso di pioggia, e per fornire loro un luogo di ritrovo nei giorni degli spettacoli.

Purtroppo nessun avanzo resta in piedi di questo grande portico, che era a tre file di colonne di marmi orientali, contornato da un grande recinto rettangolare adorno con ninfei e con pregevoli opere dell'arte greca. Sotto Diocleziano e Massimiano il portico fu notevolmente restaurato e prese per una metà il nome di porticus Iovia e per l'altra metà il nome di porticus Herculea.

Ma il vero ricostruttore di Roma fu Augusto. Egli rivolse subito la sua attenzione a restaurare i vecchi templi fatiscenti, a sistemare le ripe del Tevere, che erano state in molti punti occupate da fabbriche private e ostruite da scarichi abusivi, a restaurare le strade e le piazze pubbliche, ad incanalare con nuovi manufatti sotterranei le acque piovane, a restaurare i vecchi acquedotti dell'Appia, della Marcia, dell'Aniene e della Tepula. Per fornire di acqua i nuovi edifici del Campo Marzio, Augusto e Agrippa condussero in Roma tre nuove sorgenti, la Giulia, dall'Agro Tusculano, in aumento della Tepula, la Vergine dall'Agro Luculliano, presso l'ottavo miglio della Via Collatina (casale di Salone), e l'Alseatina destinata specialmente alla naumachia del Trastevere e all'irrigazione dei giardini di Cesare, dal lago di Martignano.

In data non bene precisata, forse nel 7 a. C., Augusto procedé a una totale riorganizzazione della città, dividendola in quattordici regioni secondo l'antica ripartizione delle insulae e dei vici, ormai in vigore da tempo; per ogni due regioni collocò una stazione permanente di vigili, mentre riorganizzò i servizi dell'annona e della polizia cittadina.

Le quattordici regioni sono le seguenti:

I. Porta Capena: pendici del Celio e valle delle Camene fino all'incirca alla linea segnata più tardi dalle Mura di Aureliano (porte Appia e Latina).

II. Caelimontium: tutto il Celio con l'Agro Laterano.

III. Isis et Serapis: Colle Oppio, occupato più tardi dalla Domus Aurea, e valle del Colosseo.

IV. Templum Pacis: Colle Cispio (Santa Maria Maggiore) fino all'aggere Serviano, area poi del Foro della Pace, sommità della Velia e lato occidentale della summa e media Sacra via.

V. Esquiliae: la parte dell'Esquilino ad oriente delle Mura Serviane, compresa entro la zona degli acquedotti che convergono nella famosa località ad Spem Veterem. Questa regione era, prima di Augusto, adibita a pubblico sepolcreto della popolazione più povera, e quindi malsana e poco abitabile, ma fu per opera di Mecenate bonificata e sistemata a parco.

VI. Alta Semita: comprendeva quasi per intero i colli Quirinale e Viminale, fra il Vicus Patricius (Via Urbana) e la linea del pomerio, segnata presso a poco dalle posteriori mura di Aureliano.

VII. Via Lata: Monte Pincio con i giardini di Lucullo, degli Acilî e dei Domizî, e pendici sottostanti fino alla Via Flaminia per tutto il percorso urbano.

VIII. Forum Romanum: cioè il Foro propriamente detto, con i Fori Imperiali e il Campidoglio.

IX. Circus Flaminius: era la regione più vasta, perché fu quella che durante l'impero subì la maggior espansione, includendo tutto il Campo Marzio, tra la Via Flaminia, le pendici del Campidoglio e il Tevere.

X. Palatium: il Palatino, secondo i suoi confini naturali compresi fra quattro strade: la Via Nova, il Vicus Tuscus, la Via della Valle Murcia, a contatto col lato nord-orientale del Circo Massimo, e la Via Trionfale.

XI. Circus Maximus: la Valle Murcia fra il Palatino e l'Aventino, il Velabro e il Foro Boario.

XII. Piscina publica: altura detta "il piccolo Aventino" e pianura sottostante verso est fino alla Via Appia.

XIII. Aventinus: la sommità maggiore dell'Aventino e la regione degli Horrea fino al Monte Testaccio compreso.

XIV. Transtiberim: pianura del Trastevere, Ager Vaticanus e ultime pendici del Gianicolo.

Gli autori antichi, nel ricordare la divisione compiuta da Augusto in quattordici regioni, non ci dànno nessuna notizia particolare sui criterî da lui seguiti. Svetonio (Aug., 30) dice che egli divise la città, e stabilì che ogni anno si tirassero a sorte dal complesso dei pretori, degli edili e dei tribuni della plebe i magistrati che dovevano amministrare le regioni. Sembra che Augusto si preoccupasse di dividere la città, quale era al suo tempo, in tante parti uguali, facendo centro nel Palatino e procedendo da sud verso nord in questo modo: furono dapprima tracciate due linee concentriche intorno al Palatino, una lungo le Mura Serviane, e un'altra. lungo la cinta daziaria, che corrispondeva in massima anche a quella del pomerio, e che limitava la zona dei continentia aedificia. Quindi furono tracciate le linee radiali, che tagliarono i due cerchi in tanti settori, e queste linee radiali seguirono generalmente le grandi vie che si dirigevano verso il Suburbio: la Flaminia (Via Lata), la Salaria, la Tiburtina, la Tusculana, l'Appia, l'Ardeatina e l'Ostiense. Ne risultarono così sette regioni entro le Mura Serviane (II, III, IV, VI, VIII, X e XI), sei fuori delle mura (I, V, VII, IX, XII, XIII), e una sola al di là del Tevere (XIV).

Subito però si notò un certo squilibrio fra le regioni intramuranee e quelle extramuranee, perché, mentre le prime non erano passibili di ampliamento, e anzi le nuove costruzioni di carattere monumentale limitavano sempre più lo spazio destinato ai fabbricati per uso civico, le seconde potevano estendersi senza alcuna restrizione e quindi diventare sproporzionate rispetto alle prime.

Questo inconveniente, che si accentuò poi notevolmente nei secoli seguenti, non infirmò la divisione augustea, la quale rimase per tutto l'impero a base dell'amministrazione dell'urbe, e fu ancora seguita dai compilatori dei cataloghi della prima metà del sec. lV; ad essi dobbiamo l'elenco degli edifici monumentali di ogni regione, col numero dei vici o quartieri, dei palazzi signorili e delle case del popolo, oltre all'ambitus o perimetro di ogni regione, espresso con la formula: continet pedes...

Il fatto che le regioni III e IV prendono il nome da templi eretti dopo Augusto (Isis et Serapis e templum Pacis) ci induce a credere che in origine le regioni non avessero un nome, ma fossero indicate soltanto con un numero. Il nome fu loro attribuito più tardi, non prima di Tito, e forse soltanto all'inizio del sec. III.

Vediamo ora in particolare come si svolse in Roma l'attività edilizia del grande imperatore.

Ultimati gli edifici iniziati da Cesare (la basilica forense, il nuovo foro, la Curia e i Saepta) e dedicato a lui un tempio nel Foro Romano (templum Divi Julii) nel luogo stesso dove il dittatore era stato cremato (vedi FORI), Augusto, in ringraziamento per la protezione avuta da Apollo nelle sue prime imprese, innalzò al dio della luce un sontuoso tempio e un portico (detto delle Danaidi) sul Palatino, a fianco della sua domus (v. PALATINO). Iniziò la costruzione di un nuovo Foro, a fianco di quello di Cesare, opera mai vista sino allora in Roma per grandiosità di mole, per ricchezza di marmi, per lusso di decorazioni, in mezzo al quale salivano verso il cielo le colossali colonne del tempio di Marte Ultore.

Ma dove maggiormente si svolse l'opera di Augusto fu nel Campo Marzio, dove egli, insieme con Agrippa, dettò un vasto piano regolatore, destinato a rendere quella regione, fino allora acquitrinosa e abbandonata, una delle più belle de mondo. Augusto riserbò per sé l'area a sinistra della Via Flaminia, dall'odierna Piazza Colonna fino al limite nord della città, e quivi costruì l'Ara Pacis (v.), il Solarium, con l'obelisco ora in Piazza Montecitorio, che faceva da gnomone, e il suo Mausoleo (v. AUGUSTO), che contornò di giardini a guisa dei principali sepolcri situati lungo le vie consolari.

Agrippa devolse le sue grandi ricchezze a bonificare l'area più a sud, già depressa e malsana. Il principale edificio costruito da Agrippa fu il Pantheon (v.): del monumento primitivo nulla rimane, quello che vediamo essendo una totale ricostruzione di Adriano. A esso contigue erano le Terme, contornate da parchi e allietate da un laghetto (stagnum), dal quale si partiva un canale scoperto (euripus) fino al Tevere. Agrippa sistemò anche tutto il tratto della Via Flaminia corrispondente alla zona suddetta, e sul fianco occidentale innalzò un grande portico detto degli Argonauti per le pitture che lo adornavano, mentre sul fianco orientale, dove egli possedeva un vasto terreno (campus Agrippae), eresse un grande portico quadrilatero, che da lui prese il nome di Vipsania, adorno anch'esso di giardini.

Mentre Agrippa bonificava il Campo Marzio, destinandone larghe zone a uso pubblico, Mecenate risanava l'Esquilino. Egli spianò le maggiori asperità del terreno, riversandone la terra nei sottostanti puticoli e livellando tutta la zona compresa fra le attuali vie Giovanni Lanza, Mecenate, Merulana e Piazza Vittorio Emanuele: su tutta la zona piantò gli ameni giardini, esistiti durante tutto l'impero, e da lui denominaii.

Lungo sarebbe ricordare tutte le opere eseguite o restaurate sotto il regno di Augusto, per la maggior parte col denaro privato dell'imperatore, onde egli si meritò il titolo conferitogli dal senato di restitutor aedium sacrarum et operum publicorum. Le sue res gestae ce ne dànno l'elenco schematico e fortemente dimostrativo.

Il regno di Tiberio si distingue soprattutto per opere di carattere religioso: l'imperatore restaurò nel Foro i templi dei Castori e della Concordia; quello della Fors Fortuna nel Trastevere, quello di Flora sotto l'Aventino, quello di Cerere, Libero e Libera presso il Circo Massimo, e quelli di Giano e della Speranza nel Foro Olitorio. Contemporaneamente egli erigeva sul Palatino un nuovo palazzo per la sua regale dimora, più ampio e comodo della vecchia casa di Augusto.

Tiberio provvide anche a dare una dimora stabile alla guardia pretoriana, che tanta parte aveva nei servizî d'ordine e nelle cerimonie imperiali. Per questo edificio (castra praetoria) egli scelse l'estremità nord-orientale dell'Esquilino, e seguì la forma tradizionale degli accampamenti militari, cioè un rettangolo (di m. 430 per 371) recinto da un muro merlato di mattoni alto circa 3 metri e riaforzato con torri, specialmente a fianco delle quattro porte. Nella nuova caserma potevano essere alloggiati circa 9000 pretoriani e in qualche caso anche di più. E incerto se l'ingresso principale fosse a nord-est o a sud-est, ma è più probabile in quest'ultima direzione, secondo i precetti della castrametatio.

Il suo successore Caligola non compì opere di grande importanza, ed è solo degno di memoria per avere iniziato la costruzione dei due grandi acquedotti detti Aqua Claudia e Anio Novus, che furono completati durante il regno di Claudio con opere grandiose di perforazione e di manufatti per la lunghezza di quasi 69 km. il primo e 87 il secondo.

Ambedue prendevano l'acqua dell'Aniene, a monte di S. Cosimato, il Claudio più in basso, l'Aniene nuovo più in alto, portando a Roma oltre 9000 quinarie di acqua limpida e perenne, che veniva distribuita, per mezzo di castelli di divisione impiantati sull'Esquilino, a tutte le 14 regioni della città. Di fronte a un lavoro così colossale e a tanta magnificenza di opere costruttive, di cui qualche esempio resta ancora nella Campagna Romana, presso le Capannelle, non possiamo fare a meno di ricordare le parole entusiastiche di Plinio (Nat. Hist., XXXVI, 123): "Chiunque abbia osservato con diligenza l'abbondanza delle acque pubbliche che affluiscono nelle terme, nelle piscine, nei canali, nelle case, nei giardini e nelle ville suburbane, condotte in Roma per mezzo di lunghe arcate artificiali, di monti scavati, di valli appianate dovrà confessare che niente di più meraviglioso è stato creato in tutto l'orbe terraqueo".

All'imperatore Claudio si debbono anche la costruzione del grandioso Porto Ostiense, e l'apertura di una nuova foce al Tevere per facilitare la navigazione del fiume e l'afflusso a Roma delle merci, che da ogni parte dell'impero venivano condotte alla capitale. Il porto fu poi ampliato da Traiano e divenne una nuova città che gareggiò con la stessa Ostia.

Segue un periodo tristemente celebre per la storia edilizia di Roma: il regno di Nerone. Sotto di lui avvenne il terribile incendio, che, sviluppatosi nella notte fra il 18 e il 19 di luglio dell'anno 64 presso la curva del Circo Massimo, si propagò a tutta la zona sud-orientale della città, distruggendo per nove giorni quasi continui tre delle quattordici regioni augustee (le regioni III, IV e XI) e danneggiandone gravemente sette II, V, VIII, IX, X, XII, XIII).

Tra i più importanti edifici distrutti vanno annoverati i templi di Vesta, di Giano, dei Castori e di Giove Statore, nel Foro, insieme con la casa delle Vestali, la Regia e la Curia; l'ara di Ercole, il tempio dello stesso dio e il tempio della Luna nel Foro Boario; la Domus Transitoria, la Domus Tiberiana e il portico delle Danaidi sul Palatino; il tempio di Giove Capitolino; il tempio di Claudio sul Celio, il Circo Massimo e tutte le belle ville dell'Esquilino e del Celio.

Subito dopo l'incendio Nerone promulgò un piano regolatore per la ricostruzione della città, che segnò un importante mutamento nei concetti dell'urbanistica, tale da giustificare la forma aedificiorum urbis nova di cui parlano Tacito e Svetonio. Questo mutamento consisté nell'edificare case interamente di muratura, cioè di opera laterizia, e non più in graticcio di legno con tramezzi di materiale posticcio, arieggiandole per mezzo di giardini e cortili interni. Anche le strade vennero allargate e rese rettilinee, fiancheggiate da portici, con insulae ben circoscritte, le facciate delle case fornite di balconi e di numerose finestre, e abbondanti fontane pubbliche distribuite per le vie per attingere acqua in caso di incendî.

Questo piano regolatore fu applicato soprattutto dai successori, perché Nerone, nei quattro anni di regno che gli rimasero, si preoccupò quasi esclusivamente della costruzione della sua nuova villa, che per lo splendore degli ornamenti fu detta Domus Aurea, villa grandiosa che si estese su gran parte del Palatino, su parte del Celio, compresa la Valle intermedia dove era lo stagnum, sull'Oppio e sulle Carine, unendosi da una parte con i giardini di Mecenate e dall'altra col Foro Romano.

Gli autori antichi criticano severamente la costruzione di questa Domus, la quale con la sua enorme estensione tolse al popolo quartieri tra i più ameni e frequentati della capitale. Per la nuova fabbrica Nerone si servì di due architetti romani, Severo e Celere, i quali idearono per il loro augusto signore gli edifici più strani, tra cui è ricordata una cenatio rotunda, la cui vòlta girava a guisa della sfera celeste. Intorno allo stagno erano numerosi edifici foggiati come stabilimenti balneari, con fontane di acque sulfuree e marine, mentre sul Celio si estendeva un vasto parco, popolato dalla fauna più varia, domestica e selvatica.

Il palazzo principale della villa si conserva quasi per intero, perché, essendo posto a ridosso del Colle Oppio, fu da Traiano sotterrato per costruirvi sopra le nuove terme. Ha una fronte di trecento metri e una larghezza di novanta; per tutta la fronte correva un triplice portico di colonne marmoree, mentre un grande peristilio rettangolare dava luce alle stanze più interne. La pianta si può considerare come divisa in due parti distinte, una per l'abitazione privata dell'imperatore e della sua famiglia con stanze da letto, spogliatoi, piccoli salotti e cappelle private, l'altra con grandi sale per ricevimento, alti e ben arieggiati criptoportici, ninfei e stanze di convegno, delle quali stanze una colpisce per la sua forma bizzarra a ottagono con vòlta fenestrata nel centro e numerose aule tutt'intorno a raggera.

Mentre la decorazione marmorea è stata tutta divelta dagli stessi antichi poco dopo la morte di Nerone, rimangono notevoli resti delle pitture parietali che Plinio ci dice eseguite da un certo Amulius o Fabullus.

Alla morte di Nerone il palazzo non era ancora finito: Ottone e Vitellio vi destinarono somme ingenti, ma Vespasiano e Tito si preoccuparono di ridare al popolo il territorio abusivamente usurpato da Nerone fra il Celio e l'Oppio, trasformando in parco e ripristinando il tempio del divo Claudio da Nerone ridotto a ninfeo della sua villa. Prosciugato lo stagno, in suo luogo eressero la mole colossale dell'anfiteatro, mentre sulle Carine Tito fondava quelle eleganti terme pubbliche che da lui presero il nome.

Il regno di Vespasiano va anche ricordato per la costruzione del tempio della Pace, contornato da un portico a guisa dei Fori Imperiali, in cui l'imperatore ripose le spoglie del distrutto tempio di Gerusalemme, e per il rifacimento del tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio.

Ma il vero ricostruttore di Roma dopo l'incendio neroniano e dopo quello avvenuto sotto Tito nell'80, fu Domiziano. A lui si debbono nel Foro il rinnovamento del tempio di Vesta con l'annessa casa delle Vestali, e quello del tempio di Augusto e dell'atrio di Minerva, che facevano da ingresso monumentale alle nuove fabbriche palatine; la Curia, interamente rifatta, il tempio eretto in onore del padre divinizzato, e sull'alto della Velia un arco trionfale in onore del fratello Tito.

Per riunire il Foro di Augusto con quello di Vespasiano, Domiziano sistemò l'area intermedia con un portico oblungo, detto Foro Transitorio o Foro di Nerva, perché ultimato dal suo successore, e in fondo a esso costruì un tempio alla divinità protettrice, Minerva.

Importanti edifici egli eresse, o restaurò, anche nel Campo Marzio, e cioè l'ampio Stadio, rappresentato dall'odierna Piazza Navona, l'Odeon, per le gare poetiche e musicali che egli amava molto (palazzo Massimo?), il Pantheon di Agrippa, che fu poi interamente rifatto da Adriano, il tempio di Iside e Serapide e il tempio di Minerva Calcidica, nella zona fra S. Stefano del Calco e la chiesa di S. Maria sopra Minerva, e più a sud la Villa publica, la porticus Minucia e il Diribitorium. Inoltre egli rifece per la quarta volta il tempio di Giove Capitolino, distrutto nuovamente dall'incendio dell'80.

Con Domiziano si sviluppa sempre più quell'architettura mistilinea che aveva fatto la prima apparizione nella Domus Aurea di Nerone, e che sarà portata in seguito alla massima efficienza da Adriano. Alle pareti rette vengono di preferenza sostituite quelle ricurve, interrotte da nicchie e da absidi con colonne staccate dalle pareti e sormontate da cornici a mensola; le vòlte s'innalzarono sempre più slanciate e leggiere, rafforzate da costoloni, in cui il mattone, di accurato impasto e di perfetta cottura, diviene parte essenziale per la nuova tecnica architettonica. Ma le cure di Domiziano furono particolarmente rivolte al Palatino per la costruzione di una nuova sede della famiglia imperiale, dopo che la Domus Aurea era stata abbandonata e in parte distrutta dai suoi predecessori. La vallata fra il Germalus e il Palatium fu colmata con le stesse rovine della Domus transitoria e ne nacque un piano artificiale, sul quale si svilupparono le ampie sale del palazzo flaviano. Poiché esso era interno, fu fornito di varî ingressi sui lati prossimi del colle, e così uno, il principale, fu aperto sulla Velia, di fronte all'arco di Tito, un altro attraverso la Domus Gai sul Foro.

Il vasto progetto di Domiziano, messo in opera dal suo architetto Rabirio, non si fermò qui. Il palazzo costruito fra le due alture, sebbene grandioso quanto un imperatore amante del grande e del lusso potesse desiderare, non bastava ai servizî di una corte così abbondante, onde fu necessario costruirne un altro sul fianco meridionale, che servisse da vero palazzo di abitazione, mentre il primo rimase il palazzo rappresentativo, ufficiale. E ancora a mezzogiorno di questo fu innalzato il magnifico Ippodromo per le gare ginniche e le esercitazioni equestri; infine nell'angolo del colle che guarda il Celio vennero gettate le fondamenta di un completo stabilimento termale, per il quale furono necessarie grandi opere di rinforzo e un ampliamento del colle stesso. Il secondo palazzo, che si suole chiamare comunemente Domus Augustana, fu ultimato forse da Traiano, come fanno supporre alcuni bolli di mattone rinvenuti nella Villa Mills; le terme furono invece completate soltanto un secolo dopo da Settimio Severo.

Al piano di Domiziano risalgono anche gli horti Adonis, cioè il portico-giardino costruito sopra uno sperone artificiale nell'angolo orientale del colle, che rettificò l'antica altura della Velia, e il monumentale ingresso delle fabbriche palatine sul vicus Tuscus, sul luogo del distrutto tempio di Augusto, di cui conservò probabilmente il nome e il culto. Anche questo ingresso fu ultimato da Traiano. Ad Adriano appartengono le grandi sostruzioni sul clivus Victoriae, fatte per ampliare il piano della Domus Tiberiana fino sul Foro, portandone il fronte sulla via Nova. Gli arconi furono rinforzati in seguito da Settimio Severo.

Alcuni scrittori antichi attribuiscono a Domiziano anche la fondazione del Foro di Traiano e delle terme del colle Oppio, notizia che è molto attendibile, perché questa fondazione è la conseguenza di quel vasto piano regolatore studiato già da Vespasiano e Tito.

Narra infatti Plinio (Nat. Hist., III, 9) che questi imperatori ordinarono una nuova misurazione di tutta la città, prendendo le mosse dal Milliarium aureum del Foro fino alle porte delle Mura Serviane, che ormai erano tutte racchiuse nell'abitato, e da queste fino alla nuova cinta daziaria, posta all'estremità dei caseggiati. Fu eseguito in quell'occasione (74 d. C.) anche un nuovo censimento della città e redatta una nuova pianta, che fu affissa per uso del pubblico dietro il tempio degli dei Penati e della Sacra Urbs, in prossimità del Foro della Pace.

Apollodoro di Damasco fu il rinomato autore delle grandi opere che Traiano condusse a termine e alle quali diede il suo nome. Per il Foro grandioso con la basilica Ulpia, con le biblioteche e con la colonna coclide, v. FORI: Fori imperiali. Le terme costruite sull'area della Domus aurea di Nerone segnano un concetto interamente nuovo negli edifici di questo genere, perché in esse si distinguono i bagni propriamente detti dai luoghi di ritrovo, dalle palestre e dalle biblioteche; ombrosi giardini sono interposti fra il corpo centrale del fabbricato e il recinto periferico.

Adriano si dedicò quasi interamente ad opere di restauro, ricostruendo dalle fondamenta il Pantheon e le terme di Agrippa, e innalzando un portico con un tempio a Marciana, sorella di Traiano, e a Matidia sua figlia. Essendo già pieno da tempo il Mausoleo di Augusto, egli eresse un nuovo sepolcro al di là del Tevere nei giardini di Domizia (v. CASTEL SANT'ANGELO), e per dargli un accesso diretto dal Campo Marzio costruì un nuovo ponte (ponte Elio), composto di tre archi centrali più grandi, quelli che restano tuttora integri, e di tre archi laterali più piccoli, oggi sostituiti con due moderni. Celebre è inoltre il tempio decastilo di Venere e Roma sulla Velia, contornato da un gigantesco portico di colonne di granito, e formato da due celle abbinate con le absidi opposte l'una all'altra.

Di poca importanza per la storia monumentale di Roma è la dinastia dei primi Antonini. La colonna istoriata di Marco Aurelio non è che una ripetizione, meno felice, di quella di Traiano; l'altra colonna di Antonino Pio, a fianco dell'ustrino imperiale, che era presso l'attuale Piazza di Montecitorio, e i due archi trionfali (uno sulla Via Flaminia all'altezza del Palazzo Fiano-Almagià e l'altro nei pressi della chiesa di S. Martina sotto l'Aracoeli), di cui si conservano i pannelli decorativi in Campidoglio, sono composizioni ancora nobili e accurate, ma senza originalità e di fredda esecuzione. Si cominciano ad osservare nell'arte romana i primi segni di quella decadenza, che si farà sempre più accentuata nei secoli seguenti con progressione quasi geometrica; solo l'architettura riesce a sciogliersi da questi vincoli e a dare ancora forme grandiose, come il tempio di Antonino e Faustina nel Foro, quello del divo Adriano in Piazza di Pietra e quello perduto di Marco Aurelio nel Campo Marzio.

Un notevole risveglio architettonico si ha invece sotto Settimio Severo e Caracalla. Sorgono le nuove grandi Terme Antoniniane nella valle tra il piccolo Aventino e il Celio, vasti e ben attrezzati magazzini presso il Tevere e nelle vicine città di Ostia e di Porto, archi di trionfo nel Foro Romano (arco di Settimio Severo) e nel Foro Boario (arco degli Argentarî), le caserme dei vigili e degli equiies singulares, mentre un po' dappertutto vengono restaurati vecchi edifici, gli acquedotti (cui se ne aggiunge uno nuovo: l'aqua Alexandrina), gli horrea e i templi (portico di Ottavia e templi di Giove e di Giunone, Pqntheon e tempio di Vesta), restauri resi necessarî da un altro gravissimo incendio avvenuto nel 191 sotto l'impero di Commodo, nella regione del Foro Romano e del Campidoglio.

Una mania di fasto e di grandezza invade ormai non solo la corte, ma tutte le ricche famiglie patrizie, le quali fanno a gara nel costruirsi ville grandiose e palazzi adorni nei modi più ricercati, tanto in Roma quanto nel suburbio. Si ricordino gli horti Variani, presso la Porta Maggiore, i Liciniani sull'Esquilino, la villa dei Tordiani al terzo miglio della Via Prenestina, e quella di Massenzio al terzo miglio dall'Appia. Ma a porre un freno a tanto lusso e a tanto sperpero di denaro ecco affacciarsi le prime minacce d'invasioni barbariche entro i confini finora inviolati dell'Impero, minacce che costringono Aureliano nel 272 a porre mano alla costruzione di una nuova linea di mura concepita secondo più aggiornate regole di arte militare.

Cinque anni almeno durò l'immane lavoro, che assorbì ingenti somme e impiegò migliaia di operai, ma che diede alla capitale, almeno per un secolo, la sensazione della sicurezza.

Il nuovo muro ebbe la lunghezza di m. 18.837, secondo i calcoli di R. Lanciani, e fu condotto generalmente sulla sommità delle colline, scendendo a valle solo per l'attraversamento delle grandi vie suburbane. Per avvantaggiare la costruzione, gli edifici di una certa importanza che si trovavano lungo il percorso e che si prestavano allo scopo furono inclusi nelle mura con le dovute trasformazioni. I principali di essi sono: i giardini degli Acilî sul Pincio (m. 550), i Castra Praetoria (m. 1050), le arcate della Marcia (m. 800) e quelle della Claudia (m. 475), l'Anfiteatro castrense (m. 100), oltre a varî edifici minori, come la piramide di Caio Cestio, le sostruzioni della casa dei Laterani e una casa privata presso la Porta Tiburtina. Nelle mura si aprivano sedici porte e altrettante posterule, porte secondarie, sopra le vie vicinali. Le porte sono, cominciando dal nord e proseguendo verso est: Flaminia, Pinciana, Salaria, Nomentana, "Chiusa", Tiburtina, Prenestina, Asinaria, Metronia, Latina, Appia, Ardeatina, Ostiense, Portuense, Aurelia Sancti Pancratii, e Aurelia Sancti Petri (v. PORTA).

Il muro (v. MURO, XXIV, pagina 70) era difeso in origine da 383 torri, incluse le sei del mausoleo di Adriano, anch'esso trasformato in fortezza come testa di ponte del Tevere, 7020 propugnacula, cioè merli per riparo degli arcieri, 2066 finestre grandi per le artiglierie e un numero non calcolato di finestre piccole, o feritoie. A questa efficienza, ricordata dall'Itinerario di Einsiedeln, forse sulla base della misurazione del geometra Ammone, fatta sul principio del sec. IV, le mura arrivarono attraverso numerosi restauri posteriori, tra cui particolarmente notevoli quelli di Massenzio nel 312, di Arcadio e di Onorio nel 402-405, sotto la direzione di Stilicone; nuovi lavori furono compiuti più tardi ancora da Belisario e Vitige.

Le porte, come le vediamo oggi, vanno in gran parte attribuite all'impero di Arcadio e di Onorio, come sappiamo da alcune iscrizioni collocate sulle porte Tiburtina, Prenestina e Portuense, e dalla croce cristiana che si vede scolpita sulla chiave dell'arco delle porte Appia e Latina.

Durante i regni di Diocleziano (284-305), di Massenzio (306-312) e di Costantino (311-337) abbiamo l'ultima fase ascendente dell'edilizia romana. Diocleziano ripara i danni avvenuti in alcuni edifici del Foro Romano (Curia, Basilica Giulia, tempio di Saturno, Rostri, Via Sacra) in seguito al funesto incendio che era divampato sotto Carino (282), ed erige sul Viminale un nuovo, imponente edificio termale (Thermae Diocletianae), il più grande e il più perfetto che Roma abbia mai avuto; Massenzio restaura quasi tutti gli edifici della Velia, gli Horrea margaritaria et piperataria, il tempio dei Penati (il cosiddetto templum Sacrae Urbis), il tempio di Venere e Roma, e fonda fra questi due ultimi la sua colossale basilica.

Nel 312 d. C., la battaglia ad saxa rubra toglie a Massenzio l'impero e la vita, e pone il potere nelle mani di Costantino. In onore del nuovo imperatore il senato decreta l'erezione di un arco di trionfo presso l'Anfiteatro Flavio, arco che è il più grandioso di tutta la romanità, e di una statua equestre nel Foro, mentre un altro arco quadrifronte venne innalzato nel Foro Boario (il cosiddetto arco di Giano), come punto di ritrovo dei mercanti di quella regione: sorgono le eleganti Terme Costantiniane sul Quirinale, presso il tempio del Sole edificato da Aureliano, e le Terme Eleniane attigue al Palazzo Sessoriano, all'estremità orientale dei colli Esquilini. Delle terme non rimane più alcun avanzo fuori terra; del Palazzo Sessoriano restano la grande aula, in cui Elena fondò la sacra cappella della Hierusalem, e alcune absidi con stanze attigue di grandi proporzioni, che attestano il lusso delle fabbriche imperiali in quel tempo. Al grande palazzo si deve anche attribuire il piccolo Anfiteatro Castrense, che è racchiuso oggi nel giardino del convento di S. Croce e che fu eretto circa un secolo prima, al tempo dei Severi.

Per gli edifici cristiani erettì da Costantino, come pure per la trasformazione subita dalla città fra il sec. III e il IV sotto l'impulso della nuova fede, v. oltre: Archeologia e topografia cristiana. Fino a tutto il sec. IV Roma è ancora nel suo massimo splendore, e templi pagani, le basiliche, i Fori continuano a essere frequentati da una popolazione numerosa e varia, in cui è ancora vivo lo spirito di Roma imperiale, e in cui domina il fasto della secolare supremazia sul mondo intero: si legga, p. es., la descrizione di Roma che fa Ammiano Marcellino (XVI, 10, 13) per esprimere la meraviglia provata dall'imperatore Costanzo II, quando nel 357 visitò la città.

Compresi di tanta grandezza, gl'imperatori e il senato provvedevano ancora nei periodi di pace ad innalzare nuovi edifici a decoro della città e a glorificazione delle loro gesta.

Sono specialmente archi onorarî, come quello di Graziano, Valentiniano e Teodosio, elevato nel 382 a coronamento delle Porticus Maximae, presso il Ponte Elio, l'altro a Valentiniano e Valente, vicino a Ponte Sisto, e un terzo ad Arcadio, Onorio e Teodosio (405) fra la chiesa di S. Apollinare e la via dell'Orso. Sono restauri alle mura e alle porte di Roma, che acquistano la forma in cui le vediamo oggi (402-405), forma nobile e grandiosa, che dimostra come i Romani avessero ancora quel senso del monumentale e dell'eterno, pur in un periodo di così gravi preoccupazioni politiche.

Il sacco di Roma per opera di Alarico nel 410 d. C. segna l'inizio della decadenza monumentale della città. Andarono distrutte numerose statue d'oro e d'argento che erano nei santuarî e nei portici, furono strappate le decorazioni metalliche delle basiliche e dei templi, e fu rapito ogni oggetto di valore. Solo la parte architettonica degli edifici rimase integra, e come tale si conservò fino almeno alla metà del secolo seguente. Quantunque il culto pagano, soprattutto da Teodosio in poi, fosse sempre più rigorosamente represso, i templi stessi non furono manomessi, e tanto meno demoliti. Solo qualche secolo più tardi alcuni di essi furono trasformati in chiese cristiane, costruendovi dappresso monasteri e palazzi, talvolta fatti come vere fortezze con torri e bastioni.

Il popolo seguitava ancora a radunarsi nei circhi e negli anfiteatri, dove spettacoli fastosi venivano offerti alle masse come per il passato, a cura degli imperatori e dei loro generali. Il Colosseo subisce nuovi restauri fra il 425 e il 430, sotto Teodosio II e Valentiniano III, le terme di Decio sull'Aventino e quelle di Costantino sono rimodernate pochi anni dopo (443) e numerosi altri edifici sono mantenuti in efficienza mediante rappezzi, che si distinguono per la loro esecuzione affrettata e per il materiale quasi sempre di riporto.

Per avere un quadro generale della topografia della città all'inizio del sec. IV d. C. diamo uno sguardo alla pianta nell'ambito delle mura dì Aureliano. Un grandioso complesso di edifici si svolgeva nella zona centrale, comprendendo il Foro Romano, il Palatino, i Fori Imperiali e l'Anfiteatro Flavio.

Quivi sorgevano i più bei templi: dei Castori, di Apollo Palatino, di Marte Ultore e della Pace, che fu considerato come una delle sette meraviglie della Città Eterna. Con la costruzione dei Fori Imperiali, Roma aveva acquistato nuove piazze e nuove aree porticate per il passeggio dei cittadini e per la trattazione degli affari. Quantità ingenti di marmi erano state trasportate dalle cave lontane a decorare i sontuosi edifici col gusto più ricercato e col lavoro di abili maestranze, mentre tra i colonnati, sotto i portici e nell'interno dei templi si ammiravano opere egregie dell'arte greca, che i conquistatori avevano qui trasportato.

Ai visitatori che venivano dalla Via Appia si presentava dinnanzi agli occhi il fastoso palazzo imperiale dominante dal Palatino l'ampia vallata, cui faceva da quinta colossale verso sud il Settizonio severiano coi suoi colonnati a più piani sovrapposti.

Percorrendo la Via Trionfale si passava sotto l'arco di Costantino e quindi per la Via Sacra si scendeva nell'area del Foro, ormai ridotta ad una piccola piazza, ma quanto mai insigne per le memorie millenarie e per i santuarî, le basiliche e gli archi che la contornavano. In alto, sul Campidoglio, dominava il tempio di Giove Ottimo Massimo, interamente rifatto da Domiziano, meta delle processioni e dei sacrifici più solenni e ricco delle spoglie di tante vittorie e trionfi.

Dal Foro si irradiavano le strade più importanti, che giungevano ai lontani confini dell'Impero. Scendendo per il Clivus Argentarius e poi per la Via Lata si entrava nel Campo Marzio. Là dove fino a Cesare e Pompeo era terreno sconvolto e in molti punti acquitrinoso, l'opera dell'uomo aveva fatto miracoli: ricchi portici, giardini pubblici, terme eleganti, luoghi ricercati per passeggio e per divertimento erano profusi con dovizia mai vista. Nella parte meridionale erano i tre teatri di Marcello, di Balbo e di Pompeo, e i portici di Ottavia, di Filippo, di Minucio e dello stesso Pompeo, questi ultimi i più grandi e i più pregiati di tutta la città; il Circo Flaminio e lo stadio di Domiziano attiravano le folle più ancora del Circo Massimo per la pompa raffinata degli spettacoli e per le gare che appassionavano l'anima popolare.

Vie coperte da loggiati pensili riparavano il viandante fino all'imbocco dei ponti che attraversavano il Tevere verso i giardini di Domizia, di Agrippina e di Cesare, vasti parchi che gl'imperatori avevano aperto al pubblico, perché avesse ampio respiro di aria pura e sole.

Altri parchi si svolgevano a terrazze sul Monte Pincio, dove i ricchi Romani dell'impero avevano costruito le loro ville, emulando, e talvolta sorpassando, gli stessi palazzi degl'imperatori. La popolazione più agiata abitava di preferenza sul Viminale, sul Quirinale, sull'Esquilino e sul Celio, mentre il popolo affollava il Trastevere e la periferia in grandi case di affitto non molto ariose. Donde il bisogno di dare al popolo grandi stabilimenti di bagni, numerose oasi di verde, palestre e piscine. I cataloghi regionali ci dànno infatti nel sec. IV: 856 bagni pubblici, 1352 fontane di acqua potabile, 254 pistrina o molini, 290 magazzini e luoghi di vendita di derrate alimentari, in confronto di 1780 palazzi signorili e 46.602 insulae, o gruppi di case d'affitto.

Gli stessi cataloghi ci dànno questo elenco riassuntivo di monumenti: due Capitolia, uno, il Capitolium vetus, sul Quirinale e l'altro sull'Arce Capitolina; due circhi (Massimo e Flaminio); due anfiteatri (Flavio e Castrense); due colossi (quello di Nerone trasformato poi in statua del Sole e quello di Costantino); due colonne coclidi; due macelli (Magnum sul Celio e di Livia sull'Esquilino); tre teatri; quattro ludi (Dacius, Gallicus, Magnus e Matutinus, tutti fra l'Esquilino e il Celio, presso il Colosseo); due naumachie (quella di Augusto e quella Vaticana); quindici ninfei, ventitré grandi statue equestri, ottanta statue d'oro di divinità e ottantaquattro di bronzo; trentasei archi marmorei, trentasette porte, calcolando tanto quelle del recinto serviano, quanto quelle del recinto Aureliano; quattrocentoventiquattro edicole di divinità, cioe immagini e statuette poste sulle pareti delle case e nei crocicchi delle vie (arae compitaliciae); quattrocentoventiquattro vici, o quartieri, limitati da strade pubbliche. Si debbono poi aggiungere, secondo il testo che va sotto il nome di Publio Vittore, ventinove biblioteche, tra cui due particolarmente celebri: la Palatina e la Ulpia; sei grandi obelischi (due nel Circo Massimo, uno nel Circo Vaticano, uno nel Campo Marzio per l'orologio solare di Augusto; due uguali avanti al mausoleo dello stesso imperatore, oltre a molti altri più piccoli nell'Iseo Campense e nelle ville private); otto ponti (Milvio, Elio, Vaticano, Gianicolense, Fabricio, Cestio, Emilio e Sublicio); dieci basiliche (di Nettuno, di Matidia e di Marciana nel Campo Marzio; Ulpia nel Foro Traiano; Giulia, Emilia, Argentaria e Costantiniana nel Foro; quella di Sicinio sul Colle Cispio e le due altrimenti sconosciute dette Vestilia e Floscellaria); dodici grandi edifici termali (terme di Tito e di Traiano presso il Colosseo; di Agrippa, di Nerone, dette anche Alessandrine, nel Campo Marzio; di Decio, di Licinio Sura e di Commodo sull'Aventino; di Caracalla nella regione XII, di Settimio Severo nella I, di Costantino sul Quirinale, di Diocleziano sul Viminale e di Elena presso il Laterano) e undici acquedotti (acque Appia, Aniene Vecchio, Marcia, Tepula, Giulia, Vergine, Alseatina, Claudia, Aniene Nuovo, Traiana e Alessandrina).

Per quanto riguarda i nomi dei vici, cioè delle strade urbane, in contrapposizione alle viae che erano quasi esclusivamente suburbane, va osservato che essi traevano il nome generalmente da divinità venerate sul luogo stesso, oppure da edifici di carattere pubblico, o anche da caratteristiche locali. Come esempio si possono prendere i nomi dei vici della regione XII (Piscina Publica) indicati su una base del Campidoglio: vicus Veneris Almae, vicus Piscinae Publicae, vicus Dianae, vicus [?Cei]os, vicus Triari, vicus Aquae (?) Salientis, vicus Laci Tecti, vicus Fortunae Mammosae, vicus Compiti Pastoris, vicus Portae Raudusculanae, vicus Portae Naeviae, vicus Victoris. Tre sole vie esistevano nella città, ed erano la Via Sacra, la Via Lata e la Via Nova, così dette perché lastricate fin da epoca antica con poligoni di selce, nella stessa guisa delle vie consolari.

Le piazze si chiamavano di solito areae ed erano di modesta ampiezza, spesso senza alcun carattere monumentale. Particolarmente notevoli erano: l'Area Palatina e l'Area Capitolina sui colli omonimi, quella di Vulcano e quella della Concordia nel Foro e quella di Apollo nella regione I. Le grandi piazze a carattere monumentale si chiamavano fora ed erano diciassette: oltre al Foro Romano detto anche Forum Magnum, e ai Fori Imperiali, vanno ricordati per lo speciale commercio che vi si esercitava i fori: Holitorium, Pistorium, Suarium, Boarium e Piscarium.

Infine, a completare l'elenco degli edifici urbani, non dobbiamo dimenticare le sedi delle milizie che vivevano nell'interno della città, e cioè, oltre ai Castra Praetoria di cui si è già parlato, i castra equitum singularium (guardia del corpo) nei praedia Lateranorum, i Castra Peregrina sul Celio, per i soldati di origine straniera addetti a speciali mansioni (come le frumentationes, la posta ufficiale e la polizia cittadina), i castra Misenatium e Ravennatium, distaccamenti di marinai delle flotte di Miseno e di Ravenna, per la cura delle acque, dei velarî negli anfiteatri e nei teatri, ecc. (i primi sul Colle Oppio e i secondi nel Trastevere), i castra delle cohortes urbanae e le sette caserme dei Vigili, una ogni due regioni augustee, con i varî excubitoria, o dislocamenti secondarî. Un servizio al quale i Romani dell'età imperiale diedero la massima importanza era quello dell'Annona, la cui sede era nel luogo dell'odierna chiesa di S. Maria in Cosmedin, mentre i magazzini principali di deposito delle derrate alimentari (horrea), che da Ostia e da Porto risalivano per mezzo di barconi il Tevere, erano situati nella ripa Marmorata, al disotto dell'Aventino, dietro l'Emporio. Dagli scarichi del porto fluviale, soprattutto dai residui delle anfore, con cui si recavano a Roma i prodotti delle provincie, si formò lentamente il Monte Testaccio.

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Collezioni epigrafiche: Corpus Inscriptionum Latinarum, I, 2ª edizione (Inscriptiones antiquissimae), VI, in 6 tomi (Roma); XIV (Latium) e XV (latares, fistulae: instrumenta domestica, ecc.); Ephemeris epigraphica Corporis Inscriptionum Latinarum, I-VIII, Berlino 1872-1892; Corpus Inscriptionum Graecarum, XIV: Inscriptiones Italiae, Berlino 1890.

Scavi e scoperte archeologiche: Bollettino e Annali dell'Ist. di corrispondenza archeologica, Roma 1829-1885; Notizie degli scavi di antichità a cura della R. Accademia dei Lincei e del Ministero dell'Educazione Nazionale, ivi 1876 segg.; Boll. della Commissione archeologica comunale di Roma, ivi 1872 segg.; Atti della Pontificia Accademia Romana di archeologia, ivi 1816 segg.; Capitolium, Rivista del Governatorato di Roma, ivi 1925-1935.

ACHEOLOGIA E TOPOGRAFIA CRISTIANA.

Molte basiliche di Roma succedute ad antichissimi "titoli" sono state fondate su resti di abitazioni classiche. Ciò vuol dire che in esse vi era qualche memoria del tempo delle persecuzioni, altrimenti non vi sarebbe stata necessità d'invadere queste case private, venendo talvolta a compromessi per l'adattamento delle nuove costruzioni impiantate sulle altre. Tipico l'esempio della basilica di S. Clemente, che non si limita soltanto ad acconciarsi in un grande edificio pubblico, ma poggia il muro absidale e l'abside stessa sopra un tratto di una notevole abitazione adiacente. La basilica dei Ss. Giovanni e Paolo occupa la zona principale di una insula sulle pendici del Celio. E anche su un'importante casa sta la basilica dei Ss. Silvestro e Martino ai Monti. Che poi vi fossero delle memorie cristiane in queste case è provato da certi indizî: la preesistenza di oratorî (Ss. Giovanni e Paolo); un collegamento mantenuto fra la basilica e la casa sottostante (S. Clemente, dove recenti indagini hanno accertato l'esistenza di un passaggio dopo l'erezione della basilica); parti dell'edificio sottostante intenzionalmente inserite nell'edificio superiore (colonna della casa che precedette la basilica di S. Sabina, lasciata in piedi al suo posto, tanto da costringere l'architetto a dei ripieghi per conservarla); mantenimento nel titolo della basilica di alcune particolarità degli edifici preesistenti (es., S. Susanna, detta ad duas domos, nel cod. bernese del Martyrologium Hieronymianum all'11 agosto, e in altri documenti molto antichi; il titulus fullonices, forse S. Crisogono, dove si trovarono resti di una bottega di purpurarius, ecc.); mantenimento del nome del conditor tituli, cioè del fondatore del luogo di culto anteriore alla basilica (un esempio evidente lo si ha in S. Sabina, dove il nome di questa matrona - che alla fine del sec. V non aveva ancora il predicato santa - non corrisponde a quello del fondatore della basilica, qualificato nella nota epigrafe musiva come Pietro d'Illiria, personaggio contemporaneo a Celestino I [422-432]; altro esempio lo troviamo in S. Lorenzo in Lucina - in documenti del sec. IV anche semplicemente accennata come basilica in Lucinis - dove apertamente è accusato il nome del personaggio cui si riferivano gli edifici nel cui ambito venne eretta la basilica); tradizioni diverse circa la comunità cristiana anteriormente riunentesi nella località (es., la leggenda di papa Callisto collegata al titulus Iuli et Calixti nel Trastevere, dove nell'appellativo sono bene distinti il conditor tituli, cioè papa Callisto I [221-227], e il fondatore della basilica cioè papa Giulio I [341-352].

C'è dunque una continuità di funzioni dalla casa privata in cui si radunavano i cristiani in tempo di persecuzione, alla basilica sorta dopo la pace della Chiesa. Il fatto è evidente, anche se non vi sia in Roma nessuna epigrafe che lo dimostri, come avviene p. es. ad Aquileia, o a Dura Europo (v.). Se ne potrebbero trovare altre prove anche nella prassi liturgica stazionale, di cui si tratterà in altro paragrafo.

È basilica titolare quella che si riporta al nome di un fondatore. "Titulus" è la tabella ov'è inscritto il nome del proprietario di una casa; questo nome poteva essere indicato anche sul pavimento musivo all'ingresso, come si è visto di recente per la domus Aripporum et Ulpiorum Vibiorum, scoperta sotto l'ex-ospizio di S. Antonio all'Esquilino (Riv. di archeologia crist., IX, 1932, pp. 242-243). E come in talune abitazioni si radunavano conventicole religiose protette dai proprietarî del luogo, così dovette avverarsi un'identica tutela per le conventicole cristiane. Dato che il cristianesimo dei primi tempi reclutava la maggior parte dei suoi proseliti fra il popolo e l'elemento servile, c'è da pensare che alcuni luoghi di riunione fossero in case modeste, o negli appartamenti della servitù. Dicemmo che il titulus Chrysogoni dovette stare in case e botteghe artigiane, e questo suo carattere popolare mantenne fino a tardi. Il titulus Clementis sorse in una casa patrizia; ma il pontefice di cui è memoria in questo titolo, fu quasi certamente di condizione servile, ed è comprensibile che l'assenso e la simpatia dei proprietarî per la fede che egli professava gli permettessero di stabilire un centro della comunità proprio a pochi passi dagli edifici più insigni della Roma pagana. Forse questa fu non ultima causa della tragica repressione del 96 d. C., per cui Flavio Clemente fu ucciso, la consorte Domitilla andò in esilio e il pontefice Clemente (allora, o poco più tardi) dovette essere deportato.

La chiesa di Dura Europo occupava un'aula di una casa di tipo partico (v. M. Rostovzev, Città carovaniere, trad. ital., Bari 1934, pagine 174-175) ed era decorata di affreschi con scene dell'Antico e del Nuovo Testamento. Sappiamo dai documenti della controversia donatista che anche le basiliche d'Africa erano situate in case private (Gesta apud Zenophilum, e Gesta purgationis Felicis, in appendice all'edizione di Ottato di Milevi, nel Corpus scriptorum eccles. latin., XXVI): e testimonia Ottato una certa ricchezza di queste chiese: "Erant ecclesiae ex auro et argento quam plurima ornamenta..." (I, 17); ma non vi sono documenti circa decorazioni murali, per le quali bisogna rifarsi alle basiliche posteriori. A Roma la casa sotto la chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo ha pitture di soggetto cristiano riferibili al pieno sec. IV: si potrebbe soltanto dubitare che un affresco, ove si scorgono due pecore ai lati di un vaso di latte, possa essere anteriore per lo meno alla reazione pagana del sec. IV, durante la quale qualche fatto drammatico dovette avvenire in questa casa. I frammenti di un'epigrafe damasiana testimoniano un omaggio cultuale molto antico, cioè quello che è poi denunciato dagli itinerarî del sec. VII e dal vetusto Sacramentario Lecniano.

Vi sono titoli fondati durante l'era delle persecuzioni e titoli ad essa posteriori; per questi ultimi va notata la continuazione dell'uso di convertire per fini di culto un'abitazione in basilica, alla quale resta il nome del fondatore: uso che però non sembra oltrepassare (almeno con questo carattere) i primi del sec. V.

Il Liber Pontificalis della Chiesa romana, compilazione iniziata nel sec. VI, suppone che dall'età apostolica esistessero in Roma venticinque titoli. Non si hanno prove di questa asserzione, ma se mai c'è da credere che il Liber Pontificalis rifletta una condizione di cose molto posteriore all'età apostolica, non prima cioè del sec. III, quando sembra esservi stata una riorganizzazione della Chiesa, quando il clero era assai più numeroso e si trovano già gl'indizî di una considerevole proprietà ecclesiastica. Dire quali fossero i titoli anteriori all'editto costantimano del 313 riesce, in molti casi, assai difficile. Tuttavia, sui già accennati titoli di Clemente, Crisogono, Callisto, Sabina, Lucina, non possono cader dubbî; si può anche aggiungere il titolo di Prisca (dove pure si trovarono resti molto antichi di abitazioni) e quello di Gaio (più tardi riunito a S. Susanna ad duas domos). Si vuol riportare all'avanzato sec. IV il titolo di Eusebio, ma non vi sono ragioni sufficienti; sembra invece più antico (forse del III). Del III è probabilmente anche il titolo di Equizio, dove poi venne la basilica dei Ss. Silvestro e Martino ai Monti. Molto antico doveva essere anche il titolo di Prassede, ma si avverta che la basilica attuale fu costruita da Pasquale I (nel sec. IX) "in alium non longe demutans locum" (Lib. Pont.). In quanto al titolo di Pudente (S. Pudenziana), la basilica odierna occupa una sala termale, e non sembra essere stata ivi adattata prima dell'età di papa Siricio (384-398), la cui opera fu poi resa più degna per la decorazione musiva offerta da Innocenzo I (402-417). Il nome di Pudente è forse quello del proprietario di case prossime, che furono parzialmente distrutte a pro del vano della basilica. In quanto alle terme, l'appellativo "Novaziane" è soltanto delle tarde e fantasiose compilazioni agiografiche attraverso alle quali (e anche da più significativi indizî) si capisce che nella località doveva essere un centro della setta scismatica novaziana, riconciliato dallo zelo dei papi Siricio e Innocenzo. Il titulus Cyriaci deve essere stato costituito non prima dell'età della pace, ma è molto probabile che l'erezione della basilica (ora scomparsa) entro le terme di Diocleziano continuasse il ricordo di una comunità stabilita clandestinamente fra i gruppi servili adibiti al colossale lavoro delle terme (fatto che avrebbe dei paralleli in Oriente). Oscura è la questione delle origini del titolo di Bizante e Pammachio. Nessun dubbio circa la fondazione di Pammachio (personaggio ben noto della fine del sec. IV) cui seguì l'odierna basilica deí Ss. Giovanni e Paolo. Ma v'è qualche dubbio che il titulus Byzantis debba ritenersi proprio identico a quello di Pammachio (v. C. Mohlberg, in Rivista di archeol. cristiana, XI, 1934, nn. 1-2, p. 168). In quanto al titolo di Fasciola (Ss. Nereo ed Achilleo sull'Appia intramuranea), la sua vetustà è testimoniata da epigrafi una è del 327) e dai rapporti con l'antichissimo cemeterio di Domitilla sulla Via Ardeatina. Alla spiegazione tradizionale che il nome provenga davvero dall'episodio di S. Pietro fuggente cui "cecidit fasciola apud sepem in Via Nova". (Gesta dei Ss. Processo e Martiniano, in Acta Sanctorum, luglio, I, p. 304), è stata opposta dal Huelsen (Chiese di Roma, p. 388, n. 1), la derivazione da un toponimo. Osserviamo che la regione in cui si trova il titolo (Piscina Publica) era assai frequentata dall'elemento israelitico, e sull'Appia più che in altra parte di Roma è dato constatare una singolare vicinanza di monumenti ebraici e monumenti cristiani: forse questo centro poté sorgere da un gruppo di giudei convertiti. Un titolo dell'età costantiniana è quello di S. Anastasia: sorse manifestamente in ambienti che dovevano dipendere dai soprastanti palazzi imperiali del Palatino, e non si va lontani dal vero ammettendo col Whitehead (in American Journal of Archaeology, s. 2ª, XXXI, 1927, pp. 405-20) che Anastasia debba essere un personaggio della famiglia di Costantino; l'idea del Grisar (in Analecta Romana, Roma 1899, p. 595 segg.), che pensa ad un parallelo delle chiese della Resurrezione (Anastasis) a Gerusalemme e a Costantinopoli, deve per lo meno sottoporsi a molte riserve. La Basilica Lateranense sostituì un primo luogo d'adunanze, permesso da Costantino, in quel tratto dei palazzi lateranensi che un documento collega al nome dell'imperatrice (la domus Faustae). Gli scavi più recenti hanno posto in evidenza un primo adattamento delle terme private per gli usi battesimali, e inoltre varî graffiti di non dubbio carattere cristiano. Poiché vediamo che in tutto il Medioevo ritorna spesso la denominazione di basilica Constantiniana, sorge spontaneo il ravvicinamento con quel che succede per i titoli, vale a dire la perpetuazione del nome del conditor: tanto più che questo non avviene per altre fondazioni romane dell'imperatore. Quindi la Basilica Lateranense si può considerare un titolo imperiale, dove l'idea di tutela è tanto viva da far considerare il Laterano come luogo per eccellenza "legitimus". Un titolo dell'età costantiniana, ma non in relazione con la corte, è quello fondato da papa Marco iuxta Pallacinas (nel 336). Non lungi da esso è il titolo di Marcello, che è pure molto antico e dovrebbe anzi riferirsi ad età di poco anteriore alla pace della Chiesa: sta di fatto che la storia di papa Marcello è ancora avviluppata dalla leggenda. Sul Vicus Longus (a un dipresso l'odierna Via Nazionale), una matrona chiamata Vestina fondò un titolo ai tempi d'Innocenzo I (401-417): fu dedicato ai martiri milanesi Gervasio e Protasio, ma prevalse più tardi il nome di S. Vitale, che un leggendista della seconda metà del sec. V suppose essere stato padre degli anzidetti, mentre in realtà si trattava del compagno del martire bolognese Agricola. C'è poi la fondazione di papa Damaso (366-384) presso il luogo ove egli, in vicinanza della sua casa, aveva riunito gli archivî ecclesiastici: fu dedicata al martire Lorenzo (S. Lorenzo in Damaso). Da quanto risulta fino ad ora, non appare molto evidente che il titolo transtiberino di Cecilia risalga all'età delle persecuzioni. L'abitazione sotto la basilica ha ancora i segni del culto pagano (un larario con l'effigie di Minerva e scene dionisiache). Per spiegarsi come mai fosse qui localizzata una memoria della martire Cecilia (v.), bisogna supporre che la casa appartenesse a persone fra i cui ascendenti si annoverava la celebre martire o il di lei consorte, il Valeriano della tradizione; in questo caso, la fondazione del titolo poté avvenire nell'avanzato sec. IV, o anche agli inizî del V. Il titolo Apostolorum dovette anch'esso essere fondato nel pieno sec. IV; ai tempi di Sisto III (432-440) la basilica fu ricostruita dall'imperatrice Eudossia, consorte di Valentiniano III, in onore dei Ss. Pietro e Paolo: vi vediamo poi venerata (già nel sec. V) l'insigne reliquia delle catene di S. Pietro. Il titolo di S. Matteo era connesso alla chiesa, ora scomparsa, di S. Matteo in Merulana; anche per questo titolo è difficile credere ad età anteriore al 313: nel sec. VI la dignità titolare passò forse alla prossima basilica dei Ss. Marcellino e Pietro. S. Balbina sul piccolo Aventino (è una basilica cristiana e non un ambiente riadoperato della domus Cilonis) appare chiesa titolare sul finire del sec. VI; si vuole che la precedesse il titolo di Tigride (menzionato nel 499), ma l'asserzione non è sufficientemente provata. Analoghi dubbî persistono circa le proposte identificazioni del titolo di Emiliana con quello dei Santi Quattro Coronati, del titolo di Crescenziana con S. Sisto Vecchio, del titolo di Nicomede con i Ss. Marcellino e Pietro.

Vi sono poi altre basiliche dei secoli IV e V che non hanno carattere titolare. Giulio I (337-352) fondò una basilica "iuxta forum divi Traiani" distrutta la quale al tempo dell'invasione gotica, dovette in certo modo succederle (ma non sull'area medesima) la basilica che i papi Pelagio I (554-560) e Giovanni III (560-574) costruirono in onore degli apostoli Filippo e Giacomo (Santi Apostoli). Il pontefice Simplicio (468-483) dedicò la basilica di S. Bibiana, presso il ninfeo degli Orti Liciniani, e S. Stefano sul Celio (S. Stefano Rotondo). Per di più consacrò il luogo di culto adattato nella basilica privata già del console Guinio Basso, posseduta da un barbaro Flavio Valila, e da lui donata alla chiesa (S. Andrea iuxta Praesepe, presso S. Maria Maggiore): ivi il soggetto cristiano del musaico absidale si contrapponeva alle scene isiache effigiate nelle tarsie parietali. Invece un altro barbaro del sec. V, Flavio Ricimero, eresse in capite Suburrae, sulla pendice del Quirinale, una basilica per il culto ariano, che poté essere riconciliata solo ai tempi di Gregorio Magno (S. Agata dei Goti). Il musaico, con figurazione bellissima (ora perduta) del collegio apostolico e con l'iscrizione di Ricimero, non subì alterazioni nel passaggio dal culto eretico al cattolico. È verosimile che il vescovo ariano dimorasse qui, e non presso un'altra chiesa della Merulana che fu pure riconciliata da S. Gregorio Magno e dedicata a S. Severino (oggi scomparsa). Si è creduto fin qui che S. Maria Maggiore stia sul luogo della basilica di papa Liberio (352-366); ma questo monumento era più accosto al macellum Liviae dell'Esquilino, cioè verso l'arco di Gallieno, mentre S. Maria Maggiore fu eretta "a fundamentis" da papa Sisto III (432-440) sull'altura dominante l'aggere Serviano ("in monte superagio"), per esaltare il dogma della Theotókos proclamato al concilio d'Efeso (431). Nell'arco trionfale della basilica furono effigiate le scene dell'infantia Salvatoris (dai Vangeli sia canonici sia apocrifi); nella navata si susseguirono riquadri con scene dell'Antico Testamento esemplate da iconografie di più antichi codici miniati; sulla parete d'ingresso vi fu l'epigraíe dedicatoria di Sisto III, la quale alludeva anche a figure di martiri con strumenti del loro martirio, riprodotte forse nei vani tra le finestre. Non sappiamo quale fosse la scena del catino absidale, ma non poteva differire da quella che prescelse Giacomo da Torriti sul finire del see. XIII, cioè l'intronizzazione e coronazione della Vergine. Il documento del sec. XII che allude ai "pisces in floribus et bestiae cum avibus" (Giov. Diacono, Liber de ecclesia Lateranensi) deve riferirsi a un musaico pavimentale.

Oltre alle basiliche urbane, sono da ricordare quelle del suburbio formatesi nell'ambito di cemeterî. Fu già detto circa l'essenza delle catacombe (v.); giova qui riassumere l'argomento, aggiornandolo secondo le ultime constatazioni.

Si è ormai persuasi che per tutto il sec. I non si può parlare di catacombe, ma di cemeterî all'aperto, in aree di volta in volta concesse a gruppi particolari. Una dedica trovata nella zona del cemeterio di Nicomede (e di dubbio carattere cristiano) accenna all'uso di erigere un sepolcro riservato a correligionarî: "libertis, libertabusque posterisque eorum at religionem pertinentes meam": (O. Marucchi, Le Catac. romane, Roma 1931, p. 374). In alcune epigrafi pagane del cemeterio di Domitilla si allude alla concessione di area fatta a liberti o "clientes" ad uso di sepolcro (Marucchi, op. cit., p. 137). Anche dopo la formazione delle catacombe, continuò l'uso di gruppi particolari o di famiglie che si scavavano un cubicolo, o tutto un tratto di cemeterio, riservato a proprî familiari o, in qualche modo, a consociati (v. l'epigrafe del cemeterio di Domitilla: "... fecit Ypogeu sibi et suis fidentibus in Domino", Marucchi, op. cit., p. 164). A volte, si può credere che tutto un cemeterio facesse capo in origine a un particolare gruppo, giacché vi si nota l'insistenza di formule speciali nelle epigrafi ed anche vi prevalgono certe caratteristiche non riscontrate affatto, o soltanto sporadicamente, negli altri. Esempio di cemeterî all'aperto (sub divo) furono, sino al tardi, quelli che ospitavano le salme dei Ss. Pietro e Paolo, giacché le inondazioni tiberine della Via Ostiense e il terreno acquitrinoso del Vaticano impedirono lo scavo di gallerie sotterranee. Se le venerate salme degli apostoli furono deposte in quei luoghi e non altrove, e se dovettero acconciarsi nel mezzo di sepolcreti pagani (avvicinando anzi delle tombe con scritte assai contrastanti), vuol dire che non s'ebbero altre possibilità,e che le salme si dovettero sistemare in un monumentum familiare, là dove di solito era permessa l'inumazione di persone della clientela. Se si deve parlare d'ipogei in questo sec. I, essi furono la camera sotterranea del monumento, ovvero dei brevi tratti di galleria scavati in un rialzo collinoso, secondo il costume antichissimo (v., ad es., l'ipogeo degli Scipioni sull'Appia). Ma nel sec. II, la concessione più frequente di aree in rapporto alla più numerosa comunità fa escogitare intense utilizzazioni. L'area veniva anzitutto recinta, come d'ordinario, a mezzo di un murello (locus saeptus maceria clausus). Poi s'iniziava la terebrazione di gallerie di circa due metri d'altezza e sulle pareti di esse si susseguivano i loculi. Ben presto le gallerie non erano più sufficienti e allora, o se ne facevano delle nuove in altra direzione, o si abbassava il piano della galleria originaria. Quando l'ampiezza dell'area concessa e la resistenza del terreno non permettevano nello stesso piano ulteriori estensioni o approfondimenti di gallerie, si cercava uno strato inferiore: in tal modo si formò progressivamente la chilometrica rete di ambulacri di talune catacombe a diversi piani, come quelle di Callisto sull'Appia e di Priscilla sulla Salaria Nova. Le cave di arena non furono utilizzate che eccezionalmente, quando s'incontrarono nel terreno, e, in genere, la frase "cryptae arenariae" allude piuttosto a tufi granulari giallastri, frequenti nel suolo romano. A volte si fu costretti a distruggere dei sepolcri precedenti ammassando le salme in ossarî per costruirne dei nuovi. Un caso simile e verificabile nella zona della cripta dei papi del cemeterio di Callisto. Fin dai primi tempi dello scavo si aprirono ai lati delle gallerie dei cubicoli in cui si fecero delle tombe ad arcosolio, non ignote alle sepolture classiche. Si accedeva alle gallerie da scale ben costruite, e si aeravano questi ambulacri per mezzo di lucernarî. Molto presto si vollero decorare le tombe con affreschi, soprattutto quelle ad arcosolio dove c'era maggiore spazio per l'ornato: i cubicoli furono il più delle volte interamente decorati. In questi cubicoli (e raramente allo spigolo di uno svolto di galleria) si lasciavano delle colonne scavate nel tufo. Certi sepolcri hanno anche delle cattedre scavate nel tufo, le quali debbono alludere alla cattedra che i familiari augurano sia riservata nel cielo al loro diletto scomparso. Non è frequente il caso del succedersi di due cubicoli (cubicuhtm duplex), talvolta posteriormente riuniti, com'è il caso della cripta dei papi annzidetta. In tutto questo lavorio sotterraneo dei fossores c'è dapprima molta cura nel non oltrepassare la linea di confine dell'area soprastante; ma nel sec. III molti ipogei separati vennero riuniti, e anche in questo periodo, ai tempi di papa Zeffirino (203-220), si parla di un cemeterio amministrato dalla chiesa, quello cioè di Callisto sull'Appia. Col sec. III vi sono anche tracce più evidenti del culto dei martiri, sebbene ancora essi vengano deposti in unione agli altri fedeli nei cubicoli, o anche nei comuni ambulacri. L'ultima invenzione di un corpo di martire, quella di S. Giacinto nel cemeterio di S. Ermete, avvenuta nel sec. XIX, lo mostrò deposto in un loculo nella parte bassa di un cubicolo non certo grande e ricco: il solo attributo "martyr", inciso da un rozzo quadratario sulla lapide, attestava della dignità della salma ivi composta. La presenza di queste tombe di martiri è sovente attestata dalle invocazioni ed acclamazioni di pellegrini graffite sulle pareti. Gli affreschi catacombali rappresentano un genere d'arte popolare, trattato però non di rado da magnifiche tempre di disegnatori e di coloristi (v. CATACOMBE: Arte). Quanto ai soggetti, la maggior parte delle figurazioní ha carattere escatologico, ispirandosi all'idea della salvazione dell'anima per merito della redenzione operata dal Signore col suo passaggio sulla terra e il suo sacrificio glorioso. In genere, si evitò di rappresentare i patimenti del Signore; ma non si può parlare di esclusione assoluta, giacché una scena del cemeterio di Pretestato riproduce la coronazione di spine (altre teorie interpretative non sembrano accettabili). C'è chi vuole escludere ogni intenzione simbolica dai dipinti cemeteriali (Styger); ma, pur ammettendosi molto frequente l'intento realistico, non la si può affatto escludere. Soltanto per fini simbolici poterono introdursi delle rappresentazioni pagane, come quella di Orfeo: il ciclo delle stagioni, come raffigurazione della vita umana, era già nel simbolismo funerario pagano. Anzi, tutto ciò che non era discordante dal pensiero cristiano si trasferì nell'arte delle catacombe, e così passarono in questa anche molte figurazioni di valore simbolico assai generico, o costituenti soltanto un simplex ornamentum. Quanto a marmi figurati e sculture, segnaliamo anzitutto le stele provenienti da cemeterî all'aperto, come quella di Licinia Amias (proveniente dal cemeterio Vaticano) che oggi si conserva al Museo Nazionale Romano (Marucchi, op. cit., p. 3, fig. 1). Tutta una galleria del Museo Cristiano Lateranense raccoglie titoli sepolcrali con figurazioni allusive alla requie dell'anima, alle speranze di salvazione e di gaudio presso il Signore, e anche alle vicende terrene: per es., all'arte o mestiere del defunto. I sarcofagi furono inclusi nei cubicoli, o ebbero degli spazî particolari nelle gallerie (es., all'ingresso del cemeterio di Domitilla). Il più antico esempio di sarcofago è un pezzo rarissimo proveniente dalla Via Salaria, con figurazioni del Buon Pastore ed altre meno spiegabili. Può anche risalire al secolo II. Ma la grande maggioranza dei sarcofagi è del secolo IV: a quell'epoca i marmorarî profani si diedero a lavorare intensamente per le nuove falangi di battezzati, e raccontarono sulla fronte delle arche i fatti della vita del Cristo e degli apostoli Pietro e Paolo, la gloria del Signore nel cielo fra gli apostoli (spesso col particolare della traditio Legis), taluni episodî dell'Antico Testamento (e in specie la storia di Giona); nelle sculture si ebbe meno ritegno a narrare la passione del Cristo, pur non osando rappresentare la crocifissione altro che con allusioni indirette (per es., la croce con la sovrastante corona nella scena della resurrezione, o anche il Cireneo portante la croce). Si aggiungano talune figurazioni allusive ai sacramenti, ovvero di carattere allegorico o simbolico (i mistici cervi che vanno alla fonte, i pavoni, la preparazione del trono o hetoimasia con sopra il monogramma di Cristo, la scena di Ulisse e le Sirene per significare la resistenza agli allettamenti del mondo, il Cristo Buon Pastore, ecc.). Anche taluni soggetti del ciclo dionisiaco vengono applicati (ma con intenti diversi) a questi sarcofagi: così sul fianco dell'arca di Giunio Basso (Grotte Vaticane) si vede la vendemmia degli Amores. I sarcofagi del sec. V paiono più ispirati dall'arte monumentale delle basiliche, e vi prevalgono scene di ispirazione dogmatica.

Parecchi sarcofagI dovettero essere collocati nelle basiliche cemeteriali, dove è constatabile l'affollamento delle sepolture. La basilica cemeteriale è scavata sopprimendo varie gallerie della catacomba. Come i passaggi alle cripte con i sepolcri dei martiri obbligarono a costruire nuove imponenti scale a danno di più antiche gallerie, così la basilica distrugge addirittura una zona di cemeterio, lasciando intatta la sola cripta venerata, o anche il solo spessore di tufo in cui si trova il loculo con la reliquia (tipico l'esempio della basilica nel cemeterio dei Ss. Marcellino e Pietro sulla Via Labicana). Negli esempî delle basiliche Vaticana e Ostiense, sappiamo che Costantino protesse gli avelli apostolici con grandi lastre di bronzo. Sopra il rivestimento della tomba di S. Pietro era una croce d'oro la cui epigrafe si lesse, per gran parte del Medioevo, da un foro in una pietra pavimentale del soprastante cubicolo della confessione. A S. Agnese fuori le mura, nella basilica fondata da Costantina figlia di Costantino Magno (cui si sostituì l'attuale ai tempi dei papi Simmaco e Onorio), la confessione era cintata da lastre marmoree ("platomis marmoreis") su cui era scritto il carme composto da papa Damaso: un marmo con figura della santa è probabilmente la fronte del primitivo altare. A S. Pancrazio bisogna attendere la fine del sec. V, o gl'inizî del VI, per l'erezione della basilica; prima non vi era altro che un oratorio sopra terra, forse una cella trichora, come ve ne sono anche sopra il cemeterio di Callisto (a proposito di questi oratorî sopra terra vi è un'allusione in un passo del latercolo di Polemio Silvio). Papa Simmaco (498-514) costruì la chiesa che circa 120 anni dopo papa Onorio "magna ex parte reaedificavit" (Itinerario Salisburgense). E in questa ricostruzione si dovette porre sotto l'altare del presbiterio il corpo del martire che da Simmaco era stato lasciato nella posizione primitiva ("ex obliquo aulae iacebat" diceva un'iscrizione del tempo di Onorio). La basilica di S. Silvestro nel cemeterio di Priscilla ricevette molti corpi di pontefici dei secoli IV-VI (l'ultimo fu papa Vigilio). La basilica del martire Lorenzo sulla Via Tiburtina era in origine attorniata da basiliche ed oratori minori, e aveva orientazione inversa all'attuale che si aggiunse ad essa, come pare, ai tempi di Adriano I (fine sec. VIII) e fu completata ai tempi di Onorio III (1218). Ma la basilica primitiva presenta gravi problemi cronologici; sembra vi fossero in origine una basilichetta "ad corpus", e una più ampia (forse l'attuale posteriore) erette ai tempi costantiniani: esse furono rafforzate e decorate di musaici sotto Pelagio II (578-590), che fece delle trasformazioni nella parte del presbiterio, per meglio sistemare la tomba del martire (v. l'epigrafe sul musaico dell'arco trionfale). Di questa nello stato primitivo si ha un'immagine in una medaglia ove si scorge un ciborio a colonne vitinee chiuso da transenne (Matucchi, Manuale di archeol. crist., Roma 1933, fig. a p. 358).

Queste basiliche dei secoli IV e V erano doviziose di colonne, talvolta con fini sculture (ad es., le colonne vitinee che un tempo stavano attorno alla confessione vaticana ed ora sono applicate alle logge berniniane delle reliquie), talvolta di preziosi marmi (più comune il porfido rosso). La più importante basilica cemeteriale è quella eretta in età costantiniana (e non ai tempi di Damaso) sull'Appia, nel luogo detto ad catacumbas; qui si formò un importantissimo centro di culto, in seguito al trasferimento temporaneo dei corpi di Pietro e Paolo: il che avvenne più probabilmente nel sec. III, che nel I. Tornate le spoglie ai sepolcri del Vaticano e della Via Ostiense, rimase la commemorazione annuale ad catacumbas, e là dov'erano tombe profane e cristiane e un luogo per il rito del refrigerio (v. REFRIGERIUM) sorse una grande basilica con un deambulatorio concentrico all'abside; nel pavimento si affollarono le formae sepolcrali per il desiderio dei devoti di riposare "prope vestigia apostolorum"; nel contorno si susseguirono i mausolei gentilizî (come pure avvenne al Vaticano, ove stavano i mausolei rotondi della famiglia imperiale ed altro spettante agli Anicii). Uno di essi, che ha nel centro un bisomo (e che impropriamente è chiamato Platonia), ospitò nei primi del sec. V la salma del vescoro martire S. Quirino di Siscia, ivi trasportata dalle terre pannoniche.

Tutte queste basiliche, estramuranee ed urbane, splendevano per copia d'ornamenti in marmi, pitture. musaici. Un passo del Libellus precum (età di Damaso) dà idea di tale sfarzo: "Habeant illi basilicas auro coruscantes pretiosorumque marmorum ambitione uestitas uel erectas magnificentia columnarum" (Patrol. Lat., XIII, col. 106). E del resto, basta pensare a ciò che era il gruppo della Basilica Lateranense ed annessi: rivestita di marmi gialli (come è stato accertato in recenti scavi) appariva davvero come "basilica aurea"; nelle cinque navate era una selva di preziose colonne, tra cui talune di verde antico; colonne bronzee dorate costituivano la recinzione del presbiterio; il ciborio dell'altare era di argento dorato; nell'abside il musaico aveva la scena della grande intercessione con la "parusia" del Cristo, sulle pareti della nave media si susseguivano riquadri in pittura con scene dell'Antico e del Nuovo Testamento poste a confronto per dimostrare la prefigurazione dei fatti del Cristo ("Concordantiae veteris et novi Testamenti"). Ancor oggi rimane qualche vestigio delle antiche magnificenze di queste basiliche romane dei secoli IV-VI: la porta bronzea con agemine argentee del battistero Lateranense (sec. V), la celebre porta scolpita di S. Sabina (sec. V), le tarsie (opus sectile) recentemente riscoperte nel battistero Lateranense e in S. Sabina (sec. V), il superbo complesso musivo di S. Maria Maggiore, i doppî ordini di colonne della basilica posteriore di S. Lorenzo al Verano, ed altro ancora. Certo, le invasioni e la vita turbolenta del periodo medievale (oltre ai rifacimenti del Rinascimento e dell'età barocca) molto hanno fatto scomparire; ma documenti e vestigia si accordano a testimoniarci la grandiosità di questa Roma cristiana, che andava via via raccogliendo l'immensa eredità dell'Impero.

BIBL.: Oltre alle opere, raccolte e riviste citate sotto il paragrafo dedicato all'archeologia classica, v.: G. P. Kirsch, Die römischen Titelkirche im Altertum, Paderborn 1918; H. Grisar, Roma alla fine del mondo antico, Roma 1908 (ediz. illustr.); M. Armellini, Le chiese di Roma dal sec. IV al XIX, 2ª ed., Roma 1891; J. Wilpert, Le pitture delle catacombe romane, Roma 1903; Die römischen Mosaiken und Malereien der kirchlichen Bauten vom IV. bis XIII. Jahrhundert, 2ª ed., Friburgo in B. 1917; id., I sarcofagi cristiani antichi, voll. 2, Roma 1931-33; P. Adinolfi, Roma nell'età di mezzo, Roma 1881; C. Huelsen, Le chiese di Roma nel Medioevo, Firenze 1927.

STORIA

ETÀ REGIA E REPUBBLICANA.

LE ORIGINI DI ROMA. - Già in epoca molto remota sorsero borgate latine su quei colli che, a poca distanza dalla costa, si elevano a circa 65 metri sul livello del mare presso le rive del Tevere e la cui posizione era per copia di acque e per comodità di difesa la migliore che offrisse il corso inferiore di quel fiume. Dovettero essere dapprima borgate indipendenti tra di loro, disposte, in caso di necessità, a passeggiere leghe politiche e a più stabili federazioni religiose germoglianti dall'accorrere alla celebrazione delle stesse feste e degli stessi riti.

I più antichi monumenti rinvenuti in queste stazioni pare risalgano al massimo, all'inizio del primo millennio a. C., per lo più si pensa al sec. VIII a. C.

Tra quelle borgate la prima che si ordinò a città e diresse il movimento di unificazione delle altre, donde procedette la Roma storica, fu quella del Palatino, che è poi il centro naturale dell'antica urbe. Questa primitiva città del Palatino fu, seguendo in ciò il costume etrusco, esattamente delimitata con le norme augurali: il giorno in cui avvenne questa delimitazione potrebbe in qualche modo riguardarsi come il giorno della fondazione di Roma; ma esso è ignoto a noi, come ignoto rimase agli antichi, i quali soltanto artificialmente procedettero alla determinazione di quella data: fissato, per mezzo dei fasti consolari, l'anno della prima coppia consolare sulla fine del sec. VI a. C., essi computarono la durata del periodo monarchico sulla base della lista dei sette re, delle sette generazioni, cioè, da questi rappresentate; ma, poiché era diverso il calcolo che essi facevano circa la durata di una generazione, pervennero a collocare il principio della monarchia, equiparato con la fondazione della città, in date diverse, oscillanti tra loro di una trentina d'anni, intorno alla metà dell'ottavo secolo a. C. Tra queste date prevalse nel periodo imperiale quella del 753 a. C. fissata da Varrone, che è poi l'era ab urbe condita, ancora oggi adottata.

Accanto alla borgata del Palatino, le più importanti erano quelle del Campidoglio, del Quirinale, dell'Esquilino e del Celio. La tradizione dice che sul Quirinale si stanziò una popolazione sabina venuta a Roma da Cures con Tito Tazio, e parecchi topografi inclinano a credere che Sabini abitassero quel colle, sin da età antichissima, precedente a quella voluta dalla tradizione, e ne vedono la riprova in culti praticati sul colle per divinità che giudicano d'origine sabina. Ma è opinione che non va accolta, perché, anche senza escludere che diversi elementi etnici abbiano confluito nella formazione della Roma primitiva, è certo che, quando essa appare nella storia, ne era già avvenuta la perfetta fusione, e di questo processo antichissimo nessuna traccia valida poteva rimanere nella tradizione.

Costituitasi la città del Palatino, essa a poco a poco si ampliò abbracciando le borgate disseminate sui colli e sulle bassure vicine, e fu con questi ingrandimenti successivi che il pomerio raggiunse quella estensione, che conservò poi sino a Silla. Forse non è possibile seguire ad una ad una le fasi successive di questo sviluppo. Per alcuni in un primo ingrandimento alle tre cime del Palatino (il Palatium, il Cermalus e la Velia), sarebbero state aggiunte le tre dell'Esquilino (l'Oppius, il Cispius e il Fagutal), il Celio e la Suburra. E di questa antica città sarebbe rimasto il ricordo nella festa del Septimontium, che si celebrava in Roma l'11 dicembre con solenni sacrifici su quelle cime. Pare ad altri topograficamente assurda una città di questo genere, e veggono nella festa del Settimonzio il ricordo di una vetusta federazione religiosa costituitasi nei tempo in cui le varie borgate erano ancora indipendenti tra di loro. Credono costoro, e bene a ragione, che il primo ampliamento dovesse necessariamente consistere nell'incorporazione del Campidoglio, essendo questo monte il naturale baluardo occidentale della città e la fortezza dominante l'isola Tiberina e i suoi ponti sicché alla città del Palatino avrebbe tenuto dietro quella città che da Tacito è detta città di Tazio, comprendente, oltre il Palatino, il Campidoglio, sede dei culti vetustissimi di Termino e Giove Lapide. Di questa città sarebbe stato un sobborgo l'Esquilino, come sarebbe indicato dal suo stesso nome. Con sviluppi successivi, si giunse poi alla Roma cosiddetta Serviana.

La tradizione dell'età primitiva. - La tradizione circa le origini e la più antica età della storia di Roma è per noi rappresentata sopra tutto da scrittori degli ultimi tempi della repubblica e del principio dell'impero, specialmente Livio, Diodoro e Dionigi di Alicarnasso, i quali desunsero i loro racconti dai precedenti annalisti, talora dai più recenti tra questi, talora dai più antichi; ma anche i più antichi non risalgono oltre la metà del sec. III, onde il compito principale della critica storica è stato quello di accertare quali fossero, a loro volta, le fonti degli annalisti, per stabilire così il grado di credibilità di tutta ia tradizione. Quelle fonti sono di diverse categorie: scrittori greci, carmi epici nazionali, tradizioni orali, documenti pubblici e privati, quali i fasti consolari, le annotazioni del collegio dei pontefici, iscrizioni varie. Ora si noti che tutti questi materiali di carattere documentario nella migliore delle ipotesi risalivano al principio della repubblica, né possono davvero congetturarsene per il periodo monarchico e tanto meno per le vere e proprie origini della città: basti pensare che la scrittura venne introdotta in Italia dai Greci non prima della 2ª metà del sec. VIII a. C. e l'uso ne fu dapprima quanto mai parco e ristretto. I racconti poi degli scrittori greci erano in massima parte prodotto di leggende, di invenzioni e di induzioni erudite, spesso animate dall'intento di ricongiungere le origini della città, che via via andava assurgendo a sì alti fastigi, col mondo greco e orientale; e quanto alla poesia epica conviene ricordare che essa è sempre di natura tale, che non è possibile sceverarne l'eventuale fondamento storico da tutti gli altri elementi mitici e fantastici che si sovrappongono su quel fondamento e lo trasfigurano. Per quanto finalmente si attiene alle tradizioni orali, ognuno sa quanto rapide alterazioni esse subiscano, onde è da concludere che, se queste e non altre erano le fonti cui potevano attingere gli annalisti per i primi tempi della storia di Roma, pressoché nullo doveva essere il valore storico dei loro racconti intorno alle origini e alla massima. parte del periodo monarchico; e quanto più ampiamente e particolareggiatamente quel racconto si svolse nelle varie fasi dell'annalistica, tanto più influirono su di esso la fantasia, l'invenzione e la falsificazione, onde alla critica spetta il duplice compito di dar ragione del processo di formazione della tradizione, e di appurare, col sussidio dell'archeologia, della linguistica, della geografia, della storia comparata del diritto e delle religioni e di ogni altro mezzo scientifico disponibile, i pochi elementi che possano ritenersi accertati. È il compito al quale la critica lavora, da quando il Niebuhr indicò la via maestra: analizzare, distruggere, ma per ricostruire.

Lasciando da parte la tradizione delle origini, bastino due parole su quella del periodo monarchico. La sua formazione appare relativamente antica per la limitatezza dell'orizzonte geografico in cui si muove, per la natura stessa dei nomi dei re, che spesso hanno prenomi poi caduti in disuso, né recano tracce di anticipazione ad onore delle casate gentilizie salite più tardi in fama; ma il suo valore storico continua ad essere scarsissimo, la trama essendone o leggendaria o di ricostruzione erudita, spesso a carattere etiologico, mirante, cioè, a dar ragione dell'origine della città e delle sue istituzioni col proiettare nell'epoca regia l'introduzione di quegl'istituti e di quegli ordinamenti sociali, la cui genesi, per la sua antichità, s'ignorava affatto. È così che si veniva ad attribuire ai re la costruzione dei più antichi edifici pubblici e delle mura, l'allargarsi dell'abitato, l'incorporazione dei piccoli comuni vicini fino all'affermazione del primato sul Lazio, e nella figura di qualcuno di loro si schematizzava l'origine di un certo ordine di fatti e d'istituti: in Romolo si foggiava il fondatore del comune e dei primi organi statali, in Numa Pompilio l'instauratore della religione, in Servio Tullio il creatore di una vasta riforma politica. E nel complesso della tradizione di questo periodo confluirono anche elementi di origine mitica, dei quali peraltro non si deve esagerare l'importanza.

Il periodo monarchico. - Tuttavia l'esistenza di un periodo monarchico nella storia di Roma è da ritenersi completamente certa, poiché la monarchia fu un istituto originario degl'Indoeuropei, e ne troviamo le tracce in altre città d'Italia, dall'Etruria alla Sicilia. Inoltre particolarmente da notare è il fatto che nella Roma storica repubblicana si sorprendono non pochi relitti degli antichi ordinamenti monarchici: basti pensare al rex sacrificulus, alla Regia nel Foro, all'istituto dell'interregnum; ma alla ricostruzione dei particolari della storia di quell'antichissima età conviene rinunciare, data appunto la natura della tradizione, e ci si deve appagare di deterrminare la linea complessiva di sviluppo mercé le più caute induzioni, consentite dalle condizioni del tempo storico e da altri procedimenti critici.

Agli albori del periodo regio Roma, con un territorio che abbracciava circa 100 kmq (estensione raggiunta essa stessa mercé l'incorporamento di borgate vicine prima indipendenti), non superava in potenza le altre città del Lazio, tra cui le più importanti erano Alba Longa, Aricia, Lanuvio, Tuscolo, Tibur, Gabi, Pedo, Preneste, Fidene, Ardea, Laurento. Il tempio di Iupiter Latiaris che sorgeva sul monte Albano divenne presto uno dei centri religiosi più importanti della regione, e ogni anno vi si celebravano con molta solennità delle feriae, alle quali convenivano devotamente le vicine popolazioni latine, onde col proceder del tempo, avvenne che queste costituirono una specie di lega religiosa alla testa della quale stette Alba, che aveva la direzione del tempio, posto nel suo territorio, e delle feste. Fu e rimase lega essenzialmente religiosa, che poté qualche volta spianare la via ad accordi tra le singole città, ma non assurse mai a lega di carattere politico sotto l'egemonia di Alba, quale talora la riguarda la tradizione. Di questa lega fece parte anche Roma, che, città modestissima, come abbiamo visto, nelle sue origini, andò via via salendo in ricchezza, quando, sviluppatosi sotto l'influsso greco il commercio del Tirreno, essa divenne l'emporio dell'intero territorio, del quale il Tevere, coi suoi affluenti, costituiva la principale via di penetrazione.

Aumentata così, insieme col benessere, la popolazione della città, Roma estese il proprio territorio assoggettando i comuni vicini; e presto sentì il bisogno di assicurarsi il possesso delle bocche del Tevere, fondandovi il porto di Ostia. Alla fine essa conquistò e distrusse la stessa Alba Longa, subentrandole nel possesso del monte Albano e quindi nella direzione del santuario e delle ferie latine, e riuscendo a poco a poco a sfruttare questa eredità di primato religioso ai suoi fini politici. Fondò un nuovo sacrario federale sull'Aventino e fece regolare i rapporti tra le varie città della lega con la concessione reciproca del diritto di commercio e di connubio. Si assicurò pertanto il primato nel Lazio, senza trasformarlo però in dominio politico, come apparirebbe dalla tradizione. Una simile trasformazione fu ostacolata dagli Etruschi, che combatterono prima, poi vinsero e per un certo periodo soggiogarono Roma.

La dominazione etrusca in Roma e nel Lazio è un fatto oggi generalmente ammesso: ve ne è traccia nella tradizione romana ed essa sembra inoltre presupposta da quella della Campania, ove l'arrivo degli Etruschi è testimoniato dalla tradizione e dall'archeologia; ma fu dominazione, che ebbe più che altro il carattere di alta sovranità; non sovrapposizione di popolo a popolo, ma piuttosto spadroneggiamento di dinasti stranieri. Roma non divenne mai etrusca (tanto meno fu tale nelle sue origini, come da qualcuno è stato supposto sulla base della pretesa derivazione del suo nome da quello di una gente etrusca), restò sempre latina nel fondo, e completamente latina tornò non appena ricuperata la sua indipendenza, come è dimostrato dalla lingua e dalle istituzioni. La ragione è che l'influenza etrusca, sia durante il predominio politico, sia prima, sia dopo, si fece sentire piuttosto sui lati esteriori della civiltà latina senza intaccarne il nucleo nazionale. Dagli Etruschi i Romani derivarono le insegne dei magistrati (fascio littorio, sella curulis, toga praetexta), il fasto dei trionfi, la dottrina della limitatio (cioè della costruzione regolare delle città e della regolare divisione dei campi da distribuirsi); dagli Etruschi molto impararono in fatto di arte; da loro appresero i principî della disciplina augurale, da loro i giuochi dei gladiatori, destinati a divenire una delle ombre più nefaste della civiltà romana.

Il dominio degli Etruschi sul Lazio durò un secolo o poco più, in quanto che, cominciato verso la metà del sec. VII (epoca della loro massima potenza ed espansione in Italia), era già certamente terminato prima della fine del sec. VI, poiché i fasti consolari escludono sino dai primi anni della lista la presenza di padroni stranieri in Roma.

Questi sono i pochi fatti accertati nella storia esterna di Roma del periodo monarchico.

Quanto alle condizioni sociali e agli ordinamenti politici di questa antica età, la tradizione, nonostante l'opinione contraria di alcuni studiosi, quali il Rubino, non ha maggior valore di quella relativa alla storia esterna; ma ce ne possiamo formare un'idea con un'analisi delle istituzioni del tempo storico, diretta a selezionare gli elementi più antichi dai meno antichi.

Il popolo era diviso nelle tre tribù dei Ramnes, dei Tities e dei Luceres, che non vanno considerate, come fanno alcuni, quali comuni originariamente indipendenti, e costituiti da diversi elementi etnici: latini, sabini, etruschi, ma quali associazioni (tribus da confrontarsi con l'umbro trefo, trifu) di gruppi di famiglie, le curie, costituitesi, come le fratrie greche, con lo scopo di assicurare la difesa sociale all'interno, quando a questa non provvedeva ancora sufficientemente lo stato. Curie e tribù furono dunque in origine consociazioni autonome, integratrici e spesso surrogatrici dello stato, che si trasformarono poi in suoi organi, quando lo stato, divenendo più consapevole dei suoi uffici e dei suoi fini, allargò le sue funzioni e le sue ingerenze. E allora le tribù funzionarono come distretti di leva, prelevandosi da esse il contingente di 3000 uomini, che costituiva la legio, la forza armata dell'antico comune (1000 uomini per tribù), comandati da tre tribuni militum, e le tre centurie dei cavalieri, comandate dai tribuni celerum. E le curie, trenta in tempo storico, alla lor volta costituirono i quadri di leva onde si prelevarono le singole centurie della legione, e allargarono, via via, le loro attribuzioni nell'ordine religioso e civile. Per es., dinnanzi a loro, riunite nei comizî curiati, avveniva, in una delle sue forme più solenni, il testamento.

Più importante assai della divisione della popolazione romana in tribù è quella in patriziato e plebe, i quali ordini ci appaiono, sino dai tempi più antichi, come due caste nettamente separate tra di loro: soltanto i patrizî hanno il dititto di accedere alle magistrature e ai pubblici sacerdozî, laddove i plebei sono esclusi dall'amministrazione del comune, e costituiscono la massa dei cittadini forniti di minor diritto; la divisione netta delle due caste trova il più significativo riscontro nel divieto dei reciproci connubî. Molto discussa è l'origine di questa divisione, che fu nei primi secoli della repubblica ragione di lotte accanite, ispirate ai plebei dal desiderio assillante dell'equiparazione e ai patrizî dall'ostinato proposito di difendere ad ogni costo la loro posizione privilegiata. E vi ha chi pensa che la plebe fosse stata costituita in origine dalla popolazione indigena del territorio sul quale sorse Roma, ridotta appunto dai vincitori in condizione d' inferiorità politica, sull'analogia degli Eloti nella Laconia, e chi invece la identifica con la classe dei clienti, formata dagli stranieri residenti in Roma, dagli schiavi manomessi e da vinti deportati in massa; da elementi, cioè, che, essendo sforniti di ogni diritto, si mettevano sotto la protezione di un patrono. Ma né l'una né l'altra di queste due teorie pare accettabile, poiché, sebbene il comune di Roma abbia tratto origine dalla conquista, è arbitrario supporre che questa ne abbia influenzato l'organizzazione interna, e d'altra parte la classe dei clienti appare troppo poco numerosa perché avesse potuto dare origine alla massa dei plebei. Onde è piuttosto da credere che la divisione abbia tratto origine dall'accentuazione delle differenze economiche tra i più e i meno abbienti, accentuazione facile a spiegarsi in una società a base agricola, in cui la formazione delle grandi proprietà terriere non era controbilanciata da un parallelo sviluppo delle industrie e dei commerci, né lo stato accordava protezione ai non abbienti. Si aggiunga che nella Roma primitiva la progressiva sperequazione tra le due classi tardò a trovare un correttivo in quell'agevolazione del credito che deriva dalla circolazione metallica, onde la sperequazione crebbe a dismisura; e sul predominio economico dei patrizî s'innestò quello politico, a mano a mano che a loro si andarono riservando le più importanti cariche religiose e civili, prima per privilegio consuetudinario, passibile di eccezioni, poi per norma costante, quando avvenne quella che è stata chiamata la serrata del patriziato. Allora appunto fu elevata tra i due ceti quella barriera, che sul momento giovò agl'interessi dell'aristocrazia fondiaria in quanto ne assicurò la strapotenza, ma col volger del tempo diventò causa irreparabile della sua decadenza, perché le impedì di trovare nei connubî con la plebe il modo di rinsanguarsi e di riparare alle perdite, cui era continuamente esposta per la parte preponderante che doveva prendere alle guerre.

I patrizî erano divisi in gentes (v. GENTI), ognuna delle quali aveva proprio culto, proprî sacrifici, propria sepoltura ed era contrassegnata da un proprio nome.

Alla testa dello stato stava il re, capo supremo dell'esercito e come tale, sommo sacerdote e giudice. La tradizione, con evidente anticipazione, si figura che la nomina del re avvenisse secondo le norme stesse che poi valsero per l'elezione dei consoli, ma di fatto la designazione doveva avvenire per ragione di eredità, per quanto poi occorresse pure la conferma del popolo riunito nei comizî curiati. Questi comizî si riunivano per curie: i cittadini, cioè, votavano nella curia in cui erano iscritti, concorrendo in tal guisa alla determinazione del voto della propria curia, e le deliberazioni erano prese a maggioranza di curie: i loro poteri erano più nominali che sostanziali, poiché l'attività legislativa ne era assai ristretta, e quella giudiziaria si riduceva a qualche intervento nelle cause capitali.

Accanto ai comizî curiati si ebbero, pure nell'età regia, i comizî centuriati (la cui origine del resto è controversa), che avevano carattere di assemblea di armati, con obbligo di riunirsi fuori del pomerio: deliberavano, su proposta del re, intorno alle dichiarazioni di guerra e ai trattati di pace, ma non avevano nemmeno essi alcun diritto di iniziativa e di discussione.

La caduta della monarchia e i più antichi ordinamenti repubblicani. - Intorno al 510 a. C., secondo la tradizione, la famiglia dei Tarquinî allora regnante in Roma fu cacciata dalla città per la sua tracotanza e per l'oltraggio fatto da uno dei principi a una casta matrona. È un racconto che non merita fede, nonché nei particolari, nella sostanza stessa, essendo facile scoprirvi il motivo, comune a più leggende, dell'occasione fornita alla soppressione di un tiranno dall'offesa fatta a una donna. Onde rimane incerto se la monarchia in Roma sia caduta per rivoluzione o per evoluzione, ma forse coglie nel segno questa seconda ipotesi; in quanto che appare chiaro come l'autorità monarchica dovesse a poco a poco declinare per il progresso economico dell'aristocrazia e per la necessità nella quale il re si trovò di dividere coi membri di questa casta le funzioni di governo, che si andavano moltiplicando e complicando nell'allargarsi del territorio dello stato. L'estenuazione progressiva del potere monarchico sfociò un bel giorno nel cambiamento del regime, con o senza un colpo di mano, e il cambiamento dovette avvenire, presso a poco, alla data voluta dalla tradizione, che gli antichi fissarono, non già indotti da un parallelismo artificioso con la data della caduta dei Pisistratidi, come qualcuno pensò, ma mercé un calcolo fondato sulle liste consolari, con un procedimento che poteva essere arbitrarìo, ma che si avvicinò al vero, in quanto che sul principio del sec. V a. C. vediamo il foedus Cassiaitum concluso da un console e non da un re, e dunque era già avvenuto il mutamento di regime, che d'altronde non può di molto essere stato anteriore presupponendo esso condizioni abbastanza progredite di sviluppo politico.

Il potere del re passò ai due consoli (v.) eletti dal popolo e duranti in carica un anno: il nucleo della loro autorità stava nell'imperium militare, che rimase, come già nella monarchia, il fondamento del diritto pubblico, e fu di loro spettanza chiamare alle armi, imporre tributi, concluder paci e trattati, convocare il senato e i comizî ed esercitare la giurisdizione civile. Furono dunque i consoli i continuatori diretti dell'autorità regia, pur distinguendosene sostanzialmente per l'annualità e la collegialità.

Dall'annualità conseguiva che l'organo investito della continuità del governo non era il consolato, ma il senato; dalla collegialità discendeva la reciproca sorveglianza, che diede poi origine all'istituto dell'intercessione.

Nel primo anno della repubblica sarebbe stata istituita secondo un ramo della tradizione la questura (v.), che secondo altre notizie sarebbe invece più antica.

In casi gravi di pericoli interni o esterni tutti i poteri si raccoglievano nelle mani di un dittatore (v.). Incerta è l'origine di questa magistratura, che, assicurando in momenti critici l'unità del comando, giovò più volte alla salvezza dello stato.

Il senato, che era stato il consiglio del re, divenne il consiglio dei consoli, ai quali ne spettava la convocazione, e la sua autorità crebbe. Era, in sostanza, un'emanazione del patriziato ed entravano a farne parte, per diritto o almeno per consuetudine, i cittadini che avessero rivestita alcuna delle magistrature sopra indicate: consolato, questura, dittatura.

I comizî curiati andarono ancor più decadendo, mentre quelli centuriati, cui spettava la nomina dei consoli, salirono d'importanza, ma, dipendendo ancora le centurie dalle curie, mancava l'organo nel quale il popolo potesse farsi valere, e il patriziato aveva i mezzi di ogni oppressione. Onde è che tutta la prima età repubblicana è occupata dalle lotte fra il patriziato e la plebe, che la tradizione racconta, intrecciandole per lo più alle varie vicende della storia esterna; né essa merita fede, essendone ancora evidente il processo artificioso di formazione.

Le lotte della plebe per l'uguaglianza. - Le lotte tra patrizî e plebei furono lotte per l'eguaglianza economica, politica e civile. La tradizione fa combattere la guerra per l'eguaglianza economica intorno a questi tre punti: aspirazione dei plebei al godimento di terre demaniali, distribuzioni gratuite di frumento, riduzione di debiti, ma le notizie che si riferiscono ai primi due punti (legge agraria di Spurio Cassio, episodio di Spurio Melio), scialbe e monotone, hanno tutti i caratteri di un'anticipazione degli aspetti che la questione agraria e quella frumentaria assunsero nell'età graccana o in quella immediatamente successiva. È invece certo che i debiti dovettero essere uno dei moventi maggiori delle agitazioni della plebe, l'indebitamento dei piccoli proprietarî essendo agevolato dalla rarità della valuta metallica, che rendeva difficile il risparmio, mentre la rïstrettezza dei commerci e la mancanza di concorrenza consentivano ogni sopruso dei creditori; ma i particolari della tradizione non offrono nemmeno qui nessuna garanzia di veridicità.

Altrettanto si deve dire intorno ai racconti che si riferiscono alle lotte dei plebei per l'uguaglianza politica e civile, onde occorre la critica più ponderata per accertare le tappe principali del cammino della plebe.

Fu nella prima metà del sec. V che la plebe riuscì a conquistare quegli organi e quegl'istituti che la posero poi in grado di conseguire via via i successi desiderati. La creazione delle tribù territoriali come distretti di leva fornì ad essa una nuova base di organizzazione, in quanto che le consentì di convocarsi per tribù, cioè secondo l'ubicazione dei possessi fondiarî, anziché per curie, spezzando in tal guisa la preponderanza della plebe urbana e delle clientele patrizie. E i concilî della plebe acquistarono un'autorità inattesa, perché i plebei s' impegnarono con solenni atti giurati (leges sacrae) a salvaguardare anche con la violenza queste loro riunioni e ad imporre allo stato l'osservanza dei plebisciti, cioè delle deliberazioni che vi prendevano, e crebbe sempre più l'autorità dei capi della plebe: i tribuni. Oscure sono le origini del tribunato, ma è da escludere che la potestà tribunicia fosse stata riconosciuta mercé un vero e proprio foedus tra plebe e patriziato, come in conformità del testo diodoreo pensano alcuni, ed è invece da credere che, in conformità della tradizione liviana, l'autorità dei tribuni sia stata d'origine rivoluzionaria, imposta cioè dalla plebe, impegnatasi con leggi sacre a sostenere ad ogni costo le prerogative dei suoi capi, la cui persona fu proclamata sacra e inviolabile. I loro poteri si affermarono specialmente nel diritto di ausilio, nella facoltà, cioè, di venire in soccorso dei plebei oppressi, e nel diritto di veto (ius intercessionis), di sospendere, cioè, le proposte di legge, le deliberazioni del senato e gli atti magistratuali che fossero nocivi agl'interessi della plebe; le quali facoltà erano, a loro volta, garantite da amplissimi poteri coercitivi: diritto di arrestare, di condannare a multe e persino alla morte. Era una potestà che minava naturalmente nelle sue stesse basi lo stato aristocratico; ma essa tendeva insieme ad infrenarne gli abusi, mentre a garanzia della salvezza dello stato rimanevano l'autorità del senato e l'intangibilità dell'imperio militare.

Altra magistratura plebea furono i due edili, che, secondo alcuni, in origine dovettero essere aiutanti dei tribuni, delegati forse ad esercitare una limitata giurisdizione, eseguire arresti, riscuotere multe, e posti così in grado di provvedere talora a distribuzioni di frammento e a spese di pubblica utilità, dal che poi si sarebbero sviluppate le attribuzioni, che essi ebbero in età storica, quando furono istituiti anche gli edili patrizî (cura urbis, annonae, ludorum).

È così che la plebe nella prima metà del sec. V a. C. poté ordinarsi quasi a stato entro lo stato per combattere contro i privilegi patrizî e conquistare l'uguaglianza civile e politica. Quella civile fu ottenuta mercé la legislazione delle XII Tavole, che, secondo la tradizione, fu opera, per le prime dieci, di un primo collegio di decemviri nominato nel 451 a. C., al quale successe un secondo collegio, che sarebbe poi stato deposto per colpa della prepotenza di Appio Claudio, culminata nelle sue prave intenzioni contro Virginia. Questa tradizione è prodotto in parte di ricostruzione erudita e in altra parte di elementi leggendarî, e quindi non merita fede nei particolari; ma, poiché i nomi dei decemviri appaiono in tutte le redazioni dei fasti consolari, e per la stessa loro oscurità escludono l'interpolazione, ne deve essere certo il nucleo: che cioè, verso la metà del sec. V a. C. i decemviri diedero ai Romani un codice di leggi scritte. E i frammenti, che ci sono tramandati come frammenti delle XII Tavole, sono essenzialmente autentici, e infatti nel tutto insieme di essi si rispecchia una civiltà che è di carattere eminentemente agricolo, come appunto è la civiltà romana a metà del sec. V a. C.

L'importanza basilare delle XII Tavole fu nell'aver stabilito il principio dell'uguaglianza giuridica tra patrizî e plebei, che è quanto dire l'uguaglianza di tutti gli uomini liberi dinnanzi alla legge, e nell'avere additato nella legge, promulgata appunto nell'interesse del popolo, il fondamento dello stato. Esse in gran parte codificarono il diritto consuetudinario preesistente e rappresentano un sistema ancor rude e primitivo dl diritto civile e penale, ma accolsero in sé principî capaci di grandi sviluppi futuri e norme particolarmente atte al mantenimento della compagine dello stato, della sua forza e della sua vigoria morale. Basti pensare all'elevazione della donna per via del matrimonio senza potestà, ai temperamenti della patria potestas, che restava però essenzialmente intatta al fine di garantire l'unità della famiglia, alla rigida tutela della proprietà, all'agevolazione della libertà del testare, diretta ad evitare l'estinzione delle famiglie, all'intervento dello stato nel contenzioso civile, all'abolizione della vendetta famigliare, all'attribuzione delle condanne capitali ai soli massimi comizi del popolo, all'esclusione dei tormenti come mezzi di prova per gli uomini liberi, alla severità delle pene, non maculata però da crudeltà sapiente e raffinata. È così che la legislazione decemvirale, sia per lo spirito che la animo, sia per la natura delle sue norme più importanti, poté costituire il primo germe donde si svolse, attraverso i secoli, quel diritto, che esercitò maggiore influenza sugli ordinamenti giuridici di tutto il mondo.

Caduto il secondo decemvirato, i consoli Valerio e Orazio, senza emanare quelle leggi di carattere popolare che vengono loro ascritte dalla tradizione, ma che sono certamente apocrife, fecero opera di conciliazione tra patrizî e plebei, e questi, ottenuta qualche anno appresso la consacrazione dell'eguaglianza civile mercé la legge proposta dal tribuno Canuleio per l'abolizione del divieto di nozze tra i due ordini, intensificarono la loro azione per il raggiungimento dell'eguaglianza politica, a cominciare dall'ammissione alla magistratura suprema. Nel 444 fu stabilito che il senato, anno per anno, avrebbe giudicato se si dovesse procedere alla nomina dei consoli o a quella di tribuni militum consulari potestate, i quali avrebbero potuto essere indifferentemente patrizî o plebei; dapprincipio questi si alternarono con i consoli, ma poi (secondo la tradizione a partire dal 390 a. C. e sino al 367) li sostituirono completamente. L'ammissione dei plebei al tribunato militare portò con sé assai probabilmente quella al senato, e poi (secondo la tradizione nel 421 a. C.) quella alla questura, carica subordinata al consolato. Rimase invece riservata ai patrizî la censura, che la tradizione fa istituire nel 443 con durata quinquennale, che sarebbe stata poi ridotta a 18 mesi nel 434, in forza di una legge Aemilia, mentre è probabile che questa soltanto fosse stata la legge di istituzione della nuova magistratura.

Dopo la catastrofe gallica si ebbe un'aspra ripresa di lotte politiche, delle quali restano nella tradizione non poche tracce, ma tutte assai confuse: pare certo un tentativo rivoluzionario di M. Manlio verso il 385, e certa è tutta una serie di agitazioni circa il ripristinamento del consolato, interrotto, come abbiamo visto, verso il 390. Si giunse al punto che non fu più possibile nominare magistrati curuli, e questa solitudo magistratuum, o, con termine greco, anarchia, durò secondo Livio cinque anni (375-371 a. C.), secondo Diodoro un anno soltanto. La lotta terminò nel 367 a. C. con la reintegrazione del consolato e con la sanzione del principio che uno dei due consoli potesse essere plebeo. Secondo la tradizione liviana questo principio fu sancito con una delle tre rogazioni dei tribuni C. Licinio Stolone e L. Sestio Laterano. Nello stesso anno nel quale il consolato fu aperto ai plebei, fu, secondo la tradizione, istituita la pretura, col compito di esercitare la giurisdizione civile prima spettante ai consoli, e furono aggiunti ai due edili plebei due curuli.

Deve appartenere ai tempi di poco posteriori all'incendio gallico quell'ordinamento centuriato che la tradizione attribuisce a re Servio Tullio, ordinamento che è insieme militare e politico. In virtù di esso il popolo era diviso in cinque classi a seconda del censo, e ogni classe in centurie: 80 ne contava la prima con censo minimo di 125.000 o 100.000 assi; 20 per ciascuna la seconda, la terza e la quarta classe, coi censi minimi rispettivi di 75.000, 50.000 e 25.000; 30 la quinta col minimo di 12.500 o 11.000 assi. Delle centurie di ogni classe una metà era di iuniori, che comprendevano gli uomini tra i 17 e i 46 anni, e l'altra di seniori, che comprendevano i più anziani fino a 60 anni. Vi erano poi 18 centurie di cavalieri, cui appartenevano quei cittadini della prima classe che erano forniti di censo maggiore, e 5 centurie di capite censi; sicché nel tutto insieme si avevano 193 centurie. Dalle classi si facevano le leve, e i contingenti erano armati diversamente a seconda della classe: quelli delle prime tre costituivano la fanteria pesante, quelli delle ultime due la fanteria leggiera. Dalle centurie di cavalieri si levava la cavalleria, che in origine fu una specie di fanteria montata.

Con questo ordinamento i comizî centuriati, che un tempo erano stati le riunioni del popolo in armi, divennero, col decadere dei comizî curiati, l'assemblea predominante dello stato, e spettò ad essi il sommo potere legislativo e giudiziario oltre l'elezione dei magistrati supremi. Le votazioni avvenivano per centurie, cominciando dai cavalieri e dalla prima classe, che, comprendendo la maggioranza delle centurie, aveva un'inconcussa prevalenza. Sulla origine, la natura e la data di questo ordinamento si è, anche di recente, molto discusso, ma la cosa più probabile è che appartenga al tempo che abbiam detto, perché a questo tempo corrispondono la popolazione complessiva di circa 100.000 persone, che esso presuppone, e l'esercito normale, che esso implica, di 85 centurie, 60 di fanteria pesante e 25 di fanteria leggiera, pari a due legioni (si ricordi infatti che soltanto sul finire del sec. V a. C., cioè ai tempi della guerra di Veio, si arruolarono due legioni invece di una). Comunque, fu l'ordinamento centuriato che consentì ai proprietarî plebei di emanciparsi dall'aristocrazia, e che agevolò le ulteriori rivendicazioni della plebe.

Nel 342 sì verificò una specie di rivoluzione militare, che assicurò alcune garanzie ai soldati, e furono votate proposte popolari del tribuno L. Genucio. Nel 339 Q. Publilio Filone fece votare l'ammissione dei plebei alla censura, e, a quanto sembra, fece riconoscere valore di legge ai plebisciti che fossero approvati dal senato, assicurando in pari tempo l'approvazione preventiva del senato alle decisioni dei comizî centuriati. Nel 310 circa si ebbero le ardite riforme di carattere democratico del. censore Appio Claudio (v.). Nel 300 a. C. i tribuni Quinto e Gneo Ogulnio con una loro legge resero accessibili ai plebei i due collegi sacerdotali politicamente più importanti dei pontefici e degli auguri. Nel 287 avvenne, pare a causa dei debiti, una secessione della plebe in armi sul Gianicolo, in seguito alla quale fu creato dittatore Q. Ortensio, che con una sua legge assicurò l'approvazione preventiva del senato anche per i plebisciti, che così furono in tutto equiparati alle deliberazioni dei comizî centuriati.

In tal modo rimase costituito nelle sue linee generali quel regime senatorio, che governò Roma nel periodo delle sue maggiori conquiste. La sovranità risiedeva nel popolo, ma l'esercizio ne era cautelato, e l'organo massimo, i comizî centuriati, erano ordinati in modo da assicurare la prevalenza assoluta alla classe dei medî proprietarî; l'iniziativa della convocazione e delle proposte spettava al magistrato, ed era preclusa ogni discussione. D'altra parte con l'estendersi della cittadinanza a distretti sempre più remoti da Roma, diveniva ognora più difficile convocare i comizî in numero e frequenza tali da permetter loro di reggere effettivamente lo stato, e perciò questo compito si andò via via raccogliendo nelle mani del senato, custode della grande tradizione politica, che si disse il mos maiorum, garante della continuità delle direttive di governo, supremo moderatore della legge e del costume. Il potere esecutivo era esercitato da magistrati, irrevocabili, responsabili soltanto all'uscir di carica, investiti di larghi poteri coercitivi, sovrani, insomma, nell'esercizio delle loro funzioni, ma infrenati dal principio generale della collegialità e ordinati in una rigorosa gerarchia, molto propizia all'unità d'indirizzo del governo, alla quale assai giovava pure la discretezza del numero, fattore efficacissimo di rapidità e di semplicità amministrativa.

Questo il regime che assicurò a Roma il dominio dell'Italia e del bacino del Mediterraneo.

La conquista del primato in Italia. - Durante la crisi del regime monarchico il primato di Roma sul Lazio aveva sofferto un grave colpo, e tra i Latini si era costituita una Lega, che escludeva Roma e aveva il suo santuario federale nel bosco di Diana presso il lago di Nemi. Costituitasi la repubblica, Roma cercò presto di ristabilire il suo primato: onde una serie di lotte, che si concluse con un trattato, che, essendo stato firmato dal console Spurio Cassio (493 o 486 a. C.), fu detto foedus Cassianum: esso stabiliva parità assoluta di diritti tra Roma e la Lega, alternanza nel comando degli eserciti, divisione alla pari del bottino e delle terre conquistate È il trattato della cui data non pochi critici dubitano, propendendo a spostarla nel secolo successivo, ma senza sufficienti ragioni.

Alla stessa alleanza qualche anno dopo aderirono gli Ernici, e fu con l'aiuto dei Latini e degli Ernici che i Romani combatterono i Volsci, gli Equi e gli Etruschi del sud. Dei Volsci arrestarono l'avanzata, fondando le colonie di Norba e di Signia, ma poi quelli ripresero ardore (leggenda di Coriolano), favoriti dagli Equi, che riuscirono ad accamparsi sull'Algido e a spargere il terrore sino alle porte di Tuscolo e di Roma (leggenda di Cincinnato); però i Romani riebbero presto il sopravvento (metà circa del sec. V a. C.).

Più dure ancora furono le contese con gli Etruschi di Veio e di Fidene, combattutesi dapprima intorno al 480 a. C. e culminanti nella strage dei 306 Fabî al Cremera, e poi intorno al 428, quando il console A. Cornelio Cosso vinse il comandante nemico e ne riportò le spoglie opime, che, dedicate a Giove Feretrio, si conservavano ancora ai tempi di Augusto. Caduta Fidene, sottentrò un periodo di pace, sin verso la fine del sec. V, quando scoppiò contro Veio la famosa guerra, che la tradizione dipinge decennale. Aiutati soltanto dai Capenati e dai Falisci, i Veienti riuscirono ciò non pertanto a tener sospese per lungo tempo le sorti della lotta, ma alla fine soccombettero all'abile assalto dI Camillo: la loro città fu distrutta e il territorio incorporato allo stato romano (396 a. C., secondo la tradizione). Poco dopo la stessa sorte toccò a Capena e colonie latine furon dedotte a Sutri e a Nepi, col che lo stato romano raggiungeva il confine naturale delle impervie selve del Cimino.

Così Roma nelle guerre del sec. V aveva accresciuto considerevolmente la sua potenza, sia col ristabilire la propria egemonia in seno alla Lega latina, sia con l'allargare il territorio proprio e della Lega, la quale però aveva perduto di coesione, laddove Roma si era sempre più consolidata militarmente e politicamente. Ma ecco che l'esistenza stessa della città fu minacciata dal sopraggiungere di un nemico inatteso: i Galli, un cui esercito, proveniente o d'oltralpe o dalla valle del Po, superato l'Appennino, penetrò nel Lazio, e, sbaragliati i Romaní in una prima battaglia che, secondo alcune fonti, avvenne sull'Allia, sulla sinistra, cioè, del Tevere a nord di Fidene, e secondo Diodoro invece sulla destra, occupò Roma incendiandola e devastandola. Resistette però il Campidoglio, e dopo qualche tempo i barbari dovettero ritirarsi, ma Roma si trovò di fronte alla defezione delle città latine e volsche. Riuscì però a debellarle, rinnovando la Lega su basi più rigorose, il che la mise in grado di consolidare la propria posizione nell'Etruria meridionale, ove, tra l'altro, sostenne una guerra contro Cere, sottomettendola, incorporandone il territorio e confermando agli abitanti la cittadinanza romana senza il diritto di suffragio. Talché verso la metà del sec. IV a. C. Roma e i Latini dominavano su tutta la pianura, dai monti Cimini fino a Terracina e su una parte delle circostanti regioni montuose per un'estensione di 8000 kmq. circa.

Intanto più a sud si era formato un altro grande stato col quale era inevitabile che Roma venisse a confronto: la Lega sannitica, che dal confine della Lucania si estendeva fino al Sangro e alla media valle del Liri, e sul Tirreno abbracciava l'ager Picentinus, sull'Adriatico il territorio dei Frentani, nella Puglia Luceria e Venosa: in tutto circa 15.000 kmq. La Lega mirava ad attirare nella sua orbita Capua, e se ciò le fosse riuscito, la sua potenza se ne sarebbe di molto avvantaggiata, ma Capua non ne volle sapere, e chiese aiuto ai Romani, i quali, sebbene qualche anno prima avessero stretto un trattato coi Sanniti, non esitarono a intervenire (343 a. C., secondo la tradizione), e vinsero i Sanniti al monte Gauro, sulla strada da. Napoli a Cuma, e a Suessola, sulla strada da Benevento a Capua, onde i nemici dovettero sgombrare la Campania. È questa la prima guerra sannitica, che, a torto, alcuni scrittori di storia hanno voluto cancellare, indottivi specialmente dal silenzio di Diodoro, che invece è soltanto casuale.

Subito dopo i Latini, la cui condizione si era resa sempre più gravosa, si sollevarono contro Roma, aiutati dai Volsci e dai Campani, ma i Romani vinsero la guerra, sciogliendo definitivamente la Lega, alcune città della quale conservarono il diritto latino, ma le più furono incorporate a Roma ed ebbero la cittadinanza romana; Capua, secondo alcuni, restò nella condizione di città federata, secondo altri, ed è più probabile, ebbe la civitas sine suffragio, in una forma però privilegiata, che comprendeva il diritto di batter moneta. A difesa dei nuovi possessi furono fondate le colonie di Cales (334 a. C.) e di Fregelle (328). Il dominio di Roma aveva così raggiunto approssimativamente i 12.000 kmq., con un mezzo milione circa di abitanti, e comprendeva le due maggiori città dell'Italia non greca: Roma e Capua.

Furono appunto i rapporti di Roma col più importante emporio greco della Campania, che porsero occasione alla seconda guerra sannitica. In verità già in precedenza i Sanniti avevano considerato come una usurpazione l'occupazione di Fregelle, ma assai più li provocò l'assedio che i Romani posero nel 327 a. C. a Napoli, che era loro alleata o per lo meno desiderosa di alleanza. Fu così che un presidio sannita concorse alla difesa della città, senza potere però impedire che i Romani la prendessero col tradimento di cittadini che parteggiavano per loro. La guerra durò più di venti anni, protraendosi tra piccole battaglie e grandi stragi. Pari era il valore dei combattenti, ma, mentre i Sanniti superavano i Romani per estensione di territorio, i Romani avevano il vantaggio di una più fitta popolazione e di una più salda organizzazione, e molto poi, giovò che con loro si alleassero al principio della lotta gli Apuli di Arpi. La tradizione della guerra è profondamente inquinata da invenzioni, reduplicazioni e anticipazioni, ma è possibile accertarne i fatti principali: la rotta dell'esercito romano nel 321 a. C. nelle strette tra Caudio e Benevento, la conclusione di un'alleanza con Canusio e Teano nel 318, una notevole vittoria dei Sanniti sul dittatore Q. Fabio Rulliano nel 315, la successiva ripresa romana con la fondazione delle colonie di Sora, Interamna, Suessa al Liri, Saticula, Luceria, l'estensione della guerra in Etruria nel 310, e finalmente, dopo alterne vicende nella Campania, nell'Apulia e nel territorio degli Ernici, la conclusione nel 304 della pace, per la quale i Sanniti dovettero rinunciare a ogni aspirazione di dominio nella Campania, nella Puglia e nel bacino dell'alto Liri, ma il loro territorio rimase pressoché intatto. Gli Equi furono nello stesso anno soggiogati e fondate le colonie latine di Carseoli e di Alba Fucente; i Marsi, i Peligni, i Marrucini, i Frentani, i Vestini chiesero e ottennero di entrare nell'alleanza di Roma.

I primi anni del sec. III a. C. furono particolarmente pericolosi per Roma, che si trovò implicata in una guerra, che la costrinse a combattere su due fronti, al nord contro Sabini, Umbri ed Etruschi della valle del Tevere, allarmati dall'ampliamento del dominio di Roma sino al Nera e dalla fondazione della colonia di Narni, al sud contro Sanniti e Lucani; ed il peggio si fu che contemporaneamente tornarono a muoversi i Galli, una cui orda nel 299 penetrò addentro nel territorio romano, facendovi considerevole bottino. Nell'anno appresso il console L. Cornelio Scipione Barbato operò con successo nel Sannio e nella Lucania, e nel 295 i Romani, dopo una rotta patita nel territorio dei Camerti, riportarono una grande vittoria a Sentino. Contro i Sanniti la guerra si protrasse ancora alcuni anni, e terminò soltanto nel 290 ad opera dei consoli P. Cornelio Rufino e M. Curio Dentato, il quale ultimo procedette all'assoggettamento dei Sabini e dei Pretuzî, di cui invase e devastò il paese, facendo numerosi prigionieri, e confiscando gran parte del territorio. A difesa dei nuovi acquisti fu fondata la colonia di Adria, e molto più a sud quella di Venosa.

Nel frattempo erano continuate le lotte contro parte degli Etruschi, e, forse chiamati da loro, nel 285 a. C. i Galli passarono di nuovo l'Appennino e attaccarono Arezzo, sconfiggendo un esercito romano, mandato in soccorso sotto il comando del console L. Cecilio Metello, ma, l'anno appresso i Romani vinsero i Senoni e li scacciarono dalle loro sedi, confiscandone l'intero territorio, ove fondarono la colonia romana di Sena Gallica. Ciò allarmò quanto mai i Boi, vicini dei Senoni, e li indusse a raccogliere un grande esercito, che fu però sconfitto dai Romani, prima presso il lago Vadimone, e poi, pare, presso Populonia. Al lago Vadimone le principali perdite toccarono agli Etruschi, i quali si videro costretti a concludere particolari trattati di alleanza coi vincitori. Ormai Roma dominava sulla maggior parte dell'Italia centrale, dall'Adriatico al Tirreno, dalle sorgenti del Tevere sino al Vulture nelle Puglie, ma, entro questi limiti, il Sannio conservava la sua indipendenza.

Intanto nell'Italia meridionale le città greche della parte occidentale avevano da tempo dovuto soggiacere agl'indigeni, Bruzî e Lucani, mentre nella parte orientale solo i grandi centri erano stati in grado di resistere, e tra questi prevaleva Taranto, città ricca di territorio, di popolazione e di commerci. Avendo i Romani, nel 282 a. C., posto un presidio in Turî, che aveva chiesto il loro aiuto contro i Lucani, i Tarentini se ne ritennero offesi; ne nacque una guerra coi Romani che li sconfissero, ed allora essi chiesero l'aiuto di Pirro, re d'Epiro, uno dei primi capitani del tempo, che nelle lotte dei Diadochi aveva ingrandito il suo regno, ma era stato recentemente cacciato dalla Macedonia.

Pirro accettò l'invito e, nella speranza di sottoporre al suo scettro l'Occidente greco, passò in Italia nel 280 a. C. coi figli Alessandro ed Eleno, alla testa di un esercito di 30.000 fanti e 3000 cavalieri, conducendo con sé un certo numero di elefanti, che fecero allora la loro prima apparizione in Italia. Vinto il console P. Valerio Levino presso Eraclea, costrinse i Romani a sgombrare tutta l'Italia meridionale, e si avanzò senza resistenza verso il Lazio, giungendo sino ad Anagni, ma, poiché nel frattempo i Romani conclusa la pace in Etruria, avevano messo insieme forze rilevanti, tornò in Taranto, e nell'anno successivo, penetrato nell'Apulia, combatté, presso Ascoli, sulla destra dell'Aufido, una battaglia durata due giorni, nella quale cadde il console P. Decio Mure. I Romani dovettero ripiegare nel loro campo fortificato, ma il loro esercito era rimasto essenzialmente intatto, e la sua compattezza risultò sempre meglio agli occhi del re epirota, che cominciò ad inclinare verso la pace, ma le trattative da lui iniziate a questo scopo fallirono, avendo i Romani preferito invece concludere coi Cartaginesì un trattato, per il quale i contraenti si obbligavano a non concludere pace con Pirro se non di comune intesa.

Pirro peraltro non si lasciò distogliere dal passare in Sicilia, ove l'invocavano le città greche, incalzate dai Cartaginesi: specialmente Siracusa ed Agrigento. Accolto con entusiasmo dai connazionali ed acclamato re dell'isola, ottenne dapprima grandi successi, ma poi, abbandonato da quelli stessi che l'avevano chiamato in soccorso, tornò in Italia (276), senza riuscire a riguadagnare il sopravvento sui Romani. Chiesti invano aiuti ad Antigono Gonata, che aveva recentemente conquistata la Macedonia, decise di volgerglisi contro, e, tornato in Epiro, sconfisse pienamente l'avversario, occupando quasi tutta la Macedonia. Mentre si prefiggeva di ricacciare Antigono anche dalla Grecia, morì nel 273 o 272 in un combattimento per le vie di Argo. Aveva lottato per la salvezza della nazionalità greca contro i Romani e contro i Cartaginesi, e aveva anche sognato l'unificazione della Grecia: il suo piano in Italia era fallito soprattutto perché i suoi connazionali, nella loro miopia democratica, non avevano saputo fare il sacrificio delle loro libertà repubblicane, e avevano persistito nell'insofferenza di ogni disciplina, ma, se non altro, egli era riuscito a impedire l'occupazione totale della Sicilia da parte dei Cartaginesi. Comunque, i suoi alleati in Italia dovettero ora rassegnarsi alla pace, e l'ebbero a dure condizioni: ai Bruzî fu tolta metà della Sila, anche i Lucani perdettero alcuni distretti, e più dura fu la sorte dei Sanniti, che dovettero cedere un terzo del loro territorio, e proprio la parte più fertile, nella quale furono fondate le colonie di Benevento e di Esernia, onde il Sannio si trovò spezzato in due parti: i Sanniti propriamente detti al nord e gl'Irpini al sud. Bruzî, Lucani e Sanniti entravano così nella federazione romana, e a essa accedevano insieme le città greche, a cominciare da Taranto, e da Regio, presa d'assalto, dopo lungo assedio (270). Negli anni successivi furono costrette a riconoscere la sovranità romana quelle poche regioni, che ancora avevano conservato la loro indipendenza (la tradizione parla di una sollevazione del Sannio, di guerra contro i Picenti, Sarsina e Volsinî).

E così ormai l'intera Italia peninsulare dall'Arno e dall'Esino allo stretto di Messina era stata costretta ad entrare nella federazione, della quale Roma aveva l'egemonia; in altri termini Roma aveva unificato la penisola, ed aveva con ciò creato la base militare ed economica della sua futura espansione nel mondo. Il compito era stato quanto mai arduo, perché le popolazioni della penisola appartenevano a nazionalità diverse: Italici, Iapigi, Greci, Etruschi, e gl'Italici s'erano, a loro volta, profondamente differenziati tra di loro, e tutti ripugnavano ugualmente all'unificazione; ma Roma, riuscì nella sua impresa contemperando l'uso della forza con l'abilità politica: talora distrusse i vinti, più spesso li lasciò sussistere, sia incorporandone il territorio e trasformandoli in cittadini con pienezza o no di diritti, sia formalmente rispettandoli nei loro nuclei statali e stringendo con loro trattati separati.

Dei 130.000 kmq., che costituiscono approssimativamente l'estensione della penisola, appena una quarta parte era in dominio diretto di Roma, comprendeva cioè i cittadini con e senza suffragio, quelli con suffragio disseminati nelle tribù, con piccoli centri o luoghi di mercato, o accantonati nelle colonie dette di diritto romano; quelli senza suffragio, soggetti, cioè, agli obblighi della leva e del tributo, ma esclusi dal diritto elettorale attivo e passivo, nelle loro città, poche delle quali erano sfornite di ogni autonomia interna, ma le più ne godevano.

I rimanenti popoli dell'Italia erano confederati con Roma per mezzo di trattati, in cui erano sancite condizioni diverse, ma comune a tutti gli alleati era l'obbligo della prestazione di contingenti militari, dei quali i Romani stabilivano, volta per volta, il numero, entro un limite massimo determinato esplicitamente dal foedus. Queste milizie erano levate e stipendiate dalle singole comunità, e comandate da ufficiali indigeni, sottoposti, a loro volta, al comando di ufficiali romani. Fra gli alleati una posizione privilegiata spettava ai Latini, che avevano piena libertà di connubio e di commercio con Roma e potevano con molta facilità acquistare la cittadinanza romana: con loro Roma aveva diviso per lungo tempo i frutti delle comuni vittorie, e con loro aveva fondato numerose colonie, che avevano propagato la comune nazionalità in una gran parte d'Italia.

Per mezzo di questo sistema federale Roma teneva saldamente in pugno tutte le comunità dell'Italia peninsulare, ed entrava di pieno diritto nel rango delle grandi potenze; ché, di fatto, l'estensione dello stato romano era divenuta quasi doppia di quella dell'impero Macedone, e superava, sia pure di poco, il dominio cartaginese e l'Egitto tolemaico, rimanendo inferiore soltanto a quella dell'impero Seleucidico. La popolazione era di 4 milioni approssimativamente, cioè pari presso a poco a quella della Macedonia e di poco inferiore a quella dell'impero Cartaginese. Gli stati federati superavano di parecchio il centinaio e di essi Roma non cercò un'assimilazione violenta, facendo invece precedere alla latinizzazione la creazione di una profonda solidarietà tra sé e i soci, alla quale contribuì la fratellanza delle armi nell'unità del comando, l'uguale partecipazione ai commerci provinciali, l'abilità della politica monetaria, l'identità dei privilegi all'estero, la spontanea espansione degl'istituti giuridici romani. Fu così che l'unificazione materiale, economica e militare della penisola precedette e preparò l'unificazione linguistica e nazionale.

La prima guerra punica. - Il trattato che i Romani avevano stretto con Cartagine durante la guerra di Pirro era stato preceduto da altri (uno forse del principio della repubblica e uno del 348 a. C.), i quali dimostrano l'antichità delle relazioni commerciali di Roma con la massima colonia fenicia dell'Africa, che, fondata presso a poco verso l'800 a. C., aveva assoggettato le tribù libiche confinanti, acquistata l'egemonia sui Fenici d'occidente e fatte rilevanti conquiste nella Sicilia sul finire del sec. V a. C., dopo un vano tentativo del principio del secolo stesso. E nell'isola le lotte tra Cartagine e Siracusa riarsero più volte con sorti alterne dai tempi di Dionisio il vecchio all'intervento di Pirro, fallito il quale, i Cartaginesi riacquistarono la preponderanza, mentre Siracusa lottava contro i Mamertini. padroni di Messana. In queste lotte Gerone, figlio di Ierocle, assunse la dittatura militare in Siracusa, e, sconfitti i Mamertini in una battaglia presso il fiume Longano, assunse il titolo di re; stava egli già per ridurre in suo potere la stessa città di Messana, quando sopraggiunsero i Cartaginesi, ai quali una parte dei Mamertini consegnò la cittadella, ma la maggioranza invocò l'aiuto dei Romani, e questi, dopo qualche esitazione, mandarono un esercito a Regio. Allora i Mamertini, cacciato il presidio dei Cartaginesi, si posero sotto la protezione romana, con un gesto che segnò il principio della prima guerra punica.

D'altronde il conllitto tra Roma e Cartagine, le due maggiori potenze del bacino occidentale del Mediterraneo, disformi come erano per cultura, per razza, per religione, e rivali per il contrasto di interessi morali e materiali, era inevitabile: Roma, evidentemente, non poteva tollerare a lungo la pericolosa vicinanza dei Cartaginesi in Sicilia, e della loro espansione sino allo stretto di Messina non poteva non essere gelosa.

La lotta si annunciava formidabile: Cartagine signoreggiava, oltreché su parte dell'Africa settentrionale e della Sicilia, sulla Spagna meridionale, la Sardegna, la Corsica, le Baleari; l'estensione della sua terraferma in Africa era di circa 50.000 kmq. (70.000 con le colonie libo-fenicie), la popolazione di 3 o 4 milioni, che salgono a 5, aggiungendovi gli abitanti delle isole. Essa quindi superava un poco quella dell'Italia romana (v. sopra); ma in sostanza i Cartaginesi erano rimasti conquistatori stranieri, dominanti su sudditi stranieri, e, se pure non mancavano di spirito guerresco abbisognavano, per mantenere la loro vasta signoria e per non interrompere i loro commerci, di eserciti mercenarî. Abbiamo visto invece come i Romani fossero affini per stirpe ad una buona parte delle popolazioni italiche, come avessero mirato per mille guise a legare a sé i sudditi, e una parte ne avessero trasformata in cittadini, preparandone così la fusione in un solo popolo; Roma aveva inoltre un esercito nazionale, e questi erano coefficienti di netta superiorità.

Nel pensiero di Roma la guerra, nel momento in cui venne dichiarata, voleva essere guerra di difesa, diretta ad impedire che i Cartaginesi si afforzassero sul Faro, e a tutelare la federazione italica col possesso di un posto avanzato nella Sicilia, ma nel corso di pochi mesi la guerra si trasformò in offensiva, ed assunse carattere di conquista.

I Cartaginesi, visto cacciato il loro presidio da Messana, si unirono con Gerone, ma gli uni e l'altro furono sconfitti dall'esercito romano, passato nell'estate del 264 da Regio nell'isola, onde Gerone si alleò coi Romani nel 263; l'anno appresso, gli alleati dopo un assedio di sei mesi, presero Agrigento, potente base di operazione dei Cartaginesi. Ma questi, padroni del mare, andavano devastando a loro talento le coste d'Italia e forzavano le città marittime della Sicilia a seguire le loro parti, finché i Romani videro che Cartagine poteva essere vinta soltanto sul mare, e si adoperarono per la costruzione di una flotta che potesse tener testa agli avversarî. E lo sforzo fu coronato nel 260 dalla grande vittoria riportata da C. Duilio a Mile, in conseguenza della quale i Romani poterono nel 259 attaccare anche la Corsica e la Sardegna. Per terra però la guerra si trascinava per le lunghe, perché i Cartaginesi, consapevoli dell'inferiorità del loro esercito, si limitavano alla difensiva, e per affrettare la soluzione Roma pensò di trasportare le operazioni in Africa. Dopo una grande vittoria navale riportata presso il promontorio Ecnomo nel 256, i Romani sbarcarono in Africa, al comando di Attilio Regolo, e ottennero dapprima notevoli successi, ma poi, specialmente a causa della loro insufficienza numerica, furono sconfitti disastrosamente dai Cartaginesi rafforzati da un corpo di mercenarî comandati dallo spartano Santippo, abile capitano.

E così la lotta tornò a concentrarsi in Sicilia. Sebbene i Cartaginesi avessero spedito rinforzi, e sebbene la flotta romana avesse subito gravi perdite in due successivi naufragi, i Romani riuscirono a conquistare la costa settentrionale dell'isola e a respingere i Cartaginesi nelle due estreme fortezze occidentali di Lilibeo e di Trapani. Ma qui i nemici resistettero tenacemente e riuscirono ad annientare le navi romane che concorrevano al blocco (250 a. C.), sì da riprendere il sopravvento sui mare, e le loro sorti si rialzarono anche per terra, quando nel 247 prese il comando dell'esercito un valente generale, Amilcare Barca, che occupò il monte Heircte e la città di Erice.

Il prolungarsi della guerra esauriva le forze degli avversarî, ma Roma con eroico sforzo dei cittadini poté armare 200 quinqueremi, che, agli ordini di C. Lutazio, bloccarono Lilibeo e Trapani; e quando i Cartagínesi tentarono di rompere il blocco, avanzandosi con una flotta pesante dalle isole Egati verso Trapani, i Romani li assalirono e li distrussero. Ai nemici non rimase altro partito se non affrettare la pace, e l'ottennero obbligandosi a restituire i prigionieri di guerra, a pagare ratealmente una forte indennità e a cedere ai Romani i loro possedimenti di Sicilia, dove invece rimase indipendente il regno di Gerone.

L'intervallo tra le prime due guerre puniche. - Appena terminata la guerra con Cartagine, insorsero i Falisci di Faleri, e Roma li punì con la distruzione della città. Nello stesso anno furono fondate nella Sabina le due tribù della Velina e della Quirina, col che il numero delle tribù fu portato a quello, che fu poi definitivo, di 35.

Essendo stata poco appresso l'esistenza di Cartagine messa in pericolo da un ammutinamento dei mercenarî e dei sudditi libici, e libo-fenici, Roma ne approfittò per strappare alla rivale la Sardegna e imporle una nuova indennità di guerra: Sicilia e Sardegna con la Corsica furono i primi possedimenti dei Romani fuori dell'Italia peninsulare, che presto furono ordinati a provincie.

La perdita della Sicilia e della Sardegna era stata gravissima per Cartagine, perché si trattava di dominî ricchi di granaglie e di miniere, onde la città punica, fertile sempre di iniziative, cercò di compensarla con l'espansione nella Spagna, famosa per le sue miniere, specialmente di argento, abitata da stirpi guerresche, che le avrebbero potuto fornire una nuova base di reclutamento. Il compito di questa espansione Cartagine affidò dapprima ad Amilcare Barca, il quale sottomise, poggiandosi sulle colonie fenicie della Costa, la parte meridionale della penisola, e, dopo la sua morte, al genero Asdrubale, che ne proseguì l'opera. Naturalmente tutto ciò non poteva lasciare indifferente Roma, la quale però sul momento altro non poté fare se non concludere nel 226 un trattato, col quale Cartaginesi e Romani s'impegnavano reciprocamente a riconoscere come confine delle rispettive zone di influenza l'Ebro.

Altre complicazioni ed altri obiettivi assorbivano per ora l'attenzione dei Romani. Qualche anno prima (229) essi avevano combattuto una guerra contro le popolazioni delle coste illiriche, che avevano costituito uno stato potente, e, dedite alla pirateria, turbavano continuamente il commercio dell'Adriatico e dello Ionio, danneggiando, oltreché le città greche, i mercanti italici. La guerra era stata rapida e decisiva ed era terminata (228) con la sottrazione all'Illiria di molti territorî, che i Romani cedettero a Demetrio di Faro, e con l'accessione all'alleanza romana di Apollonia, Epidamno ed altre città greche. La guerra aveva portato per la prima volta a contatto diretto Roma con le potenze dirigenti della Grecia, la Macedonia, la Lega achea e la Lega etolica, e la città latina che era uscita con l'aureola di protettrice dell'indipendenza ellenica e con l'ammissione ai giuochi istmici.

In pari tempo Roma si trovò coinvolta in una guerra contro i Galli Boi ed Insubri, che, aiutati da un forte esercito di connazionali, reclutati oltr'alpe, minacciavano di rovesciarsi su tutta la penisola. I Romani con grande sforzo fronteggiarono il pericolo, prima arrestando l'avanzata dei nemici in Etruria, con una duplice battaglia presso Telamone (225), poi portando la guerra nel paese dei Boi (224) e in quello degl'Insubri (223). Qui il console M. Claudio Marcello combatté vittoriosamente a Clastidium (222), uccidendo il duce dei Galli, Virdumaro, e provocando la caduta della capitale, Mediolanum. Dopo di che fu conclusa la pace con l'obbligo ai Boi e agli Insubri di consegnare ostaggi e di pagare un tributo ai Romani, che tosto fondarono nella valle Padana le colonie di Piacenza e di Cremona.

Superato il pericolo non lieve del tumulto gallico, Roma rivolse di nuovo la sua attenzione alla Spagna, prendendo sotto il suo protettorato Sagunto, con la quale era stata già prima in amichevoli relazioni, ma che, essendo collocata al sud dell'Ebro, apparteneva alla sfera di influenza cartaginese. Intanto moriva nel 221 Asdrubale, e gli succedeva nel comando Annibale, figlio di Amilcare, il quale, allargate di molto con colpi fulminei le conquiste spagnole, concepì subito il piano di invadere l'Italia, e per assicurarsi le spalle e privare i Romani di ogni eventuale base militare in Spagna, investì senz'altro, nella primavera del 219, Sagunto, con che mostrò di volere consapevolmente la guerra, perché i Romani avevano nel frattempo dichiarato che nell'offesa contro la città avrebbero ravvisato senz'altro un casus belli. Né si può dire che il momento fosse scelto male dal condottiero cartaginese: assodato il suo dominio su buona parte della Spagna a sud dell'Ebro Cartagine, con la ripresa dei commerci e coi proventi delle miniere e del bottino spagnolo, aveva riparato in gran parte i danni sofferti nella prima guerra punica, laddove i Romani non avevano ancora terminato la sottomissione della valle padana, e avevano dovuto riprendere la guerra in Illiria per la ribellione, facilmente però domata, di Demetrio di Faro.

La seconda guerra punica. - Sagunto cadde nell'autunno del 219, e nella primavera dell'anno successivo Annibale traversò l'Ebro; prima avanzò con ostentata lentezza, ma poi con rapidità fulminea valicò i Pirenei, il Rodano e le Alpi, e nell'autunno piombò nella pianura Padana, ove aveva già intrecciato accordi con alcune delle tribù celtiche. Sconvolgeva così i piani dei Romani, che avevano inviato un esercito nella Gallia con l'obiettivo di procedere verso i Pirenei o per lo meno di difendere la linea del Rodano e un altro in Sicilia col programma di sbarcare in Africa. Il console P. Cornelio Scipione, che comandava il primo di questi eserciti, vistosi sfuggire il nemico, tornò in Italia spedendo nella Spagna il fratello Gneo, mentre l'altro console, Tiberio Sempronio, era richiamato dalla Sicilia. I due consoli, ricongiuntisi presso il fiume Trebia, dopo una prima sconfitta subita da Scipione sul Ticino, assalirono Annibale sulla fine del 218, ma furono completamente battuti e costretti a sgombrare la valle del Po, ove si sostennero soltanto le due fortezze di Piacenza e di Cremona.

A difendersi contro la prevedibile invasione dell'Italia centrale i Romani inviarono uno dei due consoli del 217, C. Flaminio, in Etruria, presso Arezzo, e l'altro, Gn. Servilio, a Rimini. L'esercito di C. Flaminio fu sorpreso da Annibale, presso il lago Trasimeno, e letteralmente annientato (21 giugno). Pochi giorni dopo cadde nelle mani dei Cartaginesi anche la cavalleria del secondo esercito, accorso in aiuto del primo. Annibale percorse senza resistenza tutta l'Italia centrale, affrettandosi verso il Sannio, della cui fedeltà a Roma era lecito massimamente dubitare, e l'Italia meridionale ove potevano attendersi da Cartagine tutti i rinforzi necessarî. Lo seguì passo passo, freddo ed impassibile, senza mai lasciarsi trascinare in battaglie, il dittatore Q. Fabio Massimo il Temporeggiatore.

Annibale pose i quartieri d'inverno nella Puglia e nell'estate del 216 (2 agosto) inflisse presso Canne ai Romani, comandati dai due consoli Lucio Emilio Paolo e Q. Terenzio Varrone, una delle sconfitte più disastrose che la storia ricordi; e tuttavia, quanto più grave, tanto più rivelatrice della forza dei Romani che ad essa seppero resistere. Furono ordinate nuove leve, armati gli schiavi, sottratte ai templi le armi dei trofei, e il Senato andò incontro al console vinto, dimenticandone gli errori, per ringraziarlo di non aver disperato della salute pubblica.

Contrariamente a tutte le speranze di Annibale, il nucleo della potenza romana, costituito daglí stati alleati dell'Italia centrale non si sfasciò, e Roma poté così superare il momento più pericoloso della guerra. In conseguenza della sconfitta romana il Bruzio, la Lucania, parte delle Puglie e della Campania erano caduti nelle mani di Annibale, quando la conflagrazione fu resa più ardua dall'intervento di Filippo di Macedonia, che strinse alleanza coi Cartaginesi, e dalla defezione 'di Siracusa, dopo la morte di Gerone. Filippo si dovette limitare ad assalire i possedimenti romani dell'Illiria, senza potere ottenere, per la mancanza di flotta, nulla di notevole, laddove i Romani riuscirono a trascinare nella guerra gli Etoli, il re di Pergamo Attalo I ed altri stati greci, sicché Filippo si vide assalito da tutte le parti. Intanto nella Spagna i Romani tennero saldamente il paese tra i Pirenei e l'Ebro, impedendo ad Asdrubale di inviare rinforzi ad Annibale, che continuò le sue operazioni nell'Italia meridionale, senza osare avanzarsi verso il Lazio, come si poteva temere. E contro di lui Roma oppose adesso capitani di notevole perizia, quali M. Claudio Marcello, il vincitore di Clastidium, Q. Fabio e Tiberio Sempronio Gracco. Ed ecco che tornarono nelle mani di Roma, Arpi nel 213, Siracusa nel 212, Capua nel 211; ma in questo stesso anno i Romani, che negli anni precedenti avevano ottenuto successi notevoli nella Spagna, vi subirono gravi rovesci, durante i quali caddero uccisi i due fratelli P. e Gn. Scipione, che li comandavano. A sostituire Publio i Romani inviarono in Spagna il figlio omonimo, allora appena ventiquattrenne, pronto, sagace, coraggioso, e pieno di fiducia nei proprî destini, ispirato da un fervido entusiasmo religioso, frenato però sempre dall'immancabile spirito pratico dei Romani.

Sbarcato in Spagna nel 210, Scipione mutò di colpo la situazione, impadronendosi nell'anno successivo di Cartagena e sconfiggendo a Baecula nel 208 Asdrubale, che allora si decise a condurre in Italia la parte migliore del suo esercito. E ve ne era bisogno, perché Annibale dopo la caduta di Capua si era dovuto sempre più ritrarre verso il mezzogiorno d'Italia, nel 209 aveva perduto Taranto per tradimento, e per quanto nel 208 la fortuna avesse concesso alla sua cavalleria di sorprendere, vincere ed uccidere Marcello, che era uno dei generali nei quali i Romani più potessero sperare, nessun vantaggio reale aveva da ciò potuto ricavare. Mentre Asdrubale, scendendo dall'Italia superiore lungo l'Adriatico, tentava ricongiungersi col fratello, fu affrontato dai Romani, dopo un'accuratissima preparazione strategica, presso il Metauro in posizione per lui svantaggiosa, e nella battaglia rimase ucciso con moltissimi dei suoi.

Intanto Scipione nella Spagna conduceva a compimento la rovina dell'impero Cartaginese, e, ottenuto lo sgombero completo della penisola, tornava nel 206 a. C. in Italia, vi conseguiva con consenso unanime il consolato, e, con audacia pari alla saggezza, si preparava a trasportare la guerra nell'Africa. Contemporaneamente terminavano le ostilità in Grecia, poiché, usciti gli Etoli dalla Lega, i Romani nel 205 conclusero la pace con Filippo, conservando i loro possedimenti illirici più importanti, ma lasciando nelle mani del re macedone una parte delle conquiste di terraferma.

Nel 204 a. C. Scipione sbarcava in Africa, trovava un alleato in Massinissa re di Numidia, e coi suoi splendidi successi poneva in tale angustia i Cartaginesi che questi pensarono a richiamate dall'Italia Annibale, che da varî anni era rimasto asserragliato nel Bruzio. La battaglia di Naraggara (detta di Zama, ottobre 202), combattuta con grande valore dalle due parti, si concluse con una disfatta decisiva per Annibale, nonostante che il suo genio vi rifulgesse con innovazioni tattiche di grande importanza.

Cartagine dovette accettare durissime condizioni di pace: cessione dei possessi spagnoli e delle isole del Mediterraneo, rilascio di prigionieri e disertori, cessione delle navi salvo dieci, e degli elefanti, proibizione di far guerra senza il permesso di Roma, restituzione a Masinissa di tutte le città e terre possedute da lui e dai suoi antenati entro i confini cartaginesi, pagamento di diecimila talenti euboici d'argento in cinquant'anni.

Erano condizioni che cancellavano Cartagine dal novero delle grandi potenze, la riducevano a stato cliente di Roma, ed erano formulate in modo da offrir sempre ai Romani il pretesto di intervenire. E la vittoria romana trascendeva l'umiliazione della rivale in quanto che, conseguita per gli immani comuni sacrifici di Roma e dei federati italici, rinsaldava la loro fratellanza, li avviava ad unità di nazione e al predominio nell'Occidente di Europa.

La seconda guerra macedonica. - Era appena terminato l'immane conflitto e già si profilavano sull'orizzonte di Roma occasioni di intervenire negli affari della Grecia e dell'Oriente ellenistico il che avrebbe reso inevitabili nuove guerre. L'averle affrontate fu recisa affermazione di volontà imperialistica o fu effetto di una fortuita concatenazione di circostanze, estranee alla volontà stessa di Roma e a questa imposte? Forse nelle prime fasi degli avvenimenti, attraverso i quali Roma si impadronì della Macedonia e della Grecia, prevalse l'azione di tali circostanze, ma non par dubbio che entrassero poi presto in giuoco mire precise di espansione imperialista, che prendessero, cioè, la mano gli uomini e i partiti politici che le vagheggiavano. Infatti le fasi progressive dell'espansione corrispondono assai meglio ad un disegno freddamente preordinato e allo sviluppo metodico di un piano politico che a un mero giuoco del caso.

Declinata dopo il regno dei primi tre Tolemei la potenza dell'Egitto, la Siria e la Macedonia tendevano a rompere a proprio profitto quell'equilibrio di forze che si era stabilito verso la metà del sec. III a. C. fra le tre maggiori potenze ellenistiche, ed era andato a tutto vantaggio degli stati minori, quali Pergamo, Rodi, Bisanzio. Intanto nella Grecia l'antico ideale dello stato-città rappresentato ancora da Sparta e da Atene si incrociava con quello federale rappresentato specialmente dalle leghe Achea ed Etolica. Nel cozzo degl'ideali e degl'interessi, le une o le altre delle parti contendenti offrirono volta a volta all'Italia romana l'occasione di intervenire. E Roma non poté non sentirsene lusingata. Da grande tempo influssi greci si erano fatti sentire sulla civiltà romana, ed i contatti prima e la conquista poi delle città greche dell'Italia meridionale e della Sicilia li avevano intensificati al massimo, di guisa che in Roma i ceti elevati si aprivano al fascino della superiore civiltà greca. E col sentimento cospiravano gl'interessi, perché è evidente che Roma non poteva consentire la rottura dell'equilibrio stabilitosi tra gli stati ellenistici né la formazione di una potenza preminente, specialmente se questa avesse dovuto essere la Macedonia, le cui intenzioni ostili si erano tradotte in atto durante la seconda guerra punica. Ora questo pericolo incalzava effettivamente, perché, morto nel 204 a. C. Tolemeo Filopatore, lasciando un figlio minorenne, Filippo si era alleato, per spartirsene il regno, con Antioco III di Siria, che, salito al trono nel 223, aveva rialzato le sorti del suo impero, ristabilendo pienamente la sua autorità nell'Asia Minore e nelle altre satrapie. Mentre questi invadeva la Celesiria, Filippo, armata una flotta, assaliva i possedimenti tolemaici dell'Egeo, e suscitava così le ostilità di Attalo I e dei Rodî, che, vinti nella battaglia di Lade (201 a. C.), si rivolsero per aiuto ai Romani, sollecitati in pari tempo dall'Egitto e da Atene. E quelli intervennero intimando a Filippo di desistere da ogni ostilità contro le città greche e di sottoporre ad arbitrato le sue controversie. Filippo avendo respinto questo intervento, i Romani gli dichiararono guerra.

Occorsero tre aspre campagne, con complicate operazioni di terra e di mare, e l'adesione a Roma degli Etoli e degli Achei, prima che a T. Quinzio Flaminino riuscisse di sconfiggere definitivamente l'avversario a Cinocefale (197).

Filippo dovette accettare i preliminari di una pace durissima, che lo costrinse a limitare il suo dominio alla sola Macedonia, a togliere i presidî dalle fortezze di Calcide, Corinto e Demetriade e a pagare un tributo. I Romani ebbero l'accortezza di non tener nulla per sé, e Flaminino fece proclamare nel 196 in Corinto, mentre si celebravano solennemente i giuochi istimici, la libertà della Grecia tra un delirio di acclamazioni. Non era né calcolo ipocrita né sentimentalismo romantico: era, almeno in quel momento, felice coincidenza tra gl'interessi delle città greche e quelli di Roma, che non poteva allora avventurarsi alla conquista dell'Oriente, col pericolo di suscitarne una reazione unanime. La Tessaglia e l'Eubea erano dunque libere, Corinto fu restituita agli Achei, gli Etoli ebbero la Focide e la Locride, e nel 194 i Romani ritirarono le loro truppe dalla Grecia, dando così chiaramente a divedere che sul momento non aspiravano a conquiste.

La guerra contro la Siria. - Antioco III, consolidato definitivamente nel 198 a. C. il suo dominio sulla Celesiria, aveva conquistato le piazze forti tolemaiche della costa meridionale dell'Asia Minore, poi Efeso, Abido, e nel 196 aveva passato l'Ellesponto, cominciando la conquista delle città litoranee della Tracia. I Romani, invocati da alcune città d'Asia Minore e sollecitati da Eumene II, succeduto sul finire del 197 al fratello Attalo I sul trono di Pergamo, avevano trattato più volte con Antioco III, disposti a lasciargli libertà d'azione in Asia, purché rinunziasse a ogni mira in Europa, al che il re di Siria non aveva voluto acconciarsi a nessun costo, e quando gli Etoli, delusi nelle loro speranze di ingrandimenti territoriali e presentendo le intenzioni dei Romani di sostituire alla tirannide macedone la propria, si rivolsero a lui perché si ergesse a protettore della libertà ellenica, egli accettò, e passò in Grecia nel 192 a. C. con forze troppo deboli, contrariamente al consiglio che gli dava Annibale, rifugiatosi da tempo presso di lui, di assalire i Romani in Italia, alleandosi con la Macedonia e trascinando nella lotta Cartagine. Un esercito romano sbarcò in Grecia, e poiché i Tessali, gli Achei, i Rodî ed Eumene di Pergamo rimasero fedeli a Roma e con questa fece causa comune pure Filippo, gli fu facile sconfiggere l'esercito siriaco, che si era afforzato presso le Termopile (191 a. C.), costringendo Antioco a tornare in Asia. Dopo di ciò le flotte dei Romani e degli alleati riportarono notevoli successi, e l'esercito di terra poté, attraverso l'Ellesponto, passare in Asia: lo comandava L. Cornelio Scipione, accompagnato dal fratello, l'Africano, e con esso si congiunsero i rinforzi Pergameni. Venuti a battaglia campale con le truppe del re, assai numerose ma poco omogenee, sul fiume Frigio, presso Magnesia al Sipilo, i Romani riportarono una completa vittoria (autunno 190 a. C.), e Antioco per ottenere la pace dovette cedere l'Asia Minore al di qua del Tauro, e pagare una forte indennità. La maggior parte dei territorî ceduti da Antioco furono dai Romani attribuiti al regno di Pergamo, che divenne così una considerevole potenza, soggetta però in tutto e per tutto all'influenza romana, ai Rodî furono date la Licia e la Caria. Prima ancora della redazione definitiva di questa pace, che avvenne nel 188, Cn. Manlio Vulsone aveva vinto i Galati d'Asia Minore, affidandone la vigilanza ad Eumene, e il console M. Fulvio Nobiliore gli Etoli, lasciandone essenzialmente intatto il territorio, ma obbligandoli a riconoscere l'alta sovranità di Roma.

La Siria usciva così dalla guerra umiliata quanto umiliata era stata la Macedonia in quella precedente, e poiché la potenza dell'Egitto, privato della maggior parte dei suoi possedimenti stranieri, era in piena decadenza, l'equilibrio mediterraneo era rotto a tutto vantaggio di Roma, e la conquista completa dell'Oriente non dipendeva ormai se non dalla volontà dei Romani. La chiara intelligenza di questa situazione ispirò ai Greci un'ondata di simpatia verso la Macedonia, ove Filippo, sebbene si fosse mantenuto coartatamente fedele ai Romani durante la guerra siriaca, mordeva il freno e sognava la rivincita.

La caduta della Macedonia e della Grecia. - Nel 179 successe a Filippo il figlio Perseo, che persistette nella politica di raccoglimento, senza riuscire però ad evitare il sospetto di voler preparare in segreto la guerra, onde i Romani preferirono prevenirlo attaccandolo. Le operazioni di guerra si protrassero indecise dal 171 al 169, quando il console Q. Marcio Filippo riuscì a penetrare in Macedonia dall'Olimpo, ma Perseo poté resistere sul fiume Elpeo, e nell'inverno successivo si alleò con Genzio, re dell'Illiria, staccandolo così dai Romani. Invano i Rodî si fecero mediatori di pace, ché nel 168 i Romani mandarono in Macedonia con ragguardevoli rinforzi il console L. Emilio Paolo, che nella battaglia di Pidna distrusse l'esercito macedone (22 giugno).

La Macedonia fu dichiarata formalmente libera, e divisa in quattro distretti, separati dal divieto reciproco di commercio e di connubio; gli Etoli furono ridotti quasi al loro territorio originario; gli Achei, pure ottenendo qualche incremento territoriale, dovettero consegnare mille dei loro che furono deportati a Roma come ostaggi: tra essi Polibio. La stessa sorte ebbe il regno Illirico che, abbattuto in trenta giorni dal pretore L. Anicio, fu diviso in tre parti, e anche l'Epiro, che aveva aiutato Perseo, fu crudelmente devastato. L. Emilio Paolo menò in Roma il più splendido trionfo, che sino ad allora si fosse veduto, durato ben tre giorni, tra lo sfilare di centinaia di carri carichi d'innumerevoli statue, pitture, armi e spoglie d'ogni genere strappate ai nemici. Innanzi al carro del vincitore era tratto in catene, accompagnato dai figli e dalla moglie, Perseo, che fu poi relegato ad Alba sulle rive del lago di Fucino, dove miseramente perì.

Dinnanzi alla potenza di Roma, sempre più schiacciante, l'Oriente si prostrava senza un gesto di reazione. I re di Bitinia e di Pergamo gareggiavano in adulazioni; l'Egitto era sotto la protezione romana, e quando Antioco IV re di Siria mosse in armi contro di esso assediando Alessandria, un ambasciatore romano gli si presentò intimandogli di ritirare l'esercito, e poiché il re chiedeva tempo a rispondere, gli tracciò attorno sull'arena un circolo, ordinandogli di dare la sua risposta prima di uscirne; e Antioco sgombrò l'Egitto.

D'altronde lo stato di cose creato in Macedonia e in Grecia non poteva che essere transitorio, destinato come era a preparare l'asservimento completo, per il quale non si attendeva se non l'occasione. E questa si offrì quando, approfittando della terza guerra contro Cartagine, sorse come pretendente un tale Andrisco (lo pseudo-Filippo), che si spacciava quale figlio di Perseo. Tutto il paese lo seguì, i Romani subirono dapprima dei rovesci (149), ma, intervenuto poi il pretore Q. Cecilio Metello, il pretendente fu vinto (148 a. C.), e dopo di ciò la Macedonia fu ridotta in provincia romana, e le furono aggregati l'Epiro e l'Illiria meridionale.

Intanto in Grecia la lega Achea mal tollerava la prepotente protezione di Roma, né si acquetò quando nel 150 il senato concesse la liberazione degli ostaggi superstiti. Una contesa tra la lega e Sparta, recata dinanzi al senato nel 149, accese vieppiù gli animi, e portò al potere uomini faziosi quali Critolao e Dieo, affrettando così lo scoppio della guerra. Metello, scendendo dalla Macedonia, sconfisse Critolao a Scarfea nella Locride, sottomettendo tutta la regione sino all'istmo, e poco di poi il console L. Mummio sgominava definitivamente gli avversarî nella battaglia di Leucopetra. Corinto fu saccheggiata e ridotta un cumulo di rovine, la Grecia posta sotto la sorveglianza dei governatori di Macedonia; la maggior parte delle città rese suddite e tributarie; soltanto gli stati che, come Atene e la Lega Etolica, non avevano partecipato alla guerra, conservarono la posizione di confederati di Roma.

Erano bastati così cinquant'anni alla conquista della Macedonia e della Grecia e allo stabilimento dell'egemonia romana su tutto l'Oriente ellenico; poche battaglie campali avevano affermata la grande superiorità degli ordinamenti militari romani, ma l'Oriente si era piegato più che per questa superiorità, per le forze disgregatrici che ne corrodevano la compagine, e che Roma aveva saputo abilmente volgere a suo vantaggio, più funesta tra tutte lo spirito separatista dei diversi stati, che ne aveva impedito l'unione sacra contro lo straniero.

Nello stesso periodo di tempo Roma condusse una serie di guerre nell'Italia settentrionale e nella Spagna, e distrusse Cartagine.

L'espansione nell'Italia settentrionale. - Basti il ricordare che Roma ristabilì anzitutto il suo primato nella Gallia Cisalpina, vincendo gli Insubri (197) e i Boi (191), e domò i Liguri (187/6 e 180, nel quale anno la stirpe degli Apuani fu deportata nel Sannio); fondò le colonie di Bononia (189), Parma e Mutina (183), Aquileia (180), Pisa (180), Luna (177) e ridusse a dovere gli Istri (178-77) e i Dalmati (156-55).

La terza guerra punica. - Cartagine, in verità, dopo la seconda guerra punica aveva rinunciato ad ogni velleità di rivincita, ma la sua rifioritura economica preoccupava i Romani, che si diedero ad angustiarla col favorire le continue usurpazioni territoriali di Massinissa, e quando i Cartaginesi, al colmo dell'esasperazione, osarono impugnare le armi contro quel re, il senato non volle di meglio e decise la guerra: i consoli passarono in Sicilia e di qui ad Utica (149 a. C.). I Cartaginesi si arresero senza condizioni consegnando armi ed ostaggi, ma quando si sentirono intimare che dovevano abbandonare la loro città e trasferirsi a dieci miglia dal mare, deliberarono di resistere con ogni forza. E cominciò così quel memorando assedio, che si protrasse per tre anni tra grandi prove di eroismo dei Cartaginesi, e fu terminato soltanto quando ne prese la direzione Scipione l'Emiliano. La città fu distrutta dalle fondamenta e il territorio ridotto in provincia romana (146 a. C.).

Le guerre di Spagna. - Contemporaneamente Roma, per tenere in obbedienza le popolazioni barbariche della Spagna, vi dovette combattere di continuo, spingendo sempre più innanzi la sua penetrazione. Particolarmente notevoli le vittorie riportate nella Spagna citeriore da Catone nel 195 e da T. Sempronio Gracco nel 179, e quelle nell'ulteriore di L. Emilio Paolo (191-89). E così per tempo cominciò la latinizzazione della Spagna, alla quale contribuirono anche stanziamenti di veterani, quali quelli in Italica (Siviglia) e a Carteia presso Gibilterra. Dopo un periodo di tranquillità, scoppiò di nuovo la rivolta in entrambe le provincie, e i moti continuarono per circa venti anni; nell'ulteriore, a capo dei Lusitani si mise (147) Viriato e, con audacia pari alla perizia, riuscì ad infliggere ai Romani una serie di sconfitte, ma nel 140 fu costretto alla resa e fatto uccidere a tradimento; nella citeriore si susseguirono rivolte e conflitti, fino a che il Senato inviò Scipione l'Emiliano, che raccolse molte forze e ridata all'esercito la disciplina, cinse Numanzia di formidabile assedio, costringendola alla resa per fame dopo un'eroica resistenza (133).

L'acquisto dell'Asia. - Nello stesso anno della caduta di Numanzia Attalo III, morendo, lasciò eredi del suo regno i Romani. Invano Aristonico (v.), che si dava a credere suo figlio naturale, avanzò pretese alla successione e con miraggi utopistici dì riforme sociali tentò sollevare proletarî e contadini; dopo alcuni successi, che culminarono nella vittoria riportata sul console P. Licinio Crasso nel 131, egli fu nell'anno successivo battuto e fatto prigioniero da M. Perperna, e il nucleo dell'antico regno di Pergamo diventò la provincia romana d'Asia (v.).

Le conseguenze delle grandi conquiste. - L'acquisto della Macedonia, della Grecia, del regno di Pergamo; la caduta definitiva di Cartagine e l'espansione nell'Italia settentrionale e nella Spagna avevano dato ai Romani il primato del mondo civile, e Roma si era aperta all'influsso della civiltà greca: fatti storici imponentissimi, che gettavano le basi dell'Europa moderna.

Il secolo dopo Alessandro aveva sotto molti aspetti segnato il culmine della civiltà greca; perché, se è vero che nella letteratura e nelle arti era venuto meno lo splendore dell'età classica, ciò aveva trovato largo compenso nell'incremento vertiginoso delle scienze positive, assurte ad un'altezza, che poi non fu riconquistata se non nell'età moderna, e d'altronde letteratura ed arti avevano pur nel periodo alessandrino avuta una loro smagliante fioritura, riguadagnando spesso in commozione e senso d'umanità, quanto avevano perduto in sublimità. La filosofia aveva trovato forme più accessibili e pratiche; si erano aperte quelle che possiamo chiamare le prime università in Atene, in Alessandria, in Seleucia, in Pergamo, in Rodi, e quanto più si erano ampliati gli orizzonti intellettuali, tanto più estesa ed intensa era stata la partecipazione delle classi inferiori alla cultura e la loro conseguente elevazione.

I Romani erano superiori ai Greci come potenza politica e militare e per le loro doti di disciplina e di parsimonia. Nella cultura invece erano molto inferiori, ma della civiltà greca essi seppero accogliere, con una rapidità che ha del prodigioso, tutti gli elementi essenziali: nella politica e nel diritto, nella letteratura e nell'arte, nella filosofia e nella religione. E non fu semplice recezione, ma fu assimilazione e integrazione insieme; per le quali la civiltà ellenistica si trasformò in quella che chiamiamo greco-romana, la quale ha sostanza e aspetti suoi proprî. È vero, p. es., che dall'organizzazione degli stati ellenistici derivarono alcuni schemi dell'amministrazione provinciale romana, ma essi furono sviluppati e perfezionati sì da farli bastare a compiti assai superiori a quelli di qualunque stato ellenistico; e profonde furono le influenze greco-orientali nel campo del diritto romano, ma, sino all'età degli Antonini, esse non ne intaccarono l'organicità e l'omogeneità, sicché il diritto rimane la gloria suprema di Roma. La letteratura acquistò nel volger di pochi decennî uno slancio tale che le permise di toccare nel periodo augusteo uno degli apici più elevati e di segnare, nonostante le numerose derivazioni dai modelli greci, uno stadio nuovo della letteratura mondiale. E pure in qualche ramo delle arti, il ritratto, il rilievo e, soprattutto, l'architettura, i Romani furono capaci di creazioni potenti. Non si vuole negare che la loro dominazione recò un decadimento della cultura nell'oriente greco, ma ne fu larghissimo compenso l'espansione in tutto l'Occidente d'Europa.

Nel campo politico, le grandi conquiste portarono con sé i germi della crisi del regime repubblicano, in quanto che gli schemi fondamentali di questo regime (stato-città e federazione di stati) non bastarono più ai compiti derivanti da tanto ingrandimento. In pari tempo dalle conquiste procedette l'incremento e lo sviluppo dell'oligarchia, nel senso che si accentuò sempre più quel processo, delineatosi da tempo, per il quale alla sovranità formale e teoretica del popolo si andò sostituendo quella del senato, e la nobiltà, che del senato era il semenzaio, si andò ogni giorno più irrigidendo in casta chiusa e gelosa delle proprie prerogative. Il danno che ne derivò fu tanto maggiore in quanto questa casta andò via via corrompendosi nell'avidità delle ricchezze, nella sete di lusso e di piacere, nell'adozione dei più turpi vizî dell'Oriente, e diede non di rado miserevole spettacolo di sé nella questuazione delle cariche e negli abusi più riprovevoli del governo delle provincie. Si aggiunga che presto si perpetrarono da generali e governatori tentativi di svincolarsi dall'autorità centrale, la quale a sua volta si mostrò talora impotente, e peggio ancora acquiescente, smarrendo il senso della responsabilità del governo. Tutto ciò minava nelle sue basi lo stato repubblicano e ne preparava la crisi finale.

I Gracchi. - Una delle più notevoli conseguenze delle conquiste nel campo economico era stato il decadimento della media e piccola proprietà, con lo sviluppo correlativo dei latifondi; ciò aveva a sua volta dato incentivo all'immiserimento delle masse, creando una penosa situazione sociale. Tra le file stesse della nobiltà senatoria non mancarono osservatori pacati e sereni, i quali se ne preoccuparono e tentarono dei rimedî. Uno di essi, Tiberio Sempronio Gracco, figlio del vincitore dei Celtiberi e dei Sardi e nipote di Scipione Africano, portò la sua attenzione sugli abusi che si erano verificati nel possesso dell'agro pubblico, per i quali, trasgrediti i limiti fissati da antiche leggi, si erano nelle mani di alcuni accumunati possessi smisurati, e, nominato tribuno nel 133, propose una legge per la confisca dei possessi abusivi e la loro distribuzione in lotti ai proletarî, ad opera di una commissione di triumviri. Era legge in sé e per sé provvida, in quanto che mirava a preservare dalla rovina il ceto agricolo e ad assicurare il rinsanguamento dell'esercito nazionale, né era iniqua, perché sostanzialmente rinnovava precedenti disposizioni mai cadute in completo oblio; ma essa ledeva una troppo grande mole di interessi, onde non fa meraviglia che l'opposizione del senato potesse farsi sentire attraverso un collega di Tiberio Gracco, M. Ottavio, che pose il veto all'approvazione della legge. Tiberio, da parte sua, non trovò altro modo per superare l'ostacolo se non quello di fare approvare dal popolo la destituzione del collega, compiendo così un vero e proprio atto rivoluzionario.

Varata in tal guisa la legge agraria, egli irritò ulteriormente la nobiltà, proponendo di investire i comizî anziché il senato della sistemazione del regno di Pergamo, lasciato ai Romani da Attalo III, e perpetrò poi un secondo atto rivoluzionario col proporre la propria conferma nel tribunato. Ne nacque un tumulto, nel quale il tribuno e trecento suoi seguaci furono uccisi per reazione dei nobili. La deplorevole catastrofe inaugurava l'epoca delle guerre civili.

Morto Tiberio Gracco, la legge agraria venne applicata faticosamente tra l'opposizione dei nobili e dando luogo ad una serie di processi dinnanzi ai triumviri per la rivendicazione dei possessi abusivi. Gl'Italici, esposti anche loro alle rivendicazioni, e non ammessi alle distribuzioni, che erano invece limitate ai cittadini romani, cominciarono ad aspirare alla cittadinanza romana, nella speranza di trovare in essa rimedî a questo e ad altri mali, che da non pochi decennî li affliggevano per la politica sempre più invadente adottata dai Romani a loro riguardo. Effettivamente la loro condizione a poco a poco si era resa umiliante per lo sconfinare dell'autorità romana nel campo della loro autonomia amministrativa, e per la mancanza di ogni protezione sicura delle loro persone contre gli abusi dei mȧgistrati romani, di fronte ai quali erano sprovvisti dello ius provocationis.

Tutto ciò cospirava a far sentire agl'Italici il bisogno della cittadinanza, e, per gli sviluppi della politica interna di Roma, essi trovarono appoggio in partiti ed uomini politici romani. È vero che la legge agraria di Tiberio Gracco, come abbiamo detto, aggravava la loro situazione, ma pare che già lo stesso tribuno avesse vagheggiato il progetto di compensarli con un allargamento della cittadinanza. E della loro sorte si preoccupò Scipione l'Emiliano, che fece anzitutto sospendere l'applicazione della legge agraria col togliere la giurisdizione sull'accertamento dei possessi abusivi ai triumviri graccani per affidarla invece ai consoli, e pare andasse escogitando altre provvidenze a favore degli Italici, quando morì di morte forse violenta, nel 129. Continuò tra gli Italici l'agitazione, che si intensificò, quando nel 125 a. C. naufragò una proposta fatta dal console e triumviro graccano M. Fulvio Flacco, per il conferimento della tanto sospirata cittadinanza. Fregelle, che tentò di organizzare una rivolta, fu distrutta.

In questo momento C. Gracco, che già si era affermato come fautore dei diritti degl'Italici, abbandonata la Sardegna, nella quale era stato trattenuto per circa due anni in qualità dì questore, si portò candidato come tribuno e fu eletto con gran numero di voti. Fornito di raffinata cultura, nobile di sentimenti, pieno di simpatia per gli umili, provvisto di acuto e penetrante sguardo politico, aveva assistito con l'animo angosciato alla catastrofe del fratello e si era convinto che alla crisi sociale, economica e politica che travagliava la repubblica, potesse venire rimedio soltanto da una riforma larga, complessa e radicale, volta a reprimere la preponderanza del senato, a ristabilire la sovranità del popolo e a reintegrare nella loro pienezza le funzioni del tribunato della plebe: era, insomma, restaurazione di forme antiche, che la consuetudine aveva via via attenuate ed annullate, ed era quindi rivoluzione. Non è verosimile che egli aspirasse ad una instaurazione monarchica, ossequente, come era, allo spirito repubblicano e ripugnante da forme militaresche di dittatura, ma non rifuggì nemmeno da armi demagogiche. Per attuare in pieno la sua riforma si fece confermare il tribunato per un secondo anno, e nel biennio fece approvare tutto un complesso di leggi, che investirono i più diversi settori della cosa pubblica. A vantaggio del proletariato propose la legge per la distribuzione del frumento a prezzo ridotto, quella agraria confermante la precedente del fratello, quella coloniale per la fondazione di colonie, oltreché in Italia, nel territorio dell'antica Cartagine, la quale legge apriva la via all'emigrazione transmarina e quella per la costruzione di grandi vie.

A spezzare la forza dell'aristocrazia e ad adescare l'ordine equestre, il ceto, cioè, dei capitalisti non nobili, formato da coloro che più si erano arricchiti mercé i commerci, gli appalti dei lavori pubblici e della riscossione delle imposte, l'usura e tutte le altre forme lucrative moltiplicatesi con le conquiste, C. Gracco ideò la legge, per la quale la riscossione delle imposte della provincia d'Asia doveva essere appaltata in Roma, il che ne assicurava l'aggiudicazione ai cavalieri, e la legge giudiziaria, per la quale le liste dei giurati per le controversie civili e per i giudizî penali straordinarî dovevano essere costituite non più di senatori ma di cavalieri. Era quest'ultima una legge che apriva all'ordine equestre la possibilità di gravi abusi, poiché metteva alla loro mercé i giudizî sia contro i colleghi dello stesso ordine, che avessero commesso vessazioni ed estorsioni nell'esazione delle imposte provinciali, sia contro i governatori, appartenenti all'ordine senatorio, che a tale condotta non fossero stati acquiescenti.

Giunto all'apogeo della sua potenza C. Gracco credette di essere ormai in grado di sistemare il problema federale sì da assicurarsi l'appoggio degl'Italici, e propose una legge per il conferimento della cittadinanza ai Latini e della latinità agl'Italici. Era l'eterna penosissima questione che tante implacabili avversioni suscitava, e il senato ne approfittò per scuotere la popolarità di Gracco, valendosi all'uopo delle stesse armi demagogiche da lui usate, facendo, cioè, avanzare dal tribuno M. Livio Druso il veto alla votazione della legge e in pari tempo proposte assai più liberali di quelle di C. Gracco. E il giuoco riuscì, tanto più che Caio dovette in questo torno di tempo allontanarsi da Roma per andare in Africa a prepararvi la fondazione della colonia di Cartagine. Quando, dopo settanta giorni, tornò, si avvide di essere stato completamente scalzato, e, presentatosi candidato a una terza conferma del tribunato, fu respinto.

Pochi mesi dopo, avendo il senato proposto l'abrogazione della legge per la fondazione della colonia di Cartagine, nacque un tumulto per l'opposizione dei graccani, e il console L. Opimio, uno dei più decisi capi dell'oligarchia, fu investito dei pieni poteri per salvare la repubblica. Quelli dei graccani, che tentarono di resistere, furono massacrati, e Caio si fece uccidere da un suo fido servo. Il suo cadavere fu, come già quello di Tiberio, gettato nel Tevere, e la memoria dei due fratelli fu esecrata, ma continuò a vivere nel rispetto e nella venerazione del popolo.

Guerre dello scorcio del sec. II a. C. contro i Galli, contro Giugurta e contro i Cimbri. - In quel torno di tempo i Romani combatterono contro i popoli della Gallia meridionale fondando Aquae Sextiae (122 a. C.) e costituendo col territorio degli Allobrogi e dei Volci la provincia della Gallia Narbonese.

Nel 118 a. C. moriva Micipsa, re di Numidia, successo a Massinissa e lasciava il regno ai figli Aderbale e Iempsale e al nipote Giugurta, principe prode e coraggioso ed avido di gloria. Questi, tolti di mezzo i cugini, venne in guerra coi Romani: fu guerra che, cominciata nel 112 a. C., si protrasse a lungo per le arti corruttrici di Giugurta, che adescò con l'oro alcuni dei capitani romani, e per due volte ottenne da loro pace vantaggiosa, poi respinta dal senato. Le cose cambiarono quando, dopo una severa inchiesta contro gli indegni, il comando fu affidato a Q. Cecilio Metello, che nel 108 e nel 107 riportò successi, non decisivi, avendo nel frattempo Giugurta avuto aiuti da Bocco re di Mauretania e dai Getuli. Agli ordini di Metello militava Mario, che, non appartenente per nascita all'ordine senatorio, si era già segnalato sotto Numanzia e, più tardi (115 a. C.), nell'amministrazione della Spagna, palesandosi di bravura e di tenacia pari all'ambizione. Eletto console nel 107, egli successe a Metello ed ebbe il vanto di porre termine con brillanti operazioni alla guerra e di farsi consegnare da Bocco Giugurta. La Numidia fu assegnata a Gauda, cugino di Giugurta, salvo la regione della Tripolis aggregata alla provincia d'Africa e la parte occidentale ceduta a Bocco. Mario, tornato in Roma, trionfò il 1° gennaio del 104, e gli fu affidato il comando della guerra contro i Cimbri e i Teutoni, che da varî anni tenevano in apprensione i Romani, avendo sconfitto nel 113 Cn. Papirio Carbone nel Norico, ed avendo poi riportato nella Gallia tutta una serie di vittorie che avevano culminato in quella di Arausio ottenuta nel 105 su Cn. Manlio Massimo e Q. Servilio Cepione.

Mario, consapevole della gravità della situazione, costituì un nuovo esercito, procedendo in pari tempo ad una riforma degli ordinamenti militari, resa necessaria dal decadimento dello spirito militare tra i cittadini romani e dalla facilità con cui i ricchi cercavano di sottrarsi agli obblighi del servizio. Ciò aveva già dato luogo all'arruolamento di volontarî e aveva indotto Mario, durante la guerra giugurtina, a trarre i soldati dalle classi più basse e povere della cittadinanza. Nel 104 egli diede a questo sistema più larga applicazione col che il servizio militare si andò a poco a poco trasformando nel mestiere delle armi e nuovi rimedî si aprirono al progrediente disagio sociale. Mario inoltre migliorò l'armamento dei soldati, e, a quanto pare, abolì l'ordinamento manipolare della legione, sostituendovi come unità tattica la coorte.

Quando egli giunse nella Gallia, i Cimbri erano passati nella Spagna, ed ebbe perciò agio di riorganizzare l'esercito e di addestrarlo con rigida disciplina, talché nel 102 a. C. poté sconfiggere disastrosamente Teutoni ed Ambroni presso Aquae Sextiae, e nel 101, sui Campi Raudii, presso Vercelli, i Cimbri, che con lungo giro avevano invaso l'Italia dalle Alpi orientali, eludendo dapprima la resistenza di Q. Lutazio Catulo.

I barbari furono pressoché distrutti, e Mario fu salutato salvatore della patria e secondo Romolo; tornato in Roma ebbe per la sesta volta il consolato nel 100 a. C.

In quello stesso anno e nel successivo, M. Aquilio riuscì a soffocare nella Sicilia una rivolta di schiavi, scoppiata qualche anno prima, capeggiata da un Salvio e poi da un Atenione, che si erano arrogati il titolo di re, e avevano tenuto in scacco i comandanti romani nel 103 e nel 102. Era questa la seconda guerra che si combatteva in Sicilia contro gli schiavi, una prima essendosi protratta a lungo tra il 140 e il 132, conclusa dalla vittoria definitiva del console P. Rupilio.

Lo scorcio del sec. II a. C. fu assai tormentato per i Romani anche in altri campi: nella Macedonia e nell'Illiria, nella Tracia e nell'Oriente, ove incalzava il flagello della pirateria, volta specialmente alla tratta degli schiavi, il cui mercato concentrato nell'isola di Delo era divenuto lucrosissimo. Nel 102 a. C. il pretore M. Antonio procedette rigorosamente contro questo flagello, ponendo le basi di una nuova provincia nella Panfilia e nella Cilicia, sedi principali dei pirati.

Saturnino e Glaucia. - Druso. - I disastri che avevano preceduto le grandi vittorie con le quali si erano chiuse le guerre Giugurtina e Cimbrica, avevano scosso l'autorità dell'aristocrazia e rialzato il prestigio del partito popolare, che si avvantaggiava della grande autorità di Mario. Nel 100 a. C., anno del sesto consolato di lui, alcuni demagoghi credettero di potere, col suo appoggio, sconvolgere l'ordine costituito: furono essi L. Apuleio Saturnino, uomo eloquente e violento, che in quell'anno ottenne per la seconda volta il tribunato, e C. Servilio Glaucia, che ebbe la pretura. Saturnino propose una serie di leggi, tra cui una per la deduzione di colonie in Sicilia, Africa e Grecia, alle quali avrebbero potuto partecipare, oltreché i Romani, i federati italici. L'approvazione fu ottenuta con la violenza; Saturnino riuscì a farsi confermare tribuno, e Glaucia fece uccidere C. Memmio, suo competitore per la nomina a console. L'opinione pubblica ne fu commossa, e Mario vide la necessità di dissociare la propria responsabilità. Avuto dal senato l'incarico di sedare il tumulto, chiamò sotto le armi la cittadinanza. Si combatté per le vie, e Glaucia e Saturnino furono uccisi; le leggi di quest'ultimo abrogate, ma con ciò Mario si era alienato la democrazia senza poter guadagnare il senato, con danno della sua influenza politica, e tosto vide la necessità di eclissarsi per qualche tempo, partendo per l'Asia con l'incarico di trattare col re Mitridate.

Due questioni gravissime restavano sul tappeto e dividevano funestamente gli animi: la questione dei tribunali, che rimanevano nelle mani dei cavalierì con esclusione del senato ed erano campo di abusi scandalosi, e la questione dei federati, che continuavano ad aspirare con ogni possa alla cittadinanza romana tra l'opposizione implacabile di quasi tutti gli ordini dei cittadini romani. All'una e all'altra questione credette poter dare coraggiosa soluzione M. Livio Druso, quando, forte delle sue ricchezze, dei nome della sua famiglia e della sua grande popolarità, si fece eleggere tribuno nel 91 a. C. Egli propose la restituzione della funzione giudiziaria ai senatori, dei quali però il numero doveva essere raddoppiato con 300 membri tratti dall'ordine equestre, l'istituzione di un tribunale speciale contro i giudici prevaricatori, una legge agraria ed una frumentaria, per ingraziarsi il proletariato, e finalmente una legge per la concessione della cittadinanza agl'Italici, che, tranne gli Umbri e gli Etruschi, si erano stretti a lui con solenne giuramento. Tutte queste rogazioni riunì in una sola, e le fece approvare con la violenza, ma il senato gli si volse contro e dichiarò írrite le sue leggi. Poco dopo il generoso tribuno fu spento per mano di sicarî, e si procedette con inquisizioni e severe pene contro i federati, portandone l'esasperazione a punto tale che essa esplose nell'insurrezione che da tanto tempo covava.

La guerra sociale. - La scintilla della rivolta partì da Ascoli, e si propagò prima alle forti stirpi dei Marsi, Picenti, Peligni, poi a tutta l'Italia centrale e meridionale, fatta eccezione della maggior parte delle città latine, degli Umbri, degli Etruschi e dei Greci dell'Italia meridionale. Gli alleati questa volta non aspiravano più alla cittadinanza romana, ma allo spodestamento di Roma e alla creazione di un nuovo stato. Si organizzarono in una lega di tipo greco, con un senato di 500 membri, due consoli o imperatori, che furono il marso Q. Pompedio Silone, ed il sannita G. Papio Mutilo, e 12 pretori; e posero la capitale in Corfinio, alla quale diedero il nome di Italia. E di fatto, l'Italia stava contro Roma; era lotta atroce, per l'esistenza: pari il valore militare dell'una e dell'altra parte, egualmente esperti i generali, pressoché uguali le forze, ma i Romani avevano a loro vantaggio le risorse delle provincie e il dominio del mare.

Nei primi mesi di guerra il console L. Giulio Cesare fu sconfitto nel Sannio e costretto a ritirarsi, lasciando nelle mani di Papio Mutilo Nola e buona parte della Campania; e intanto l'altro console P. Rutilio Lupo veniva sconfitto ed ucciso sul Tolero, talché occorse tutta la bravura tattica di Mario per arginare le conseguenze della sconfitta, senza però che si potesse impedire la caduta in mano degl'Italici di Isernia e di Pinna. E poiché l'insurrezione minacciava dí appigliarsi agli Umbri e agli Etruschi, i Romani furono costretti ad arrendevolezza: una lex Iulia, proposta da L. Giulio Cesare, prima ancora della fine del 90 a. C., concesse la cittadinanza a tutti gli alleati che erano rimasti fedeli sino ad allora; e l'anno appresso un'altra legge, la Plautia Papiria, proposta dai tribuni M. Plauzio Silvano e Gaio Papirio Carbone, estese la concessione a quelli dei federati che l'avessero chiesta entro sessanta giorni, e infine una terza legge, proposta dal console Gn. Pompeo Strabone, concesse il diritto latino agli abitanti dell'Italia settentrionale, che non l'avessero ancora o ancora non fossero cittadini romani.

Queste leggi agevolarono il compito dei Romani, che, non ostante qualche altro rovescio, ebbero il sopravvento. Ascoli cadde dopo lungo assedio, trascinando seco la sottomissione dei Marsi e delle altre stirpi montanare d'Abruzzo; Silla riconquistò la Campania, meno Nola; nel Sannio fu sconfitto ed ucciso Pompedio Silone, ed essendo poi stata riconquistata completamente la Puglia, l'insurrezione rimase confinata a parte del Sannio e alla Lucania, sicché sul finire dell'89 poteva dirsi sostanzialmente domata. Silla, eletto console per l'88 cominciava l'assedio di Nola, che doveva però presto interrompere essendo nel frattempo scoppiata in Roma la guerra civile.

Della guerra sociale notevolissime furono le conseguenze, poiché, nel corso di pochi decennî, la cittadinanza romana fu estesa a tutta l'Italia peninsulare, determinandone la latinizzazione definitiva e in pari tempo provocando un profondo rivolgimento dell'ordinamento politico di Roma. Il territorio cittadino era ormai smisuratamente vasto per poter essere considerato territorio di una sola città, né poteva accadere che le città italiche, così numerose ed importanti, sparissero, per così dire, fuse in Roma. Era d'uopo che conservassero la loro autonomia amministrativa, come l'avevano conservata, già assai prima della guerra sociale, altri comuni incorporati nel territorio cittadino, ma adesso comuni antichi e nuovi ricevettero ordinamento uniforme, modellato su quello di Roma, onde l'Italia romana appare, sullo scorcio della repubblica, come un complesso di comunità singole, alle quali il popolo romano ha delegato parte dei suoi diritti, e Roma si avvia a trasformarsi da stato-città a capitale dello stato; stato che ora coincide con la nazione italiana, creata dallo sforzo secolare di Roma mercé l'unificazione politica e militare prima, la latinizzazione poi delle tante stirpi pen) nsulari. D'altra parte diveniva sempre più assurdo che i milioni di nuovi cittadini esercitassero i loro diritti politici in Roma, e ciò rendeva sempre più inadeguati gli ordinamenti repubblicani alle esigenze dello stato trasformato, e ne maturava la crisi finale.

La guerra contro Mitridate, re del Ponto, e la guerra civile tra Silla e i Mariani. - Mentre in Italia continuava ancora la guerra contro i resti degl'insorti, Mitridate re del Ponto minacciava i possedimenti romani dell'Oriente. Salito al trono nel 120 a. C., aveva riordinato e allargato il suo piccolo regno, ed era rimasto molto contrariato, quando i Romani si erano opposti a che egli si impadronisse della Paflagonia e della Cappadocia e si intromettesse nelle cose di Bitinia. Per il momento si era sottomesso, ma quando vide i Romani implicati nella guerra sociale, ruppe gli indugi e dichiarò loro guerra (89 a. C.). Mentre i suoi generali invadevano la Cappadocia, egli occupò la Bitinia, gran parte della provincia d'Asia e molte isole dell'Egeo; in molti luoghi fu accolto come salvatore, e il suo ordine di trucidare in uno stesso giorno tutti gl'Italici residenti in Asia trovò pronta esecuzione, cagionando il massacro di molte migliaia di persone. In pari tempo il suo generale Archelao passava con la flotta nella Grecia, che si sollevava quasi tutta, con Atene alla testa.

Era console Silla (88 a. C.) e a lui il senato diede l'incarico di condurre in Oriente l'esercito che era in Campania; ma il lucroso comando era desiderato anche da Mario, che aveva avuto Silla solerte coadiutore nella guerra numidica e in quella cimbrica, ma lo aveva poi veduto trasformarsi in temibile rivale durante la guerra sociale. E tra i due uomini scoppiò ora aperto conflitto: il tribuno P. Sulpicio Rufo, seguace di Mario, propose ed ottenne che il comando fosse tolto a Silla e dato a Mario. A questa notizia Silla condusse il suo esercito contro Roma, la prese, e, costretti alla fuga Mario e Sulpicio, partì per la Grecia, dopo aver fatto votare leggi che ponevano gravi limitazioni al potere dei tribuni. Sulpicio fu trucidato nelle paludi di Laurento; Mario, dopo aspre peripezie, scampò in Africa. Ma intanto, approfittando dell'assenza di Silla, il partito democratico rialzava il capo, guidato da uno dei due consoli dell'87, L. Cornelio Cinna, che, cacciato da Roma dal collega Gn. Ottavio, corse l'Italia, stringendosi a quelli del federati insorti, che erano ancora in armi.

Mario tornò, riprese Roma con la forza, instaurandovi il regno del terrore, facendo uccidere molti degli avversarî, annullando le riforme di Silla. Riassunto il consolato insieme con Cinna, per l'86 a. C., lo tenne per pochi giorni essendo stato colto dalla morte il 13 gennaio. Il suo partito continuò però a dominare in Italia e nelle provincie occidentali, raggiungendo un accordo definitivo con gl'Italici, mentre Silla terminava la guerra contro Mitridate.

Nell'86 a. C. egli prese Atene, dopo duro assedio, e la saccheggiò così crudelmente che la città non si rialzò più, e, battuti a Cheronea e ad Orcomeno gli eserciti inviati troppo tardi in soccorso da Mitridate, passò nell'85 in Asia, ove intanto Fimbria, che era succeduto nel comando dell'esercito a L. Valerio Flacco, aveva riportato notevoli successi, scuotendo il favore delle città greche per Mitridate, e inducendo il re a consigli di pace. E questa infatti fu conclusa nell'85 a Dardano in un convegno personale fra Silla e il re: Mitridate dovette abbandonare le conquiste fatte nella guerra, pagare una forte indennità e cedere a Silla parte della flotta; i Fimbriani passarono sotto le sue bandiere e Fimbria si suicidò. Dopo aver severamente puniti coloro che avevano parteggiato per Mitridate, ed aver taglieggiaio spietatamente la provincia d'Asia, Silla passò in Grecia nell'84, devastandone alcune regioni, attingendo ai tesori dei templi e sottomettendola a gravissime contribuzioni, fino a che nella primavera dell'83 tornò in Italia.

Quivi Cinna già l'anno innanzi era stato ucciso da soldati ammutinati e i sillani si erano rianimati; ma occorse circa un anno e mezzo di lotta coi mariani prima che Silla potesse assicurarsi il sopravvento assoluto. La prima vittoria egli la riportò presso il monte Tifata in Campania (83), poi, nell'anno successivo, penetrato nel Lazio, sconfisse presso Sacriporto uno dei due consoli, il giovane Gaio Mario, costringendolo a chiudersi in Preneste, e si impadronì di Roma, dirigendosi subito dopo in Etruria ove batté l'altro console Carbone. E quando i resti dell'esercito di costui, rafforzati dai Sanniti, si volsero improvvisamente contro Roma, Silla fece a tempo ad affrontarli alla porta Collina (novembre 82 a. C.) ove sanguinosamente li vinse e distrusse, il che portò con sé la resa di Preneste. I Sanniti e l'Etruria settentrionale però proseguirono ancora per anni la loro resistenza, definitivamente domata soltanto nell'80 e nel 79, laddove la Sicilia e l'Africa furono riconquistate a Silla subito dopo la vittoria della porta Collina, specialmente per merito di Cn. Pompeo, il più giovane e insieme il più valente e fortunato dei suoi generali.

La dittatura di Silla. - Silla era ormai padrone dello stato, e diede subito libero sfogo alle sue vendette, concedendo in pari tempo piena licenza ai suoi seguaci di sfogare le loro. Furono stragi ed orrori miserandi: soppresse migliaia di persone e migliaia messe al bando, spoglie di ogni diritto e di ogni sostanza, disseppelliti i resti stessi di Mario e gittati nell'Aniene, freddamente legalizzate le uccisioni e le spogliazioni con la figura giuridica delle proscrizioni. E non furono colpiti soltanto singoli individui, ma furono trucidate le popolazioni di intere città, che avevano seguito la parte di Mario: flagellate con devastazioni e saccheggi intere regioni, quali il Sannio e l'Etruria, che avevano opposto più viva resistenza, e confiscati loro molti distretti che vennero distribuiti tra i soldati di Silla. Ne conseguì un mutamento colossale nello stato della proprietà: 150.000 soldati congedati furono stanziati nelle terre tolte agli Oschi e agli Etruschi, affrettando con ciò la latinizzazione di quelle regioni e l'estinzione di quelle nazionalità.

Si cominciavano così a delineare le conseguenze delle trasformazioni che si erano verificate negli ordinamenti militari, e più ancora dello spirito che le aveva suggerite. Il soldato non era più il cittadino, cui era obbligo affrontare ogni sacrificio per spirito patriottico, e tornare, dopo le spedizioni, al proprio campicello desolato, ma era il proletario, che dal servizio militare doveva ripetere i mezzi della sua sussistenza e del suo avvenire. E i capi militari non erano più i magistrati annui, che si susseguivano nell'esercizio dell'imperium o che l'esercitavano per proroghe più o meno ripetute, ma cominciavano a diventare veri e proprî capitani di professione. E tra capi e gregarî si stabiliva un vincolo e una solidarietà che minacciava di sovrapporsi agli obblighi del cittadino verso lo stato; l'esercito diventava la più grande forza organizzata che Roma avesse, e i capi aspiravano a diventare capi politici dello stato e a prendere nelle loro mani il compito di guidarne le trasformazioni necessarie per adattarlo alle nuove esigenze. Così di fronte al senato e al popolo si ergeva questo nuovo fattore sin qui deprecato del potere militare, e si imponeva il problema nuovo di fissare i rapporti tra lo stato che tramontava e quello che sorgeva, tra la repubblica civile e la monarchia militare.

Silla era stato il primo a valersi del nuovo fattore per l'esecuzione del suo programma politico, senza indietreggiare dinanzi alla guerra civile; e, vittorioso di questa, fattosi nominare sul finire dell'82 dittatore, provvide al riordinamento dello stato. Limitò definitivamente la potestà legislativa dei comizî tributi, ordinando che le proposte dei tribuni fossero prima sottoposte all'approvazione del senato, e dei tribuni mutilò il potere, pressoché sopprimendone il diritto di veto e umiliandoli al punto di proibir loro l'accesso alle altre magistrature. Restituì ai senatori la funzione giudiziaria, aumentando in pari tempo il numero dei tribunali straordinarî; portò i pretori da sei a otto, i questori a venti, regolò i limiti di età per le diverse cariche e i relativi intervalli, consacrò il principio che il senato fosse permanentemente rifornito col chiamare a farne parte coloro che avevano rivestita la questura; e quanto al governo delle provincie stabilì che di regola fosse affidato ai consoli e ai pretori dell'anno precedente.

Fu dunque la sua una riforma complessa, della quale lo spirito animatore fu la restaurazione della repubblica nei suoi organi conservatori in contrapposto ai Gracchi, che avevano tentato di dare il sopravvento a quelli democratici. Silla mirò al ripristino integrale dell'autorità del senato e dei consoli, e, rispettivamente, alla limitazione ed umiliazione delle assemblee della plebe e del tribunato, che aveva avuto origine rivoluzionaria e nella successiva sua legalizzazione era stato consacrato come il principale strumento di carattere popolare, ma si era poi trasformato, come non di rado avviene in simili casi, in strumento demagogico. Il dittatore ebbe la consapevolezza dell'ingente numero di interessi che stava per ledere, e forse le proscrizioni furono suggerite non soltanto da spirito vendicativo ma anche dal freddo proposito di sgombrare il terreno delle riforme da tutti i possibili avversarî; il che può attenuare, ma non davvero eliminare il senso di orrore destato nei secoli dalle sue stragi. Attuata la sua riforma, Silla depose la dittatura, pago nell'80 a. C. del consolato. Poi si ritrasse a vita privata.

E forse il suo fu un tentativo antistorico, non tanto nel senso che il regime senatorio in sé e per sé fosse inesorabilmente impari ai compiti della nuovȧ posizione di Roma nel mondo, quanto nel senso che la degenerazione oligarchica era ormai troppo avanzata. È per ciò da concludersi che non nella sua costituzione sta l'efficienza storica dell'opera di Silla, ma altrove, nell'avere cioè potentemente contribuito all'unificazione dell'Italia e al consolidamento del dominio mondiale di Roma; ma fu destino che sia l'uno sia l'altro scopo egli ottenesse con mezzi, i quali, insieme con le fauste, arrecarono funeste conseguenze: l'unificazione italiana, era scontata dalle stragi e dalla desolazione del Sannio e dell'Etruria; il consolidamento del dominio mondiale dalla soffocazione delle ultime energie vitali dell'ellenismo.

Nuovi tentativi dei mariani. Sertorio. Spartaco. - Morto Silla, riarse la lotta dei partiti, tanto più che due dei maggiori esponenti di essi erano consoli in quello stesso anno, M. Emilio Lepido, mariano, e Q. Lutazio Catulo, sillano. Tentò Lepido di rovesciare la costituzione sillana; ma invano, ché nel 77 a. C. il senato lo mise al bando, ed egli fu battuto nel Campo Marzio da Gneo Pompeo, figlio del console dell'89 a. C. Pompeo allora non era ancora trentenne, e già godeva molto prestigio per il valore col quale aveva combattuto a favore di Silla e per la tenacia con cui aveva chiesto ed ottenuto il trionfo nell'81 a. C.; al valore aggiungeva affabilità di modi, generosità, parsimonia.

Alla fine dello stesso anno 77 o al principio del 76 egli, su proposta di Marcio Filippo, fu inviato nella Spagna, alla testa di 30.000 uomini contro Quinto Sertorio, che era il capitano più valoroso della parte mariana. Pompeo combatté a lungo contro di lui con sorti alterne, e poté venire a capo dei ribelli soltanto quando Sertorio fu trucidato in una congiura formatasi nel suo campo, capeggiata da Marco Perperna. Fu facile allora a Pompeo debellare costui, domare i capi indigeni e ritornare vittorioso in Italia, lasciando segni delle sue vittorie sui Pirenei (71 a. C.).

Intanto nel 73 a. C. era scoppiata in Italia una nuova e più terribile rivolta servile. La scintilla era partita dalla scuola dei gladiatori di Capua, donde un giorno erano fuggiti alcuni gladiatori galli, germani e traci, guidati da Krixo, Enomao e Spartaco. Le loro file erano state tosto ingrossate dall'accorrere da ogni parte di altri schiavi, pastori e diseredati. Dopo la sconfitta di un pretore e di due consoli, soltanto nel 71 a. C. riuscì ad A. Licinio Crasso, che aveva avuto il comando straordinario contro i ribelli, di ristabilire la disciplina nell'esercito e sconfiggere Spartaco, che cadde sul campo di battaglia. Seimila prigionieri furono fatti mettere in croce da Crasso sulla via da Capua a Roma; una schiera di 5000 voltasi verso il nord incappò in Pompeo, che tornava appunto dalla Spagna, e fu da lui annientata. Il merito principale della repressione spettava certamente a Crasso, ma Pompeo si arrogò il vanto di aver terminata la guerra; trionfò nel 71, mentre Crasso ebbe soltanto l'ovazione, ma poi entrambi i capitani si accordarono tra di loro, ponendosi a capo della parte popolare.

Il consolato di Crasso e di Pompeo. La guerra contro i pirati. - Nel 70 a. C. Crasso e Pompeo ottennero il consolato e attuarono tutta una serie di riforme democratiche, reintegrando i tribuni nella pienezza dei loro diritti, riordinando i giudizî in modo che una terza parte dei giudici fosse presa dal senato, una terza dai cavalieri e una terza dai tribuni erarî (classe di censo prossimo a quello dei cavalieri) e allontanando dal senato un certo numero di faziosi sillani malfamati.

Poco dopo il consolato, il campo che si offrì alla bravura militare di Pompeo fu la guerra contro i pirati, che spadroneggiavano nel Mediterraneo, tagliando le vettovaglie a Roma, funestando il commercio. Dopo le imprese non felici di M. Antonio nel 74, reali successi aveva ottenuto contro i Cretesi Q. Cecilio Metello; ma il pericolo continuava a imperversare in tutti i mari, ed anzi l'audacia dei facinorosi era giunta al punto di assalire la Campania ed il porto di Ostia. Contro di loro fu nel 67 a. C. dato comando straordinario illimitato a Pompeo, che, forte di 500 navi e di grandi forze di terra, procedette con prudenza e con metodo dividendo l'immenso campo di operazioni in zone e affidandone ciascuna ad un suo legato. In breve tempo egli rese la sicurezza ai mari, e passò a nuovi trionfi.

Ripresa e fine della guerra contro Mitridate. - Nel 66 a. C., su proposta del tribuno C. Manilio, fu affidato a Pompeo il comando della guerra contro Mitridate che, ricominciata da vari anni, era stata abilmente condotta da L. Licinio Lucullo, i cui successi però erano stati alla fine frustrati dal malcontento e dalla stanchezza dei soldati. Pompeo con rapide mosse condusse a compimento la guerra costringendo Tigrane, re di Armenia alleato di Mitridate, a cedere i suoi possedimenti della Siria e dell'Asia Minore, e incalzando poi lo stesso Mitridate sin quasi al Caucaso. Poco appresso il re del Ponto si tolse la vita. Pompeo attese a riordinare a suo agio l'Oriente, erigendo in provincie il Ponto, la Siria, la Bitinia e stabilendo la supremazia di Roma anche sulla Palestina.

La congiura di Catilina. - Mentre Pompeo era lontano da Roma, la parte popolare tentò ogni sforzo per riprendere in mano la direzione dello stato. La capeggiavano Crasso, il vincitore di Spartaco, possessore di immense ricchezze, di intieri quartieri urbani, di migliaia di schiavi, e C. Giulio Cesare, che aveva fatto da qualche tempo la sua apparizione nella vita politica, ricco dei più eletti doni della natura: nobilissimo lignaggio, ingegno vasto e multiforme, rinvigorito da studi profondi, eloquenza, arte di farsi amare ed obbedire.

Nipote della moglie di Mario, e cognato di Cinna, era sfuggito per miracolo alle proscrizioni di Silla, che nel giovane ventenne aveva intravveduto l'animo di parecchi Marî. Eletto edile curule nel 65 a. C., allestì spettacoli al popolo con magnificenza inusitata, dando sempre più a divedere la sua ambizione sconfinata, a soddisfare la quale aveva animo e mente capaci.

Il senato sorvegliava ansiosamente le mire della parte democratica, onde Cesare e Crasso, per assicurarsi il successo, appoggiarono i torbidi maneggi di un patrizio degenere, L. Sergio Catilina, profittatore delle proscrizioni sillane, ingolfato nei debiti fino ai capelli, malversatore nel governo della provincia d'Africa, che, vistosi respinto dal consolato, aveva ordito una prima congiura per uccidere i due consoli, senza riuscirvi, e nel 64 brigava nuovamente per il consolato. Cesare e Crasso l'appoggiavano, perché speravano di poter fare approvare per suo mezzo una proposta, che Cesare stesso aveva ispirato al futuro tribuno Servilio Rullo, mirante a risuscitare, in scala molto più vasta, la legge agraria di C. Gracco, mercé la distribuzione a veterani e a proletarî dei demanî della Campania e di terre italiane, da acquistarsi con fondi, che si sarebbero ricavati mercé la vendita di tutte le proprietà terriere dello stato in Italia e nelle provincie. Era legge che aveva lo scopo di assicurare a Cesare una grande forza politica, basata su mezzi finanziarî e militari atti a controbilanciare la potenza di Pompeo. Ma i maneggi furono elusi, e nelle elezioni consolari per il 63 a. C., riuscì contro Catilina, M. Tullio Cicerone.

Era questi un compatriota di Mario, anch'egli homo novus, che era salito in grande fama quale oratore, ed aveva fatto le sue prime prove militando nella parte popolare, quando, a ventisei anni, aveva difeso Sesto Roscio Amerino, accusato indegnamente da un liberto di Silla. Aveva poi sostenuto la causa dei Siciliani contro le speliazioni di Verre, mettendo in luce il malgoverno senatorio delle provincie, e si era unito con Pompeo, sostenendo la legge Manilia. Era di indole mite, amico dell'onestà, desideroso per la repubblica di quiete e di concordia, il che lo trasse talora a ondeggiare tra opposti partiti. Eletto al consolato, si adoprò con impeto per far fallire il progetto di Rullo, e vi riuscì; intanto Catilina, deluso per la seconda volta, andava ordendo la sua congiura contro lo stato, allargandone le fila per tutta l'Italia, specialmente in Etruria, ma Cicerone vegliava, e, quando ebbe in mano le fila del complotto, svelò il pericolo al senato, che diede a lui e all'altro console, C. Antonio, autorità dittatoria per provvedere alla difesa della repubblica.

Catilina dovette lasciare Roma e raggiungere le soldatesche raccolte in Etruria; alcuni dei suoi complici furono arrestati e su proposta di Cicerone condannati a morte, senza voto del popolo. Le sue bande furono vinte presso Pistoia da un legato di Antonio, e nella battaglia trovò la morte lo stesso Catilina. Se e quale parte Cesare abbia avuto nella congiura è incerto, ma è innegabile che egli avesse avuto precedenti contatti con Catilina.

Il primo triumvirato. - Sul finire del 62 a. C. sbarcò a Brindisi Pompeo, reduce dall'Oriente, e ai primi del 61 entrò a Roma, celebrandovi splendidissimo trionfo. Freddamente accolto così dai popolari, di cui erano a capo i suoi rivali Cesare e Crasso, come dal senato, che diffidava di lui per il suo precedente avvicinamento alla parte democratica, non essendo riuscito ad assicurare terre ai proprî veterani, né a fare approvare gli ordinamenti da lui dati all'Oriente, comprese che non poteva fare a meno di accordarsi coi capi della parte popolare, e così fece non appena Cesare tornò dalla Spagna, nella quale aveva trascorso il 61 a. C., come propretore: nel 60 a. C. fu in tal guisa costituito tra Pompeo, Cesare e Crasso il primo triumvirato. Nominato console per il 59 a. C., Cesare fece approvare leggi per la distribuzione di terre ai veterani di Pompeo e alla plebe, e per la repressione del malgoverno delle provincie, e nell'anno appresso partì per assumere il governo delle Gallie, al di qua e al di là delle Alpi, affidatogli per cinque anni su proposta del tribuno P. Vatinio, mentre Pompeo e Crasso rimasero in Roma a capo dello stato. Prima di partire, Cesare cooperò affinché fossero allontanati da Roma i capi degli ottimati: Catone, al quale fu dato l'incarico di incorporare allo stato romano Cipro; Cicerone, che dovette andare in esilio a Tessalonica, per una legge fatta votare da Clodio, uomo tristissimo, in quell'anno tribuno.

Bastarono tre anni al genio di Cesare per ridurre in suo potere tutta la Gallia, sicché egli poté nel 56 tornare, onusto di ricchezze e di gloria, in Italia, ove Pompeo, avversato da Clodio, si andava avvicinando al senato, e Cicerone era stato richiamato dall'esilio. Il triumvirato fu rinnovato col patto che Cesare avrebbe avuto il comando delle Gallie per altri cinque anni, e Pompeo e Crasso il consolato per il 55, e, subito appresso, il comando rispettivamente della Spagna e della Siria.

Crasso, prima ancora che scadesse il suo consolato, raggiunse la Siria col proposito di attaccare i Parti, che avevano raggiunto il confine dell'Eufrate; ottenne qualche successo, ma, addentratosi troppo in terreno nemico, assalito al sud di Carre da forze esuberanti, fu sconfitto e poi trucidato in un convegno, al quale era stato insidiosamente attratto dal nemico. I Parti invasero la Siria, ma furono poi respinti da C. Cassio Longino, e il confine romano rimase sull'Eufrate.

Pompeo invece allo spirare del consolato era rimasto in Roma, ove l'ardore delle fazioni si era riacceso, tanto che nel 53 furono impossibili le elezioni, e nel gennaio del 52 grandi disordini tennero dietro all'uccisione di Clodio per opera di Milone.

Allora il senato affidò la restaurazione dell'ordine a Pompeo, nominandolo console senza collega, e Pompeo tanto più si appoggiò agli ottimati, quanto più cominciava a diventare geloso di Cesare, delle cui vittorie giungevano continue notizie a Roma, accompagnate da ricche spoglie. Cesare infatti, tornato nella Gallia nel 55 a. C., aveva fatto due spedizioni nella Britannia (55 e 54), battendo gli abitanti del mezzogiorno dell'isola e imponendo loro la consegna di ostaggi e il pagamento di un tributo; due volte aveva passato il Reno, la prima nel 55 per inseguire delle orde, che avevano tentato di invadere la Gallia, la seconda nel 53 per punire i Suebi di avere aiutato la rivolta degli Eburoni, e questa rivolta aveva poi soffocato. E quando nel 52 tutta la Gallia fu trascinata in una nuova ribellione animata e capitanata da Vercingetorige, re degli Arverni, Cesare affrontò la situazione, e la padroneggiò, costringendo con memorando assedio alla resa Alesia e facendo prigioniero Vercingetorige. Le operazioni continuarono nel 51, quando furono soffocati gli ultimi moti, e Cesare poté provvedere a ordinare la nuova conquista, per la quale la civiltà romana poteva stendersi sino alla Manica e al Reno, e questo fiume diventava uno dei confini naturali dell'impero di Roma, barriera infrangibile per parecchi secoli all'incalzare delle stirpi germaniche.

La guerra tra Cesare e Pompeo. - Si imponeva tosto ai partiti in Roma la questione di dare a Cesare un successore nel comando delle Gallie, e fu questa questione che fece scoppiare in aperto conflitto la rivalità, che da lungo tempo era accesa tra Cesare e Pompeo, le due più possenti personalità della fine della repubblica, e che era stata a stento tenuta a freno con compromessì e accomodamenti. Il conflitto era d'altronde inevitabile per l'ambizione all'unicità di comando, che animava i due avversarî, e il contrasto, che aveva le sue radici in moventi personali, li aveva però spinti e continuava a spingerli a farsi centro di interessi sociali, di forze politiche e di ideali opposti nella grande crisi della repubblica. Pompeo che, in qualche momento della sua vita, aveva anche lui vagheggiato una politica di forza a oltranza, se ne era decisamente astenuto quando, nel 53 a. C., munito contemporaneamente di un comando militare, della cura annonae e designato unico console, sembrava pur costituito in evidente posizione di superiorità, di fronte a un governo impotente ed esautorato. Allora invece la consapevolezza della minaccia che gli derivava dal rivale, anch'esso potentemente armato, e fiero delle sue vittorie, lo distolse da un politica esclusivamente personale e lo spinse a cercare aiuti e appoggi nelle forze superstiti dell'oligarchia, inducendolo in compenso a promettere il rafforzamento del senato e delle classi ricche. Si saldava così l'alleanza tra Pompeo e il senato. Erano sincere le intenzioni dall'una parte e dall'altra? Ciò è stato da taluno (Rostovtzev) negato asserendo che anzi l'appoggio dato da Pompeo al regime senatoriale non fu mai preso sul serio neppure dagli stessi senatori. E può essere, ma l'alleanza ci fu, e fu quella che poteva essere, un compromesso tra due avversarî naturali, che si accordano di fronte a un comune pericolo. Pompeo rinunciò a ogni piano di soppressione del potere repubblicano e senatorio e l'oligarchia a sua volta consentì che egli mantenesse i poteri straordinari, che si era procurati e che li esercitasse attraverso gli organi della costituzione. Egli venne così a rappresentare in qualche modo quell'aspirazione politica, che alla sua età era già diffusa in certi strati dell'opinione pubblica, e che secondo qualcuno sarebbe stata delineata nel De re publica di Cicerone, l'aspirazione cioè verso il Princeps, concepito come salvatore della repubblica e della tradizione nazionale, l'uomo che senza alcuna carica ufficiale e con la fiducia del senato avrebbe dovuto dirigere lo stato. Secondo Edoardo Meyer quest'uomo fu proprio Pompeo e il suo principato fu prototipo e precursore di quello di Augusto. In tale concezione è una tendenza forse troppo teorizzatrice, ma il nucleo ne sembra inconfutabile, nel senso almeno che Pompeo aspirò a circoscrivere il potere militare nei limiti della costituzione. Che con ciò egli volesse conciliare l'inconciliabile, è forse anche questo vero, e qui stette la sua debolezza politica di fronte a Cesare.

Nell'approssimarsi della deposizione del comando delle Gallie, Cesare aspirava al consolato per il 48, e dichiarò di non voler deporre il comando prima dell'entrata nella nuova carica; gli ottimati consideravano illegale questa pretesa, e tra le parti si accese un lungo contrasto, cui porgevano esca le discussioni sul computo del secondo quinquennio del comando di Cesare e sulle disposizioni relative alle designazioni per i governi delle provincie. Il contrasto occupò il 51 e buona parte del 50, e, non essendo stato possibile un accordo, i consoli del 49 a. C., all'entrare in carica, intimarono con decreto del senato a Cesare, che si trovava in Ravenna, di abbandonare, entro un breve termine, governo ed esercito, se non volesse essere tenuto come pubblico nemico. Opposero il veto due tribuni amici dì Cesare, uno dei quali M. Antonio, che era stato suo legato nella Gallia, ma, minacciati dai consoli, dovettero riparare anche loro a Ravenna, offrendo così a Cesare il motivo di cominciare la guerra.

Per sorprendere con la fulmineità delle mosse Pompeo, al quale il senato aveva dato il comando supremo, Cesare partì subito da Ravenna alla testa di una legione, ordinando al grosso dell'esercito rimasto al di là delle Alpi, di venirlo a raggiungere, e il 12 gennaio passò il Rubicone, si impadronì del litorale da Rimini ad Ancona e prese Arezzo. Pompeo, che ben conosceva la sua inferiorità, lasciò subito Roma, seguito dai consoli e dalla maggior parte dei senatori, raggiunse Brindisi, nonostante l'accanito inseguimento di Cesare, che aveva occupato l'Umbria, il Piceno e vinta la resistenza di Domizio a Corfinio, e il 17 marzo si imbarcò per Dyrrachium. Cesare, non potendo inseguirlo, perché l'avversario era padrone del mare, non esitò a raggiungere la Spagna, ove con abile manovra costrinse al principio di agosto l'esercito pompeiano, che era al comando dei legati Afranio e Petreio, a capitolare. Attraverso la Gallia meridionale, ove Marsiglia, che gli aveva opposto all'andata la prima resistenza, dovette arrendersi, tornò in Italia, e, presi alcuni provvedimenti straordinarî necessarî alla tranquillità di Roma e dell'Italia, in forza della dittatura, che gli era stata conferita mentre era assente e che egli tenne soltanto per poco tempo, mosse contro Pompeo, riuscendo a sbarcare con parte delle sue forze nell'Epiro, ove lo raggiunse poi col resto dell'esercito M. Antonio. Pompeo non accettò battaglia campale preferendo rimanere nelle sue fortificazioni di Dyrrachium; la mancanza di vettovaglie mise Cesare in pericolo e alla fine lo costrinse ad allontanarsi oltre i monti della Tessaglia; Pompeo gli tenne dietro e si lasciò trarre a battaglia campale nella pianure di Farsalo (estate del 48 a. C.). L'esercito di Pompeo era doppio di quello di Cesare quanto a fanteria, e ancora assai più forte per il numero di cavalieri, ma i soldati di Cesare erano meglio disciplinati, esercitati dalle guerre della Gallia e a lui devotissimi; nella battaglia l'impeto dell'assalto e l'eccellente tattica diedero a Cesare una vittoria definitiva.

Cesare unico signore dello stato. - Pompeo cercò rifugio in Egitto, ma, allo sbarco, vi fu fatto uccidere da Tolemeo XII; poco dopo sopraggiunse Cesare, che assunse tosto di fronte al re contegno di dominatore, accordando la sua protezione alla sorella di lui, Cleopatra, che Tolemeo aveva cacciata dal regno, anziché dividerlo con lei conformemente alla volontà del padre. I seguaci di Tolemeo assalirono per ciò Cesare e lo tennero assediato in Alessandria, ma, giuntigli soccorsi, egli vinse, e Cleopatra rimase sola regina (47).

Trattenutosi ancora qualche tempo in Egitto, egli dovette correre contro Farnace, figlio di Mitridate, che aveva avuto da Pompeo il regno Bosforano, e andava palesando velleità di ingrandimenti. Sconfittolo nella battaglia di Zela (agosto 47), tornò in Roma nell'autunno, mostrando prudenza e mitezza, sdegnando vendette personali e contentandosi di riempire i vuoti nel senato, con persone a sé devote. Dopo essersi adoperato per sedare le contese e soccorrere i bisogni degli indigenti, al principio del 46 a. C., partì per l'Africa per combattervi le reliquie della parte pompeiana, aiutate da Giuba, re di Numidia. Dopo varie vicende i pompeiani furono nell'aprile sconfitti a Tapso; Metello Scipione, suocero di Pompeo, e Giuba si uccisero; altri, tra cui Sesto, figlio di Pompeo, ripararono in Spagna, ove già si trovava Gneo, fratello maggiore di Sesto. Le città dell'Africa aprirono le porte al vincitore, compresa Utica nella quale stoicamente si uccise Catone per non cadere nelle mani del rivale.

Cesare, annessa la maggior parte della Numidia alla provincia d'Africa, tornò nel luglio in Roma, ove, celebrati con grande solennità quattro trionfi, sui Galli, sull'Egitto, su Farnace, e su Giuba, imprese una serie di riforme per consolidare il suo governo, la cui tendenza monarchica era ormai evidente a tutti, e poteva liberamente esplicarsi attraverso la dittatura e il potere censorio che gli era stato attribuito per tre anni col titolo di prefettura dei costumi. Ma presto egli dovette interrompere le opere pacifiche per accorrere in Spagna ove i due figli di Pompeo avevano riacceso la guerra civile: con grandissima rapidità Cesare la soffocò, facendo strage dei pompeiani nella battaglia di Munda del marzo 45. Gneo Pompeo fu ucciso nella fuga, Sesto si dovette rifugiare nelle gole dei Pirenei, e Cesare, tornato in Roma, fu dal senato proclamato dittatore perpetuo col titolo di imperatore, ed ebbe onori divini e facoltà di portar sempre le insegne trionfali e la corona d'alloro. Investito del diritto di nominare i magistrati, di disporre dell'esercito e del pubblico tesoro, raccolse nelle sue mani tutti i poteri dello stato: il civile, il militare e il religioso, mercé il pontificato massimo. Monarchico fu dunque senza dubbio il sistema di governo da lui istituito, non nel senso del principato, ma in senso assoluto, e soltanto può discutersi se e in quanto egli volesse adottare le forme delle monarchie ellenistiche.

Dei suoi poteri illimitati si valse per ripigliare sempre più arditamente le sue riforme, che seppure non obbedirono ad un piano organico prestabilito, venivano però incontro a bisogni realmente sentiti: l'espansione della romanità col conferimento liberale della cittadinanza e della latinità fuori d'Italia; la riduzione del proletariato cittadino con la limitazione del numero degl'iscritti alle frumentazioni, che da 320.000 furono portati a 150.000; l'apertura di nuovi sbocchi ai non abbienti, mercé la distribuzione di terre e l'invio di nuove colonie in Spagna, Grecia, Africa; il riordinamento uniforme dei municipî, con la livellazione progressiva di Roma alle altre città; l'aumento del numero dei magistrati; l'abbellimento di Roma. E altre opere grandiose andava egli meditando: allargare la cinta della città, deviare il Tevere, fondare ad Ostia un vasto porto, prosciugare il Fucino, procedere alla misurazione e a rilievi statistici di tutto l'impero, e, soprattutto, estendere il dominio di Roma, debellando i Parti, gli Sciti e i Germani.

Ma Roma non era ancora pienamente matura per l'instituzione di un governo assoluto personale, e le ultime energie dello spirito repubblicano insorsero cospirando contro il dittatore, che fu abbandonato anche da non pochi dei suoi seguaci delusi, i quali cominciavano a vederlo nella luce di un tiranno. Il 15 marzo del 44 a. C. Cesare cadde sotto i colpi dei congiurati, capeggiati da C. Cassio, M. Giunio Bruto e Decimo Bruto. La monarchia cesariana, fondendo la dittatura militare con la potestà tribunizia e con la tutela dei costumi, lasciava soltanto in apparenza sussistere gli ordini repubblicani, ma di fatto li svuotava di ogni contenuto. L'autorità del capo non si fondava in alcun modo sul consenso e sulla pacifica collaborazione dell'antica classe dirigente, nessuna preoccupazione vi era di sistemare la coesistenza del potere militare col decaduto potere civile, ma si muoveva risolutamente verso un ordinamento monarchico, la cui pietra angolare era l'esercito e che guardava agli interessi non della sola cittadinanza romana, ma di tutto l'impero.

I torbidi seguiti alla morte di Cesare e la guerra contro Bruto e Cassio. - La morte del dittatore cagionò il massimo sgomento, e se ne temeva come conseguenza largo spargimento di sangue, che sulle prime si poté evitare mercé un compromesso tra i partiti avversi, per il quale agli uccisori fu assicurata l'impunità e furono loro conservate le cariche, ma nel tempo stesso vennero riconoscinti validi tutti gli atti di Cesare. Sennonché al momento dei funerali, durante i quali M. Antonio pronunciò l'elogio del dittatore, il furore delle masse popolari scoppiò violentemente: il cadavere di Cesare fu cremato e le ceneri sepolte nel Foro, fu appiccato il fuoco alla curia e alle case dei congiurati, che presto si videro costretti ad abbandonare Roma. Alcuni raggiunsero le loro provincie, come appunto Decimo Bruto che si recò nella Gallia Cisalpina; e rimase padrone della città il console Antonio, che si era fatto consegnare dalla vedova del dittatore le sue carte e il suo tesoro.

Nell'aprile giunse a Roma, appena diciannovenne, C. Ottavio, figlio di una nipote di Cesare, che da Cesare era stato adottato per testamento, onde aveva preso il nome di C. Giulio Cesare Ottaviano, e ne era stato designato erede. Antonio, giudicandolo debole e inesperto, si rifiutò di consegnargli il tesoro del padre adottivo, e lo osteggiò in ogni guisa; ma egli seppe in breve conquistarsi il favore popolare con la sua liberalità e con le arti del suo duttile ingegno, con la prudenza e con la sagacia, mentre Antonio andava perdendo ogni giorno più terreno, nonostante la sua politica opportunista. Intendeva ora egli assicurarsi il governo della Gallia, che si era fatta assegnare come provincia, ma, prevedendo che gli sarebbe stato conteso da Decimo Bruto, si fece venire milizie dalla Macedonia. Allora anche Ottaviano si armò, chiamando a raccolta i veterani di Cesare e mettendosi a disposizione del senato: era di nuovo la guerra civile.

Decimo Bruto, incoraggiato dal senato, si afforzò in Modena, ove Antonio lo assediò. Contro questo intanto sferrava in Roma i suoi attacchi impetuosi Cicerone, mentre due suoi avversarî erano eletti consoli per il 43: A. Irzio e C. Vibio Pansa. A questi ultimi e ad Ottaviano il senato diede incarico di portare aiuto a Decimo Bruto. Nella campagna caddero entrambi i consoli, ma Modena fu liberata e Decimo Bruto incaricato dal senato di inseguire Antonio, fuggente verso la Gallia Transalpina.

I nemici di Cesare sembravano trionfare, mentre Sesto Pompeo era investito del comando della flotta, e Bruto e Cassio, che frattanto si erano resi padroni delle provincie orientali, vedevano ratificato il loro operato: si capisce come i Cesariani, tra i quali erano i governatori di tutte le provincie occidentali, ne fossero allarmati.

Lepido che era stato il magister equitum del dittatore, e dopo la morte di lui era stato nominato pontefice massimo, si unì con Antonio, costringendo Decimo Bruto a rinunziare all'inseguimento, e a questo punto venne meno l'innaturale alleanza del senato con Ottaviano, il quale invece cooperò affinché Antonio si mettesse in salvo con tutte le sue truppe, e reclamò per sé il consolato ed il trionfo, e li ottenne. Decimo Bruto fu abbandonato dal suo esercito ed ucciso; Antonio, Lepido ed Ottaviano, incontratisi presso Bologna, in un'isola del Reno, si conciliarono tra loro al cospetto degli eserciti, dividendosi il comando delle provincie occidentali e convenendo di costituirsi in triumvirato. E infatti essi nel novembre del 43 a. C. furono investiti per cinque anni di poteri illimitati quali triumviri rei publicae constituendae, mercé una legge proposta dal tribuno P. Tizio, e cominciarono il loro governo con una serie di proscrizioni, delle quali una delle vittime fu Cicerone, sacrificato da Ottaviano alla vendetta di Antonio. A ricompensa dei veterani destinarono terre da diciotto delle più fiorenti città d'Italia, e, per procacciarsi i mezzi occorrenti alla guerra contro gli uccisori di Cesare, ingiunsero elevatissime imposte ai cittadini.

Bruto e Cassio, lasciata l'Italia nell'autunno del 44 a. C., si erano recati in Grecia, prendendo poi possesso rispettivamente del governo della Macedonia e della Siria, e agivano da padroni assoluti su tutto l'Oriente, traendone milizie, navi ed enormi contribuzioni. Avuta notizia della costituzione del triumvirato, si erano riuniti in Asia nel 42 a. C. e di qui passarono in Europa per muovere contro Antonio ed Ottaviano, che avevano preso il comando della guerra contro di loro, mentre Lepido era rimasto in Roma.

Gli eserciti avversarî, forti rispettivamente di circa 100.000 uomini, si scontrarono nell'autunno del 42 a. C. presso Filippi, con la sconfitta definitiva di Cassio e di Bruto, che si tolsero la vita.

L'ascesa di Ottaviano verso il principato. - I vincitori stabilirono una nuova divisione delle provincie, e presto sorsero tra di loro motivi di contrasto. Quando Ottaviano procedette all'assegnazione di terre ai suoi veterani, spodestando senza indennizzo i proprietarî delle città a ciò designate, e accendendo così una crisi economica più grave ancora di quella dei tempi sillani, il fratello di M. Antonio, Lucio, che in quell'anno era console, si pronunciò contro di lui, volendo mitigare la durezza delle assegnazioni e approfittare dell'occasione per rendersi padrone dell'Italia, ma fu da Ottaviano stretto d'assedio in Perugia e obbligato alla resa nell'inverno del 41. Anche Lepido si vide contrastato dai partigiani di Antonio il governo dell'Africa, che gli era toccato nella spartizione. E intanto Antonio, che si era recato nell'Oriente, assegnato alla sua giurisdizione, era stato irretito dalle arti di Cleopatra e aveva assistito impotente alla perdita della Siria, travolta dai Parti al comando di Q. Labieno, seguace di Bruto e di Cassio, il quale poi, valicato il Tauro, si era impadronito di gran parte dell'Asia anteriore e della stessa provincia romana d'Asia. Per ciò Antonio si affrettò a tornare in Italia, ove lo chiamava inoltre la situazione fattasi così torbida. Per interposizione di amici comuni si riconciliò con Ottaviano, mercé il cosiddetto foedus Brundisinum dell'estate del 40 a. C., e ne sposò la sorella Ottavia. Poco dopo, in seguito a un convegno in Miseno, fu conclusa pace fra i triumviri, i quali si accordarono anche con Sesto Pompeo, riconoscendogli il comando della Sicilia, della Sardegna e del mare. Ma Sesto continuava a rappresentare un pericolo gravissimo per l'Italia e per l'Occidente, costituendo un centro di attrazione di disertori, pirati e schiavi fuggitivi, né gli mancavano in Roma partigiani e popolarità; onde sino dal 38 a. C. Ottaviano ricominciò contro di lui la guerra, nonostante che ne fosse dissuaso da Antonio.

Questi nel frattempo, per mezzo di suoi legati, era rientrato in possesso della provincia d'Asia, della Siria e dell'intero Oriente romano, e si proponeva ora di attaccare a fondo l'impero partico. Avendo perciò bisogno di truppe, tornò in Italia, ma Ottaviano, offeso contro di lui che l'aveva osteggiato nella guerra contro Sesto Pompeo, gli vietò nel 37 a. C. l'ingresso nel porto di Brindisi, e soltanto per intercessione di Ottavia fu possibile, in un convegno presso Taranto, una nuova riconciliazione, mercé la quale fu decisa la proroga del triumvirato per altri cinque anni e furono scambiate promesse di aiuti per la guerra di Antonio contro i Parti, e di Ottaviano contro Sesto Pompeo. In conseguenza di questi accordi furono riprese energicamente le ostilità contro quest'ultimo, il quale nel 36 a. C. fu sconfitto da Agrippa in una battaglia presso Nauloco, che segnò per lui la perdita definitiva della Sicilia. Lepido, che aveva partecipato efficacemente alle operazioni, tentò tenere per sé l'isola, ma fu facile a Ottaviano costringerlo a deporre la carica triumvirale e a ritirarsi a vita privata. L'anno appresso Sesto Pompeo, apparso fuggiasco in Asia, fu fatto prigioniero da Antonio e mandato al supplizio in Mileto. Ottaviano diveniva pertanto solo signore di tutto l'Occidente; la sicurezza dei mari era ristabilita, consolidata la tranquillità in Roma, ove egli fu molto festeggiato e investito della potestà tribunizia. Ma maturavano già i germi di nuovi conflitti tra lui e Antonio.

Questi, tornato in Oriente dopo il patto di Taranto, aveva riannodato le sue relazioni con Cleopatra, che aveva fatto venire presso di sé in Antiochia (37-36 a. C.), e sino da allora la considerò sua sposa, cedendole vaste regioni della Siria e l'isola di Cipro, con grande scandalo dei Romani. Nelle operazioni contro i Parti il suo prestigio fu compromesso quando nel 35 a. C. egli fu costretto a una ritirata che gli cagionò gravi perdite. Nel 34, invasa l'Armenia, riuscì a far prigioniero il re Artavasde e a menarne trionfo in Alessandria, ma in Armenia scoppiarono torbidi e sollevazioni, e un nuovo re fu insediato dai Parti, onde Antonio dovette di nuovo intervenire nel 33, allorché strinse definitivamente alleanza col re della Media e andò colorendo disegni sempre più vasti di conquiste. Per porre in esecuzione questi disegni egli avrebbe avuto bisogno dell'appoggio di Ottaviano, ma questi che nel frattempo aveva combattuto vittoriosamente nell'Illiria settentrionale e nella Dalmazia ed era padrone assoluto dell'Italia e delle sue forze militari, si allontanava di nuovo da Antonio, la cui condotta diveniva sempre più censurabile. I suoi vincoli ognora più stretti con Cleopatra, la libertà sfrenata con cui disponeva delle provincie asiatiche e sopra tutto le crescenti concessioni all'Egiziana, non erano soltanto reali provocazioni contro Ottaviano, ma atti effettivamente scandalosi e vere menomazioni del dominio di Roma.

Quando nel 33 a. C. Antonio insistette perché fossero riconosciuti i diritti che credeva spettargli sull'Italia e gli fossero inviati rinforzi, si ebbe un rifiuto categorico, e allora, rinunciando alla guerra contro i Parti, mise in marcia il suo esercito verso l'Occidente. Nel 32 a. C. fece un ultimo tentativo di conciliazione, dichiarandosi pronto a deporre la carica triumvirale e favorevole al ripristino degli antichi ordini costituzionali, ma Ottaviano respinse la proposta e fece dichiarare guerra a Cleopatra. Antonio, sciolto il matrimonio con Ottavia, tentò provocare una sollevazione in Italia, ma invano, ché popolo e senato prestarono giuramento nelle mani di Ottaviano, e la guerra cominciò. Le forze antoniane di terra e di mare furono concentrate sulla costa occidentale della Grecia, e svernarono (32-31 a. C.) nel golfo di Ambracia presso Azio. Nella primavera del 31 a. C. Ottaviano prese l'offensiva con forze quasi eguali, concentrando l'esercito nel mezzogiorno dell'Epiro e stringendo sempre più l'avversario, mentre Agrippa, che comandava la flotta, tagliava al nemico i collegamenti col mare. Antonio, per consiglio di Cleopatra, tentò spezzare il blocco, combattendo, il 2 settembre, presso Azio, una grande battaglia navale, nella quale egli e l'Egiziana riuscirono a prendere il largo, ma i due terzi della flotta non poterono sfuggire, e furono sopraffatti. L'esercito di terra batté in ritirata verso la Macedonia, ma presto dovette arrendersi al vincitore, e a questo si aprì, senza resistenza, tutto l'Oriente. Antonio riparò in Alessandria e tentò negoziare con Ottaviano, che però respinse ogni accomodamento, e nell'estate del 30 conquistò, senza difficoltà, l'Egitto, entrando in Alessandria il I° agosto. Ad Antonio null'altro rimase che trafiggersi con la propria spada, ed anche Cleopatra, vista vana ogni speranza di salvare l'Egitto per sé e per i figli, si tolse la vita.

L'Egitto divenne possedimento personale di Ottaviano, che lo governò per mezzo di un prefetto, e poté impadronirsi del tesoro regio, il che gli fu di grandissimo giovamento per provvedere agli appannaggi dei veterani e ai tanti bisogni dello stato. Ottaviano trascorse in Asia l'inverno del 30-29 a. C. per riordinare quelle regioni, e, dopo essere riuscito a far sentire anche sui Parti l'influenza romana, tornò in Roma, ove il senato gli aveva decretato i sommi onori, e celebrò nell'agosto con grande pompa un triplice trionfo de Dalmatis, ex Actio, Aigypto.

Le guerre civili erano terminate, ed instaurata la pace, della quale l'Italia e il mondo avevano tanto bisogno; gli ordinamenti repubblicani, da molti anni insufficienti ai nuovi bisogni politici e sociali, cedevano il posto al principato.

BIBL.: Opere generali. - Dal sec. XVI a tutto il XVIII si indicheranno solo le più importanti; N. Machiavelli, Discorsi sulla prima deca di T. Livio, Firenze 1531; C. Sigonius, Fasti consulares ac triumphales ac triumphi acti a Romulo usque ad Ti. Caesarem, Basilea 1559; De antiquo iure civium Romanorum, Italiae, provinciarum, Venezia 1560-1574; St. V. Pighius, Annales magistratuum Romanorum opera et studio Andr. Schottii, Anvesra 1615; J. J. Scaliger, Thesaurus temporum, 2ª ed., 1658; Ph. Cluverius, Italia antiqua, Leida 1623; J. Freinsheim, Supplementa ad Livium, 1649; Ch. Cellarius, Historia antiqua, 1685; Graevius, Thesaurus antiquitatum romanarum, continuato dal Sallengrius e dal Polenus, 1694-1740; G. B. Bossuet, Discours sur l'histoire universelle, 1681; Ch. Montesquieu, Considératios sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, Amsterdam 1734; G. B. Vico, Principii di una scienza nuova d'intorno alla commune natura delle nazioni, 1725 (cfr. 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Duruy, Histoire des romains, voll. 7, Parigi 1870-1885; C. Neuman, Geschichte Roms während des Verfalles der Republik, voll. 2, Breslavia 1881-84; N. Madvig, Verfassung und Verwaltung des römischen Staates, Lipsia 1880-81; P. Willems, Le droit public romain, Lovanio 1880 (ultima ed. curata da H. Willems, 1911); E. Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung, voll. 2, Lipsia 1884, 1891; Marquardt-Mommsen, Handbuch der römischen Alterthümer, voll. 7, dei quali i primi tre in cinque parti contengono il Römisches Staatsrecht del Mommsen (I e II, 3ª ed., Lipsia 1887, III, unica ediz., 1887), i voll. IV-VI, la Römische Staatsverwaltung di J. Marquardt, il primo in 3ª ed., 1884, gli altri, in 2ª edizione a cura di varî autori, 1884-1887, il VII, Das Privatleben der Römer, di J. Marquardt, 2ª ediz., 1886; R. Bonghi, Storia di Roma, Milano 1884-1896; A. 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Decia, Firenze 1912; F. Baumgarten, F. Poland, R. Wagner, Die hellenistisch-römische Kultur, Lipsia 1913, traduz. italiana di Della Seta; E. Cavaignac, Histoire de l'antiquité, III, Parigi 1917; G. Ferrèro e C. Barbagallo, Short history of Rome, New York 1919 (trad. ital. in 3 volumetti, Firenze 1921-22); L. M. Hartmann e G. Kromayer, Storia di Roma (trad. ital. di Cecchini dal tedesco), Firenze 1922; T. Frank, A history of Rome, Londra 1923 (trad. ital. in voll. 2, Firenze 1932); E. Pais, G. Bloch, J. Carcopino, nell'Histoire Générale, Parigi 1926, 1929; L. Homo, L'Italie primitive et les débuts de l'imperialisme romain, Parigi 1925; A. Grenier, Le Génie romain dans la religion, la pensée et l'art, Parigi 1925; K. J. Beloch, Römische Geschichte, bis zum Beginn der punischen Kriege, Berlino e Lipsia 1926; V. Chapot, Le Monde Romain, Parigi 1927; Cambridge Ancient History, VII-IX, Cambridge 1928-1932; J. Beloch, nel vol. III della Einleitung in die Altertumswissenschaft di Gercke e Norden, Lipsia e Berlino 1912; Fr. Cauer, Römische Geschichte, Monaco e Berlino 1925; M. Rostovtzeff, A history of the ancient World, II, Rome, Oxford 1927 (ristampa del 1933); id., Storia economica e sociale dell'Impero Romano, Firenze 1933 (traduzione italiana dall'originale inglese, Oxford 1926); C. Barbagallo, Roma, voll. 2 (nella sua Storia univ.), Torino 1931 e 1932; A. Ferrabino, L'Italia romana, Milano 1934; M. A. Levi, La politica imperiale romana, Torino 1936; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I e II, Torino 1907, III, I e II, ivi 1917; IV, I, ivi 1923 (cfr. Per la scienza dell'antichità, Torino 1909); E. Pais, Storia di Roma sino all'intervento di Pirro, Torino 1898 e 1899, voll. 2 (2ª ed. col titolo Storia critica di Roma durante i primi cinque secoli, Roma 1913-1920; 3ª ed. col titolo Storia di Roma sino alla prima guerra punica, voll. 5, Roma 1926); id., Storia di Roma dall'età regia alle guerre puniche, 1 vol., Torino 1934; id., Storia di Roma durante le guerre puniche, voll. 2, 2ª ed., ivi 1935; id., Storia di Roma durante le grandi conquiste mediterranee, ivi 1931; id., Storia interna di Roma dalle guerre puniche alla rivoluzione graccana, 1931 (cfr. i volumi di Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma e i due volumi: Dalle guerre puniche a Cesare Augusto, Roma 1918-20).

Fonti: Basti indicare le trattazioni generali di: C. Wachsmuth, Einleitung in das Studium der alten Geschichte, Lipsia 1895; O. Rosenberg, Einleitung und Quellenkunde zur römischen Geschichte, Berlino 1921; J. Greenidge e M. Clay, Sources for Roman history, Oxford 1926; e, per quanto si attiene alla tradizioe dell'età più antica: K. W. Nitzsch, Die römische Annalistik von ihren ersten Anfängen bis auf Valerius Antias, Berlino 1873; O. Seeck, Die Kalendertafel der Pontifices, ivi 1885; C. Cichorius, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., s. v. Annales; G. Sigwart, in Klio, VI, 1906, p. 341 segg.; W. Soltau, Die Anfänge der römischen Geschichtsschreibung, Lipsia 1909; G. Costa, I fasti consolari Romani, voll. 2, Milano 1910; E. Kornemann, in Klio, XI, 1911, p. 245 segg.; id., Der Priestercodex in der Regia und die Entstehung der altrömischen Pseudogeschichte, Tubinga 1912.

Storia militare: H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, I, 2ª ed., Berlino 1908; J. Kromayer e G. Veith, Antike Schlachtfelder, II e III, ivi 1907 segg.; id., Heerwesen und Kriegführung der Griechen und Römer, Monaco 1928.

Cronologia: L. Ideler, Handbuch der mathematischen und technischen Chronologie, Berlino 1825-26; Th. Mommsen, Die römische Chronologie bis auf Cäsar, 2ª ed., ivi 1859; E. Matzat, Römische Chronologie, voll. 2, ivi 1883-84; L. Holzapfel, Römische Chronologie, Lipsia 1885; W. Soltau, Römische Chronologie, Friburgo in Br. 1889; G. F. Unger nel Handbuch der Altertumswissenschaft di I. Müller, I, 1892; O. Leuze, Die römische Jahrzählung, Tubinga 1909; P. Varese, Il calendario romano all'età della prima guerra punica, in Studi di storia antica diretti da G. Beloch, III, Roma 1902; id., Cronologia romana, I, ivi 1908; F. K. Ginzel, Handbuch der mathematischen und technischen Chronologie, voll. 2, Lipsia 1906 e 1911.

Studî particolari: Le indicazioni sono naturalmente limitate a opere di particolare significato, recenti e atte all'orientazione. Per l'età precedente alle guerre Puniche: Fr. Altheim, Epochen der römischen Geschichte, Francoforte 1934; A. Piganiol, Éssai sur les origines de Rome, Parigi 1917; V. Groh, I primordi di Roma, in Rendiconti della Pontificia Accademia di Archeologia, III, 1924-25, p. 215 segg.; V. Sinaiski, Origines de l'histoire de Rome, et de celle de son droit, in Acta Universitatis Latoviensis, VII e X, Riga 1923-4; J. Thallon Hill, Rome of the Kings, Nuova York 1925; C. Barbagallo, Il problema delle origini di Roma da Vico a noi, Milano 1926; G. Pacchioni, Dalla monarchia alla repubblica, in Atti dell'Accademia di Torino, LX (1925), p. 675; A. Rosenberg, Der Staat der alten Italiker, Berlino 1913; H. Rudolph, Stadt und Staat im röm. Italien, Lipsia 1935; W. Schur, Zwei Fragen der römischen Verfassungsgeschichte in Neue Jahrbücker klass. Alt., XXVI (1923), p. 193 segg.; Ch. Appleton, Trois épisodes de l'histoire ancienne de Rome, Les Sabines, Lucrèce, Virginie, in Revue historique du droit français et étranger, 1924, p. 193 segg., 592 segg.; E. Meyer, Der Ursprung des Tribunats, in Kleine Schriften, I, 2ª ed., Halle 1924, p. 351 segg.; id., Handwörterbuch der Staatswissenschaften, s. v. Plebs, VI, p. 1049 segg.; K. J. Neumann, Die Grundherrschaft der römischen Republik, Straburgo 1900; J. Binder, Die Plebs, Lipsia 1909; E. Cocchia, Il tribunato della pelbe, Napoli 1917; G. Niccolini, Il tribunato della plebe, Milano 1931; E. Lambert, La question de l'authenticité des XII tables et les annales maximi, in Nouv. Rev. hist. de droit fr. et étr., 1902; id., Histoire traditionnelle des XII tables, Lione 1903; S. Solazzi, La questione dell'autenticità delle XII tavole, Urbino 1903; T. Giorgi, Il decemvirato legislativo e la costituzione serviana, Milano 1912; E. Täubler, Untersuchungen zur Geschichte des Decemvirats und der Zwölftafeln, Berlino 1921; G. Baviera, Contributo alla storia della "Lex XII Tabularum", in Studi in onore di Silvio Perozzi, Palermo 1925; A. Rosenberg, Untersuchungen zur römischen Zenturienverfassug, Berlino 1911; Pl. Fraccaro, La storia dell'antichissimo esercito romano e l'età dell'ordinamento centuriato, in Atti del II Congresso nazionale di studi romani, III, p. 91 segg.; L. Zancan, Per la storia dell'ordinamento centuriato, in Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere e arti, XCIII (1933-34), p. 869 segg.; G. W. Botsford, The Roman assemblies from their origin to the end of the republic, Nuova York 1909; G. Niccolini, Sui comizi romani, in Atti della società Ligustica di scienze e lettere, IV (1925); W. Hoffmann, Rom und die griechische Welt im 4. Jahrhundert, Lipsia 1934; E. Cavaignac, La prise de Rome par les Gaulois, in Revue celtique, 1924, p. 125 segg.; P. Birmebössel, Untersuchungen über Quellen und Geschichte des zweiten Samniterkrieges von Caudium bis zum Frieden 450 u. c., Halle 1893; A. Pirro, La seconda guerra sannitica, Salerno 1898; B. Bruno, La terza guerra sannitica, Roma 1906; J. W. Spaeth, A study of the causes of Romes wars from 343 to 265 b. C., Princeton 1926; G. Colasanti, Come scrive Livio che non erra, Lanciano 1933; G. Klotzsch, Epirotische Geschichte bis zum Jahre 280 v. Chr., Berlino 1911; R. Schubert, Geschichte des Pyrrhos, Königsberg 1894; W. Judeich, König Pyrrhos' römische Politik, in Klio 1925, p. I segg.

Per l'età delle guerre puniche: K. Neumann, Das Zeitalter der punischen Kriege, Breslavia 1883; O. Meltzer, Geschichte der Karthager, II, Berlino 1896, p. 252 segg. e III (a cura di U. Kahrstedt) 1913; K. Lehmann, Die Angriffe der drei Barkiden auf Italien, Lipsia 1905; P. Huvelin, Une guerre d'usure, la deuxième guerre Punique, Parigi 1917. Pei rapporti con la Grecia e con l'Oriente ellenico: B. Niese, Geschichte der griechischen und makedonischen Staaten seit der Schlacht bei Chaironeia, II e III, Gotha 1899 e 1903; E. R. Bevan, The House of Seleucus, voll. 2, Londra 1902; G. Cardinali, Il regno di Pergamo, Roma 1906; A. Bouché-Leclercq, Histoire des Lagides, voll. 4, Parigi 1903-1907; K. J. Beloch, Griechische Geschichte, 2ª ed., IV, I e 2, Berlino 1925 e 1927; G. Colin, Rome et la Grèce de 200 à 146 av. J. Chr., Parigi 1905; G. Niccolini, La Confederazione achea, Pavia 1914; M. Holleaux, Rome, la Grèce et les monarchies hellénistiques au IIIe siècle avant J.-C., Parigi 1921; Th. Walek, La politique romaine en Grèce et dans l'Orient hellénistique au IIIe siècle, in Revue de Philologie, XLIX (1925), p. 28 segg., 118 seg., e la risposta dell'Holelaux nello stesso periodo, L (1926), p. 46 segg. e 194 segg.; V. Chapot, La province romaine d'Asie, Parigi 1904; E. Bickermann, Les préliminaires de la seconde guerre de Macédoine, in Revue de philologie, LXI (1935).

Per l'età dai Gracchi ad Augusto: E. Meyer, Untersuchugen zur Geschichte der Gracche, Halle 1894, ripubblicato in Kleine Schriften, I, 2ª ed., Halle 1924, p. 363 segg.; E. Kornemann, Zur Geschichte der Gracchenzeit, in Klio, suppl. I, 1903; G. Cradinali, Studî graccani, Roma 1912; P. Fraccaro, Studî sull'età dei Gracchi, Città di Castello 1914: id., Ricerche su C. Gracco, in Atheaeum, III, 1925, p. 76 segg. e 156 segg. (cfr. 1931, p. 291 segg.); G. De Sanctis, Rivoluzione e reazione nell'età dei Gracchi, in Atene e Roma, II (1921), p. 209 segg.; W. Enslin, Die Demokratie und Rom, in Philologus, LXXXII (1927), p. 313 segg.; J. Carcopino, Autour des Gracques, Parigi 1928; M. A. Levi, La Costituzione romana dai Gracchi a Giulio Cesare, Firenze 1928; G. Meinel, Zur Chronologie des jugurthinischen Krieges, Augusta 1883; H. Denn, Die ersten Jahre des jugurthinischen Krieges, Giessen 1923; V. Costanzi, Cimbrica, in Annali delle università toscane, Pisa 1922; Fr. v. d. Müll, De C. Appuleio Saturnino, Basilea 1906; W. Strehl, M. Livius Drusus, Marburgo 1887; J. Assbach, Das Volkstribunat des jüngeren M. Livius Drusus, Bonn 1888; E. Marcks, Die Überlieferung des Bundesgesnossenkrieges, Marburgo 1884; A. v. Domaszewski, Bellum Marsicum, in Sitzungsberichte der wiener Akademie der Wisseschaften, CCI, I (1924); J. Legle, Untersuchugen über die sullanische Verfassug, Friburgo i. Br. 1899; P. Cantalupi, La magistratura di Silla durante la guerra civile, Roma 1900; C. Lanzani, Mario e Silla, storia della democrazia romana negli anni 87-82 a.C., Catania 1915; E. Pozzi, Studî sulla guerra civile sillana, in Atti della R. Accademia di Torino, XLIX (1913), p. 641 segg.; B. Harold, Cinna and his times, Chicago 1923; M. A. Levi, Silla, saggio sulla storia politica di Roma dall'88 all'80 a. C., Milano 1924; J. Carcopino, Sulla ou la monarchie manquée, Parigi 1932; E. Meyer, Geschichte des Königsreichs Ponto, Lipsia 1879; Th. Reinach, Mithridate Eupator roi du Pont, Parigi 1890; G. Stahl, De bello Sertoriano, Erlangen 1907; A. Schulten, Sertorius, Lipsia 1926; G. Ranthke, De Romanorum bellis servilibus capita selecta, Berlino 1909; W. Warde Fowler, Social life at Rome in the age of Cicero, Londra 1908; M. Geltzer, Die römische Gesellschaft zur Zeit Ciceros, in Neue Jahrbücher, 1920, p. I seg.; W. Kroll, Die Kultur der ciceronischen Zeit, Berlino 1932-33; G. Boissier, Cicéron et ses amis, Parigi 1912; T. Petersson, Cicero, a biogr., Berkeley 1920; J. Rolfe, Cicero and his influence, Boston 1923; O. Plasberg, Cicero in seinen Werken und Briefen, Lipsia 1926; E. Ciaceri, Cicerone e i suoi tempi, voll. 2, Milano 1926 e 1930; F. Arnaldi, Cicerone, Bari 1929; G. Boissier, La conjuration de Catilina, Parigi 1905; E. G. Hardy, The Catilinarian conspiracy in its context, Oxford 1924; L. Pareti, La congiura di Catilina, Catania 1935; Napoléon, III, Histoire de Jules César, Parigi 1865; J. Stoffel, Histoire de Jules César, voll. 3, Parigi 1887; G. Veith, Geschichte der Feldzüge des C. Julius Caesar, Vienna 1906; C. Jullian, Histoire de la Gaule, Parigi 1908 segg.; T. Rice Holmes, Caesar's conquest of Gaule, 2ª ed., Oxford 1911; id., Ancient Britain and the invasions of Julius Caesar, ivi 1907; E. Meyer, Caesars Monarchie und das Principat des Pompeius, 2ª ed., Stoccarda 1918; M. Gelzer, Caesar der Politiker und Staatsman, Stoccarda 1921; T. Rice Holmes, The Roman republic and the founders of the Empire, voll. 3, Oxford 1923; E. G. Hardy, Ten essays bearing on the administrative and legislative work of J. Caesar, Oxford 1924; Fr. Gundolf, Caesar, Geschichte seines Ruhmes, 2ª ed., Berlino 1925 (trad. it., 2ª ed., Milano 1934); id., Caesar im neunzehnten Jahrhundert, Berlino 1926; F. B. Marsh, The Foundig of the Roman Empire, Oxford 1927; M. A. Levi, Ottaviano capoparte, Storia politica di Roma durante le ultime lotte di supremazia, Firenze 1933.

Cenni bibliografici generali: E. Pais, in Studi storici per l'antichità classica, IV (1911); B. Lavagnini, Cenni bibliografici di storia romana, nel vol. II della Storia romana di Hartman e Kromayer, Firenze 1922; G. Giannelli, in Aevum, 1928; G. Sanna, nella Notizia bibliografica di Storia romana, in appedice alla traduzione ital. della Storia romana di T. Frank, Firenze 1932.

ETÀ IMPERIALE.

La genesi dell'Impero. - Cesare aveva lasciato poco di compiuto: anche dei suoi progetti è difficile dire quale estensione precisa e quali conseguenze avrebbero dovuto avere nelle sue intenzioni. Incerta è perfino l'intenzione di assumere veste di re, che pure sarebbe sotto tanti aspetti chiarificatrice del suo programma. Ma egli aveva lasciato molto di più di una semplice riorganizzazione politica o anche costituzionale: egli aveva fatto di sé un'idea, che prendeva vita dal corso più profondo di tutta la storia antica ed era densa dei secoli avvenire. L'opera di Roma repubblicana aveva dissolto l'equilibrio politico del bacino del Mediterraneo creato dai successori di Alessandro Magno con la tacita - quasi invisibile - collaborazione di Cartagine: un equilibrio, la cui instabilità era intrinseca, perché si fondava esclusivamente sulle guerre reciproche per impedire eccessivi spostamenti di potenza, mentre d'altro lato pressoché tutti gli elementi del complesso perdevano ogni giorno della loro vitalità per il disfacimento interno, che in Grecia si manifestava con le lotte di classe, la denatalità, il depauperamento, in Siria con il distacco di intere provincie, in Egitto con le rivolte degli indigeni e la correlativa egittizzazione dello stato dei Macedoni. A un tale equilibrio, in cui, dopo un primo periodo di splendida fioritura di iniziative, il logoramento interno e quello esterno andavano di pari passo, Roma aveva contrapposto una forma politica, che potenzialmente significava il ritorno all'impero universale di Alessandro. Né dalla fine del sec. III a. C. erano mancate realizzazioni concrete in tale senso: delle quali basti ricordare l'allargamento dei rapporti commerciali e la tutela della cultura greca, quest'ultima favorita dall'ormai antica assimilazione che se ne era fatta in Roma e dalla mediazione dell'Italia greca. Per di più, i circoli intellettuali di Roma - esempio tipico gli Scipioni - avevano saputo afferrare quell'esigenza etica, di giustizia, di concordia e di pace, che i Greci avevano posto nelle loro elaborazioni teoretiche a criterio del dominio del più forte e a cui, come a ideale, si erano confrontati gli stati ellenistici.

Ma le classi dirigenti degli ultimi due secoli della Roma repubblicana avevano sentito l'urgenza di due altri compiti: il consolidamento di sé stesse e, soprattutto, quello della compagine politica, economica e militare dell'Italia. Due compiti (anche il primo) troppo serî e troppo decisivi, nelle loro reciproche interferenze, perché si possano tacciare di corta vista se la loro attuazione, che significò la costituzione di una élite politica e militare di valore durevole, portò a conseguenze, che erano la negazione di ogni equilibrio: nelle provincie, sfruttamento e degradazione morale; nell'Italia stessa, vastissima proletarizzazione dei piccoli possidenti, che metteva in pericolo l'unità politica faticosamente acquisita. Comunque, basta osservare quelle vicende parallele, e anche materialmente collegate, che sono le ribellioni della Spagna da Viriato a Sertorio, dell'Oriente ellenistico con Mitridate e dei proletarî italici con la guerra sociale e con la lotta antisillana, per constatare la vastità del malessere che incideva su tutte le parti dell'impero e si aggravava nelle stesse distruzioni di uomini e di beni economici in cui trovava sfogo. Se le provincie, secondo la classica definizione, erano i poderi che il popolo romano possedeva (praedia populi romani), i legionarî erano lo strumento di un'amministrazione ai cui redditi partecipavano in misura minima.

La necessità di restaurare la vita delle provincie assumeva perciò il valore di lotta contro l'oligarchia predominante in Italia e poteva quindi associarsi - in un connubio che a prima vista sembra paradossale - con la reazione dei proletarî italici, che, ammessi nell'esercito da Mario, avevano imparato a identificare la propria fortuna con quella del loro generale, e semiconsapevolmente - come proletarî - e seminconsapevolmente - come soldati - opponevano un'autorità nuova al governo del senato. Il punto di convergenza dei due movimenti era sempre un uomo singolo, che sia le provincie sia le legioni tendevano a estrarre dal complesso dello stato romano per riconoscersi sottomesse direttamente a lui: dagli Scipioni che fondarono il loro potere sulla Spagna, a Mario che ebbe dietro di sé l'Africa e la Sicilia (oltre che molte parti dell'Italia continentale), a Silla che si valse delle forze dell'Oriente, a Cesare che conquistò la Gallia prima di dominare l'Italia, fino poi ad Antonio, signore dell'Oriente, e a Ottaviano che stringe a sé di giuramento le provincie occidentali, si scorge sempre dietro i più solidi poteri personali, oltre che le legioni, almeno una provincia. Ma quando appunto sorge, con Cesare, l'uomo in cui la costituzione del proprio potere sulla base dell'esercito proletario e di una riduzione del distacco tra l'Italia e le provincie è perseguita con profonda (se pure forse più profonda che lucida) consapevolezza, siamo all'Impero. Anche se le provincie orientali non avessero avuto, tra i modi di esprimere la propria influenza, cioè, poi, implicitamente i loro desiderata, la concezione del sovrano, che, essendo superiore a tutti i suoi sudditi, tutti li parifica davanti a sé e perciò tende a eliminare le differenze fra dominati e dominatori; anche se in tal modo esse non avessero offerto una concreta connessione storica con l'ideale di Alessandro Magno, si dovrebbe già di per sé riconoscere che con Cesare si ha il momento decisivo dell'elevazione dello stato romano a cosmopoli. Quel che era realtà potenziale fin dal momento in cui lo stato romano aveva assunto l'eredità degli stati ellenistici, ora diventava nettamente realtà effettiva, e non è necessario dire con quale diversa maturità politica, con quale diverso orientamento, non solo geografico, di fronte ai piani di Alessandro, lo diventava. Tutto è detto nella constatazione che presso i più varî popoli, Cesare, e non Alessandro, è diventato il simbolo dell'autorità imperiale.

L'Impero significava insomma l'assunzione a problema massimo dello stato romano, l'armoniosa collaborazione dei singoli elementi eterogenei, che lo componevano, mentre un uomo, l'imperatore, sostenuto dall'esercito, si elevava a forza regolatrice da cui quella collaborazione dipendeva. L'impero significava quindi pace - la pax romana - non solo nel senso più contingente di mettere fine a contese intestine, ma anche nella finalità più profonda di soddisfare a quell'ideale che, concretatosi in Grecia nel sec. IV a. C. sotto il nome di "pace comune" (κοινὴ εἰρήνη), attraversa tutta l'età ellenistica asserendo la necessità dell'abolizione delle guerre fra i partecipi di civiltà identica.

L'Impero di Augusto: il principato. - Che Cesare trovasse la più viva resistenza, di cui fu vittima, nell'aristocrazia da cui proveniva, è solo nell'ordine delle cose. Occorre aggiungere, per la comprensione non solo dell'opposizione a Cesare, ma anche di quella, che si perpetua lungo i secoli dell'Impero, che l'oligarchia romana era consapevole di esercitare nel proprio ufficio di governo un compito etico e perciò identificava la libertà della propria azione politica con la libertà senz'altro e in ogni limitazione scorgeva un attentato alla dignità delle persone libere fino al punto, anche per influsso dello stoicismo, di dare luce di martirio alla propria resistenza: Catone Uticense è il prototipo del martire aristocratico romano dell'Impero. Ma, per quanta efficacia si voglia riconoscere a questa resistenza nel consigliare a dare forme più rispettose della tradizione alla costituzione imperiale (v. oltre), si deve però ammettere che la sua repressione immediata (sconfitta di Bruto e Cassio a Filippi nel 42) confermava la sua incapacità definitiva a poter reggere lo stato: nonostante il prestigio della tradizione che difendevano, nonostante le vaste clientele personali, che mal si saprebbero scindere del resto dal prestigio ora accennato, i repubblicani, per non aver dietro di sé solidamente eserciti e provincie, si scompaginarono per sempre. Il fenomeno più interessante degli anni posteriori alla morte di Cesare non è dunque in questa liquidazione di un ordinamento oltrepassato, ma nelle incertezze di coloro che avevano assunto l'eredità del dittatore ucciso. Ci furono senza dubbio fortissimi contrasti personali, con relativi intrighi e complicazioni: specialmente tra Antonio, che credeva di essere e forse per taluni aspetti era il più fedele continuatore di Cesare, e Ottaviano, che, giovandosi della sua parentela con l'ucciso, resa più stretta dall'adozione, e dalla stessa indeterminatezza iniziale della propria azione politica, suscitatrice di molte illusioni, aveva saputo invece farsi riconoscere generalmente come l'esecutore e il vendicatore di Cesare. Ma la ragione più vera dei dissidî stava in re, nelle stesse varie possibilità che si offrivano alla prosecuzione dell'opera di Cesare e in modo particolare nelle due esigenze a cui egli aveva obbedito mantenendo al suo esercito un carattere prevalentemente italico, e quindi già per ciò riconoscendo un primato all'Italia, e d'altro lato inaugurando una prassi almeno potenzialmente cosmopolita. Le vicende personali di Antonio, su cui, più ancora che su Cesare, si esercitò l'influsso orientalizzante della sovrana dell'Egitto Cleopatra, valsero ad accentuare il dissidio tra di lui, che riprendeva e portava a inaspettate conseguenze il programma cosmopolitico di Cesare, e Ottaviano, che invece, comprendendo sempre meglio il valore di quella tradizione italica, militare e politica, a cui, ripetiamo, il padre adottivo era stato ancora ben lontano dal rinunciare, cercava di consertare il proprio dominio personale con una forma politica che permettesse di assorbire le energie spirituali dell'Italia e quindi conservasse il suo primato, tutelasse le sue convinzioni religiose e morali, non creasse una frattura netta col governo dell'oligarchia senatoria.

Poco importano qui le fasi attraverso cui il dissidio personale si venne acuendo e il conflitto di idee si venne chiarendo. Il significato del cosiddetto secondo triumvirato (in realtà il primo e unico che avesse un valore di diritto e una portata costituzionale), che fu formato, per un quinquennio, da Antonio, Ottaviano e Lepido nel novembre dei 43 e durò formalmente, a quanto pare, per un successivo rinnovo sino alla fine del 33, non è nella sua funzione contingente, sparita con la sconfitta dei comuni nemici a Filippi pochi mesi dopo, ma nel regime di eccezione per cui anche dopo Cesare le normali istituzioni repubblicane continuavano nel loro processo di esautoramento. La vittoria di Azio (settembre 31) di Ottaviano su Antonio e Cleopatra morti poco dopo (ma la guerra era stata aperta solo contro Cleopatra) segnò la consacrazione del primato italiano di fronte all'impero orientalizzante, non eliminò tuttavia il risultato già acquisito con Cesare: che lo stato romano dovesse essere governato da uno solo, da cui dipendesse l'esercito e questo solo, pur con le sue preferenze personali, dovesse assumersi innanzi tutto una funzione equilibratrice.

Quando si parla della connessione esistente fra il programma messo in atto da Ottaviano dopo la vittoria e le intenzioni di Pompeo, si dice certamente il giusto nel senso che entrambi provarono rispetto per la tradizione italiana e in particolare per l'autorità del senato e vollero inserire il loro potere sul tronco repubblicano con il conferimento da parte del senato di poteri eccezionali alle loro persone. Ma, a parte l'incommensurabilità che esiste sempre fra le intenzioni non realizzate e le realizzazioni effettive, si deve aggiungere che, nonostante queste somiglianze, Ottaviano fu di fatto, come volle essere, più vicino a Cesare che non a Pompeo e, in altre parole, accolse, a differenza di Pompeo, quelle che più sopra definimmo le due caratteristiche dell'impero: perché da Cesare mutuò la stabilizzazione del proprio potere sull'esercito, a cui Pompeo rinunciò invece consapevolmente, e il diretto assoggettamento delle provincie, di cui Pompeo non si valse se non in misura limitatissima, come è esempio tipico la sua incapacità di costituirsi una solida base militare e finanziaria in Spagna, che pure si era fatta assegnare per contrapporla alla Gallia di Cesare.

L'impero di Ottaviano si differenzia dunque da quello di Cesare solo perché si sforza di asservire o, meglio, di potenziare le energie della Roma repubblicana nel nuovo ordine. Donde la condizione di privilegio riservata all'aristocrazia repubblicana dei senatori e dei cavalieri (la prima solo allora costituita in ordine ben delimitato) con il compito di ricoprire tutte le alte cariche dello stato; donde la fervida campagna per il rinvigorimento delle antiche tradizioni religiose e morali; donde soprattutto la cura che le stesse prerogative attribuite al suo nuovo potere personale apparissero giustificabili dal punto di vista del diritto repubblicano, evitando ogni aspetto di usurpazione o di monarchia (o di dittatura nel senso inviso di usurpazione datole da Silla e Cesare medesimo). E fu, quest'ultimo, un compito cosi difficile da richiedere successive soluzioni, sempre meglio adeguate.

Il problema si era già posto ancora prima della battaglia di Azio quando alla fine del 33 Ottaviano, per la scadenza del triumvirato, si era trovato alla vigilia di essere privo di ogni potere legale. Allora egli aveva escogitato la soluzione di impedire con il veto di un tribuno che l'abrogazione del potere triumvirale fosse proclamata dai comizî e poi di legare a sé con un giuramento rivoluzionario, pari a quello dei soldati per il loro generale, tutti gli Italici e i sudditi delle provincie occidentali. Ma egli non poteva durare a lungo su una piattaforma costituzionalmente così equivoca come il prolungamento dell'autorità triumvirale imposto con un veto o un giuramento, che si connetteva solo di lontano con le consuetudini della repubblica. Perciò già nel quadriennio 31-28 egli cercò di dare una maggiore parvenza di legalità, assumendo a continuazione la carica di console e accentuando quella originaria estensione dell'impero consolare, che, inesistente da secoli nella pratica, non era sparita in tutto nella coscienza giuridica. Ma è ovvio che la collegialità del consolato poneva dei limiti a uno svolgimento costituzionale in questo senso, che pure tornerà più volte ad affiorare nel corso della storia romana (Caligola, Nerone, i Flavî, ecc.) rimanendo però sempre allo stato embrionale. Né bastavano a rendere salda l'autorità personale di Ottaviano le prerogative tribunicie dell'inviolabilità e dell'ausilio, già a lui attribuite rispettivamente il 36 e il 30 a. C. Perciò il 13 gennaio 27 a. C. era messo in atto un nuovo ordinamento in cui il controllo di fatto svolto sino allora su esercito, provincie e finanza trovava la sua forma legale duratura, mentre nello stesso tempo, con un tratto geniale, veniva riconosciuto al senato un compito, che evitava di renderlo un doppione inutile dell'attività imperiale. A Ottaviano era affidato per dieci anni (poi prorogato) l'imperio proconsolare sulle più importanti provincie di confine (Spagna Tarraconense, Lusitania, Gallia Narbonese, Gallia Comata, Siria, Egitto, in una posizione particolare, e più tardi anche l'Illirico), il che importava il diritto di nominarvi proprî legati e avviava alla costituzione di casse speciali per le entrate di queste provincie, che si fonderanno poi in un fisco contrapposto all'erario, l'antica cassa statale: poiché in queste provincie era raccolto quasi tutto l'esercito, anche il suo comando spettava naturalmente a Ottaviano. Ma era in tal modo riconosciuta al senato l'amministrazione sulle restanti provincie col relativo controllo dell'erario.

Benché la perfetta costituzionalità dell'atto potesse fare asserire più tardi allo stesso imperatore nel suo regesto (Monumento Ancirano) che egli aveva restaurato nel 27 gli ordinamenti repubblicani (rem publicam ex mea potestate in senatus populique romani arbitrium transtuli), non c'era dubbio già d'allora che quell'imperio proconsolare equivalesse a un predominio non solo militare, ma anche finanziario, per essergli attribuite le provincie più redditizie dell'Impero, come la Gallia e soprattutto l'Egitto - annesso nel 30 in conseguenza della vittoria su Cleopatra - tale da superare di gran lunga i mezzi a disposizione del Senato. Ma, come è ovvio, lo squilibrio non era solo nelle forze materiali: era nell'autorità che l'imperatore si faceva riconoscere. Perciò tre giorni dopo, il 16 gennaio 27, un'altra seduta del senato gli attribuiva il titolo di Augusto, il cui significato più religioso che giuridico (nella sua connessione etimologica con auctoritas, augeo, ecc.) valeva a indicare nell'elevazione al di sopra degli altri uomini il fondamento primo del potere imperiale. Quando Augusto continuava ad asserire di essere stato superiore ai suoi colleghi di magistratura solo in autorità, non in potestà (post id tempus auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri qui mihi quoque in magistratu collegae fuerunt), diceva cosa discutibile per quel che riguarda la potestà, cioè i singoli poteri da lui accumulati, ma giusta senza dubbio per la sua superiorità in autorità. Ancora una volta egli aveva trovato il modo, evitando di ricorrere a qualsiasi forma di divinizzazione in vita, che era estranea alla tradizione romana, di attuare però la condizione indispensabile di una conseguente autocrazia: il riconoscimento del valore sovrumano dell'autocrate. Va osservato che siffatta elevazione era già stata preparata sin dal 43, allorché per iniziativa del triumvirato era stata proclamata l'assunzione in cielo come Dio del morto Cesare (apoteosi) e perciò automaticamente Ottaviano era diventato per la sua adozione Divi filius, di origine divina. Né è senza colore di paradosso che il senato, da cui infine emanava la stessa autorità di Augusto, la proclamasse in forma da riconoscerla trascendente a sé stesso.

Augusto era tuttavia troppo realista, e anche troppo rigorosamente giurista, per potersi accontentare che la superiorità di diritto nei conflitti d'ordine amministrativo col senato potesse avere il solo fondamento religioso. Nel 23 provocherà un ulteriore allargamento del suo potere, che sarà il decisivo. L'imperio proconsolare era esteso a tutto l'Impero e sovrapposto al potere dei proconsoli ordinarî nelle provincie senatorie con la forma dell'imperium maius già ripetutameme usata nella decadenza del periodo repubblicano. Il diritto di veto completava con l'inviolabilità e l'ausilio già preesistente la potestà tribunicia dell'imperatore senza i limiti di tempo (un anno) e di spazio (in Roma) propria dei tribuni: ogni attività dello stato, e in particolare quella legislativa, era con ciò posta sotto il controllo imperiale, mentre naturalmente ne restava paralizzata l'opera dei tribuni, il cui veto era subordinato a quello imperiale. Augusto aveva ora tale somma di prerogative da poter rinunciare ad assumere annualmente il consolato. Non sarà il caso qui di discutere come da queste fossero fatte discendere le principali manifestazioni pratiche del potere imperatorio, quali il diritto di pace e di guerra, il diritto di emanare editti, il diritto quasi esclusivo di monetazione (al senato non rimarrà, e in misura limitata, che la monetazione in bronzo), il diritto di raccomandare proprî candidati alle cariche, la funzione di censore, ecc. Né hanno per il nostro scopo molto interesse altre prerogative minori, come quelle piuttosto enigmatiche e da taluno messe in dubbio, concesse ad Augusto nel 19, e che sembra avessero lo scopo di completargli l'attribuzione delle distinzioni e dei poteri consolari, anche quando console non fosse. È invece di sommo rilievo l'assunzione nel 12 a. C. del pontificato massimo, già tenuto da Cesare: con il rendere permanente l'attribuzione del pontificato al capo dello stato era di per sé semplicemente riaffermato il concetto romano del dovere dello stato (e quindi ora del suo nuovo capo) di conservare la pax deorum, cioè di mantenere gli dei propizî, ma erano poste le basi di quello che in età cristiana diventerà il cesaropapismo.

In tal modo Augusto costituiva il suo potere imperiale. Il potere derivava totalmente dal senato, e quindi dal popolo romano, che infatti in una parvenza di comizî sanzionerà sempre con l'acclamazione la nomina di un nuovo imperatore: l'opinione moderna che la proclamazione di un imperatore poteva venire anche dall'esercito si è rivelata giuridicamente erronea, perché le salutazioni imperiali delle truppe potevano solo servire di designazione al senato. Ma così l'autorità dell'imperatore come le sue forze militari ed economiche erano indipendenti dal senato. In ciò starà, come vedremo, il dissidio intrinseco al governo imperiale, ogni imperatore potendo, anzi dovendo, per un verso sentirsi funzionario del popolo romano, per un altro padrone dello stato.

Solo Augusto poteva vivere in una profonda unità l'ordinamento creato da lui stesso, appunto perché da lui stesso era creato. Il segreto della sua personalità non è in altro che in questa sintesi vissuta con un'esperienza, che diventerà esemplare per i successori, ma sarà nella parte più intima irriproducibile. Il principato, come forma di impero, in cui il sovrano è primo (dunque principe) tra i pari, eppure non è pari, è l'opera sua esclusiva: come non si riprodurrà mai più l'atmosfera mistica e realistica del suo governo, dove l'aspirazione ardente alla pace è nello stesso tempo fervore pensoso di costruzione. Augusto è unico, come sono distaccati nella storia dello spirito romano Virgilio e Orazio e Livio e la gravità malinconica dell'Ara Pacis.

L'enorme quantità di cose fatte da Augusto sta a dimostrare a quale bisogno di un riordinamento corrispondesse il principato: in tale senso già accennato, il bisogno di pace così caratteristico dei primi anni del suo governo non era altro che una particolare espressione del bisogno di riordinamento. L'esercito era ricostruito, ridotto a poco meno di un terzo (venticinque) delle legioni messe in campo durante le guerre civili; il volontariato di cittadini romani con ferma lunga era sostituito di fatto alle leve, portando all'estremo un fenomeno già del periodo repubblicano; gli ausiliarî (tratti dai provinciali) erano notevolmente accresciuti; allargando la normale guardia del corpo di ogni generale, era costituita per l'imperatore la milizia scelta e privilegiata dei pretoriani, con a capo uno o due prefetti, e stanza in Italia (da Tiberio in poi presso Roma); le altre truppe erano collocate ai confini, evitando la costituzione di un corpo di manovra. Pari trasformazione subivano le finanze, ora avviate a dividersi nelle due branche dell'erario e del fisco. L'Italia era privata del privilegio dell'immunità tributaria con l'imposizione di due tasse sulle successioni e sugli affari, destinate ad alimentare lo speciale erario militare per il pagamento dei premî di congedamento ai veterani; in compenso le provincie avevano i tributi riordinati con criterî di maggiore equità, a cui servivano le indagini statistiche (censimenti) e descrittive (carta dell'Impero di Agrippa). Già in ciò era visibile la politica di risollevamento delle provincie, che avrà la sua più tipica manifestazione, per molte di esse, nella costituzione di assemblee provinciali; ed è veramente caratteristico che esse fossero costituite con il compito di provvedere al culto imperiale ufficiale, che si veniva organizzando, perché ne veniva plasticamente espressa la diretta connessione delle provincie con la maestà imperiale. S'intende che quelle assemblee avevano poco o molto il carattere di rappresentanti degli interessi delle provincie rispettive. L'allargamento dei confini dell'Impero assumeva in genere carattere di rettificazione per esigenze di difesa: così, forse, erano sentite non solo le imprese che portarono al completamento dell'occupazione in Spagna o al pieno dominio della regione alpina con la conquista della Rezia e Vindecia e del Norico e la riduzione del regno di Cozio a prefettura, ma anche le altre imprese che, incorporando Pannonia e Mesia, diedero all'impero il Danubio per confine, senza contare le misure più o meno pacifiche per cui furono fatte rientrare nel regime provinciale la Galazia e la Giudea. Fu ricostituito lo stato vassallo di Mauritania, furono riordinati quello bosforano e quello di Armenia, conteso alla Partia. Ma chi pensi all'estensione guadagnata dall'Impero con l'annessione della Pannonia e della Mesia non esiterà a riconoscere che, invece, l'Impero aveva di fatto ripreso la sua marcia di conquista: il dominio universale, cosciente come non mai nell'animo dei Romani, portava a scorgere come misura di difesa ciò che era conquista. Un atteggiamento che vorrebbe certo più sottile analisi per essere del tutto compreso. È tuttavia per lo meno chiara la ragione per cui noi non scorgiamo più facilmente tale ripresa, in cui la continuità con l'aspirazione universalistica di Cesare si paleserebbe. Fallirono infatti (a prescindere dall'espansione in Arabia tentata invano nel 25-24 a. C.) i due maggiori piani in tale senso: la conquista della Germania, almeno fino all'Elba, e la sottomissione della Partia al protettorato romano, di quella Partia che proprio uno storico augusteo, Trogo Pompeo, definiva come l'antagonista di Roma nel dominio delle genti. Non ha alcun interesse indagare ora, posto che sia indagabile, se Roma avrebbe avuto le forze di compiere durevolmente entrambe le sottomissioni. Interessa che Augusto volle l'impero universale, ma non si impegnò a fondo per attuarlo territorialmente: vedremo meglio in seguito come l'organizzazione da lui data all'esercito e alla finanza romana avesse la parte principale nel creare questa discrepanza tra le sue intenzioni e le sue realizzazioni. Era il secondo dissidio, accanto a quello specificamente costituzionale (e, come è ovvio, ad esso collegato), che Augusto lasciava ai suoi successori.

I successori di Augusto. - Un primo sguardo alla storia dell'Impero nei due secoli che vanno dalla morte di Augusto (14 d. C.) all'assassinio di Severo Alessandro (235 d. C.) è forse necessario prima di scendere a una più attenta valutazione dei suoi caratteri intrinseci. Nelle biografie imperiali si riflettono episodicamente quei motivi che poi occorrerà fermare.

Il figliastro Tiberio, che succede ad Augusto (14-37), ha subito da domare una serie di ribellioni militari sul Reno e in Pannonia: il suo programma è di continuare l'opera di Augusto nel senso della più stretta collaborazione col senato, ed egli vi pone tutta la sua scrupolosità esemplare. Ma il suo carattere freddo e tagliente non è fatto per attrargli simpatie; il suo celato conflitto con il nipote Germanico, destinato a succedergli per volontà di Augusto, idolo dell'esercito e dell'aristocrazia, al quale impedisce la ripresa di un'espansione militare in Germania e di cui controlla passo a passo una missione in Oriente, accresce il suo distacco dall'ambiente che lo circonda, tanto più dopo che Germanico muore misteriosamente (19). Perciò egli è costretto a riporre sempre maggiore fiducia nella sua guardia pretoriana e nell'uomo che la comanda, Elio Seiano: i pretoriani vengono da allora a essere assunti come garanti della continuità del principato. Seiano sa sfruttare la situazione e mira a succedere a Tiberio, il quale, chiuso in un cupo pessimismo, dà l'impressione di lasciar fare e si ritira a Capri. Ma anche quando, giunto a convincersi che Seiano lo tradisce, non esita a colpirlo, egli continua a sostenersi sui pretoriani e appesantisce l'atmosfera di persecuzione, che sembra infirmare l'opera silenziosa della quotidiana amministrazione con cui egli ha consolidato il principato. L'effetto di quest'opera e del peso dei pretoriani diventa palese solo alla sua morte. Il senato infatti non può fare a meno di riconoscere che è inevitabile la scelta di un successore, e tra le due ultime propaggini della casa Giulia, Tiberio Gemello, figlio di un figlio premorto dì Tiberio, e Gaio (Caligola), figlio di Germanico, sceglie naturalmente il secondo, che ha anche il favore dell'esercito. La discendenza suona garanzia per le intenzioni del giovinetto principe; ma in Caligola (37-41) agisce soprattutto l'eredità del triumviro Antonio, di cui era pronipote. Il nuovo sovrano infantilmente inesperto non vuole essere principe, ma despota all'orientale e per ciò anche essere Dio. La reazione, favorita dall'esito ridicolo di due tentate imprese in Britannia e in Germania e dallo sperpero del pubblico denaro faticosamente economizzato da Tiberio, è rapida; Caligola cade vittima di una congiura degli stessi pretoriani, i quali però, mentre il Senato esita fra aspirazioni repubblicane e candidati proprî, assicurano di nuovo la stabilità del principato, proclamando imperatore un fratello di Germanico, rimasto nella famiglia Claudia perché non adottato da Tiberio, Tiberio Claudio (41-54). Claudio, cresciuto negli studî, si rivela di un tratto una forte tempra di uomo d'azione, riflessivo e maturo. Manca tuttavia a lui, come ai predecessori, l'equilibrio. Convinto in teoria della necessità di rispettare le prerogative senatorie, è però d'altra parte convinto che occorra accelerare il processo di fusione dei varî elementi dell'Impero. La sua politica è in conclusione accentratrice. I liberti diventano i suoi principali collaboratori. I provinciali sono favoriti. L'autonomia dell'erario di fronte al fisco è sempre più infirmata. Più ancora che sotto i suoi predecessori l'aristocrazia ha da soffrire in condanne e confische. Solo l'esercito, a parte una piccola ribellione all'inizio del regno, è fedele all'imperatore, che ha ripreso a portare avanti i confini dell'Impero e in due facili guerre ha annesso la Mauritania e la parte meridionale della Britannia, mentre senza colpo ferire ha ridotto a regime provinciale lo stato vassallo di Tracia. Anche la Giudea, dapprima restaurata in stato vassallo, è nel 44 ricondotta per la maggior parte a provincia. Il suo governo è dunque ancora un passo nel consolidamento dell'autorità imperiale a spese del senato. L'ostilità ha facile presa intorno a un imperatore dalla vita familiare disgraziatissima. Costretto a far uccidere la terza moglie Messalina, è - forse - avvelenato dalla quarta, la nipote Agrippina, figlia di Germanico, che era riuscita prima a persuaderlo a preferire il figlio da lei avuto in un antecedente matrimonio, Domizio Nerone, al figlio di lui e Messalina, Britannico. I primi tempi in cui Agrippina tiene il governo in nome di Nerone (54-68), troppo giovane, vogliono essere appunto di reazione alle tendenze di Claudio: Agrippina, a differenza di Caligola, ci tiene a conservare le simpatie aristocratiche verso la famiglia di Germanico e cerca di congiungerle con l'appoggio dei pretoriani rappresentati dal prefetto Burro e con il consiglio di un filosofo, Seneca, che ha volontà e abilità di politico. Presto però l'influenza di Agrippina è eliminata. Tanto Seneca quanto Burro, dominato dalla personalità di Seneca, aspirano infatti a una monarchia illuminata, non a un principato: comincia da loro e si spande per tutto l'Impero un'esaltazione dell'altezza dell'autorità imperiale fino allora inusitata. Nerone è in ciò perfettamente d'accordo con loro. L'atteggiamento di signore e salvatore del mondo corrisponde alle sue vaghe aspirazioni mistiche, alla sua esaltazione di incipiente poeta e musico. Egli è però nel fondo dell'animo troppo rozzo e amorale (senza contare l'inesperienza di ogni pratica di governo) per comprendere gli aspetti positivi del programma che Seneca gli propone. Finisce per scorgere in Burro e Seneca, come già in Agrippina - da lui uccisa nel 59 - degli ostacoli: perciò, morto Burro di morte naturale, allontana da sé l'antico maestro (62). Da allora egli si avvolge sempre più in un esibizionismo goffo e meschino, in cui prevalgono atteggiamenti esteriori di sovrano ellenistico, p. es., l'istituzione dei cosiddetti Augustiani, tratti dai giovani dell'aristocrazia, che non è altro se non l'introduzione in Roma dei paggi regali (βασιλικοὶ παῖδες) delle corti ellenistiche. Tutto ciò, come poi il viaggio in Grecia, può rappresentare un tentativo di attrarre le simpatie della parte orientale dell'Impero, che vedremo sempre meglio scissa dall'occidentale per una cultura e una struttura sociale diversa; ma il tentativo non sa, in ogni caso, fare presa su interessi e aspirazioni consistenti. I problemi serî dell'Impero non toccano Nerone. La tradizione militare dell'Impero gli offre in Corbulone un generale di primo ordine che gli sa condurre a buon termine una lunga guerra con i Parti per il predominio sull'Armenia: la lotta finisce con l'impegno del principe partico, a cui è attribuito il trono di Armenia, di considerarsi vassallo romano, e infatti egli verrà a Roma a farsi incoronare re nel 66. Un altro generale, Vespasiano, lavora a reprimere la ribellione scoppiata in Giudea nel 66 Nello stesso 66 la maggiore preoccupazione di Nerone è di organizzare un giro trionfale in Grecia, inizio di non si vede bene quali altre imprese in Oriente. A quella parte della Grecia che non era considerata federata di Roma, ma nella condizione di comune provinciale, egli concede l'autonomia e quindi l'immunità tributaria. Gli uomini migliori si allontanano naturalmente anche da lui. Le confische e le condanne continuano a decimare le vecchie famiglie aristocratiche. Seneca è travolto dalla congiura pisoniana del 65, Corbulone da una congiura più misteriosa dell'anno dopo. Il malcontento si diffonde nelle provincie occidentali, che si vedono preferita la Grecia. Al principio del 68 Nerone, da più di un anno in Grecia, è richiamato in Italia da questa situazione pericolante. Nulla del resto è capace di fare per restaurare il suo prestigio. Il Gallo romanizzato Giulio Vindice, governatore della Gallia Lugdunense, dà il segnale della ribellione. Represso il suo moto, lo continua il governatore della Spagna Tarraconense Sulpicio Galba con l'appoggio di Otone, governatore della Lusitania, l'ex-marito di Poppea, divenuta poi moglie di Nerone (e allora già morta). I pretoriani di Roma si pronunciano per Galba, e Nerone abbandonato deve uccidersi nel giugno 68.

La famiglia giulio-claudia sparisce. I soldati, vincolati a lei da una tradizione quasi secolare di fedeltà, si smarriscono; la volontà dei pretoriani, già di per sé non troppo decisa, come i fatti dimostrano, non è poi sufficiente a imporre la propria scelta ai commilitoni delle provincie, ora che manca il vincolo dinastico: più che garanti di una continuità costituzionale, essi sono diventati arbitri capricciosi del trono. I maggiori aggruppamenti militari si accorgono di poter imporre allo stato un loro generale come sovrano, ottenendone i correlativi vantaggi. I primi a tentare sono i soldati del Reno, acclamando Vitellio (1° gennaio 69). I pretoriani di Roma poco dopo si lasciano corrompere da Otone, venuto in conflitto con Galba, e lo nominano imperatore uccidendo il rivale. Le truppe vitelliane calate in Italia come a terra di conquista sconfiggono Otone e gli si sostituiscono: alla loro volta vengono battute dalle legioni di Oriente che hanno voluto opporre all'imperatore delle legioni del Reno il loro imperatore, Vespasiano (fine del 69-70).

Il dissidio del principato, per cui il diritto di proclamare l'imperatore spetta a chi - il senato - non ha la forza per imporlo, si risolve nel 69 con il trionfo della forza effettiva. Il principato sembra finire nella guerra civile. Eppure è assai degno di riflessione che l'imperatore condotto in tal modo al potere riaffermi la sua fede nella costituzione augustea e la ripresenti come suo programma. Egli fa reprimere dal figlio Tito la prolungantesi ribellione giudaica e sa regolare con altrettanto successo la ribellione delle provincie renane organizzate dal batavo Giulio Civile (70); e poi si dedica interamente - oltre che al riassetto economico ottenuto a forza di eroici risparmi - alla ricostruzione di un ordinamento che non possa più essere infirmato dai soldati. Il metodo però si rivela subito poco augusteo e ha del paradosso. Vespasiano, il tipico soldato proveniente dalla piccola borghesia italica, attribuisce in sostanza alla formazione italica delle legioni la mancanza di disciplina dell'esercito. Perciò egli inizia il sistema di reclutare le legioni quasi esclusivamente nelle provincie, e in particolare nelle provincie occidentali. Agli Italici viene riservata solo la maggioranza nei pretoriani, del resto diminuiti di numero e posti sotto il comando diretto del figlio dell'imperatore, Tito. Per quanta potesse essere in tali condizioni l'importanza del pretorio (sempre vivaio dei centurioni dell'esercito), a cui restava la tutela del potere imperiale, è ovvio che questo sistema consacrava la decadenza politica dell'Italia già sminuita nella decimazione della sua aristocrazia e per i saccheggi a cui l'avevano sottoposta i soldati nel 69. Infatti con Vespasiano il moto di favorire le provincie, di attrezzarle in modo da fornire uomini per l'esercito e per l'amministrazione, si accelera: la Spagna ha il riconoscimento della sua progredita romanizzazione con l'attribuzione del diritto latino. Non altrettanta fiducia l'imperatore dimostra per l'Oriente, e anzi, toglie ai Greci l'autonomia concessa da Nerone: nel che è ovvia la reazione alla politica filo-orientale di quest'ultimo. Si viene dunque sempre più costituendo con Vespasiano una nuova aristocrazia provinciale, che lentamente sostituisce l'italica. Questa tuttavia resiste ancora, riconoscendo subito il distacco da Augusto, e ha alleati i filosofi, che portano nella polemica contro Vespasiano non solo le loro ideologie, ma anche l'antipatia degli ambienti ellenistici, da cui in maggioranza provengono. Perciò ancora una volta tra l'imperatore che si proclama seguace di Augusto e l'aristocrazia sorge un dissidio: è però sintomatico che esso sia meno profondo, tanto che la tradizione non rappresenta senz'altro Vespasiano come un nemico del senato o della libertà. Il dissidio - dopo il fuggevole regno di Tito (79-81) - diventò aspro solo al tempo del seeondo figlio e successore di Vespasiano, Domiziano (81-96), ma allora tornò a coinvolgere tutta l'aristocrazia anche non italica e fu forse perfino un crogiuolo di fusione tra questi uomini di provenienza e di tendenza varia. Domiziano accentuò i caratteri assolutistici del governo dei predecessori fino ad assumere gli atteggiamenti del "signore e dio" (dominus et deus), che ricordavano Caligola e Nerone. La logica dell'assolutismo lo portava verso le forme orientali, mentre egli, quale cultore di divinità italiche e in specie di Minerva, era in sé pochissimo propenso, come Vespasiano, a subire influenze ellenistiche. La sua lotta col senato assunse l'estrinsecazione più tipica nella carica di censore perpetuo, che egli si addossò per rendere esplicito il controllo permanente sul senato. L'odio che con tale politica sollevò, nonché, occorre aggiungere, l'esito disastroso di una campagna contro i Daci, in cui i Romani si ridussero a ottenere pace con il pagamento di un tributo, fecero, ancor più che per Tiberio, dimenticare tutta la seria opera condotta da Domiziano nell'amministrazione dell'Impero, soprattutto nel rafforzamento dei confini della Britannia e della Germania. In entrambe le regioni si era iniziata fin dai tempi di Vespasiano una lenta marcia in avanti accompagnata da sistematiche fortificazioni. Domiziano, oltre che accelerare il ritmo dell'occupazione, le diede un più rigoroso assetto difensivo. I due comandi militari della Germania inferiore e della Germania superiore furono trasformati in due vere provincie, e le difese proporzionate vennero a costituire il cosiddetto limes (letteralmente: confine) romano. Una congiura di palazzo d'ispirazione aristocratica, sopprimendo Domiziano nel 96, riproponeva ancora una volta il problema dell'ordinamento politico dell'Impero.

Il senato ebbe agio per il momento di proclamare imperatore un suo membro anziano, Cocceio Nerva (96-98). Tuttavia si sarebbe ritornati rapidamente a nuovi disordini (e già ne apparivano i segni premonitori), se Nerva non si fosse assicurato l'esercito scegliendo a suo successore un generale di grande popolarità, nato in provincia (da Italica in Spagna), Ulpio Traiano (98-117). Da allora per quasi un secolo, fino all'avvento di Commodo (180), il conflitto tra senato e imperatore si attenua. La spiegazione è nell'atmosfera morale che noi scorgiamo predominante in questo periodo. Senato e imperatore giungono a una conciliazione non attraverso a una riforma costituzionale, che realizzi il miracolo di armonizzare le loro pretese opposte, ma attraverso a un più alto senso del dovere comune di umanità. Il "nuovo" del periodo degli Antonini è qui: nel fine umanitarismo cosmopolitico degli uomini, che hanno posti di responsabilità. Basti pensare ad alcuni degli stessi imperatori: Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio. L'aristocrazia provinciale divenuta predominante si dimostra aliena da particolarismi di casta e di regione; non mai come allora le classi dirigenti dell'Impero hanno un'anima sola. I pretoriani sono ricondotti a quest'atmosfera e cessano per tutto il secolo di sentirsi arbitri degli imperatori. Variano però le direttive politiche dei singoli imperatori. Traiano, fatto audace dallo stesso entusiasmo che riconosce intorno a sé, spinto dall'universalismo politico in tutto il suo vigore, vuole imprimere uno slancio nuovo all'Impero con la conquista; a lui si deve l'annessione della Dacia e dell'Arabia, a cui non sono estranee ragioni specificamente economiche, data l'importanza delle miniere della Transilvania e l'entità dei traffici col Medio ed Estremo Oriente passanti per l'Arabia. Più ambizioso ancora il suo tentativo di conquistare il regno Partico, che, anche per torbidi nelle zone di confine, soprattutto dell'elemento ebraico, non poté avere attuazione se non parziale, con la conquista della Mesopotamia e della Adiabene (denominata provincia di Assiria). Ma non solo difficoltà momentanee impedirono la vittoria definitiva sui Parti. L'impossibilità di completare la conquista, e anche di mantenere il già conquistato, poste le disponibilità militari e finanziarie dell'impero, fu già riconosciuta dal successore, Adriano (117-138), che infatti ritirò le truppe dalla Mesopotamia come dall'Assiria. L'opera di Adriano fu dunque, al contrario di quella del predecessore, di raccoglimento interno. Non che Traiano avesse trascurato i sintomi di decadenza economica, ma era stato augusteo, come nella tendenza all'impero universale, nella politica sociale di sostenere l'Italia. Dopo che già Domiziano aveva pressoché proibito, naturalmente invano, la coltivazione della vite nelle provincie per favorire la viticoltura italica e dopo che Nerva aveva iniziato l'organizzazione delle "alimentazioni" per i bimbi poveri, Traiano aveva perfezionato le medesime alimentazioni ricollegandole con un sistema di crediti per i piccoli proprietarî agricoli e aveva obbligato i senatori a investire loro capitali in Italia. Adriano invece rivolse le sue cure prevalenti alle provincie, che egli esaminava in lunghi viaggi, cercando anche là di risollevare la piccola proprietà e di incitare la vita urbana con la costituzione di nuovi centri. Realista, eppure inquieto, ansioso di accompagnare la restaurazione materiale con una elevazione spirituale, che gli sembrava greca e invece preludeva già alle aspirazioni mistiche di un Giuliano l'Apostata, si interessò soprattutto della Grecia, che sperò di rifare centro vivo di civiltà e di conseguenza centro di irradiazione del prestigio romano nella parte orientale dell'Impero. Del resto, appunto per la sua duplicità di tendenze, egli diede un forte impulso ai latinissimi studî di diritto: fu voluta da lui la definitiva sistemazione e codificazione dell'editto perpetuo per cura di Salvio Giuliano. Latino fu anche nel restaurare la disciplina nell'esercito e nel conservare agli Occidentali i posti di comando, mentre ribellioni in Britannia e in Giudea richiedevano intenso sforzo; ma sia le difficoltà economiche, sia soprattutto la tendenza ad alleggerire il servizio militare favorendo le aspirazioni dei provinciali a rimanere nelle proprie regioni, lo spinsero ad allargare il reclutamento regionale. Con Adriano si intensificò il controllo delle amministrazioni locali indebitate per mezzo dei curatori già istituiti da Traiano: per analoga ragione l'Italia, a riconferma della decadenza dalla sua situazione di privilegio, fu divisa in quattro distretti, ciascuno sottoposto a un consolare, dipendente dall'imperatore, non senza malumore del senato, al cui controllo l'Italia era in tal modo praticamente sottratta. Il successore di Adriano, Antonino Pio (138-161), si contrappone a lui non tanto nel fatto singolo di avere abolito i consolari quanto nell'aver reagito al suo filellenismo con un accentuato romanesimo; e ha soprattutto valore, nella storia dell'Impero, come tipo di imperatore in cui l'ordinaria amministrazione, quasi mai turbata se non da moti provinciali e alle frontiere di secondaria importanza, assurge a dedizione profonda al bene degli uomini.

In ciò profondamente Marco Aurelio (161-180) è suo discepolo, anche se in particolari modifica i suoi ordinamenti e, p. es., ritorna al sistema dei consolari ripristinandoli con altro nome (giuridici) e rango diverso (pretorio).

Con Marco Aurelio si fa manifesta la difficoltà dell'Impero a essere governato da un uomo solo, che era già implicita in quelle parziali associazioni al potere supremo che si ripetono parecchie volte da Augusto (con Agrippa e Tiberio) in poi. Egli si associa infatti in tutto, meno che nel pontificato massimo, Lucio Vero, affidandogli una nuova guerra contro i Parti, che viene però vittoriosamente condotta, fino alla riconquista di una parte della Mesopotamia (Osroene), dal generale Avidio Cassio. Crisi economica, invasioni di tribù germaniche nel Danubio arrivanti sino in Italia e pestilenze (che fanno tra le vittime Vero nel 169) non solo impediscono l'estensione delle conquiste, ma minacciano direttamente il cuore dell'Impero. L'imperatore filosofo, dall'animo ansioso di bene, è costretto a impegnare il più delle sue energie in questa difesa aspra dei confini. Vince; ma quell'atmosfera di concordia in cui l'Impero aveva vissuto si viene dissolvendo. Durezze di guerre e disagio economico crescente cooperano a provocare la fine del tipico uomo di governo "antoniniano". Chi confronta la serenità della Colonna Traiana con la torbida passionalità della rappresentazione della Colonna di Marco Aurelio riconosce a evidenza il trapasso. La ribellione del 175 di Avidio Cassio, rimasto il fiduciario di Marco Aurelio in Oriente, benché abbia molte attenuanti e sia stata repressa in pochi mesi, è un primo segno. Un altro è che Marco Aurelio stesso non valuti l'importanza di rompere, a vantaggio del figlio Commodo, il sistema dell'adozione nella successione prediletto dal senato e seguito da Nerva in poi (donde appunto la causa principale della ribellione di Avidio). Quel che infatti è più notevole nel regno di Commodo (180-192) non è tanto che egli abbandoni i sistemi della monarchia illuminata e ritorni all'assolutismo di un Nerone o di un Domiziano con le relative persecuzioni e le relative pretese di essere considerato un dio vivente (Ercole), e perciò blandisca l'esercito e si circondi di bassi favoriti, quanto che la reazione suscitata negli ambienti aristocratici non dimostri più, forse nemmeno in sé, certo non nei movimenti che suscita per tutto l'Impero, il carattere di restaurazione morale espressosi nella reazione contro Domiziano. I pretoriani ricompaiono arbitri senza ideali della successione al trono.

L'accordo fra loro e il senato, che dopo l'assassinio di Commodo aveva portato al trono Elvio Pertinace (gennaio-marzo 193), viene meno dopo tre mesi. I pretoriani si lasciano corrompere dalle elargizioni di Didio Giuliano, mentre gli eserciti delle provincie, ripetendo il gesto dei legionarî alla morte di Nerone, vogliono imperatori loro. Le legioni siriache nominano Pescennio Nigro, le pannoniche Settimio Severo, le galliche e le britanniche Clodio Albino. Prevale fra i quattro, eliminando con accortezza tutti i rivali, l'africano Severo (193-211). Il suo atteggiamento teorico è incerto: non intende in definitiva distaccarsi dalla tradizione della monarchia illuminata e fa assumere al figlio Bassiano (soprannominato Caracalla) il nome di M. Aurelio Antonino; ma perseguita i senatori a cui preferisce i cavalieri e tutela la memoria di Commodo. Nel complesso è un imperatore, che, venendo dai soldati, vuole favorire i soldati, venendo dalla provincia vuole favorire la provincia. Introduce i provinciali nella guardia pretoriana, e, non soddisfatto, affianca loro una legione, che prende stanza ad Albano, la prima che avesse sede in Italia durante l'Impero. In tal modo si garantisce dai colpi di testa dei pretoriani. Ai soldati concede di sposarsi e di risiedere sposati fuori dell'accampamento. Non solo i senatori a lui ostili, ma anche i ricchi delle provincie favorevoli ai rivali vengono spogliati del loro patrimonio, che va a confluire nelle casse imperiali in una sezione autonoma, la ratio privata. Tuttavia la finanza non è risanata; e perciò si aggrava la condizione delle borghesie urbane, su cui pesa l'obbligo di garantire i tributi del proprio municipio allo stato. In Severo non v'è certamente la minima intenzione di fare una rivohzione sociale; ma la stessa origine del suo potere lo porta a favorire l'elemento militare a scapito di ogni altro. Non è caso che col tramonto degli ideali degli Antonini tramonti anche quel ceto cittadino che li aveva più largamente accolti. Il moto di couguagliamento delle provincie raggiunge la sua più ampia espressione con Caracalla (211-217 d. C.), presto liberatosi dal fratello Geta, che il padre aveva voluto gli fosse associato. Nel 212 Caracalla estende con un editto la cittadinanza romana ai provinciali. Per giudicare degli scopi e dei limiti del provvedimento, occorrerebbe conoscerlo meglio di quanto ci permettono laconiche testimonianze letterarie e un papiro assai frammentario (Papiro di Giessen, 40), di cui non è certo che rappresenti un brano dell'editto di concessione. Ma, se anche hanno contribuito ragioni fiscali (confermate da aumenti paralleli di tasse e da espedienti monetarî, come la creazione dell'antoniniano), è chiaro che un tale provvedimento non poteva essere concepito senza che la coscienza dell'identità tra cittadini romani e provinciali fosse ormai acquisita.

Il ritorno della prevalenza dei militari nello stato è naturalmente foriero di frequenti ribellioni. Dopo alcune lotte fortunate contro Catti, Alamanni e Carpi, una di queste ribellioni uccide Caracalla all'inizio di una campagna contro i Parti. Il prefetto del pretorio Opellio Macrino (217-18) gli succedeva. Breve governo. La reazione dei militari fedeli ai Severi, che Macrino aveva tentato invano di attrarre presentandosi come continuatore delle tradizioni dinastiche dei Severi, portava sul trono Avito Bassiano, un giovinetto sacerdote in Emesa del dio Sole Elagabalo (donde appunto il suo soprannome), che era nipote di Settimio Severo per parte della moglie siriaca (218-222). Trionfavano con lui gli elementi siriaci cui già Settimio Severo aveva dato molto posto nel suo esercito, in Roma si introducevano le pratiche più eccessive del misticismo orientale. L'ambiente stesso dell'Italia e in genere dell'Occidente in cui Elagabalo si era trasferito, si ribellava a una siffatta imposizione. La ribellione trovò il suo centro naturale nel senato, che continuava a essere in maggioranza di occidentali. Perciò il senato tornò ad assumere l'importanza che aveva perduto coi primi Severi. Elagabalo prima fu costretto a subire la correggenza del cugino Severo Alessandro, poi fu ucciso. L'influsso del senato si rivelò nel consiglio imperiale costituito da sedici senatori e nell'elevazione della carica di prefetto del pretorio, affidata al giurista Ulpiano, dal rango equestre al rango senatorio. Severo Alessandro (222-235) era però nell'animo tutt'altro che un conservatore: in nessuno come in lui le tendenze sincretistiche, corrispettivo religioso dell'universalismo politico, furono così evidenti. Anche per ciò forse gli mancò l'energia per un'azione che tornasse a subordinare l'esercito al potere politico. Le ribellioni militari si ripeterono (di una cadde vittima Ulpiano), mentre le frontiere del Danubio e del Reno ridiventavano malsicure e quelle orientali erano varcate dai nuovi sovrani sasanidi del regno partico. Severo riusciva almeno a rigettare i Persiani; ritornato in Occidente per combattere o meglio per negoziare con i Germani era ucciso nel 235.

L'eredità di Augusto. - Con la necessaria approssimazione si può dire che alla morte di Severo Alessandro tre elementi diventano predominanti nella politica dello stato romano, che prima erano di subordinata importanza: il conflitto esplicito tra l'esercito e il senato; la minaccia ai confini sia per opera dei Germani sia per opera dei Parti; la crisi economica. Sono, questi, tre elementi non nuovi, ma ora solo divenuti determinanti; come non è nuovo, ma solo poco dopo diviene determinante, un quarto elemento: il problema religioso sollevato dalla diffusione e organizzazione del cristianesimo. Perciò possiamo chiudere con il tentativo sincretistico di Severo Alessandro abbracciante anche il cristianesimo, un periodo storico: esso coincide press'a poco con l'estensione alla maggioranza dei provinciali della cittadinanza romana, che significava la realizzazione di quell'esigenza fondamentale da cui si era originato l'Impero. E la conferma verrà reciprocamente dalle pagine seguenti, in cui, esaminando più da vicino le peculiarità dei primi due secoli dell'Impero, potremo constatare una fondamentale unità, che deriva non da identità di condizioni materiali, ma da una continuità di problemi, che nella crisi del sec. III dispare. Per meglio dire, i problemi dei primi due secoli dell'Impero sono ancora nelle linee fondamentali i problemi di Augusto. La cui importanza si può adesso misurare da ciò che egli informa di sé due secoli di storia.

L'aspetto più palese dello svolgimento politico posteriore ad Augusto è infatti senza discussione il conflitto o, come forse sarebbe più esatto dire, il complicato rapporto tra autorità imperiale e aristocrazia senatoria, che Augusto aveva composto in sé (ma non già in tutti i suoi contemporanei). Più palese per due ragioni: perché fu veramente il più importante, ma anche perché tutti i principali nostri informatori di questa storia - da Tacito a Svetonio, da Plinio il Giovane a Cassio Dione - ne furono compartecipi dal punto di vista senatorio e quindi lo posero al centro della loro valutazione degl'imperatori, tanto che se noi vogliamo guardare l'Impero dal punto di vista della maggioranza, i semplici provinciali, siamo costretti a rivolgerci ad altre testimonianze più isolate e frammentarie come l'orazione A Roma di Elio Aristide, talune opere di Plutarco e di Luciano e simili. Ma l'indifferenza di quegli storici per i grandi fenomeni militari, sociali ed economici dell'Impero ha un certo riscontro nell'incapacità dei governanti di afferrarli nel loro complesso: i quali governanti provvedono sì, con l'usuale solerzia e precisione giuridica romana ai singoli inconvenienti, anche se di grande estensione, via via che si manifestano, ma sempre in maniera episodica, finché giungerà la crisi del sec. III a imporre trasformazioni radicali. Donde consegue che il processo di trasformazione profonda nei varî aspetti della compagine si presenta nei problemi politici solo in forma parziale e circoscritta. Le stesse difficoltà finanziarie, che tormentano la maggior parte degl'imperatori e avevano la loro evidente radice nello squilibrio tra i lievissimi carichi tributarî proporzionalmente spettanti ai ricchi e i pesantissimi toccanti in forma diretta o indiretta ai poveri, sono considerate più il frutto di cattiva amministrazione e sperperi (non si nega naturalmente che talvolta lo fossero) che non il segno di un male radicato nell'economia imperiale e sono trattate in conseguenza. L'unica volta che noi troviamo un progetto di riforma tributaria tale da rinnovare il sistema, con Nerone che voleva l'abolizione dei dazî e portorî impaccianti i traffici interni dell'Impero, esso si presenta in forma così infantile da indicare solo una mente inesperta.

Il conflitto fra senato e imperatore prendeva naturalmente il suo aspetto più semplice, quando quest'ultimo, per liberarsi dal compromesso augusteo, tendeva a identificare il suo potere con una vera monarchia e ad assumerne gli attributi esteriori: nel che è ovvia l'influenza dell'Oriente ellenistico con i suoi costumi monarchici e in particolare dell'Egitto, in cui già Augusto aveva avuto cura speciale di atteggiarsi a continuatore dei sovrani indigeni (e perciò lo aveva lasciato in posizione ambigua nella compagine dell'Impero, dandogli un governatore peculiare di classe equestre e impedendo ai senatori di penetrarvi). Con un imperatore come Caligola, in cui le influenze egiziane sono visibilissime, o come Nerone, le cui simpatie per l'Egitto e in genere per le istituzioni ellenistiche sono altrettanto chiare, o come Domiziano o Commodo, in cui la pretesa di essere considerati "padroni e dei", sebbene abbia radici più complesse, è altrettanto indubbia, non c'era esitazione possibile: un tale imperatore era l'incarnazione della tirannide, contro cui veniva elevata la bandiera della libertas, cioè del principato fedele alle direttive costituzionali di Augusto. I filosofi contribuivano a fare distinguere il principe dal tiranno portando elementi della vecchia discussione ellenica ed ellenistica su re e tiranno. È però significativo, riguardo all'efficacia esercitata dalle provincie orientali nella direzione del dispotismo, che un imperatore francamente considerato un tiranno in Occidente, quale Nerone (e in misura minore Domiziano) godesse anche dopo morte di vasta popolarità in Oriente.

Più complicata era la genesi del conflitto con gl'imperatori che intendevano mantenere fede al programma augusteo. Il movente primo era, come è facile immaginare, la diversa interpretazione che si dava alla libertas augustea dall'una parte in confronto all'altra: perché nei senatori, con sfumature diverse che potevano anche giungere (ma di rado) sino alla velleità di abolire la figura del principe, rappresentava la coscienza della supremazia del senato; mentre negl'imperatori voleva significare l'intenzione di avere la collaborazione del senato. È assai dubbio se anche l'imperatore che ebbe più alto concetto della dignità del senato, Tiberio, che al senato attribuì la nomina dei magistrati, andasse al di là del considerarlo il miglior corpo consulente. Altri fattori contribuivano poi a turbare maggiormente le relazioni tra i due organi. Uno dei più notevoli e più duraturi fu la lotta intorno al principio ereditario. Che la carica di imperatore non fosse ipso facto trasmissibile ai proprî eredi, non era discusso da nessuno; ma la tendenza degli imperatori giulî come poi di quelli flavî fu di far riconoscere la successione a membri della propria famiglia, che era urtare le suscettibilità del senato, per cui il principato doveva essere teoricamente accessibile a ciascun suo membro, e anche la convinzione diffusa di origine filosofica che l'adozione del migliore all'infuori di ogni vincolo familiare preesistente fosse preferibile per gl'interessi dello stato. La conciliazione tra senato e Impero si accompagna infatti con una serie successiva di adozioni da Nerva a Marco Aurelio; e viceversa su Vespasiano e Marco Aurelio restò sempre la macchia di avere reso possibile con la successione familiare le tirannidi di Domiziano e Commodo. vna seconda fondamentale ragione di contrasto fu la politica di assorbimento dei latifondi aristocratici praticata in maggiore o minore misura dagl'imperatori. Essa aveva di volta in volta occasione dalla rappresaglia contro qualche aristocratico inviso, ma nella sostanza tendeva a rafforzare la solidità dell'amministrazione imperiale (fossero i beni attribuiti al fisco o al patrimonio personale dell'imperatore), su cui gravava sempre più la maggior parte delle spese dell'Impero, e contribuiva non poco a quello spostamento di ricchezze dall'Italia alle provincie che corrispondeva, fino anzi a superarlo, al moto opposto dalle provincie all'Italia caratteristico della repubblica. Qui l'ostilità tra imperatore e senato tornava veramente a prendere radice in uno dei motivi essenziali del trapasso dal governo senatorio al principato. Le sostanze tolte agli aristocratici andavano a mantenere i soldati stanziati nelle provincie o a contribuire alle opere pubbliche di ogni genere, che si compivano con ritmo pressoché identico in tutte le parti dell'Impero. Infine - solo per toccare alcune delle ragioni principalissime - è da considerare che i senatori, privati come corpo del comando effettivo dell'Impero, lo riacquistavano poi spesso come persone quali funzionarî dell'imperatore in posti di fiducia. Ciò spiega intanto come il senato, benché in apparenza desautorato, benché "purificato" dei suoi membri più indesiderabili, conservasse un tenacissimo spirito di corpo, che veniva assorbito dagli stessi nuovi membri introdotti dagl'imperatori. Ma spiega pure come una reazione organizzata dal senato malamente si possa differenziare da un tentativo di un gruppo di legioni per sostituire un proprio generale all'imperatore in carica: perché ogni reazione del senato, che non fosse effimera, non poteva che contare sui membri del senato a capo delle legioni, i quali alla loro volta dovevano distinguere a stento se combattevano per sé stessi o per il corpo a cui appartenevano, tanto è vero che giungevano spesso a contrapporsi l'uno all'altro, pretendente a pretendente. Le vicende posteriori alle morti di Nerone (68-69 d. C.) e di Commodo (193) insegnino. Donde conseguiva lo sforzo di molti imperatori, anche tra quelli in apparenza più ligi agl'ideali augustei, per diminuire l'importanza dei senatori nell'amministrazione. Con Claudio assumono funzioni direttive i liberti della casa imperiale; ma il prestigio di questi liberti non si accrebbe ulteriormente. Con Adriano comincia invece il moto, che avrà per sé il futuro, di elevare le funzioni dei cavalieri a danno dei senatori. Con lui appunto la cancelleria imperiale passa dai liberti ai cavalieri. Il moto, intensificato dai Severi, raggiungerà, come vedremo, il suo apice al tempo di Gallieno (253-268 d. C.), quando i senatori saranno esclusi dal comando delle legioni. Il che si comprende tanto meglio quando viceversa si noti che, attraverso il primipilato, giungevano abbastanza facilmente alla carriera equestre i soldati semplici: di modo che l'ordine equestre, nel periodo imperiale più ancora che nel periodo repubblicano, è lontano da ogni tradizionalismo aristocratico.

Minata da tutte queste ostilità reciproche, la collaborazione tra imperatori e senato poteva liberarsi dal suo carattere di provvisorietà e compromesso solo quando una volontà intensa di bene collettivo sollevasse l'uno e l'altro al disopra di sé stessi accomunandoli in un'opera quasi religiosamente sentita in favore dell'Impero e sostituendo alla sintesi augustea, che traeva la sua ragione di essere dall'attaccamento alle tradizioni italiche, una sintesi nuova, di cui il motivo dominante fosse la filantropia, nel senso genuino della parola. Abbiamo visto infatti che questa è la caratteristica sostanziale del secolo che va da Nerva a Commodo (96-180), in cui non tanto mutano i termini esteriori del conflitto (come, p. es., avviene nella sostituzione dell'adozione alla trasmissione familiare) quanto gli spiriti che giungono a trovare nel servizio dello stato una soddisfazione morale. Non è caso che allora prenda la massima diffusione, soprattutto fra i soldati, il mitraismo, una religione in cui è tipica la concezione della vita come milizia per il bene: né è estranea un'analoga ragione alla diffusione del cristianesimo, sebbene ancora all'infuori dei quadri dello stato.

Ma non si comprenderebbe ancora perché in tale faticoso definirsi dell'autorità imperiale di fronte al senato si accentri la vita dell'Impero come organismo etico, se non si avesse presente l'interdipendenza tra l'instaurazione di un'autorità imperiale, sempre meno ligia alle tradizioni repubblicane, e l'attenuazione del distacco fra provincie e Italia. Donde il fenomeno molto delicato a definirsi che sebbene l'introduzione dei provinciali nel senato costituisse uno dei mezzi più pratici, e anche più abituali, per far partecipare le provincie al governo, il senato come istituto non abbia mai perduto, insieme con le sue fondamenta repubblicane, il suo legame particolare con gl'interessi e il prestigio dell'Italia. Il che può contribuire a spiegare sia certi provvedimenti come quello di Traiano sull'impiego dei capitali senatorî in Italia, sia poi la necessità di Costantino di contrapporre un nuovo senato a quello di Roma. Perciò gl'imperatori che hanno rotto più esplicitamente con il senato, come Nerone, Settimio Severo e Caracalla, o altri che, qualunque fosse il loro atteggiamento esteriore, hanno più contribuito con i fatti a limitarne l'autorità, come Claudio, Vespasiano, Adriano, sono stati anche coloro che hanno manifestato più simpatia per le provincie e hanno maggiormente accelerato, sia dal punto di vista economico sia da quello giuridico, il moto della loro parificazione all'Italia, culminante con l'editto del 212. Non c'è dubbio che in taluni di questi imperatori ci fosse una convinzione ben determinata che fosse intrinseca alla stessa funzione dell'Impero la graduale parificazione dei sudditi: ne è un memorabile documento il discorso con cui Claudio giustificò l'estensione del diritto di sedere in senato (ius honorum) a talune categorie di sudditi gallici (cfr. il testo riportato in Corpus Inscriptionum Latinarum, XIII, 1668). Negl'imperatori del sec. II l'adeguazione assume anzi più precisa impronta filosofica per la filantropia cosmopolitica che li pervade; e in tal senso l'imperatore più rappresentativo è Adriano, di cui, a tacer d'altro, una serie famosa di monete dimostra che egli vedeva nell'Impero una famiglia di genti diverse. Lo stesso Adriano serve a indicare nel modo più perspicuo il nesso fra un tale atteggiamento e la politica di urbanizzazione, propria, in misura maggiore o minore, di tutti questi imperatori: non solo perché la vita civica si presentava al Greco-Romano come la forma normale di vita (civile per l'appunto!), ma perché le popolazioni cittadine erano considerate implicitamente da tutta la struttura dello siato come il fondamento dell'Impero. E appunto l'esempio di Adriano attesta inoltre che anche negl'imperatori più cosmopolitici s'insinuava una differenza condizionata dalla dualità di cultura intrinseca all'Impero. Su questa dualità dell'Impero - latino in prevalenza a Occidente di lingua e di mentalità, greco a Oriente - avremo ancora da indugiarci più oltre, anche per chiarirne i limiti. È qui solo da rilevare che gl'imperatori ora accentuarono la loro adesione all'Occidente ora all'Oriente. Adriano con le sue aspirazioni di ricostruttore della civiltà greca, è evidentemente tra questi ultimi; e con lui sta Nerone. In Vespasiano e in Traiano, soprattutto nel primo, che ritolse i privilegi concessi da Nerone alla Grecia, ma diede la cittadinanza di diritto latino alla Spagna, è invece ben riconoscibile l'indirizzo opposto. E per Commodo è evidente la volontà di contrapporre l'Africa latinizzata all'Egitto ellenistico. Come peraltro sia difficile anche su questo punto tracciare distinzioni rigorose può indicare meglio di tutti Marco Aurelio, che nei suoi Ricordi scritti in greco e pensati secondo la tradĭzione filosofica greca attesta una profonda consapevolezza della propria romanità. S'intende poi (è superfluo avvertirlo) che è ancora più difficile distinguere quanto nella politica provinciale degl'imperatori fosse iniziativa conseguente a una propria convinzione e quanto invece si presentasse, nell'evoluzione dell'Impero, come la condizione di cose immediata. È stato osservato con finezza che uno Spagnolo, quale era Traiano, divenne imperatore naturalmente come divennero scrittori di Roma Seneca, Lucano, Quintiliano, Marziale, tutti spagnoli come lui: perché ormai facevano parte integrante dell'Impero ed erano riconosciuti per tali. Si osservi d'altra parte che i moti politici partenti dalle provincie prendono sempre più di rado carattere netto di ribellione all'Impero e invece in genere incanalano e, per così dire, sublimano le velleità particolaristiche in una aspirazione a un rinnovamento dell'Impero o tutt'al più (come si vedrà nel sec. III) a un primato regionale. Dopo che Augusto e Tiberio pacificarono quasi interamente Gallia e Spagna, l'unica ribellione nell'interno dell'Impero che volesse indiscutibilmente la separazione, è la giudaica del 66-70 d. C.; ma in quella, come nei suoi postumi del tempo di Traiano e di Adriano, c'era un peculiare fermento messianico. Né la ribellione di Vindice né forse quella di Civile del 68-70 hanno un definito carattere di secessione. Partiva cioè dalle provincie una formidabile pressione di idee e di azioni politiche.

Fu quindi una preoccupazione essenziale degl'imperatori isolare l'esercito dalla vita interna dell'Impero, e si cercò di ottenere lo scopo sostituendo alle leve un esercito di mestiere e sempre più regolarmente trattenendolo in guarnigioni di confine. Lo sforzo fu coronato indubbiamente da successo, nel senso che assai di rado solo in piccoli contingenti l'esercito fece causa comune con i malumori dei civili e anzi di solito li contenne o li represse; ma d'altro lato l'esercito così straniato venne suddividendosi in tanti organismi minori quanti erano i grandi aggruppamenti ai singoli confini (del Reno, del Danubio, di Siria), abituato ciascuno a pensare a sé stesso e a identificare la propria fortuna con le ambizioni di uno dei proprî generali. Donde le ribellioni abbastanza frequenti, anche per cause banali, di singoli gruppi di legioni, ribellioni che dopo la morte di Nerone e di Commodo assumono vastità di crisi di tutto l'Impero e preludono all'anarchia militare del sec. III. Si spiega quindi come il problema della disciplina dell'esercito apparisse tra i fondamentali (Disciplina sarà il motto preferito da Adriano!) e avesse parte considerevole nel determinare il cambiamento di struttura nell'esercito, da italico a provinciale e più tardi da provinciale a barbarico: si credeva di trovare negli strati meno civili o meno consapevoli dei proprî diritti truppe migliori. Le truppe ausiliarie si vennero di conseguenza praticamente identificando per armamento e per tattica alle legioni, di cui avevano analoga provenienza: e perciò nel sec. II la funzione degli antichi auxilia fu assunta dai cosiddetti numeri, reparti di truppe provinciali o barbariche completamente distinte per tecnica militare dalle milizie ordinarie. S'intende che nemmeno questa trasformazione sarebbe stata possibile senza la tendenza a parificare le provincie all'Italia. E inoltre ancora va ritenuta come causa concomitante la diminuzione della popolazione prima in Italia poi nelle provincie: non è caso che la prima introduzione in massa di barbari nell'esercito romano avvenisse dopo le guerre ed epidemie del tempo di Marco Aurelio. Tuttavia, poiché le leve coattive sia nell'Italia sia nelle provincie diedero sempre forti contingenti, è ovvio che la sostituzione degli strati di reclutamento ha altri motivi; e che certi strati scegliessero meno volentieri la professione militare è indicato dalle diserzioni e dai rifiuti di inviare nuove reclute abbastanza frequenti nel sec. II. Ne derivò in definitiva una conseguenza contraria alle premesse, in quanto nella ricerca di truppe più sicure si finì poi (già da Adriano) con l'abbondare in privilegi e quindi con l'allentare la barriera che separava l'esercito dalla vita circostante. Ma la conseguenza non si rivelò in tutta la sua portata se non nel sec. III, mentre per i primi due secoli costituirono un pericolo permanente solo quelle truppe cui era stato riservato il contatto diretto con la vita civile e la corte: i pretoriani.

L'isolamento dell'esercito ha anche un altro aspetto, se si consideri il problema non più dal punto di vista della politica interna, ma da quello della politica estera. L'esercito aveva potuto essere esteso da Augusto a cordone sulla frontiera perché egli non aveva temuto pressioni eccessive a un settore solo del confine e perché aveva pensato che le eventuali imprese di conquista avrebbero dovuto essere limitate in modo da impegnare solo più o meno le truppe del confine corrispondente. Di fatti la politica estera romana rimase per più di due secoli entro l'ambito stabilito da Augusto, in parte perché continuava a considerarlo necessario, in parte perché era legata dallo stesso ordinamento augusteo dell'esercito: lo sforzo offensivo continuato e in grande stile non era possibile quando la massa permanente di manovra era ignota. Verso tutti i popoli confinanti predominò l'atteggiamento di moderata offensiva, che era nello stesso tempo di difensiva. In Germania prese la forma di una lenta avanzata del limes, il quale aveva una funzione economica, oltre che difensiva. Verso la Partia intese a conservare lo stato cuscinetto di Armenia sotto il controllo romano. L'assoggettamento completo della Partia, che sarebbe stato richiesto dalla coerenza dell'universalismo politico (e dunque dall'esempio di Alessandro Magno) dovette essere abbandonato. Due popoli giovani ed energici rimasero alle porte dell'Impero. Il sistema di Augusto rivelò su questo punto i suoi limiti invarcabili e densi di conseguenze. E quando l'Impero sarà costretto alla difensiva, l'incapacità di una intensa offensiva si traformerà in incapacità di intensa difensiva: il primo esempio è al tempo di Marco Aurelio. I suceessi militari duraturi dell'Impero stanno solo in conquiste di più modeste proporzioni, in sé anche molto importanti, ma non in rapporto alla stabilità dell'Impero. Del resto già corrodeva l'Impero una certa tendenza, di cui il primo esempio celebre è di Domiziano con i Daci, a comperare la pace in caso d'insuccesso: se pure si considerasse la tregua solo opportunità per la rivincita, era segno di uno squilibrio, morale più che strategico.

Non consta con sicurezza che nessuna delle conquiste fatte da Roma durante l'impero abbia avuto precise ragioni economiche. Ma non si può scindere la conquista della Dacia dalle miniere della Transilvania e quella dell'Arabia dal traffico verso il Medio ed Estremo Oriente che vi passava. Se anche però, evidentemente, ogni regione conquistata era aperta in misura senza paragone superiore di prima al commercio romano, nel complesso non esiste una politica mercantilistica degl'imperatori romani e nemmeno una politica economica, quando s'intenda che lo stato sia subordinato agli interessi di determinate categorie o persegua egli stesso fini capitalistici (come in parte, ad es., l'Egitto dei Tolomei). Là dove, come in Egitto, lo stato ereditava una posizione di monopolio, se ne liberò quasi totalmente. Nei primi due secoli l'Impero favorì, ma senza nessuna sistematicità, l'intensificarsi delle energie produttive solo in quanto per un lato erano elemento della potenza dello stato e per un altro era ritenuto compito dello stato il curare il benessere dei cittadini. Perciò lo stato si preoccupava degli approvvigionamenti o direttamente (soprattutto per l'Italia) o indirettamente favorendo le iniziative delle singole città. E alle città, come talvolta anche ai privati, non mancava di fornire aiuti sia con doni in denaro, sia con prestiti, sia con concessioni di privilegi tributarî. I tentativi di protezionismo a favore dell'Italia furono sommersi dalle forze stesse che guidavano l'Impero. Per il resto lo stato non fece una politica economica, ma fiscale, cioè di prelevamento delle tasse, in cui sono caratteristici la limitazione del sistema dei pubblicani, in confronto al prelevamento diretto oppure all'imposizione della raccolta delle tasse (liturgia) a determinate categorie di cittadini, e la non unificazione del sistema di tassazione per riguardo alle tradizioni locali delle provincie, sebbene poi i cespiti fondamentali fossero in definitiva sempre la tassa fondiaria e i dazî e spesso la capitazione. In genere si può dire che gl'interventi dello stato nell'economia si moltiplicano tanto più quanto più essa va peggiorando, e perciò da una politica di scarsissimo intervento, come è quella dei Giulî-Claudî, si passa a un intervento sempre maggiore durante i Flavî, gli Antonini e i Severi. E appunto perché gl'interventi nascono da una crisi, l'aiuto è accompagnato dal controllo e dalla coazione. Il periodo degli Antonini, così ricco di provvidenze economiche, soprattutto per restaurare la piccola proprietà e aiutare gl'indigenti, è anche il periodo in cui s'inizia il controllo delle finanze civiche e si comincia a stabilire il principio della responsabilità personale delle magistrature municipali nell'adempimento degli obblighi di ogni municipio verso lo stato. Gli onori si trasformano sempre più in oneri, e le liturgie si moltiplicano. Stabilito il principio della coazione, esso viene esteso ai servizî (p. es., dei trasporti) che hanno importanza vitale per lo stato. Per ulteriore conseguenza l'aiuto si trasforma sempre più in una liberazione dalla coazione, vale a dire in un privilegio. La moltiplicazione dei vincoli si accompagna alla moltiplicazione dei privilegi, che toccano naturalmente soprattutto alle persone di classe alta e vicine all'imperatore. Si accresce dunque il favoritismo per le classi già economicamente e socialmente privilegiate, che era intrinseco a tutto il sistema tributario, in cui proporzionalmente il ricco pagava meno del povero ed era liberato dalle molte corvées che toccavano a quello: cominciano però a essere lentamente sospinte verso le categorie oppresse le aristocrazie comunali.

Tuttavia, riprendendo un pensiero già accennato, si può dire che per tutto l'Alto Impero il benessere dei cittadini singoli è sempre considerato intrinseco al benessere dello stato. Più in generale, lo stato si propone un compito di incivilimento nel quale il vantaggio dello stato medesimo e il vantaggio degl'individui sudditi non sono sentiti distinti. È il compito che lo stato adempie nella forma più generale promovendo la vita civica, baluardo e nello stesso tempo centro di espansione della cultura: sicché, sia avvertito d'incidenza, la funzione che Roma indubbiamente ha avuto di preservare la cultura del mondo greco, soprattutto in Asia e sulle rive del Mar Nero dove era più pericolante, coincide press'a poco con la tutela delle poleis. Ma poi l'attività dello stato in favore della cultura assume forme più specifiche, di sussidio e di protezione, non ultima la partecipazione sempre più notevole del fisco, a cominciare da Vespasiano, nel mantenere le scuole. Rientra in questo campo l'impulso allo studio teorico del diritto come affinamento della coscienza giuridica che deve essere presupposto dell'attività giuridica pratica. Anche la libertà di pensiero è stata nel complesso largamente consentita: i filosofi, in specie nel periodo dei Flavî, sono venuti in contrasto con lo stato solo in quanto la loro pubblica predicazione assunse il carattere di ostilità diretta contro gl'imperatori. Se poi la libertà di pensiero si manifesta specialmente nella religione, l'ovvio motivo è nell'orientamento generale degli spiriti verso quella. Lo stato romano ha avuto nei primi secoli dell'Impero dei culti ufficiali, non una convinzione religiosa esclusiva. Anche gl'imperatori, come Domiziano ed Elagabalo, che hanno avuto più particolarmente devozioni personali da diffondere, non hanno impedito lo svolgersi di ogni attività religiosa che fosse indifferente alle loro iniziative. Si deve certo riportare questa larghezza alla logica intrinseca del politeismo: non cessa però di costituire un elemento determinante della politica imperiale, che ha facilitato la convivenza dei molti popoli nell'ambito dello stato romano. L'impedimento a determinati culti si è verificato solo, come nella persecuzione dei filosofi, quando si è creduto di riscontrare gli estremi dell'attentato alla vita statale. Perciò la persecuzione del cristianesimo va posta sulla medesima linea della persecuzione del druidismo. Ma sia verso il cristianesimo sia ancora più verso il giudaismo lo stato nei primi due secoli si è dimostrato molto più conciliante di quanto non si attenderebbe dalle sue stesse premesse. Episodî di persecuzione, come quelli di Nerone o di Marco Aurelio verso i Cristiani e di Tiberio e di Domiziano verso gli Ebrei o di Claudio sia verso gli Ebrei, sia verso i Cristiani ancora indistinti dagli Ebrei, sono di entità relativamente minime. In genere lo stato si è preoccupato solo d'impedire il proselitismo; e perciò ha potuto più facilmente tollerare l'ebraismo che non il cristianesimo. La mancanza d'una grave pressione si constata nel fatto che la Chiesa ha potuto organizzarsi lungo il secolo II in modo da superare le persecuzioni del sec. III e uscire vittoriosa all'alba del IV. Non è caso che il sincretismo politeistico giungesse con Severo Alessandro a comprendere almeno implicitamente così il giudaismo come il cristianesimo, raggiungendo la più larga espressione della libertà di coscienza formulata in termini pagani. S'intende che lo stato romano aveva forme sue peculiari di determinare i punti in cui la religione incideva nella vita statale. Una di queste, era, come sappiamo, di eredità repubblicana, cioè il dovere dello stato di conservare la pax deorum, donde appunto le organizzazioni sacerdotali più o meno direttamente poste sotto il controllo dell'imperatore quale pontefice massimo. Un'altra era il culto imperiale, in quanto il riconoscimento della divinità dell'imperatore vivo (secondo la forma orientale e prevalente nelle parti orientali) o dell'imperatore morto, di cui fosse stata riconosciuta ufficialmente dal senato, udite le prove, l'assunzione al cielo o anche il riconoscimento che il genio dell'imperatore, di per sé divino, era benefico e quindi meritevole di culto come dio benefico, costituiva atto di lealismo verso lo stato, o meglio riconoscimento del valore divino dello stato identificato con il suo capo. Non come atteggiamento religioso, ma come convinzione politica il culto imperiale fu quindi diffuso per cura dello stato, che si trattasse solo di ordinarlo, come di regola in Oriente, o di fondarlo, come più spesso in Occidente; e ne furono considerati centri, in forme diverse, le provincie e i municipî, mentre anche le forme private (come quelle che facevano capo ai seviri augustales) furono attentamente sorvegliate e di fatto rese pubbliche. Ma che l'accettazione di un tale culto non implicasse mai ulteriori trasformazioni delle proprie convinzioni religiose è dimostrato a evidenza da ciò che gl'imperatori i quali, per le loro tendenze dispotiche, diedero maggior valore al loro attuale riconoscimento come dei (Caligola, Commodo), non furono minimamente dei riformatori religiosi.

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La crisi del mondo antico. - Eppure, quando abbiamo così rapidamente considerato alcuni motivi fondamentali della politica imperiale, ci accorgiamo che il segreto più profondo della vita dell'Impero ci sfugge ancora. Basterebbero intanto a dimostrarcelo constatazioni esteriori sulla vita economica e sull'organizzazione militare. Perché lo sviluppo e il rigoglio della vita economica oltrepassano di gran lunga l'iniziativa imperiale, sebbene abbiano per condizione l'Impero. Per le strade imperiali e con la sicurezza che lo stato garantisce è un immenso moltiplicarsi di rapporti economici entro l'orbe romano e all'infuori di esso: la scoperta dei monsoni al tempo di Claudio è solo l'occasione fortuita che viene a facilitare i commerci nell'Oceano Indiano, già prima solidamente allacciati finché al tempo di Marco Aurelio, nel 166 d. C., come sappiamo dagli annali cinesi, si presenteranno in Cina dei commercianti romani in nome del loro imperatore. Il vino d'Italia, i prodotti tessili della Gallia, i metalli della Spagna, del Norico, della Britannia si incrociano con le manifatture, i prodotti agricoli (grano!), il vetro, i profumi, ecc., dell'Egitto e della Siria, e così via. Se talune provincie soffrono di relativo impoverimento, soprattutto l'Egitto, che diviene il rifornitore di grano per l'amministrazione imperiale, e in specie per le frumentazioni di Roma (e in tal senso va inteso quel che Strabone osservava che le navi vengono dall'Egitto piene e vi tornano vuote), un maggiore equilibrio si stabilisce tra le varie provincie. Correnti migratorie notevoli, specie di Italici e di Siriaci, si spostano nell'Impero. L'elasticità economica fa sì che si costituiscano nuovi centri urbani, eleva il tenore di vita, crea una serena fiducia nell'avvenire, permette il moltiplicarsi della generosità privata nell'ambito e fuori dell'ambito delle singole città, tipico per il primo Impero, diviene forza di unità politica. L'impiego speculativo di capitali in operazioni di prestito ai provinciali colpiti dalle tasse romane - cioè lo sfruttamento delle provincie -, che caratterizzava l'economia dell'estrema repubblica, viene sempre maggiormente sostituito da impiego di capitali in acquisto di terreni - cioè da arricchimento delle provincie. La vita sociale si organizza sempre di più. I collegi di vario genere si moltiplicano inquadrando con le più varie finalità, religiose, economiche, di divertimento, gli strati inferiori della popolazione. Anche l'urbanistica si preoccupa ormai, oltre che del palazzo o della villa signorile, della casa popolare: la ricostruzione di Roma dopo l'incendio neroniano ne è tipico esempio. La vita degli schiavi migliora anche per la concorrenza del lavoro libero; si moltiplicano, cioè, i liberti, che assumono una funzione economica notevole, paragonabile forse a quella degli Ebrei nel Medioevo, e quindi giungono rapidamente a un superiore livello di educazione. Parallelo è il processo di mitigazione del diritto, favorito dal prevalere del diritto in certa guisa consuetudinario dell'editto pretorio codificato da Adriano.

E se d'altro lato guardiamo all'ordinamento militare possiamo sì constatare le insufficienze di questo ordinamento, ma poi dobbiamo ritornare al fatto fondamentale che quell'esercito è stato il migliore del mondo antico, sia tecnicamente, sia spiritualmente, tanto che perfino le rivolte militari dovranno per un aspetto riconoscersi come indizio del legame profondo che teneva avvinta questa casta stanziata alle frontiere in una vita singolare con le vicende dell'interno dell'Impero. L'esercito, la cui lingua di comando era per tutti il latino, è sempre stato fattore di latinizzazione: i suoi campi con la formazione di aggruppamenti civili intorno sono stati centri di irradiazione di civiltà ai confini dell'Impero. I veterani, e soprattutto i centurioni, che costituivano il mirabile complesso dell'ufficialità inferiore, da cui dipendeva tutta l'efficienza militare, diventavano nelle colonie per loro costituite o nelle città alle quali tornavano, gli elementi migliori della vita municipale. Il servizio rimase lungo: di almeno 20 anni, per regola, salvo che per i pretoriani. Il soldo indubbiamente non era molto elevato, e si deve giungere forse sino a Caracalla per constatarne un aumento che non sia dovuto a una variazione del valore del denaro, ma rappresenti un maggiore compenso. La strategia e la tattica si mantennero complicate, richiedendo un continuo addestramento; certi rami, come le costruzioni difensive e in minore misura la poliorcetica, fecero decisi progressi. Era ufficio complementare dell'esercito la costruzione di opere pubbliche. Ed è la più decisa conferma di questo vigore di opere la fraternità d'armi che si stabiliva fra i membri delle più lontane parti dell'Impero, e di cui sono così caratteristico documento le iscrizioni.

Se dunque ci limitiamo anche solo a osservare più da vicino lo svolgersi di queste due fondamentali sezioni della vita dell'Impero, scorgiamo già subito che dobbiamo tenere conto di un fattore più profondo e, vorremmo dire, di valore più generale di quelli finora considerati, sebbene la constatazione dell'armonia nelle classi dirigenti, "filantropica" che abbiamo detta caratteristica del secolo II, ci porti già almeno sulle sue tracce. Forse due testimonianze scelte quasi per caso fra le tante, a modo di esempio, possono chiarirci dove dobbiamo giungere. Una viene da un Italico, Plinio il Vecchio, che si sente parte integrante di quella latinità, che ha fatto l'Impero, e attribuisce alla sua patria il vanto di essere diventata patria di tutte le genti, di aver dato l'umanità all'uomo: "Italia... omnium terrarum alumna eadem et parens, numine deum electa, quae coelum ipsum clarius faceret, sparsa congregaret imperia ritusque molliret et tot populorum discordes ferasque linguas sermonis commercio contraheret ad conloquia et humanitatem homini daret breviterque una cunctarum gentium in toto orbe patria fieret" (Nat. Hist., III, 39). L'altra è di un provinciale qualunque, che il 95 d. C. in un angolo dell'Impero, in Frigia, scrive nel suo testamento che le sue disposizioni devono durare come l'eternità dell'Impero romano (τοῦτο δὲ τὸ ψήϕισμα νενομοϑετῆσαι ρῷ αἰῶνι τῆς ‛Ρωμαίων ἡγεμονίας ϕυλαχϑησόμενον, Rev., Étud. anc., III, 1901, p. 273; F. Cumont, Musées du Cinquantenaire, n. 133). In entrambe, da due diversi punti di vista, c'è lo stesso pensiero: che l'Impero rappresenta un ordinamento definitivo, non uno stato, ma lo stato. Ciò che permea la vita dell'Impero romano nei primi due secoli è appunto questa adesione degli individui, non alle singole contingenze o alle singole manifestazioni dello stato romano, alle quali possono anche opporsi, ma all'istituzione dell'Impero, della cosmopoli, che assorbe, e pure conserva e regola, le singole città e le singole regioni. L'Impero è la forma politica, e nessun'altra le si contrappone, come ideale. Esso vive nell'animo degl'individui come la rappresentazione stessa della comunità sociale. Senza dubbio l'idea dell'Impero si identifica con quella dello stato ben oltre i primi due secoli dopo Cristo; essa pervade tutto il Medioevo. Ma è altrettanto ovvio che se ciò prova l'importanza di quell'identificazione che si istituì allora, la differenza fondamentale, a parte altre discriminazioni che si potrebbero facilmente accumulare, è che accanto allo stato, a conclusione di un processo di sviluppo secolare, vive dal sec. III nel cuore di enormi masse di cittadini dell'Impero, e dal sec. IV nella sempre più assoluta maggioranza, una nuova comunità universale: la Chiesa. E se precisamente l'affermarsi della Chiesa accanto all'Impero è il fenomeno decisivo del trapasso dalla civiltà antica alla civiltà cristiana, la storia dell'Impero deve tendere come a sua meta a spiegare lo scindersi della comunità esteriore dalla comunità interiore, il crearsi cioè di una dualità là dove esisteva unità indistinta: sicché la crisi dell'Impero viene a coincidere con la crisi di tutta la vita antica, con la sua trasformazione in cristiana. Né alcun'altra definizione può, come questa indicare il significato che ha la storia dell'Impero romano nella storia umana.

È nelle premesse che la sostanza del processo è etico-religiosa; bisogno di una più soddisfacente e profonda certezza sulle realtà e sui valori della vita e della morte, che distacca gl'individui dalle tradizioni etiche e religiose, di cui lo stato è conservatore, li porta a cercare in una rivelazione e in una catarsi l'illuminazione e quindi la salvazione personale. Perciò in uno schizzo di storia politica non ha luogo un'analisi delle varie manifestazioni di questo rinnovamento, dalla filosofia, che si fa esperienza di rivelazione, al diffondersi della predicazione moraleggiante spicciola e al moltiplicarsi di culti e pratiche misteriche, mentre il cristianesimo si inserisce rivoluzionariamente in questa trasformazione con l'apportarvi la esigenza di un totale capovolgimento di valori, a cui corrisponde la separazione tanto maggiore delle comunità cristiane (per l'introduzione del cristianesimo a Roma, v. oltre). Basti indicare il punto in cui la nuova concezione della comunità "interiore" si contrappone più direttamente all'imperiale: nell'affermare - per definizione - la propria radice e il proprio dominio in quella spiritualità più profonda, che l'Impero, pretendendo obbedienza nella sola sfera politica di attività, aveva lasciato fuori della propria considerazione. E se ne intende la conseguenza: un enorme spostamento di energie spirituali dall'ambito della vita nello stato e per lo stato a interessi estranei. Il fenomeno può sfuggire a lungo all'attenzione; ma diviene di evidenza immediata, quando tali energie non si disperdono più in soluzioni individuali o in raggruppamenti ristretti, ma si polarizzano verso la Chiesa, e non solo gl'ingegni più intellettualmente elevati, ma le tempre di organizzatori più romane (si pensi a un S. Ambrogio) sono al servizio della Chiesa. Quello che si suole chiamare decadimento del mondo antico è per molta parte solo spostamento provocato dal lento costituirsi di una nuova struttura spirituale e quindi sociale. Il che non toglie che si debbano indicare taluni aspetti della politica imperiale, i quali se per un lato sono già il risultato di un siffatto spostamento, per un altro contribuiscono a produrlo.

E innanzitutto va constatata la diretta influenza del nuovo orientamento religioso su questa politica. Perché ormai l'esigenza monoteistica afferra sempre più gli stessi pagani e li costringe a opporre più decisamente al monoteismo cristiano tentativi di teologie monoteistiche armonizzabili con la tradizione; sicché di fatto si dissolve lo spirito di concordia politeistica a cui avevano aderito i Severi, e tanto più facilmente quanto più ostili nel fondo, per intrinseca coerenza, gli si erano dimostrati i cristiani.

Poi va segnalata la crisi economica, della quale le radici sono profonde. Lo stato spendeva fortemente, in specie per spese militari, anche a prescindere dalle prodigalità di taluni imperatori. Al gravame delle tasse l'economia imperiale si rivelò durante il sec. II sempre più impari. Infecondità del suolo, diminuzione naturale della popolazione e più ancora epidemie e devastazioni nelle regioni dei confini hanno certamente contribuito a ridurre l'efficienza economica: ma la causa maggiore è nell'interno dello stesso sistema, per cui tanto più lo stato chiedeva e tanto meno i cittadini erano capaci di dare perché, dando, la loro capacità produttiva diminuiva, i debiti crescevano, l'oppressione si inacerbiva. I potenti già relativamente meno colpiti riuscivano, come s'intende, a evadere facilmente; ma i contadini da un lato e la borghesia provinciale dall'altro, che costituiva la classe dirigente delle singole città (i curiali), erano a poco a poco spogliati, i primi con il moltiplicarsi di requisizioni in natura, di corvées, di tasse straordinarie ad aggiunta dei gravami normali; la seconda, oltre che con, le esazioni, specialmente con l'imposizione della responsabilità per il pagamento delle tasse allo stato dovuto da tutta la città: i curiali, che pure lo stato, insieme con i senatori, i cavalieri e i veterani dell'esercito, privilegiava formalmente considerandoli honestiores ed esentandoli da determinate pene, cadevano in realtà sempre più in posizione analoga agli humiliores e anche peggiore. Si aggiunga che lo stato non riuscì a mantenere solida la monetazione. Molto metallo prezioso emigrava continuamente fuori dei confini dell'Impero, perché la bilancia commerciale con l'Oriente era passiva (secondo una famosa testimonianza di Plinio il Vecchio) e perché non di rado venivano pagati in varia forma tributi a barbari fuori dei confini; né sembra che le miniere bastassero a compensare il deflusso. Il governo si aiutava peggiorando la moneta: con Marco Aurelio la lega nelle monete d'argento è portata al 25%, con Settimio Severo al 50%. La conseguente crisi di sfiducia, il tesaurizzamento della moneta migliore, la difficoltà di pagamenti all'estero si complicavano soprattutto per ciò che lo stato veniva avviato quasi inconsapevolmente (data la scarsa conoscenza teorica delle leggi della moneta) a spostare l'equilibrio dei prezzi con l'aumentare il volume del denaro in circolazione, e ne derivava l'inflazione. Essa si palesa nettamente al tempo di Commodo. Caracalla tenta di fermarla con il coniare l'antoniniano, che, per quanto sembra, doveva arginare il deprezzamento alla misura raggiunta con Settimio Severo, ma non riesce. L'incertezza della vita si accresce. Le ribellioni dei contadini si moltiplicano nelle varie parti dell'Impero: la fuga dai proprî campi è il mezzo abituale di protesta. Lo stato risponde con il dare valore ed estensione sempre più rigorosa al principio già conosciuto in talune parti dell'Impero (in Egitto più specialmente sotto il nome di ἰδία) che lega il contribuente al proprio distretto. Analoga costrizione si esercita sui curiali e in genere su coloro che compiono servizî pubblici. Ma la pressione dello stato sulle classi dirigenti delle città non solo fa sparire la pratica di generosità in favore del proprio comune, che contraddistingueva lo spirito civico dei tempi migliori, ma allarga la corruzione nelle amministrazioni: donde, parallela al decadere della finanza statale, la decadenza delle finanze comunali. Lo stato deve intervenire con funzionarî proprî, i curatori, che se prima controllano soltanto, poi finiscono con l'essere assunti a responsabili della gestione e nel sec. III per logica conseguenza vengono nominati dalle curie, che in origine erano loro subordinate. Ne consegue che, per esercitare la sua pressione e repressione, lo stato è in qualche modo obbligato a lasciare mano libera ai soldati nella violenza sui cittadini come sui contadini e favorisce quindi l'indisciplina dei soldati stessi. Che quindi l'esercito diventi sempre più fattore dominante, è ovvio: basti qui indicare la conseguenza che l'amministrazione militare tende sempre più a subordinare a sé tutta l'amministrazione statale, e il prefetto del pretorio allarga la sua competenza a pressoché tutta l'organizzazione finanziaria e all'amministrazione della giustizia, contrapponendo la sua autorità a quella imperiale. Celebri parole di Cipriano verso la metà del sec. III descrivono questo stato di collasso in cui l'Impero sembra precipitare; e sia pure che egli, come cristiano, sia portato a esagerare e rifletta troppo le condizioni peculiari dell'Africa: "minus de ecfossis et fatigatis montibus eruuntur marmorum crustae, minus argenti et auri opus suggerunt exhausta iam metalla et pauperes venae breviantur in dies singulos et decrescit ac deficit in arvis agricola, in mari nauta, miles in castris, innocentia in foro, iustitia in iudicio, in amicitiis concordia, in artibus peritia, in moribus disciplina" (ad Demetrianum, 3). La fiducia nella prosperità del periodo antoniniano è ormai distrutta.

La depressione interna veniva a coincidere con il rinvigorimento dello stato partico, passato nel 226 alla dinastia persiana dei Sasanidi e tosto dimostratosi capace di contrapporsi all'Impero con forze materiali e forme ideali, che non mancheranno di agire sulla stessa evoluzione dello stato romano: se anche l'introduzione del cerimoniale persiano alla corte imperiale e l'adozione di pratiche religiose, giuridiche, militari iraniche sia frutto di una secolare penetrazione in parte anteriore all'avvento dei Sasanidi, non c'è dubbio che il massimo di quella consegue al prestigio acquistato dalla nuova Persia, che, portando all'estremo le tendenze antiellenistiche già latenti negli ultimi Arsacidi, si riconnetteva agli Achemenidi. Altrettanto e forse ancor più grave il mutamento di cui erano già stato segno le guerre del tempo di Marco Aurelio, per cui la pressione dei Germani, mentre non veniva meno sul Reno, si faceva più forte sul Danubio a opera in specie dei Goti.

Disordine interno e minacce esterne contribuirono a costituire il cinquantennio più convulso della vita dell'Impero, di cui il segno più appariscente fu il pullulare di "usurpatori", che poi in realtà erano tali nella coscienza di pochi (se ne può trovare traccia nel lealismo senatorio della Historia Augusta, che ne fa una cronaca spesso infida), perché appunto sta morendo in questo periodo la convinzione giuridica che la legalità della nomina a imperatore consistesse nel riconoscimento del senato: e invano il senato difende le sue prerogative. Non c'è tuttavia chi non scorga di quale tragica grandezza sia questo declino, a cui reagiscono con fede violenta tutti coloro che credono nell'Impero. Il sincretismo religioso che non si distingue agli occhi dei più dal sincretismo politico trae forza dal suo orientamento monoteistico per contrapporsi al cristianesimo, che rimane estraneo, come a elemento disgregatore. Il centro dell'Impero si scosta tra le due frontiere più minacciate, il Danubio e l'Eufrate, il prodromo della fondazione della Nuova Roma a Bisanzio (il che del resto corrispondeva alla maggiore importanza economica e alla maggiore vitalità spirituale che momentaneamente dimostrava l'Oriente, donde provenivano tutte le religioni misteriche e il cristianesimo, che si conserverà greco di lingua perfino in Roma sino al sec. III); ma è in modo più immediato la prova del vigore consapevole con cui si pongono alla testa della resistenza le provincie illiriche. Dice un panegirico imperiale (Mamert., paneg. Maxim. Aug., 2, 2, p. 263, Baehrens). "Quis enim dubitat quin multis iam saeculis ex quo vires illius ad Romanum nomen accesserint, Italia quidem sit gentium domina gloriae vetustate, sed Pannonia virtute?"

Il passaggio sul trono del rozzo Massimino Trace, innalzato dai soldati dopo la morte di Severo Alessandro, è breve (235-238). Tenuto impegnato sul Reno e sul Danubio in lotte, vittoriose, contro Germani, Sarmati e Daci, non può controllare il resto dell'Impero, dove le sue esazioni sollevano malcontento. In Africa viene repressa la ribellione del proconsole M. Antonio Gordiano e del suo figlio omonimo; ma in Italia il senato tenta di restaurare la sua autorità scegliendo venti senatori a preparare la difesa del paese e a tutelare lo stato col nome di vigintiviri rei publicae curandae, e due di essi vengono poi nominati imperatori, Pupieno Massimo e Calvino Balbino, quasi limitandone la funzione a presiedere il collegio vigintivirale. La loro parificazione, che evidentemente doveva ricordare quella dei consoli repubblicani, è completa: entrambi sono nominati pontefici massimi. La rovina del sistema non veniva da Massimino, che anzi nella sua marcia in Italia era abbandonato e ucciso dai suoi soldati, ma dalle truppe di Roma, che prima esigevano la nomina di un nipote di Gordiano (il cosiddetto Gordiano III) appena adolescente a Cesare, poi provocavano conflitti, di natura non ben chiara, in cui i due rappresentanti dell'impero senatorio erano eliminati. Con Gordiano III il potere passa nuovamente ai soldati. Egli si appoggia sul governatore di Mauritania per liberarsi di una ribellione in Africa, e sul prefetto del pretorio Timesiteo, suo suocero, per condurre una controffensiva vittoriosa contro Sapore di Persia, avanzatosi sino ad Antiochia. Alla morte di Timesiteo (243), l'ufficiale che gli succede, M. Giulio Filippo, di origine araba, si prepara a conquistare il trono e l'anno dopo, mentre continuava la guerra contro i Parti, fa uccidere Gordiano. A questo Arabo tocca nel 248 di testimoniare in un'ora oscura la fede in Roma celebrandone solennemente il millenario di fondazione: nel resto il suo regno si esaurisce, dopo una frettolosa pace con la Persia, nelle lotte contro i Goti, finché viene ucciso in una battaglia presso Verona dal suo generale Quinto Traiano Decio, che, mandato contro l'usurpatore Pacaziano in Mesia, si era fatto usurpatore egli stesso (249). Il Genius Illyrici, che sta sulle monete di Decio, dice la sua origine e la sua ambizione di restauratore. In lui per primo la restaurazione politica vuole essere accompagnata dalla restaurazione religiosa, e tanto più fortemente in quanto il suo predecessore Filippo l'Arabo si sapeva filo-cristiano ed era detto cristiano. Che i cristiani fossero estranei all'Impero e perciò ne favorissero la rovina era affermazione ormai bisecolare. Piuttosto si noti, perché ciò è davvero significativo, con quanta malcelata preoccupazione e implicito desiderio di un compromesso ripetesse l'accusa, intorno al 180, il principale polemista anticristiano del tempo, Celso. Già Massimino Trace aveva avuto spunti di persecuzione anticristiana. Ora Decio obbliga tutti i cittadini "a libare, sacrificare e gustare delle carni sacrificali" in presenza di testimoni per documentare la propria fede negli antichi dei; ma il suo insuccesso in guerra è pari a quello in religione, perché egli moriva in battaglia contro i Goti (251). Passano rapidi sul trono (ed è notevole che alla loro proclamazione contribuisce di regola una fuggevole vittoria sui barbari) Treboniano Gallo e uno dei figli di Decio, Ostiliano, con il proprio figlio Volusiano; li segue un altro generale, M. Emilio Emiliano. Nel 253 in Rezia le legioni fanno imperatore il consolare P. Licinio Valeriano che si associa il figlio Egnazio Gallieno.

L'Impero sembra precipitare nel caos. Alamanni e Franchi passano il Reno; i Goti e i loro vicini sfondano ancora una volta il confine danubiano e giungono alle porte di Tessalonica; la Dacia è quasi perduta; la Mauritania e la Numidia sono sconvolte da ribellioni di indigeni; in Oriente i Persiani arrivano a occupare Antiochia. Valeriano combattendo contro di loro è sconfitto e, sia pure forse a tradimento, preso prigioniero (257 ?). La notizia, seguita poi da quella della morte dell'imperatore in prigionia, fece naturalmente un'impressione enorme: né fu scarsa l'importanza che egli finisse in quel modo dopo aver continuato la persecuzione anticristiana di Decio. I Franchi si precipitarono oltre la Gallia fino in Spagna; gli Alamanni scesero in Italia; i Goti e stirpi affini, anche per mare, approfittando della cronica debolezza marinara di Roma, dalle coste del Mar Nero dove si erano insediati saccheggiarono vaste zone dell'Asia Minore e della penisola balcanica. Nel 263 era semidistrutta Efeso, nel 267 saccheggiata da torme di Eruli Atene. La peste infieriva da anni su tutto l'Impero. La moneta crollava ogni giorno più. L'antoniniano non ha più che il 5% di argento nei conî di Gallieno. Gli usurpatori si moltiplicano: l'Historia Augusta dà loro il termine caratteristico, se non appropriato, di trenta tiranni.

Ma le energie spirituali non mancano alla resistenza. Gallieno la organizza tenace, infiammato da una fede, su cui si riflette quella del suo grande amico, il filosofo Plotino, sicché in qualche modo in Gallieno confluisce la reviviscenza pagano-neoplatonica del tempo. Perseguitare i cristiani non era forse nell'atmosfera filosofica di essa, pur tenuto conto della polemica anticristiana di Porfirio, il discepolo di Plotino. Non era in ogni caso possibile dopo la fine di Valeriano e con l'urgenza di concordia. Perciò Gallieno fece invece il primo effettivo passo al riconoscimento del cristianesimo come religio licita restituendo alle chiese i beni di cui erano state spogliate e confermando la restituzione direttamente ai vescovi, se anche tentò di contrapporre al cristianesimo una religione eleusina. La gravità stessa del momento spingeva l'imperatore a decisioni rivoluzionarie, e lo conferma la sua riforma militare, che è il più deciso passo nell'abbattere la costituzione augustea, spostando il potere dall'aristocrazia senatori a ereditaria ai militari di carriera. Il senato era sempre più lontano dall'esercito, come avevano confermato le vicende del 238; Gallieno riconosce il fatto e colpisce il senato stabilendo la divisione del comando militare, affidato ora a un cavaliere, dal governo civile nelle provincie governate da un senatore. Per di più è accentuata da lui e dai successori la tendenza, già manifestatasi con Settimio Severo, di affidare governi provinciali a cavalieri. Infine, per rimediare all'assenza dell'esercito di manovra, sono create unità di cavalleria, forse non senza qualche influenza partica, che dal centro dell'Impero fossero pronte ad accorrere al pericolo. Se alla riorganizzazione i molti usurpatori opponevano la maggiore difficoltà, taluni di essi costituivano poi anche centri vitali di resistenza contro i barbari, e sarebbe quindi assurdo volerne solo segnalare il valore negativo. Erano naturalmente quelli (a differenza, p. es., dei fratelli Giunio Macriano e Giunio Quieto in Asia Minore, di Ingenuo e Regaliano in Pannonia, del mauro Memore), che sapevano meglio consolidare in una determinata regione il loro potere. Tale soprattutto in Gallia Latinio Postumo, che per dieci anni (259-268), valendosi della ricchezza della regione, opporrà resistenza al potere centrale e ai Germani e, ucciso dai soldati ribelli, avrà ancora due successori, Piavonio Vittorino ed Esuvio Tetrico nel quadriennio 268-272 (?). E in fondo si può paragonare al governo di Postumo, quello di Odenato, all'estremo dell'Oriente in Palmira, sebbebe egli avesse il riconoscimento formale da Gallieno come corrector totius Orientis. Odenato, a cui il nazionalismo sasanidico faceva sentire più immediati i legami di interesse con lo stato romano, di cui era vassallo, vietando l'espansione verso Oriente, e a cui le ricchezze della città carovaniera potevano permettere una organizzazione militare non facile nel disordine economico del resto dell'Impero, fu l'autore della difesa contro i Persiani e riconquistò la Mesopotamia andata perduta: l'influsso di Palmira giunse a estendersi a tutto l'Egitto, rinnovando quella tendenza alla divisione in due parti dell'Impero, che più volte era già affiorata.

Gallieno fu vittima della stessa sua riforma militare: il comandante della sua nuova cavalleria, Aureolo, gli si ribellò ed egli fu ucciso da una congiura di generali, mentre lo stava assediando in Milano (268). I frutti del suo lavoro di riorganizzazione erano però colti dal successore Claudio, quando, dovendo immediatametite affrontare i Goti, li vinceva presso Naisso (Nis) in una battaglia, che liberava l'Impero per più di un secolo da un pericolo effettivo di sommersione germanica. Ma nell'atto stesso della vittoria veniva segnata la via, già del resto indicata da Marco Aurelio e da Caracalla, per tacere di altri precedenti, lungo la quale sarebbe avvenuta una continua penetrazione di elementi germanici nell'Impero: Claudio accoglieva schiere di vinti come coloni e soldati nell'impero a rinsanguarlo. L'imperatore soccombeva poco dopo alla peste (270?). Con Domizio Aureliano (270-275), la riunificazione dell'Impero, attenuato il pericolo gotico, può ormai svolgersi liberamente. Tetrico cede a lui il governo della Gallia e della Britannia, che, per inevitabile conseguenza aveva aderito al moto della Gallia; gli Alamanni che erano penetrati in Italia fino nell'Umbria sono ricacciati e s'inizia con l'esempio di Roma un'intensa attività per fortificare tutte le città dell'Impero e tornare a recingerle delle mura inutili da secoli. L'Oriente, di fatto distaccato sotto il governo della vedova di Odenato, Zenobia, e del figlio Vaballath, è riconquistato distruggendo Palmira. Che la situazione fosse sempre difficile indica la rinuncia a difendere la provincia della Dacia ormai definitivamente abbandonata. Le strettezze economiche obbligano a provvedimenti sempre più coattivi: ad Aureliano, p. es., risale verosimilmente la prima regolamentazione dell'istituto della ἐπιβολή, per cui i proprietarî di terreni fertili erano costretti ad assumersi il pagamento dei terreni deserti loro circostanti. Anche il tentativo di fermare la crisi monetaria era vano. Soprattutto permaneva l'irrequietezza dell'esercito, che non risparmierà nemmeno questo imperatore. Ma l'impero era salvo; e Aureliano faceva un nuovo tentativo di infondere vigore alla sua anima pagana riprendendo la diffusione del culto del "sole invitto" già caro a Elagabalo. Non è però di scarso significato per la crescente forza del cristianesimo che egli anche dopo aver vinto Zenobia, contrapponesse alle pretese del vescovo di Antiochia Paolo di Samosata, che di Zenobia era stato partigiano e consigliere, l'autorità del vescovo di Roma: in altre parole, era portato a sostenere il primato della Chiesa di Roma con la speranza di averla favorevole. Come per Gallieno, la restaurazione politica su base pagana aveva il suo limite nella necessità di tenere conto della realtà cristiana.

Del resto anche la politica antisenatoria di Gallieno non aveva tolto che il senato continuasse a rimanere l'unico organo permanente dello stato e quindi fosse in grado, ucciso Aureliano nel 275, di far accettare il suo candidato, Claudio Tacito. Il fatto era significativo non per la risoluzione della crisi di autorità, ma per la sua persistenza; e va posto sulla stessa linea dell'uccisione di Tacito poco dopo (276). Il successore Aurelio Probo, prevalso sul contendente Annio Floriano con l'aiuto delle legioni siriache, sebbene in realtà diretto continuatore delle tradizioni degl'imperatori illirici, tenace nella difesa di tutti i confini dal Reno all'Isauria e all'Egitto, preoccupato di restaurare l'agricoltura, ha da lottare sei anni con queste difficoltà interne, finché una ribellione di soldati, già preceduta da altre represse, lo elimina nel 282. Analoghe difficoltà toccano al prefetto del pretorio Caro, che, proclamato imperatore, si associa i due figli Carino e Numeriano, il primo infine come Augusto. Le imprese vittoriose ai confini vengono continuate: Caro è vittorioso contro la Persia e consolida la sovranità romana in Mesopotamia e mediatamente in Armenia. Ma l'esercito non è disciplinato. La morte di Caro lo manifesta. Il figlio Numeriano, che si trovava con chi in Oriente, è ucciso dal prefetto del pretorio Apro; i soldati per reazione proclamano imperatore Aurelio Diocleziano (284). Carino marcia contro Diocleziano in Mesia, dopo aver eliminato un usurpatore in Italia. Solo quando egli è ucciso in una battaglia già vittoriosa, le truppe di entrambi i partiti si trovano concordi nel riconoscere unico imperatore Diocleziano. Le legioni cominciavano dunque a essere sazie di lotte intestine.

Da Diocleziano a Costantino. - L'urgenza del pericolo e il contrasto stesso con il cristianesimo avevano rianimato una fede e una volontà di azione, che avevano salvato l'Impero. Ma ciò era avvenuto non già eliminando la estrinsichezza crescente dello stato all'individuo, bensì accentuando la trascendenza dello stato di fronte all'individuo, in conformità al nuovo generale atteggiamento degli spiriti, e perciò accrescendo di continuo l'irrigidimento della struttura economica e amministrativa dello stato. L'orientalizzazione della dignità imperiale (Aureliano si cingeva di diadema) è espressione dell'assolutismo, che si afferma più conseguente. Il senato avrà ancora efficacia nei secoli venturi, grazie al suo ordine permanente, al complesso di capacità tecniche e valori ideali che impersonava e infine alla potenzialità economica dei suoi membri. Come fonte di potere e come diretto organo della politica imperiale, soprattutto nell'amministrazione provinciale, non conterà quasi più. Il tramonto del principato augusteo ha la sua ora simbolica nell'avvento di Caro, che, sia pure per un'eccezione che non avrà seguito, non chiede più il riconoscimento del senato. Se ne accorse Aurelio Vittore (Caesares, 37, 5) e scrisse parole che valgono a suggellare un'epoca: "Abhinc militaris potentia convaluit ac senatus imperium creandique ius principis ereptum ad nostram memoriam". E infatti, pur permanendo anche in età bizantina la regola del concorso del senato all'elezione imperiale, la monarchia avrà la sua effettiva base, a cominciare da Diocleziano, nell'investitura divina: già di Aureliano ci è conservata una dichiarazione che "la divinità" gli aveva donato la porpora. Perciò il sovrano non dovrà più essere egli stesso dio; e nemmeno ne avrà bisogno, a sostegno della sua autorità. Del resto, al punto in cui era di depressione economica, che paralizzava l'iniziativa privata, di assenza d'interesse concreto per i problemi dell'Impero negli spiriti migliori, lo stato romano era senz'altro lanciato sulla strada di rendere più serrata quella struttura sociale, con cui era uscito dal caos. Diciamo anzi con rigore: il far discendere direttamente la propria autorità dalla divinità esprimeva la riluttanza degli uomini di mediare in sé la sorgente del potere imperiale.

Il punto essenziale era di vedere se ciò doveva avvenire contro il cristianesimo o con il cristianesimo. Ebbene, è appunto criterio per constatare i limiti della reazione pagana del sec. III lo scorgere che se Diocleziano ne coronava gli sforzi in un estremo tentativo di distruggere il cristianesimo, il medesimo cristianesimo conquisterà poco dopo l'anima e il senso di opportunità politica di Costantino. Diocleziano conclude l'età della restaurazione dell'Impero su base pagana: Costantino apre quella ben più delicata e complessa di inserire nella coscienza cristiana lo stato romano. Costantino però non si comprenderebbe, se già prima di Diocleziano Gallieno e Aureliano non avessero dovuto venire incontro al cristianesimo e se, per guardare al fenomeno più profondo, il monoteismo sincretistico pagano, nello stesso opporsi al cristianesimo, non avesse preparato le coscienze a intenderlo. D'altro lato nello stesso sviluppo della Chiesa c'era ormai la condizione, che, senza eliminare le difficoltà più profonde del rapporto fra città terrena e città divina, rendeva più agevole la comprensione dell'Impero. Cominciava a farsi chiaro che l'universalità dell'organizzazione imperiale era il quadro su cui si estendeva l'universalità dell'organizzazione ecclesiastica. Come dirà S. Ambrogio: "Didicerunt omnes homines sub uno terrarum imperio viventes unius Dei omnipotentis imperium fideli eloquio confiteri". Intanto, che la teoria del diritto divino degl'imperatori, si sostituisse all'identificazione con la divinità in sempre più larghe cerchie, rendeva possibile di trasferire al Dio cristiano l'investitura degl'imperatori.

Pochi sovrani incarnano come il dalmata Diocleziano una rigida, quasi geometrica, volontà di ordine e di stabilità. Le sue riforme sono state realizzate gradualmente e, con molta probabilità, senza intenzione in origine di estenderne sistematicamente la portata: ma la consequenzialità del suo spirito ha dato un'unità di fatto anche là dove forse non era unità di intenzioni. Così è del sistema tetrarchico nel governo dello stato, stabilitosi in più momenti, prima con l'elevare a Cesare l'amico Valerio Massimiano (285), poi con il nominarlo Augusto (286), poi ancora con lo scegliere nel 293 per sé e per il suo collega un figlio adottivo e successore (Cesare) rispettivamente nelle persone di C. Galerio Valerio Massimiano e di C. Flavio Costanzo (Cloro), e infine (forse dal 303) con l'erigere a norma, se non costituzionale, consuetudinaria per quanto sembra, l'abdicazione a data fissa dei due Augusti in favore dei due Cesari, i quali avrebbero dovuto nell'atto del trapasso del potere scegliersi due successori. Basta infatti riflettere che questo ordinamento non era possibile fino al 293, in cui Diocleziano e Massimiano furono costretti a tollerare accanto a sé come terzo collega Carausio, che si era impadronito della Britannia e, con l'aiuto di bande germaniche e di una flotta bene organizzata, detenendo anche in Gesoriaco una testa di ponte in Gallia, si era costituita una potenza autonoma. L'inizio della lotta contro Carausio nel 293, non troncata dall'assassinio del medesimo l'anno dopo, ma proseguita vittoriosamente fino al 297 contro il successore Alletto, è anche l'inizio di una conseguente riforma costituzionale. La quale doveva garantire, con la ripresa del principio di adozione, la stabilità nella successione dei migliori e nello stesso tempo permettere che il governo dello stato fosse in fatto diviso tra sovrani subordinati all'autorità dell'Augusto più anziano (e Diocleziano rimarrà invero la mente direttiva). Le guerre continue avevano reso evidente la necessità che l'autorità imperiale si spostasse verso la periferia per farsi sentire presente; il che non era possibile se non dividendo il potere. Perciò Diocleziano, che aveva un senso vivo del romanesimo, seppure, come vedremo, inevitabilmente incrociato con abitudini venute d'Oriente, e curò come nessun altro la diffusione del latino nell'Impero, fu il primo imperatore ad abbandonare totalmente come sede Roma: Nicomedia sarà la sua residenza preferita, come Milano quella di Massimiano. La riforma costituzionale portava con sé la riforma dell'esercito, perché l'azione dei quattro sovrani poteva essere efficace solo se, oltre alla milizia di confine, ciascuno di essi avesse potuto disporre, perfezionando il principio già instaurato da Gallieno, di un'armata da manovra. Donde la distinzione, che rimarrà fondamentale, fra le truppe di frontiera (limitanei) e l'armata mobile (comitatus, comitatenses) costituita da elementi migliori e privilegiati. Perciò, e per altre ovvie ragioni di difesa, il numero complessivo dei soldati fu accresciuto, seppure in misura non ben nota; e nello stesso tempo fu moltiplicato il numero delle legioni, riducendo il numero degli effettivi delle legioni (circa mille uomini), che, nella loro anteriore forza (circa 5000 uomini), avevano cessato già da tempo di costituire delle unità tattiche. In tal modo veniva naturalmente anche tolta ogni importanza ai pretoriani, che infatti saranno dissolti pochi anni dopo, al tempo di Costantino, e veniva quindi eliminata la base alle usurpazioni dei prefetti del pretorio, che da Costantino resteranno come impiegati civili. Ma, in un tempo di continue usurpazioni, la necessità di attribuire esigue truppe a ciascun governatore era tanto più ovvia, e del resto corrispondeva al principio di capillarità esteso da Diocleziano a tutta l'amministrazione imperiale che il numero delle provincie fosse moltiplicato. La riforma senza sistematicità, ma con coerenza, fu a poco a poco estesa a tutto lo stato, mantenendo ferma la distinzione di Gallieno tra comandante militare, di regola alla testa di due legioni, e comandante civile. L'Egitto, ora diviso in tre provincie fu subordinato a un'amministrazione normale. L'Italia (distretto di Roma eccettuato) fu ridotta alla stessa posizione: estrema conseguenza, ma quasi solo più formale, dell'editto di Caracalla. Le provincie erano riunite soprattutto ai fini giurisdizionali in dodici diocesi, sotto vicarii: l'Italia in particolare divisa in due diocesi, di cui quella intitolata al vicarius in urbe Roma lasciava in realtà la città sotto la vecchia giurisdizione del prefetto. A sua volta le diocesi dipendevano dalle prefetture del pretorio, di numero oscillante (nel sec. V sempre quattro), sebbene l'ordine gerarchico tra provincie, diocesi, prefetture e imperatore non fosse così rigoroso da non permettere e qualche volta da obbligare, per un maggiore controllo, a trascurare nella procedura l'autorità immediatamente superiore. Le provincie d'Africa e d'Asia, come ultimi resti della vecchia amministrazione del Senato, ora abolita, dipesero direttamente dall'imperatore. La capillarità della riforma provinciale aveva ragioni di difesa, ma anche di finanza. D'altronde è chiaro che la riforma militare portava nuovi enormi oneri all'impero già esausto. Diocleziano aveva cercato di porre rimedio all'inflazione tornando a coniare oro e argento reali e stabilendo il rapporto di una libbra d'oro di 322 ½ gr. = 50.000 denari (mentre alla fine del sec. II ne equivaleva a poco più di 1100). Gli effetti furono esigui, e fu uno dei motivi, insieme con quello di impedire speculazioni sui rifornimenti militari, dell'editto dei prezzi del 301, altrettanto famoso quanto inutile, in cui si tentava di fermare le conseguenze dell'inflazione. La coerenza del sistema imponeva in materia di rapporti commerciali la stessa fissità che si andava attuando altrove. Ma poiché il ritorno a una base monetaria sana appariva e apparve in seguito sempre più problematico, il riordinamento fiscale non poteva che assumere il carattere di gravame in natura, pur non escludendo la convertibilità dei pagamenti in denaro. Di qui l'assunzione dell'annona, cioè dei rifornimenti per l'esercito moltiplicatisi lungo il sec. III, a tassa fondamentale, ponendo il principio che costituissero unità fiscale sia il pezzo di terra (iugum) sia l'individuo (caput) che lo coltivava. Sulle conseguenze più remote della riforma sarà fatto cenno oltre. Non c'è dubbio che, prese nel complesso, le misure di Diocleziano ebbero però la loro efficacia immediata non solo nel ristabilire l'ordine, ma nel dare allo stato possibilità di una politica militare vigorosa la quale si estese dal Reno all'Egitto (dove vi fu da reprimere anche la ribellione di Achilleo) con pieno successo. Decisivo soprattutto fu il risultato della guerra contro la Persia, che intorno al 296 con il re Narsete era tornata all'offensiva, perché Narsete, sconfitto da Galerio, dovette cedere alcuni distretti sia all'impero, sia all'Armenia, già da qualche anno ricondotta alla tutela romana (297).

Tutto ciò veniva compiuto in nome delle figure divine, a cui i due Augusti riportavano la loro investitura e che consideravano loro prototipi: Giove ed Ercole, per cui Diocleziano era Iovius e Massimiano Herculius. Gli epiteti erano, s'intende, la giustificazione del potere e anche la chiarificazione più palese della differenza di rango che rimaneva tra Diocleziano e il suo collega. Per di più costituivano la premessa del cerimoniale sempre maggiore e più direttamente imitato dalla Persia entro cui gl'imperatori si isolavano dan loro sudditi; dove appunto si vede che nella volontà di rimanere nella tradizione romana, che traspare dalle stesse divinità scelte (tanto più significative in quanto Diocleziano era cultore di Mitra), si inserisce il costume orientale. La conseguenza verso il cristianesimo, che rimaneva estraneo a tutto questo fervore nel nome di Giove e di Ercole, era inevitabile: il suo anti-militarismo urtava particolarmente un governo sotto il quale tutta l'amministrazione stava militarizzandosi. Dopo che già era stato colpito il manicheismo, più sospetto come proveniente dalla Persia, anche il cristianesimo tra il 302 e il 304 fu sottoposto (per principale iniziativa di Galerio) a sanzioni crescenti, che avrebbero dovuto distruggerlo.

Perché il cristianesimo sia rimasto intatto è a questo punto superfluo chiedersi. Un episodio può spiegare la sua forza, se anche, soprattutto in Occidente, la grande maggioranza era ancora pagana. In queglì anni si convertiva al cristianesimo il re di Armenia Tiridate, e da allora saranno gli ambienti cristiani di Armenia quelli che faranno politica favorevole all'impero.

La crisi del sistema di successione immaginato da Diocleziano coincise quindi con la cristianizzazione del governo dell'impero. Era questo il punto in cui la situazione stessa non solo sollecitava la tolleranza, ma rendeva possibile il concepimento di un impero su base cristiana, come soluzione politica insieme e religiosa. Il 1° maggio 305 Diocleziano e Massimiano abdicavano: Galerio e Costanzo sceglievano a Cesari Massimino Daia e Valerio Severo. Il principio di adozione era mantenuto, ma offendeva il senso dinastico venutosi sviluppando nell'esercito, forse come punto fermo di fronte alla turbolenza del secolo precedente. Alla morte di Costanzo Cloro nel 306 le truppe galliche proclamavano successore il figlio Costantino; e a Roma i cittadini colpiti da un tentativo di Galerio di sottoporli alla tassa di capitazione si univano con i superstiti pretoriani per proclamare Augusto il figlio di Massimiano, Massenzio. Costantino era per il momento pacificato con il riconoscerlo Cesare: non così Massenzio, il cui prestigio dissolveva l'esercito portatogli contro da Severo (tosto ucciso). Complicava la situazione l'impazienza di Massimiano di riprendere il potere, né Diocleziano poteva trattenerlo se non per un momento. Massimiano si urtava col figlio Massenzio, e poi anche con Costantino, che probabilmente lo uccideva, mentre Galerio si nominava collega per il posto di Augusto vacante Liciniano Licinio. La nomina irregolare (Licinio non era Cesare) spingeva Massimino Daia e Costantino ad assumere il titolo di Augusto. I due Augusti erano diventati quattro, e restava fuori del sistema Massenzio che dall'Italia aveva esteso il governo in Spagna (310).

Tutti questi eventi dimostravano intanto che Diocleziano non era riuscito a eliminare il pericolo dell'insubordinazione degli eserciti. Necessariamente più oscura la parte che il cristianesimo ebbe nelle coscienze. Che tuttavia si sentisse nella vicenda, che minacciava di riportare il caos nello stato (già una ribellione in Africa lo indicava), la mano del Dio cristiano, dice il gesto di Galerio. Poco prima di morire, nell'aprile 311, ridava libertà di culto ai cristiani d'accordo con Licinio e Costantino. L'unico a resistere fu Massimino Daia, che tentò di contrapporre nelle sue provincie di Oriente un'organizzazione ecclesiastica pagana a quella cristiana. Era del resto ben significativo che le truppe avessero voluto a successore di Costanzo, astenutosi il più possibile dalla persecuzione dei cristiani, il figlio ugualmente incline a un monoteismo sincretistico. Con Galerio moriva anche l'ultimo che potesse mantenere l'accordo tra gli Augusti. Il conflitto più grave arse tra Massenzio e Costantino, che deteneva la Gallia e aveva strappato da poco la Spagna. Già alcune azioni contro i Germani avevano dimostrato l'abilità manovriera di Costantino: ora lo riconfermava la spedizione in Italia del 312, di rapidità napoleonica, suggellata dalla vittoria al ponte Milvio (28 ottobre 312), in cui Massenzio perdette la vita. Poco dopo Costantino stringeva a Milano un accordo con Licinio, che permise a quest'ultimo di combattere con le spalle sicure Massimino Daia che lo aveva aggredito; e anche Massimino fu eliminato (313).

La guerra tra Licinio e Massimino può forse dirsi un conflitto tra cristianesimo e paganesimo: non così quella tra Costantino e Massenzio, di cui il secondo non cedeva al primo in fatto di tolleranza verso i cristiani. Ma se già la tolleranza, come si era imposta a Galerio, era un rivolgimento religioso, Costantino, per una repentina illuminazione, aveva combattuto con il segno di Cristo inciso sugli scudi, e la vittoria gli parve conferma dell'aiuto divino. Per quanto oscuri siano i particolari, per quanto difficile sia la psicologia di Costantino - e sia difficile a discernere fino a che punto il suo spirito arrivò a scindere il Dio cristiano dal Sole sincretistico, a cui egli stesso sarà identificato in una statua eretta a Costantinopoli - egli fu da allora fondamentalmente al servizio di Cristo. Se quindi nell'accordo di Milano con Licinio la libertà di culto era riconfermata e deliberata la restituzione dei beni ecclesiastici confiscati, ciò in fondo era troppo poco: Costantino, benché sia rimasto fuori della Chiesa fino alla vigilia della morte, presentiva nell'unità della Chiesa un nuovo fondamento all'unità, e quindi alla salvezza, dello Stato, e fu per il rafforzamento della Chiesa in ogni forma gli fosse intelligibile, in uno Stato ancora in maggioranza pagano. Lo stesso valore che egli dava alla Chiesa come fondamento allo Stato lo portava a scorgere nell'imperatore il supremo regolatore delle questioni religiose. Da questo punto di vista il cesaropapismo, erede, come dicemmo, della prassi imperiale di unificare sommo sacerdozio e imperio, ha in lui la sua prima espressione. Ma c'è anche l'atteggiamento, se non opposto, diverso: di chi si sente strumento di Dio fuori della Chiesa e si proclama (secondo una sua frase riportata da Eusebio, Vita di Costantino, 4, 4) "vescovo di coloro che stanno fuori (della Chiesa)", che è quanto dire di eretici e di pagani (secondo la più probabile interpretazione); sicché viene riconosciuta l'autonomia dell'azione dei vescovi entro la Chiesa. Le due vie della politica ecclesiastica dell'impero (passa per la seconda anche Giustiniano!) partono entrambe da Costantino; e la seconda ha già nei tempi di Costantino, come vedremo subito, il suo correlativo in posizioni ben nette nell'interno della Chiesa.

Non mai così poco come allora la Chiesa poteva soddisfare l'aspirazione di un imperatore verso l'unità. Il donatismo in Africa e l'arianesimo in Egitto si venivano manifestando: indizio di un travaglio che investiva la vita di provincie intere e si complicava con moti rivoluzionarî di indigeni, come i circumcellioni in Africa; ma anche misura dell'enorme somma di forze che la Chiesa aveva coordinato intorno a sé. Costantino tentò di sanare l'uno e l'altro dissenso - che in concreto voleva anche dire garantirsi la fedeltà di Africa e d'Egitto, i granai dell'impero - con i due concilî di Arles (314) e di Nicea (325), il secondo da lui personalmente aperto e forse presieduto. Che quei concili, e soprattutto quello di Nicea, per il fatto stesso di essere ecumenico, fossero un trionfo solo per la Chiesa, non per la sua politica, è affermazione ingannevole. Ingannevole perché disconosce che il legame così stabilito con la Chiesa era in ogni modo un rafforzamento di incommensurabile valore per l'Impero, che ne assicurerà la vita ulteriore: gli undici secoli seguenti dell'Impero d'Oriente e la restaurazione carolingia in Occidente hanno qui la loro radice. È indubbio che Costantino otteneva con il cristianesimo il ristabilimento dell'autorità imperiale che i suoi predecessori non erano riusciti a ottenere se non insufficientemente contro il cristianesimo. Questo è il risultato fondamentale del suo governo. La citata affermazione non è però più ingannevole se si vuole ribadire che già in questa collaborazione iniziale tra Chiesa e Impero si confermava che ormai la sorgente maggiore di energia e quindi di iniziative era nella prima. Quanto più la Chiesa viveva alla luce del sole, tanto più si constatava che essa, non lo Stato, dava agl'individui la ragione di vita e di morte, che era vicina a ogni sofferente e perseguitato, che offriva nei suoi vescovi, martiri e santi le grandi personalità affascinatrici di folle. Né mancava chi nella Chiesa, ben consapevole del suo fondamento divino, si ribellava a vederla subordinata allo Stato, se pure questi la favorisse e proteggesse. Il monachesimo, che si organizza e si diffonde, appunto nel sec. IV, è solo la manifestazione estrema dell'esilio dallo Stato che si impongono molte coscienze cristiane: non è caso che si origini e si divulghi dapprima soprattutto in Oriente, dove per un lato l'autorità dello Stato sulla Chiesa è più forte e per un altro è più diffuso il manicheismo, parallela e più radicale e pessimistica negazione della vita civica. La ragione più profonda del conflitto tra Costantino e Atanasio - il vescovo di Alessandria avversario dell'arianesimo, che Costantino inviò in esilio come ostile alla sua politica di pacificazione - sta nei diritti della Chiesa che quest'ultimo contrappone alle ingerenze dello Stato. Con la cristianizzazione dell'Impero nasce anche il conflitto più intimo tra Stato e Chiesa come autorità universali; cioè, il conflitto tra comunità esteriore e comunità interiore, che nel sec. III aveva avuto l'apparenza di semplice contrasto fra lo Stato pagano e la comunità cristiana, ora si manifesta nella sua reale complessità.

Perciò, anche dando alla Chiesa una nuova posizione gìà chiaramente volgente al privilegio (i primi riconoscimenti della giurisdizione ecclesiastica risalgono a Costantino), lo Stato non può perdere quel carattere di coazione, che è correlativo alla sua estrinsechezza all'animo dei sudditi. E perciò Costantino, mentre abolisce la legislazione religiosa di Diocleziano, ne perfeziona la riforma amministrativa e militare e le dà l'impronta definitiva. Diocleziano aveva riformato soprattutto gli organi periferici, Costantino riforma quelli centrali. Si costituiscono i nuovi alti dignitarî: il quaestor sacri palatii, redattore delle leggi e dei rescritti imperiali; il magister officiorum, una specie di cancelliere con vasti poteri di controllo, da cui dipende il corpo di polizia degli agentes in rebus, nonché il corpo delle scuole palatine (v. oltre); i due comites sacrarum largitionum e rerum privatarum, che in concorrenza tra loro, con i prefetti del pretorio e anche con altri funzionarî, amministrano le finanze imperiali. Il carattere sempre più orientale che assume la corte fa sì che gli alti impiegati dello Stato si confondano ancora più di prima con i familiari dell'imperatore: comes diventa titolo per una quantità di funzionarî ordinarî e straordinarî, mentre d'altro lato assume crescente importanza il primo eunuco di corte il praepositus sacri cubiculi. Il vecchio consilium dell'imperatore, di cui già Adriano aveva elevato l'importanza, diventa il più alto organo di consultazione sotto il nome di consistorium. Il prefetto del pretorio è privato di ogni comando militare, che passa ai magistri militum, al tempo di Costantino due, uno per la cavalleria e uno per la fanteria, più tardi un numero maggiore e non più limitato a un'arma sola. In compenso cresce l'importanza del prefetto del pretorio nell'amministrazione civile: non è più ammesso il ricorso dal prefetto all'imperatore, il che d'altra parte obbliga al controllo del prefetto e dei suoi subordinati per vie indirette. Nel complesso non solo ogni singolo imperatore ha ormai una finanza e un esercito proprio, ma i prefetti del pretorio, teoricamente collegiati, in pratica isolati ciascuno nella propria prefettura, dispongono di una organizzazione propria; e gli imperatori successivi reagiranno a stento al loro crescente assorbimento delle disponibilità finanziarie. Spariti fin dall'inizio del regno i pretoriani, vengono sostituiti con le truppe scelte delle scuole palatine, costituite nella grande maggioranza di Germani, e il titolo di palatine è inoltre attribuito alle migliori legioni e truppe ausiliarie dei comitatensi, sicché effettivamente l'esercito di manovra viene costituito di tre sezioni. Il riordinamento fiscale è completato con nuove tasse: dato un carattere di maggiore stabilità alle offerte straordinarie che già prima partivano dai senatori (aurum oblaticium) e dalle città attraverso le curie (aurum coronarium), viene aggiunta una nuova tassa fondiaria sui senatori (collatio glebalis) e una sui commercianti (auri lustralis collatio). I contribuenti si curvano sotto i maggiori pesi; ma le finanze dello Stato, nelle condizioni di tranquillità politica, continuano indiscutibilmente ad assestarsi, e può riuscire infine a Costantino di costituire con il solido d'oro e la siliqua d'argento le basi per una circolazione risanata, anche se non esente da imperfezioni.

Non si possono elencare ragioni precise, che nessuno dell'antichità ci trasmette, ma si intuisce senza difficoltà che il nuovo cosmo imperiale così costituito voleva una nuova capitale. Costantino si era appena liberato nel 324 di Licinio, voltosi da ultimo in favore dei pagani per un comprensibile contrasto di interessi personali e dinastici, che già intraprendeva la trasformazione di Bisanzio nella "nuova Roma" Costantinopoli. Ancora inaugurata nel 330 con riti pagani, Costantinopoli era però nella sostanza, a differenza di Roma, una città cristiana, era libera dalla tradizione del principato di cui il senato romano si sentiva investito, corrispondeva infine alla condizione strategica ed economica dell'Impero. Tuttavia la nuova residenza imperiale non sostituì nei privilegi l'antica. In un primo tempo non le fu nemmeno parificata: i senatori del nuovo senato ebbero rango inferiore a quello del senato romano; la città ebbe per governatore un proconsole e non un prefetto. Ma anche quando nel 359 tali limitazioni alla dignità della nuova Roma furono tolte, si tratterà sempre di parificazione, non di sostituzione. Nonostante la volontà di unificazione di Costantino, la nuova Roma infatti non poteva superare, ma anzi solo aiutare a concretarsi tutto ciò che nella struttura dell'Impero conduceva alla scissione dell'Oriente e dell'Occidente, dalla differenza di lingua alla correlativa differenza di abitudini mentali, dalla differenza di situazione politica, soprattutto nei riguardi dei Germani, all'almeno in parte correlativa differenza di prosperità economica per giungere ora alla differenza di esperienza religiosa nell'interno del cristianesimo, che in Occidente, meno diffuso, era però più dogmaticamente tranquillo, più preoccupato di questioni morali che di controversie teologiche. Le stesse contraddizioni nell'atteggiamento di Costantino di fronte alla nuova residenza imperiale (e non si dimentichi che egli contribuì più di ogni altro a rivestire la vecchia Roma dei suoi maggiori edifici cristiani) erano una rivelazione di questo dissidio, che presto si trasformerà anche in competizione fra le due sedi episcopali. Già nel 381 Costantinopoli pretenderà come nuova Roma il secondo posto dopo la cattedra di Pietro e se non si giungerà che nel 484 a un primo scisma, dopo che il concilio di Calcedone del 451 aveva rafforzato la posizione metropolitana della nuova capitale, ciò fu dovuto forse in grande parte all'involontaria influenza equilibratrice che ebbe il patriarcato di Alessandria per il fatto stesso di rivendicare in un involuto giuoco diplomatico la sua autonomia sia contro Roma sia contro Costantinopoli. Costantinopoli poteva essere solo il centro di cui l'Oriente ancora mancava per maturare il proprio distacco dall'Occidente: non poteva annettersi l'Occidente. Sicché per l'Occidente la fondazione di Costantinopoli costituirà un passo decisivo nel dare una propria forma peculiare allo spostamento dall'Impero alla Chiesa. L'antica città degl'imperatori diventerà la città dei papi. Il che in altre parole significa che, per quanto il prevalere dell'attività spirituale e quindi sociale della Chiesa fosse comune all'Oriente e all'Occidente, il collegamento tra Impero e Chiesa sarà assai più forte in Oriente che non in Occidente. Ne è prova che solo in Oriente le divisioni territoriali ecclesiastiche fossero fatte coincidere con quelle politiche. Ed è prova ancora maggiore che nel conflitto tra Costantino e Atanasio, aggravatosi con il figlio di Costantino, Costanzo II, la Chiesa romana stesse per Atanasio, cioè in definitiva (e in ciò confluisce l'incipiente conflitto con Costantinopoli) contro la subordinazione della Chiesa allo Stato.

In tale senso, la fondazione di Costantinopoli rendeva esplicito non solo il valore, ma anche il limite della decadenza dell'Italia nell'interno dell'Impero. Da un certo angolo visuale - già sappiamo - tutta la storia dell'Impero è storia della decadenza dell'Italia, dalla posizione di privilegio di fronte alle provincie. Ma questa decadenza, se era conseguita in parte alla pressione morale, economica, militare delle provincie, non era stata mai un abbandono inerte: dalla stessa Italia si espressero gli uomini che più energicamente, a cominciare da Cesare, tesero alla parificazione dell'Italia con le provincie. Di qui la permanente vitalità dell'Italia e di Roma, che ne costituiva il centro (e fors'anche in linea subordinata di altre città, come Milano), per cui, nell'atto stesso che il potere politico andava esulando dall'Italia, veniva rafforzandosi e acquistando una maggiore sfera di azione il potere spirituale che sulla parità universale entro la Chiesa fondava la sua ragione d'essere e perciò dava a Roma la sua ragione essenziale di contrapporsi a Costantinopoli.

Tutti i varî aspetti del problema dei rapporti fra Chiesa e Stato sono dunque già nel regno di Costantino. E con lui quindi si definisce in questo come in tutti gli altri caratteri la fisionomia del Basso Impero. Lo sviluppo costante dell'organizzazione ecclesiastica è ormai uno dei fattori essenziali per la costituzione della nuova struttura sociale, soprattutto dopo che viene riconosciuto alla Chiesa il diritto di ereditare, si sottraggono i suoi membri ai munera dei civili, si concede una giurisdizione ai vescovi e li si sottrae alla giurisdizione temporale, una determinazione del 355 risorta, in parte, dopo l'abolizione di Giuliano, per le cause civili forse al tempo di Valentiniano I e anche per le cause penali al tempo di Onorio. Le dottrine cristiane influiscono largamente sullo sviluppo della legislazione, soprattutto per ciò che concerne la famiglia: e parallelamente si costituisce il diritto canonico, in Oriente dai canoni conciliari orientali e dalla dottrina dei Padri della Chiesa, in Occidente oltre che dai canoni conciliari, sia occidentali sia orientali, dalle decretali romane. Il diritto di asilo nelle chiese, invano contestato a lungo dagl'imperatori, finisce con l'essere riconosciuto nel sec. V. I concilî diventano ipso facto grandi assemblee dell'Impero o delle provincie da cui sono adunati i vescovi e affiancano le vecchie assemblee provinciali con ben altra autorevolezza. I vescovi intervengono dovunque nella vita civile. L'animatore della difesa di Nisibi assediata nel 337 è il vescovo. Firmico Materno nel suo De enore profanarum religionum scritto intorno al 347 invoca forse per la prima volta il braccio secolare. Attraverso la vita ecclesiastica prendono o riprendono vigore in Oriente gli elementi indigeni estranei alla civiltà ellenistico-romana. Sorgono la letteratura copta, siriaca, armena, segno di una partecipazione di classi nuove alla vita intellettuale. Ma più importante è che in Occidente la Chiesa assuma invece la funzione di difendere il latino contro il dilagante prestigio dell'educazione retorica e filosofica greca: che diventerà poi uno dei tanti elementi con cui la Chiesa si fa erede della tradizione imperiale latina. In tutto ciò inevitabilmente, e per gli stessi dissidî teologici e per le questioni di primato tra le sedi più importanti, germi di separatismo potenti, sebbene contrastati dall'universalità dell'idea ecclesiastica.

L'azione della Chiesa verso le classi più umili ha, nei suoi aspetti economici e politici, un'efficacia parallela e concorrente a quella dei grandi signori laici, il cui affermarsi costituisce il secondo importante momento del processo sociale, che conduce al Medioevo. Nella Chiesa, come nei signori laici, i contadini e la plebe cittadina vedono delle forze che possono limitare l'oppressione dello Stato. La Chiesa ha il vantaggio incommensurabile dal punto di vista materiale e morale di poter offrire un cambiamento di stato con l'entrata nelle gerarchie ecclesiastiche e col monachesimo sempre più diffondentesi (quando lo Stato però, preoccupato dalla gravità del fenomeno, non riesca a impedirlo ponendo limiti - naturalmente di dubbia efficacia - all'entrata negli ordini). Ma i signori laicì hanno il vantaggio di essere alti funzionarî dello Stato e di poter paralizzare dall'interno il meccanismo fiscale dello Stato. Del resto dalla debolezza dello Stato signori laici ed ecclesiastici sono ugualmente favoriti nell'estendere i loro possessi e quindi il loro prestigio: l'imperatore deve fare doni di terra ai signori che tiene ad avere amici; per ripristinare la coltivazione delle terre abbandonate prende enorme sviluppo l'istituto dell'enfiteusi, avvio alla proprietà privata per chi ha la possibilità economica di assumersi il carico iniziale; lo stesso istituto della ἐπιβολή favorisce l'allargamento dei possessi dei ricchi. Il latifondo privato assume un'estensione enorme ai danni anche del latifondo demaniale, cioè si mettono le basi del futuro feudalesimo. L'istituto del patrocinio verso gli umili che ne consegue è poi naturalmente ulteriore avvio all'allargamento perché il patrono (lo dice lo stesso nome) si trasforma in padrone. Salviano a metà del sec. V descrive mirabilmente il fenomeno, che però è in pieno sviluppo nel sec. IV (come basterebbe a dimostrare l'orazione di Libanio Περὶ προστασιῶν): "Tradunt se ad tuendum protegendumque maioribus, dediticios se divitum faciunt et quasi in ius eorum dicionemque transcendunt" (De gubern. Dei, V, 38). Va da sé che questi grandi proprietarî privati non hanno però nessun interesse a frenare lo Stato nella strada di legare alla terra il contadino con il colonato ereditario e di legare il curiale e l'artigiano o l'intraprenditore rispettivamente alla sua curia e alla sua corporazione. Il procedimento, come sappiamo, era nella linea logica di una politica che tentava di reagire al malessere economico irrigidendo la struttura sociale. Più particolarmente l'ereditarietà del colonato che compare per l'appunto al tempo di Costantino, aveva la sua ragione immediata nel sistema fiscale dioclezianeo, che, per poter funzionare, esigeva la certezza che un numero fisso di capita fosse correlativo a un numero fisso di iuga; e ragioni fiscali analoghe si possono trovare facilmente per l'ereditarietà del decurionato e della corporazione. Ora è ovvio che era anche un vantaggio delle categorie privilegiate, che di diritto o di fatto potevano sfuggire ai varî pesi fiscali o ai varî munera, l'essere assicurati che le classi inferiori fossero tenute ben vincolate ai loro obblighi o potessero liberarsene solo ricorrendo al loro aiuto. Donde la conseguenza che il vincolo per l'inferiore era ragione di autonomia di fronte allo Stato per il superiore. Né lo Stato sapeva come liberarsi da questo circolo vizioso. Se anche infatti cercava di portare aiuto alle classi basse, come nella creazione dei defensores plebis, che si diffonde dal tempo di Valentiniano I e vorrebbe servire a tutela dei diseredati, le classi alte si impadroniscono del posto; e se poi il posto di defensor decade, è ancora un potente, il vescovo, che lo sostituisce, e con molta più efficacia.

A questo organizzarsi di forze private lo Stato cerca in qualche modo un contrappeso nel ricorrere al servizio dei barbari, di solito Germani. Non solo i ranghi dell'esercito sono sempre più riempiti da Germani (ed è importante che germaniche siano di regola le truppe più vicine all'imperatore), ma per necessaria conseguenza i Germani giungono sempre più spesso alle alte cariche: lo Stato trova fuori dei confini quegl'individui idonei al comando che entro l'Impero non trova più, non perché non ci siano, ma perché diventano vescovi o abati di monasteri. Non manca di solito a questi Germani fedeltà. Tuttavia le conseguenze sono chiare. L'infiltrazione che così avviene di elemento germanico nell'esercito, insieme con l'infiltrazione nella vita civile - per cui Sinesio nella seconda metà del sec. IV trovava le case romane d'Africa piene di servi goti e sciti -, trasforma e debilita a poco a poco l'organizzazione statale; e tanto più il fenomeno si aggrava, quando all'assunzione individuale si aggiunge l'insediamento di intere masse su territorio imperiale come alleate (federate) e quindi autonome nella loro organizzazione interna, salvo un obbligo, talvolta reale, talvolta però solo formale, di prestazione di servizio militare; allora sono veri nuclei di Stati romano-barbarici, che si vengono costituendo. Abitudini germaniche sostituiscono le romane nella vita militare: spariscono pilo e gladio, le vecchie armi romane; s'introduce la tattica dell'assalto a cuneo; si adottano cerimonie prima ignote, come l'elevazione sugli scudi. Spariti totalmente sono ormai anche i centurioni, variamente sostituiti, e con loro viene meno tutta la tradizione militare romana. Quando nel sec. V la decadenza era ormai giunta all'estremo, uno di coloro che tentavano di richiamare alla memoria la regolamentazione romana, Vegezio, notava: "ita cura exercitii militaris primo neglegentius agi, postea dissimulari, ad postremum olim in oblivionem perducta cognoscitur" (Epit. rei militaris, I, 28). Caratteristico è insomma che, mentre lo Stato romano da secoli costringeva gli altri ad adeguarsi al proprio ordinamento, ora debba adeguarsi agli ordinamenti altrui. Anche la riforma militare di migliore risultato, quella di Costanzo che adotta una cavalleria corazzata (catafracti), è di origine straniera, persiana. D'altronde, lo Stato non avrebbe potuto trovare sufficiente materiale di reclutamento tra i Romani, quando ciascuno era legato alla propria situazione, e di conseguenza ogni prelievo di uomini da una classe provocava squilibrî fortissimi, tanto che precisamente lo Stato medesimo, dopo aver tentato di imporre ai latifondisti la consegna di un numero fisso di coloni come soldati, doveva di regola permettere o imporre che si sostituisse con un pagamento in denaro il servizio militare. Restavano nell'interno dell'Impero solo i figli di soldati, obbligati a sostituire il padre per l'ereditarietà della professione; ma si capisce che la natalità tra militari fosse insufficiente, e il sistema offrisse troppi altri inconvenienti, per cui cadde in disuso. Esso poi non era concepibile su larga scala che per le truppe di minore conto, quelle di frontiera, che avevano appezzamenti di terreno da coltivare. I Germani potevano quindi tanto più facilmente diventare arbitri della vita dell'Impero, nel che poi li favorivano gli stessi imperatori quando in momenti difficili si valevano anche di intere tribù barbariche per contrapporle ad altre o a usurpatori.

Mancava inoltre, per la medesima fissità dell'organizzazione economica, quella vivacità di costituzione di nuovi interessi, che potesse dare luogo ai rapidi avvicendamenti di gruppi e di categorie e quindi tonificasse l'azione dello Stato. Le condizioni economiche erano senza dubbio di gran lunga migliorate dalla crisi del sec. III. Anche gli scambî interprovinciali erano ripresi: l'Expositio totius mundi et gentium della metà del sec. IV (però forse riflettente una situazione un po' anteriore) li conosce bene. Se ancora i salarî degl'impiegati dello Stato venivano pagati in natura, ciò non vuol dire che non ci fosse una ripresa di scambio con denaro, ché il pagamento del salario in generi rappresentava un vantaggio per la classe che lo riceveva, perché più sicuro ma anche perché superiore alla quantità di merce che si sarebbe potuta acquistare a prezzi di mercato: sicché il ritorno, che parzialmente almeno viene effettuato al pagamento in denaro, può considerarsi in certa misura un beneficio per l'economia dei contribuenti. Ma intanto si nota che la ripresa economica è forse più viva in Oriente che in Occidente, dove si va accentuando la tendenza a economie provinciali isolate e quindi con scarsa circolazione di denaro. E poi si tratta sempre di un fenomeno di modeste proporzioni. Non c'era mai stato spirito capitalistico in Roma; l'ideale era sempre stato di vivere di rendita, e perciò appunto non si trovava uomo di classe alta che si dedicasse alla produzione di ricchezze come a suo scopo. Ma c'erano appunto uomini di classe bassa, in specie liberti, per cui il traffico era l'unico mezzo di ascesa. Ora con la costrizione delle classi non è più possibile, se non assai difficilmente, questa libertà di iniziativa; e quindi lo spirito d'intrapresa decade ancora e l'economia diventa sempre più a esclusiva base agraria. Seppure oggi non si creda più in senso assoluto che il latifondo abolisca i mercati e faccia decadere le città, dato che le ricerche più recenti tendono a far meglio vedere anche in Occidente la continuità dei centri cittadini e della vita economica correlativa tra antichità e Medioevo, un certo esodo dalle città nelle campagne e un considerevole diminuire di traffici non sono negabili.

Lo Stato d'altra parte, come già sappiamo, si vede sfuggire ogni giorno più i compiti di cultura. Il tentativo di Giuliano, che restaurando il paganesimo vuole anche ridare questa finalità allo Stato, è breve parentesi. La condizione reale che si afferma è che i cristiani hanno i loro maestri fuori della vita statale, e i pagani si sentono sempre più distaccati dallo Stato attuale per rifugiarsi nel sogno. Il loro simbolo diventa quella statua della Vittoria nel senato romano, che è loro contesa dagl'imperatori cristiani. La loro cultura (si legga Simmaco, Macrobio) è fine, nobile, soprattutto in Occidente; ma non ha più nessuna concretezza e piega alla rassegnazione. Donde la scarsa consistenza di tutte le reazioni pagane, che succedono a quella di Giuliano (e in fondo di quella di Giuliano stessa), non certo adeguata alla misura bruta delle masse che sono ancora pagane.

Perciò lo Stato, quando non combatte per la Chiesa o per la confessione a cui l'imperatore aderisce, è ridotto a una pura politica di difesa. Da un lato cerca di mantenere il controllo di questi aggruppamenti che si sono costituiti dentro l'Impero e dall'altro si sforza di resistere alla pressione esterna. Impedire che Chiesa, signori laici, Germani assoldati si facciano troppo indipendenti; ricacciare di là dai confini i Germani e i Persiani, sono i compiti precipui. Le usurpazioni rimangono naturalmente frequenti, e hanno la caratteristica, di fronte alla maggior parte di quelle dell'Alto Impero, di non rappresentare solo moti di soldati, ma di inquadrare inoltre contrasti di elementi etnici e di convinzioni religiose. Nella difesa dei confini, mentre con la Persia la lotta concerne solo zone di influenza, in particolare l'Armenia, e non ha né da una parte né dall'altra l'intenzione di provocare rivolgimenti totali (ultimo Costantino aveva forse pensato di poter distruggere lo Stato persiano, quando aveva attribuito al nipote Annibaliano il titolo di re dei re, senza d'altronde iniziare nulla di serio), con i Germani la lotta diventa mortale, e se ne ha la coscienza.

La politica dei successori di Costantino. - Un elemento di stabilità si era venuto preparando durante il regno di Costantino, di cui tracce abbiamo già trovato alla successione di Diocleziano: il sentimento dinastico, favorito dai cristiani, ma condiviso dall'esercito. Secondo i progetti di Costantino, i tre figli poterono quindi succedergli per continuare la collaborazione che avevano già iniziato sotto la sua direzione (337 d. C.). Come si vede, a un comando unico non aveva pensato nemmeno più Costantino. Ed era una conseguenza dello stesso sentimento dinastico che dalle truppe fossero poi eliminati i nipoti Annibaliano e Dalmazio, che Costantino aveva creduto di poter affiancare ai figli, il primo come attuale re di Armenia e forse futuro re di Persia, il secondo come governatore della zona di confine verso la Dacia. A Costantino II toccarono in definitiva Gallia, Spagna e Britannia; a Costanzo le provincie asiatiche e l'Egitto; a Costante, Italia, Africa, Illirico, Dacia, Macedonia e Tracia. L'ambizione di Costantino II di poter esercitare una tutela sul più giovane Costante, diede il primo colpo all'edificio. Egli fu ucciso nel 340. Costante riusciva quindi a dominare anche su tutto il territorio di Costantino, senza che il fratello Costanzo, impegnato in una difficile guerra con la Persia, già scoppiata negli ultimi tempi del padre, potesse al momento impedire la rottura dell'equilibrio.

Ma ora la rivalità, che tra Costantino II e Costante era rimasta nei limiti di una contesa di famiglia (pur tradendo la scarsa solidità della coscienza politica degl'imperatori e dei loro collaboratori), prende radici nel contrasto religioso fra Occidente e Oriente. Costante riassume la posizione di Costantino II in favore dell'ortodossia nicena e di Atanasio, ritornato dall'esilio e poi ricacciato, mentre Costanzo eredita con animo di bigotto la politica filoariana del padre, che è sempre per lui politica di unità e di sottomissione dell'Egitto, tenuto agitato rivoluzionariamente dai partigiani di Atanasio. Costante può prevalere in grazia della superiorità della sua forza: il papato, che è sulla medesima linea di Atanasio, ottiene uno dei maggiori riconoscimenti nel concilio di Serdica del 343 in cui si dà il diritto di ricorrere al vescovo di Roma contro le deliberazioni sinodali; il donatismo è fieramente combattuto in Africa; Atanasio è riportato ad Alessandria (346). Si aggiunga la persecuzione ormai dichiarata del culto pagano; la causa dell'ortodossia nicena s'identifica sempre più nettamente con l'autorità papale; ed essa autorità si contrappone a quella dell'imperatore che sta a Costantinopoli. Il rovesciamento delle posizioni coincide quindi con l'uccisione di Costante, di cui usurpa il posto il generale di origine barbara Magno Magnenzio (350). Atanasio non manca, per quel che sembra, di cercare nuovo appoggio in Magnenzio che è del resto un pagano prevalentemente forse sostenuto da pagani; perciò Costanzo, liberatosi decorosamente della guerra contro la Persia, ha tosto agio di organizzare la guerra contro Magnenzio e sa valersi con abilità delle ambizioni del comandante dell'armata illirica Vetranione, che prima si associa all'impero e poi al momento buono allontana come privato. Il sentimento dinastico continua a giuocare in suo favore: ne è un segno che a Roma venga proclamato imperatore contro Magnenzio un altro nipote di Costantino, Nepoziano, anche se Magnenzio riesca a eliminare presto questo rivale. Insomma, nella battaglia presso Mursa in Pannonia nel settembre 351 - battaglia sanguinosissima che distrugge energie preziose dell'impero - Magnenzio è battuto. L'ulteriore resistenza sua e del cugino Decenzio sino alla fine del 353 è solo una lenta agonia. Costanzo nel 354 è signore di tutto l'impero, e la sua politica religiosa risente immediatamente della sua vittoria. Tanto più sicura diventa la lotta contro il paganesimo, verso cui già Costante aveva abbandonato tutte le cautele del padre Costantino: nel 356 si rinnova la minaccia di pena di morte per i sacrifici pagani già proclamata nel 346 e per di più si proibisce la semplice venerazione delle immagini di culto. In una visita a Roma del 357 viene tolto l'altare della Vittoria dal Senato. La confisca dei beni dei templi pagani si estende. Nello stesso tempo la lotta contro Atanasio e contro il papato, in quanto sostenitore di Atanasio, diventa netta. Un concilio di Arles (353) e un concilio di Milano (355) rinnovano le condanne di Atanasio, che infine nel 356 è di nuovo cacciato dalla sua sede fra disordini. Nel 355 il papa Liberio, che si rifiuta di aderire alle conclusioni del concilio di Milano, è strappato da Roma e mandato in esilio in Tracia, mentre gli viene eletto un successore in Felice II, che il popolo romano si rifiuta di riconoscere. Solo nel 358, quando avrà riveduto il suo atteggiamento, Liberio potrà tornare, e solo la decisa volontà popolare gli risparmierà di dover subire a collega Felice II, come gli era stato imposto. Anche dal punto di vista dogmatico Costanzo tentò di imporre un'unità coatta con una serie di concilî, culminante con i due di Rimini e di Seleucia in Cilicia nel 359, rispettivamente per l'Occidente e per l'Oriente, in cui tra le varie correnti ariane è fatta prevalere una delle più estremiste, la cosiddetta omea.

Tanto sforzo di unita ecclesiastica e quindi civile si complicava con problemi dinastici, a loro volta strettamente collegati con la difesa dell'Impero. Per avere un collaboratore in Oriente, mentre doveva combattere con Magnenzio, Costanzo aveva elevato a Cesare il cugino Gallo (351). Pochi anni dopo, accrescendosi i sospetti contro di lui - sospetti che si riallacciavano a tutta la rivalità fra i varî rami della famiglia già dimostratasi alla morte di Costantino -, Costanzo lo fece uccidere. Ma la necessità di un collaboratore permaneva: i confini gallici erano sempre minacciati, e uno tra i generali più in vista, il franco Silvano, magister peditum, aveva tentato una usurpazione presto repressa (agosto-settembre 355). Costanzo si decise a scegliere come nuovo Cesare il fratello di Gallo, il venticinquenne Giuliano, forse appunto perché era vissuto fino allora tra gli studî.

Ma Costanzo non sapeva che per quegli studî, a contatto di filosofi e teurgi, Giuliano aveva imparato a sentire la presenza degli antichi dei, quali la teologia platonica mescolata con teurgia caldaica aveva trasformato entro un vasto sistema di simpatia cosmica. Né si era accorto di quanta ambizione e di quanta ostilità verso di lui - uccisore del fratello - egli fosse animato. Già negli anni in cui era ancora studente, Giuliano aveva udito ricordare dal retore pagano Imerio che il dio Sole era stato per il nonno Costanzo Cloro "il padre dei padri"; ed egli medesimo aveva udito come in un'estasi il Sole dirgli che era intenzione divina "purificare la sua famiglia". Il sentimento familiare provato dalla sventura e lo slancio mistico sui gradi dell'ascesa neoplatonica facevano tutt'uno. Per di più, mandato in Gallia come figura decorativa sotto tutela, Giuliano ebbe la rivelazione a sé stesso di essere un generale e un organizzatore di prim'ordine. Le vittorie, culminate nella battaglia di Strasburgo (357) contro i Franchi e seguite da un accurato rafforzamento dei confini del Reno, approfondendogli la fiducia in sé stesso e assicurandogli la fedeltà dell'esercito gallico, portarono lentamente verso l'inevitabile. La resistenza del paganesimo, già latente nella ribellione di Magnenzio, si manifestò ora in chiara luce in quella medesima Gallia. Fu occasione alla rivolta, che Costanzo, di nuovo impegnato in Oriente contro Sapore II di Persia, chiedesse grossi contingenti di truppe al suo Cesare. Le truppe indignate elevavano nel 360 Giuliano sugli scudi, come Augusto. Poiché Costanzo non concesse il riconoscimento, Giuliano si avviò in armi contro il cugino; e solo la morte di questi nel 361 impedì lo scoppio di una nuova guerra interna.

Non fu naturalmente il paganesimo ad assicurare il riconoscimento di Giuliano in tutto l'impero; bensì il sentimento dinastico. E quando si trattò di dare attuazione alla restaurazione pagana, essa prese forma di un ritorno alla politica originaria di Costantino e Licinio, di libertà per tutti. In pratica approfittavano della nuova libertà, oltre ai pagani, soprattutto i cristiani niceni e i donatisti: e Atanasio poté riprendere il suo seggio episcopale (362). Nessuno certo può dubitare che Giuliano in ogni modo contasse di ridare il loro antico posto agli dei pagani con la sua opera di persuasione e di esempio. Però, qualunque interpretazione psicologica si voglia dare, il fatto che la sua reazione pagana prendesse quella forma - di annullamento totale della politica di Costanzo - significa in concreto che i pagani erano disorientati e privi di combattività; e quindi la reale forza, per cui il tentativo di Giuliano non fu travolto all'inizio, fu quella dei cristiani da lui favoriti. Non era, del resto, l'unico dissidio nell'opera di Giuliano. Per lui paganesimo era ellenismo, ed egli si sentiva così distaccato dalla tradizione romana da poter fare una specie di esecuzione sommaria di tutti gl'imperatori romani nel suo libello sui Cesari, solo risparmiando Marco Aurelio, il filosofo che pensava in greco, per proporselo a modello accanto ad Alessandro Magno. Eppure in realtà - e come paladino del paganesimo ancora vivo tra le masse e i patrizî d'Occidente e come protettore dell'ortodossia nicena prevalente in Occidente e in quella parte dell'Oriente alleata religiosamente all'Occidente - Giuliano si schierava come Magnenzio per l'Occidente contro l'Oriente.

Il suo tentativo fallì sin dal momento in cui la logica delle cose distrusse l'ambigua base su cui si erigeva. Da un lato l'ortodossia nicena dimostrò di capire la minaccia incombente: nello stesso 362 in un sinodo di Alessandria Atanasio si affrettò ad andare incontro ai semiariani per un fronte comune. Dall'altro lato Giuliano era depresso dall'indifferenza delle masse pagane e quindi portato dalla politica di tolleranza a quella di persecuzione. Cominciò con l'allontanare dalle scuole i maestri cristiani e giunse ad allontanare tutti i cristiani dall'amministrazione statale. Il fallimento non fu solo nei fatti, ma anche nelle idee. Ché egli volle adeguare il paganesimo a quelle esigenze organizzative che egli scorgeva essere forza del cristianesimo e quindi contrapporre alla Chiesa cristiana una Chiesa pagana. Ma con ciò dimostrava di non essersi liberato dagli abiti mentali cristiani e di mettersi sulla via di una concorrenza al cristianesimo contraddicente alla stessa natura del paganesimo.

Nessuno rappresenta meglio di Giuliano la dissoluzione della vita pagana. Quando egli morì immaturamente nel 363 in una infelice spedizione contro la Persia iniziata per desiderio di ricuperare il prestigio e sotto l'ossessione dell'esempio di Alessandro Magno (tale da turbare indubbiamente le sue provate capacità di generale), una sola cosa restò di lui positiva, se si vuole prescindere da alcuni miglioramenti fiscali provvidi come lenitivi: l'aiuto dato all'ortodossia nicena e al donatismo. Atanasio, che egli aveva dovuto nuovamente cacciare, ritornava alla sua sede più autorevole che mai; lo stesso successore che le truppe sceglievano all'impero, Gioviano, era un cristiano niceno.

Il conflitto essenziale ritorna dunque a essere nell'interno del cristianesimo, tra l'Occidente niceno e l'Oriente più o meno arianizzante: mentre nell'interno dell'Occidente persiste il problema donatista e nell'interno dell'Oriente quello dell'Egitto niceno. Ma la difesa dell'impero si fa sempre più difficile, e come non mai la politica religiosa si svolge in un'atmosfera arroventata, in cui talvolta i compromessi diventano più facili o più necessarî, ma in cui talaltra la fede è più intransigente e profonda. Strane e non facilmente afferrabili sono le figure degl'imperatori che succedono a Gioviano morto pochi mesi dopo (364): i due fratelli pannonici Valentiniano (I) e Valente, che si dividono l'Oriente e l'Occidente, poi il figlio di Valentiniano, Graziano, già posto fanciullo accanto al padre nel 367 e infine, per prescindere qui dal bimbo Valentiniano II, altro figlio di Valentiniano I, sparito prima di giungere a giovinezza, lo spagnolo Teodosio chiamato a salvare l'Impero dopo la rotta di Adrianopoli (379). Sono generali violenti e appassionati, e hanno del furore teologico: tradizione romana e abitudini barbariche e umiltà cristiana si contendono il loro animo. Chi guardi i ritratti del tempo, per es., i visi imperiali dello scudo di Teodosio, ora a Madrid, può forse avere una intuizione della complessità delle loro anime (e di molti loro contemporanei) dalla stessa mobilità di atteggiamenti spirituali che la ritrattistica attribuisce loro in confronto agl'imperatori dell'Alto Impero. E perciò tanto maggiore efficacia possono avere su di loro quegli uomini di Chiesa che contrappongono alle incertezze di fatto e alle incertezze psicologiche l'unità della loro anima. Le tempre di dominatori sono Atanasio, Damaso, Basilio, Ambrogio.

La pace che Gioviano, dopo la morte di Giuliano, concluse con la Persia, rinunciando a parte delle satrapie transtigrane e della Mesopotamia con Nisibi e infine al protettorato sull'Armenia, era in certa misura, per la stessa sua viltà, solo conseguenza di depressione momentanea. Dopo però, la debolezza militare assunse un carattere, che, appunto per essere più circoscritto e lontano da rinuncie imbelli, indicava un effettivo attenuarsi della capacità di difesa. Il logorio delle truppe per le continue lotte sul Reno e sul Danubio, in Britannia e in Mauretania assunse proporzioni inconsuete. La restaurazione del limes - l'ultima sistematica che l'impero abbia compiuto - e del protettorato sull'Armenia furono successi pagati carissimi; mentre non si riuscì a rassodare il confine sul Danubio, donde infatti verrà il colpo peggiore. La ribellione di un congiunto di Giuliano, Procopio, che nel 365 s'impadronì di Costantinopoli e si alleò con i Goti - benché repressa dopo alcuni mesi -, lasciò lungo strascico di contese. La politica religiosa già risente di questa debolezza. Valentiniano e Valente avevano fatto propria la tendenza predominante nei loro territorî. Ma se Valentiniano era intervenuto nei conflitti in Roma tra Damaso e Ursino per la successione di Liberio, favorendo Damaso (366) dovette, lungi dall'imporre la sua tutela sul papato, assistere alla progressiva ascesa di Damaso, così come in Milano (ora abitualmente residenza imperiale) la sostituzione dell'ariano Aussenzio con il niceno Ambrogio nel 374 accresceva soltanto l'autorità della Chiesa di fronte allo Stato. Anche la politica di Valente suscitò forti opposizioni. Dopo aver cacciato una volta Atanasio, egli si persuase a lasciarlo tornare, quando la ribellione di Procopio consigliava la pacificazione degli animi: più tardi, morto Atanasio nel 373, Basilio di Cappadocia assunse la difesa dei niceni di Oriente, preparando il dissolvimento dell'arianesimo, anche se non gli riuscì di trovare una linea di condotta comune con il papato, soprattutto nei riguardi dello scisma della chiesa di Antiochia.

Nel 368 la crisi del sistema militare romano era all'estremo. Gli Unni emigrati dall'Asia, dopo aver travolto gli Ostrogoti, ora spingevano i Visigoti a cercare rifugio e aiuto nell'Impero (376). Valentiniano I, la testa più direttiva, era morto l'anno prima e l'Occidente era stato diviso tra Graziano e Valentiniano II, a cui toccarono Italia, Africa e Illirico (governati poi di fatto da Graziano). Graziano aveva allora sedici anni e Valentiniano II quattro, sicché restò a Valente il compito di organizzare l'insediamento nell'Impero di diecine di migliaia di barbari con le loro famiglie. L'imperizia dell'amministrazione romana non diede invece ai Goti né i mezzi per vivere nelle nuove sedi né la convinzione che lo Stato avrebbe saputo mantenere la disciplina tra i nuovi sudditi. Orde di Visigoti affamati, a cui si aggiunsero altri barbari già al servizio dell'Impero e Ostrogoti che per il terrore degli Unni fuggivano verso il Danubio, percorsero saccheggiando la penisola balcanica. Valente si decise ad affrontarli in una battaglia presso Adrianopoli senza attendere gli aiuti di Graziano ed ebbe l'esercito distrutto e fu egli stesso ucciso (agosto 378).

Il significato della battaglia non viene diminuito dall'incertezza sul numero delle truppe contrapposte. Le legioni romane non avevano più saputo tener testa a orde di barbari. Né fu cercata la rivincita. Ad Adrianopoli era dunque stata perduta la supremazia militare in campo aperto conquistata mezzo millennio prima a Pidna. Due fattori contribuirono per il momento ad attenuare gli effetti della sconfitta: l'incapacità dei barbari di assediare città fortificate, donde la vana sorpresa a Costantinopoli, e la disorganizzazione e dispersione delle orde. Teodosio, scelto abilmente da Graziano a collega, ebbe relativa facilità a venire a patti con i Goti e, anche con forti donativi, a impegnarli a insediarsi nuovamente a sud del Danubio, questa volta come federati (382). Ma i limiti ora accennati all'irruenza dei barbari in parte verranno meno presto (in ispecie la scarsa coesione), e comunque non potranno più trattenere durevolmente popoli che ormai sapevano di poter vincere. La giornata di Adrianopoli si può dire il preludio del sacco di Roma del 410.

Da un punto di vista economico, la rotta, per le depredazioni e per i sussidî concessi ai depredatori, troncò quel moto, sia pure moderato, di mitigazione del fiscalismo iniziato da Giuliano e continuato da Valentiniano e Valente, in ciò suoi consapevoli seguaci. Dal punto di vista religioso, l'avvento di Teodosio, niceno come Graziano, è l'inizio di una unificazione della politica religiosa nel senso dell'ortodossia nicena, la quale corrispondeva naturalmente, oltre che a un bisogno pratico di unità, a un bisogno più profondo di unione, anche in contrapposto ai Goti, che, quando non erano pagani, si erano andati convertendo all'arianesimo per effetto della propaganda di Ulfila e non senza intervento della politica di Valente. Graziano, seguito da Teodosio, è il primo imperatore che rinuncia al titolo di pontefice massimo (la data è incerta). Nel 378 riconosceva al vescovo di Roma la giurisdizione sui metropoliti di Occidente, riprendendo la disposizione del concilio di Serdica, e vi impegnava l'intervento del braccio secolare. Nel 380 un editto di Teodosio, Graziano e Valentiniano II obbligava tutti i sudditi dell'Impero a vivere nel cristianesimo secondo la formula professata dal vescovo Damaso di Roma e dal vescovo Pietro di Alessandria, il continuatore di Atanasio. Nel 382 Graziano aboliva i privilegi fiscali e le dotazioni statali per il culto pagano e toglieva dal Senato la statua della Vittoria riportatavi da Giuliano. Entro questa azione concorde in favore della cristianità nicena è però facile scorgere una differenza fondamentale di orientamento tra Graziano e Teodosio. Graziano, sotto la diretta influenza di Ambrogio, che aveva proprio il motto che l'imperatore è intra ecclesiam, non supra ecclesiam, favoriva lo sviluppo dell'autonomia della Chiesa e l'ascesa del papato. Per quanto la personalità di S. Ambrogio mettesse necessariamente in primo piano una sede come Milano, che era per di più residenza imperiale, gli ultimi anni di Damaso sono quelli in cui Roma si afferma peculiarmente come centro effettivo della cristianità occidentale, e tanto più in quanto con le misure contro i pagani essa vede di continuo ridursi gli elementi contrastanti con la sua nuova dignità. È ancora all'incitamento di Damaso che si deve il primo inizio dell'elaborazione della Volgata di S. Gerolamo, che darà la sua Bibbia all'Occidente. E all'immediato successore di Damaso, Siricio, già nel 385, risale la prima decretale a noi nota: la nuova forma di legislazione papale influenzata dai rescritti imperiali. Fino a che punto giungesse la pretesa di autonomia nella Chiesa occidentale può indicare lo scandalo enorme che fece la condanna dei priscillianisti spagnoli da parte di un tribunale secolare (invece che di uno ecclesiastico) anche presso chi, come S. Ambrogio, li riteneva eretici (385?). Teodosio invece teneva fermo con ben altra energia alla subordinazione della Chiesa allo Stato e non esitava perciò in taluni momenti ad aprire con larghezza le alte cariche a pagani. Appunto per ciò la sua politica si dirigeva in definitiva contro Roma e Alessandria. Ne risultò il concilio di Costantinopoli del 381 da cui era precisato il simbolo niceno e in cui era riconosciuto il primato di Roma, però non come cattedra di Pietro, sibbene come sede imperiale, sicché subito dopo le veniva posta Costantinopoli, come nuova Roma: Alessandria era ricacciata indietro e quasi era preparata una parificazione di Costantinopoli con Roma. Già i contemporanei ebbero netta l'impressione che con l'ostilità manifestatasi nel sinodo di Roma dell'anno seguente contro le decisioni di Costantinopoli si fosse approfondito il distacco tra Oriente e Occidente.

La situazione cambiò dopo che nel 383 Graziano fu ucciso dall'usurpatore Magno Massimo. Mentre infatti Teodosio era riuscito, aiutato dalla stessa prosperità relativamente maggiore dell'Oriente, a restituirvi un ordine, che avrà importanza decisiva per il suo avvenire (nonostante che la rotta contro i Goti avesse indebolito anche la difesa contro la Persia), l'Occidente era irrequieto e disordinato. Teodosio dovette riconoscere, per il momento, Massimo; e la madre di Valentiniano II, Giustina, si sostituì a Graziano nella tutela del figlio con l'aiuto del generale franco Bautone. Massimo si professò zelante seguace dell'ortodossia nicena e perseguitò nel processo già ricordato i priscillianisti. Per reazione, Giustina, che era ariana, si mise a favorire apertamente ariani e pagani, e fece emettere nel 386 un editto di tolleranza ufficiale per i primi. Perdette quindi l'appoggio di S. Ambrogio, che seppe del resto fermare rapidamente il moto filoariano e filopagano (già Simmaco era venuto a chiedere la restaurazione dell'altare della Vittoria: "instituta maiorum, patriae iura et fata defendimus"), e rese più facile la conquista da parte di Massimo dell'Italia, militarmente inevitabile. Non restò quindi a lei e al figlio che rifugiarsi presso Teodosio: il che volle dire anzitutto rinunciare all'arianesimo. Teodosio sposava una sorella di Valentiniano II, e poiché infine gli era riuscito intorno a quel tempo di fare pace con la Persia stabilendo che l'Armenia fosse divisa in due zone di influenza, per cui di fatto quattro quinti del territorio toccavano alla Persia, poté marciare contro Massimo. Lo vinse (388) e restaurò Valentiniano II ora affidato a un altro generale germanico, Arbogaste. Che questi fosse pagano può forse, insieme con parecchi altri atti, dimostrare che Teodosio era venuto in Occidente con l'intenzione di servirsi del paganesimo contro le pretese ecclesiastiche. Ma la coscienza cristiana del peccato, ridestatasi dopo il massacro dei riottosi di Tessalonica nel 390, mutò quasi improvvisamente il suo cammino: l'autorità di Ambrogio s'impadroniva ora di lui costringendolo alla penitenza pubblica, come un peccatore qualsiasi. Al principio del 391 era emanata una legge che proibiva in Roma di entrare in un tempio pagano. La rivolta di Arbogaste, che spingeva alla morte Valentiniano II e gli sostituiva il magister scrinii Eugenio, un antico retore (392), dava non molto dopo un preciso contenuto politico alla solidarietà fra Teodosio e la Chiesa. Verso la fine del 392 Teodosio vietava interamente il culto pagano anche privato; ed Eugenio, vista l'impossibilità di ottenere il riconoscimento da lui e obbedendo alle sue più intime simpatie, condivise da Arbogaste, tentava una discesa in Italia, che voleva essere una restaurazione del paganesimo (393). Trovava naturalmente favorevole l'aristocrazia che stava intorno a Simmaco e al prefetto del pretorio Nicomaco Flaviano. L'altare della Vittoria era restaurato. Ma l'anno dopo sul Frigido (od. Vippacco), un affluente dell'Isonzo, l'ultima speranza del paganesimo era distrutta per sempre dalle armi di Teodosio. Nel 393 erano anche stati proibiti dall'imperatore i giuochi di Olimpia. Gli atti di culto pagano saranno da allora sempre più rigorosamente repressi. Il pensiero pagano non fu invece per tutto il sec. V ufficialmente perseguitato, al contrario delle eresie cristiane, per cui si viene stabilendo una prassi giuridica, che ha il suo oscuro precedente nel processo contro i priscillianisti: è un'eccezione che Teodosio II faccia bruciare l'opera anticristiana di Porfirio. Di fatto (e vi contribuirà soprattutto l'energia dei monaci), i pagani si sentono sempre più isolati e costretti al silenzio. Sono perciò il tipico fenomeno di questa transizione scrittori come Rutilio Namaziano o Claudiano, oscillanti fra cultura pagana e ideali cristiani, tanto che ancora i moderni discutono sulla loro fede.

La separazione di Occidente e Oriente. - Quel che c'era di serio nella ribellione di Eugenio non era la restaurazione pagana, ma il fenomeno che un generale barbaro nomini un suo protetto a sovrano, lo domini e trovi nell'aristocrazia un sostegno. Infatti il caso di Eugenio si ripeterà con la sola differenza che non verrà più complicato con reazioni pagane. E costituirà la ragione decisiva per estraniare Oriente e Occidente. All'Oriente non mancano generali germanici, che ottengono autorità, ma essi non riescono a impadronirsi durevolmente del potere. L'aristocrazia li avversa; l'esercito trova infine una base di reclutamento (in Asia Minore, con gli Isaurii), che lo libera dall'influenza predominante dei soldati germanici; le finanze migliori conservano la superiorità di iniziativa dello Stato sui privati. In Occidente non la mutevole cerchia degli impiegati costituisce l'aristocrazia più influente, ma un gruppo abbastanza chiuso di latifondisti, i quali si impadroniscono degli alti impieghi in linea ereditaria, e perciò sono i naturali alleati e spesso i naturali favoriti delle usurpazioni legali dei generali germanici. Le finanze interamente in rovina impediscono di fare ordinarî reclutamenti di soldati e costringono quindi a servirsi soprattutto di federati germanici pagati con il permesso di stanziamento nell'Impero, cioè con la cessione di almeno un terzo dei beni dei cittadini romani: lo Stato in Occidente finisce per non avere quasi più un esercito veramente suo. Conseguenza analoga è l'apparizione dei buccellarii, cioè di soldati arruolati privatamente da latifondisti o generali, di cui difendono l'autorità. Benché anche l'Oriente li conosca, in specie nella regione più riottosa, l'Egitto, essi hanno lì un contrappeso nelle milizie statali, che manca in Occidente. Né l'Oriente deve subire di continuo l'interferenza tra i barbari che sono al suo servizio e quelli che minacciano i suoi confini: appunto perché esso in definitiva dopo Teodosio è meno minacciato. Risolta la questione dell'Armenia, la Persia resta nel sec. V eccezionalmente tranquilla e quindi permette all'Oriente di concentrare la sua difesa sul Danubio. Ma i Germani preferiscono volgersi a Occidente, perché l'Occidente è più debole, e perciò ne accrescono la debolezza e quindi la facilità di conquista. A sua volta la penetrazione germanica, pacifica o violenta, acuisce il malessere economico dei contadini già fortissimo, non perché, ceduti ai Germani, essi stiano peggio, ma perché al contrario il regime fiscale dei federati è molto più semplice e meno opprimente del romano: e quindi si creano disparità, che invogliano i contadini a passare sotto regime germanico. In Africa e specie in Gallia (rivolte dei Bagaudi) i contadini sono in agitazione quasi permanente. Né occorre dire come il circolo vizioso si perpetui.

Oriente e Occidente, già divisi dalla lingua e dalla cultura, già estraniati dalla diversa mentalità religiosa, già separati da tanti interessi economici, già di fatto divisi con la separazione degli eserciti e delle finanze, prendono ora anche una fisionomia politica e sociale del tutto diversa. Là dominano gl'imperatori che tendono a suddividere i comandi militari, qui i generali barbarici che li unificano nella loro persone. In altri termini là il governo resta unitario, qui è ormai in una piena disintegrazione, di cui non c'è bisogno di ripetere a questo luogo che era ricca di tutti i fermenti della futura civiltà europea, ma che per intanto segnava l'approssimarsi della fine dell'organizzazione imperiale in Occidente. La stessa divisione in prefetture del pretorio, di poca importanza in Oriente, dove la prefettura detta per Orientem ha autorità incomparabilmente superiore a quella dell'Illirico, è decisiva per l'estraniarsi della prefettura gallica dalla italica, a cui è pari in forza intrinseca. Restava un unico legame veramente forte: la tradizione romana del diritto, impostasi anche all'Oriente. Ma fin da quando l'editto di Caracalla aveva introdotto i provinciali nella cittadinanza romana, la pressione dei diritti e delle costumanze locali aveva fatto breccia nell'apparente unità del diritto romano. Ora questa pressione dal basso converge con le forze centrifughe dall'alto. La pubblicazione del Codice Teodosiano nel 438 è l'ultimo potente sforzo di mantenere l'unità legislativa nell'Impero. Dopo la sua pubblicazione l'abitudine per cui le leggi emanate in Occidente non vengono pubblicate e quindi non hanno valore in Oriente e le leggi di Oriente vengono di rado pubblicate in Occidente si fa soltanto più regolare. Cade la solidarietà tra le due parti dell'Impero, perché esse sono ormai così diverse da non comprendersi più.

Il significato della divisione dell'Oriente e dell'Occidente tra Arcadio e Onorio, i figli di Teodosio, dopo la morte del padre (395), non sta dunque in un suo carattere giuridico, che evidentemente non esiste, ma nel fatto che un Vandalo, Stilicone, assume in Occidente il governo per l'undicenne Onorio. Anche in Oriente, tra i partiti che si contendevano il diciottenne Arcadio, se ne era formato uno potente capeggiato dal goto Gainas. Ma appunto perché Gainas era sostenuto da Stilicone, la corrente antigermanica prese il sopravvento (400). La rivalità tra Oriente e Occidente si polarizzava nel contrasto fra influenze antigermaniche e filogermaniche: Stilicone tentava invano di conservare all'Occidente la prefettura dell'Illirico nelle diocesi cosiddette dacica e macedonica rivendicate definitivamente dopo la morte di Teodosio dall'Oriente. Egli era pronto a reprimere in ogni parte le minacce contro la sicurezza dello stato romano: in Africa sopprimeva la ribellione organizzata da Gildone con l'aiuto dei donatisti (397-398); nel 406 in parte distruggeva presso Fiesole, in parte costringeva alla sottomissione un'orda mista di Germani comandata da Radagaiso. Da Claudiano, il suo poeta aulico, si faceva cantare come il difensore dell'idea di Roma. Ma le sue ambizioni contro l'Oriente lo resero debole di fronte alle bande visigotiche di Alarico, sparse per l'Illirico sottomesso ad Arcadio, appunto perché sperava di farne uno strumento della sua politica. Perciò nel 402, quando esse apparvero per la prima volta in Italia, preferì venire a patti con loro, sebbene la battaglia di Pollenza e soprattutto quella di Verona, quando Alarico era stato già costretto a riprendere la via del ritorno, avessero indicato la sua superiorità. Si trovò pertanto di nuovo a fronteggiare un'apparizione di Alarico in Italia nel 408 nelle peggiori condizioni: non solo due anni prima l'Italia aveva subito l'invasione di Radagaiso, ma in conseguenza di essa, essendosi dovuto sguarnire la Gallia per affrontarla, avevano varcato il Reno Alani, Vandali e Suebi spargendo la desolazione in Gallia e poi passando in Spagna. Il Reno non sarà più da allora la barriera dell'Impero. Nella Gallia, abbandonata a sé, avevano avuto facile presa gli usurpatori (tra cui un Flavio Costantino venuto dalla Britannia). Sul Reno, con centro non Worms, come vuole la tradizione, ma vicino a Colonia, si era costituito un regno di Burgundi presto riconosciuto come federato. Data la situazione, Stilicone voleva si accettassero le pretese poste avanti da Alarico. Egli sperava ancora di farne un alleato, sia contro gli usurpatori gallici, sia per imporre la propria volontà all'Oriente, ora che Arcadio era morto (maggio 408) e gli era succeduto Teodosio II di sette anni. L'opposizione di netto carattere antigermanico si trasmise dall'Oriente a Ravenna, dove la corte risiedeva fin dal primo attacco di Alarico; e Stilicone ne cadde vittima. Ma l'opposizione, a differenza che in Oriente, era troppo debole, per passare dall'attacco alla persona all'attacco al sistema: non solo già poco dopo un Germano, Allobico, prendeva di nuovo il sopravvento, ma anche quando, eliminato costui, ricuperava apparentemente il predominio la tendenza romana con il magister utriusque militiae Flavio Costanzo, di indiscutibile capacità, la situazione permaneva invariata. Alarico prima seguiva il solito sistema di elevare al trono un aristocratico romano, Attalo; poi scontento lo deponeva e infine metteva in atto la minaccia ripetuta di entrare in Roma. Il 24 agosto 410 cominciava il saccheggio durato tre giorni. Sebbene, come è noto, le offese arrecate alle persone e alle cose non fossero state gravissime, già i contemporanei ebbero coscienza che un incanto fosse stato rotto: l'intangibilità di Roma. Dal turbamento erano rafforzati i dubbî, più o meno pavidi, di coloro che ancora non credevano dissolvibile l'antica religione dall'antica Roma, e da questo turbamento, più che risposta al medesimo, nasceva la teoria agostiniana della civitas Dei (v. oltre).

In realtà l'Occidente dovette continuare a servirsi dei Germani. E poiché i Goti di Alarico, affamati, avevano intanto cercato invano di raggiungere le terre del grano, la Sicilia e l'Africa, e, dopo la morte di Alarico, erano passati con Ataulfo in Gallia, il governo di Onorio finì col servirsi di loro. Attraverso a complicate vicende, Onorio o, forse meglio, Costanzo, il suo patrizio (per indicare la dignità che, da familiare diventata personale, serviva ora a distinguere le più alte personalità dell'impero), spingeva i Visigoti a reprimere l'usurpazione gallica di Giovino, un magnate indigeno, che, quando la ribellione di Flavio Costantino stava per essere repressa, aveva raccolto numerosi adepti e gli era di fatto succeduto. Più tardi i medesimi Goti, che avevano ritentato un'azione indipendente ed erano passati in Spagna, erano persuasi dal governo di Ravenna a rientrare al suo servizio e a combattere contro gli altri Germani insediatisi in Spagna, limitandone i possedimenti. Infine era loro riconosciuto un vasto possesso di terre nella Gallia occidentale (Aquitania, Novempopulana e Narbonese fino a Tolosa) come regno federato (418). In quegli anni, le coste del Mare del Nord continuavano a essere percorse dai pirati sassoni, che ormai tagliavano la Britannia dal resto dell'impero.

La conseguenza fu un estremo indebolimento da cui il governo occidentale cercò di salvarsi rinunciando all'opposizione contro quello di Oriente. Prima la morte di Costanzo, che aveva sposato la sorella di Onorio, Galla Placidia, già preda dei Visigoti e moglie di Ataulfo, ed era stato da ultimo proclamato Augusto (ma senza il consenso dell'imperatore risiedente in Oriente), poi la morte di Onorio medesimo (423) segnarono come i momenti esteriori di questa resa. ll piccolo figlio di Galla Placidia ora posto sul trono, Valentiniano III, era interamente sotto il controllo di Teodosio II. Un rappresentante del latifondismo italiano e forse dei soldati germanici, Giovanni, fattosi proclamare Augusto, era presto messo fuori combattimento.

Ciò non poté impedire che le due parti dell'Impero continuassero ad essere lontane come le forze più profonde spingevano. I capi militari non permettevano in Occidente duraturi legami, l'Oriente del resto era troppo diverso per poterli volere seriamente. La tradizione ribelle dell'Africa era ripresa, per rivalità contro il magister utriusque militiae Felice, dal comes Bonifazio, che si era dapprima reso benemerito in favore di Galla Placidia. Incapace di difendersi da solo, egli precipitava un evento, che si può dire fosse nell'atmosfera della situazione: l'invasione germanica dell'Africa, già tentata da Alarico. I Vandali da lui chiamati passavano dalla Spagna in Africa sotto il comando di Genserico (429). Ma giunti in Africa essi sapevano alimentare in ben diverso grado di Bonifazio lo spirito rivoluzionario di contadini e donatisti. Ariani, nella loro politica fieramente anticattolica, trovavano larghe adesioni. Bonifazio fu costretto a cedere il campo, senza che gli giovassero aiuti venutigli dal governo occidentale, con cui si era riconciliato, e dal governo orientale, che ora faceva sentire la sua collaborazione. I Vandali non solo si estesero rapidamente in Africa (nel 439 occupavano Cartagine), ma apprestarono una flotta piratesca quale dai tempi di Sesto Pompeo non si era vista più. Con le loro liburne dominavano il Mediterraneo occidentale, giungendo sino in Italia e in Grecia: la Sicilia era praticamente sotto il loro controllo. Ripetuti tentativi di abbatterli fallirono e continueranno a fallire sino al tempo di Giustiniano. Nel 442 (dopo un primo accordo del 435) il governo occidentale si rassegnava a fare pace con Genserico, a cui riconosceva la sovranità nell'Africa proconsolare e nella Bizacena, le terre migliori, per ricuperare la Numidia e la Mauritania: in che condizioni le due provincie restituite fossero, basta a dire che si dovette ridurvi a un ottavo la capitazione. Il compromesso era anche provvisorio, e durò solo col regno di Valentiniano III. Più tardi i Vandali allargheranno la loro occupazione in tutta l'Africa romana, la Sicilia, la Corsica, la Sardegna e le Baleari. Roma ormai o riceveva dall'Egitto il grano che le occorreva (donde un'altra necessità per essere arrendevoli col governo orientale) o soffriva la fame, che è il fattore forse più importante per il suo progressivo spopolamento: e si noti che se già nei tempi migliori l'Egitto aveva dato solo un terzo del grano occorrente per Roma, ora riforniva soprattutto Costantinopoli.

L'inerzia che i due governi occidentale e orientale dimostravano di fronte ai Vandali si spiega soprattutto con la minaccia degli Unni. Il re Rua, poi Bleda e Attila associati e infine Attila solo, erano riusciti a estenderne enormemente la potenza in uno stato disorganico, costituito in maggior parte da Germani sottomessi, che dalla Russia meridionale raggiungeva il Reno. In Occidente il successore di Felice come magister utriusque militiae, Ezio, fondava la sua crescente autorità sul suo seguito di Unni e sui suoi rapporti personali con i re degli Unni. I quali però, dopo aver a lungo vessato solo il governo d'Oriente, dal quale pretesero pagamento di tributo e altre condizioni umilianti, cominciarono a rivolgere sempre maggiore attenzione all'Occidente. Tutta la loro compagine statale non aveva consistenza che per un sempre nuovo aggredire. Già nel 436 avevano distrutto il regno burgundico: i superstiti erano accolti da Ezio nella Gallia sud-orientale (Savoia) con l'evidente scopo di contrapporli ai Visigoti, che dall'estremo della Narbonese facevano sforzi riusciti per estendersi verso est. Analoghi stanziamenti erano fatti in varî luoghi con gli Alani. Gli stessi Vandali non avevano mancato di interessare gli Unni contro la politica di Ravenna. Si aggiungeva la romantica storia di Onoria, la sorella di Valentiniano III, che chiedeva aiuto e protezione ad Attila contro i familiari, a infiammare la passionalità guerriera del re unno, il quale pretese Onoria in moglie e metà del regno di Valentiniano in dote. L'episodio, uno fra i tanti analoghi che ci offre la decadenza di Roma, è tipico per la condizione di parità se non di inferiorità in cui l'Impero deve tener conto di questi elementi rozzamente personali dei capi barbari. Al rifiuto, Attila si avventa nel 451 in Gallia ed è battuto e respinto ai Campi Catalauni non lontano da Troyes in una battaglia dove intorno a Ezio si riuniscono le varie genti insediate in Gallia. L'anno dopo Attila marcia in Italia e passando distrugge Aquileia. Ma sul Mincio viene fermato e persuaso a ritirarsi da un'ambasceria, di cui era a capo il papa Leone I accompagnato da due aristocratici romani. Anche qui è ovvio che un elemento passionale gioca fortemente sul suo animo: benché sia probabile che egli si sentisse minacciato alle spalle da Marciano, l'imperatore di Costantinopoli succeduto nel 450 a Teodosio II, di cui aveva sposato la piissima sorella Pulcheria. Per noi, appunto, che dopo la morte di Attila avvenuta nel 453, assistiamo al rapidissimo sfasciarsi del grande stato unno, è facile ora riconoscere su quali basi provvisorie di passionalità guerriera immediata esso si erigesse. Ma sarebbe erroneo trarne qualsiasi deduzione nei riguardi dell'Impero. Perché non è dubbio invece che per queste calate di Unni arriva all'estremo la prostrazione del governo occidentale.

Non l'imperatore, ma il papa con due aristocratici romani osa andare incontro ad Attila. E infatti noi vedremo ancora meglio tra poco che solo nel papato c'è in quel tempo fede e sicurezza nell'avvenire, e quindi prestigio. La coscienza della rovina grava paurosa sugli uomini: il De Gubernatione dei del prete gallico Salviano, scritto intorno al 440, ne è il documento più appariscente. Là dove arriva l'autorità statale, la corruzione è crescente. Ma l'autorità statale arriva sempre meno, per il lento dilagare degli stati federati, che si fanno autonomi, talvolta di fatto, talvolta anche di diritto e si sovrappongono dall'interno allo Stato romano. Dal 440 circa la Britannia è definitivamente perduta per l'Impero; in Gallia l'Armorica gode di autonomia e forse di foedus; federati sono riconosciuti anche i Franchi stanziati tra la Gallia belgica e la Germania inferiore (Salii). La Pannonia è per grande parte occupata da Unni (la Pannonia Valeria sino da circa il 400?) e più tardi (456?) da Ostrogoti. Nel 454 Valentiniano III crede di potersi liberare da Ezio e lo fa uccidere; l'anno dopo cade vittima dei seguaci di Ezio, senza dubbio più abile come generale che come politico. Da allora i sovrani che si succedono rappresentano interessi sempre più ristretti. In ciò il vero segno della fine. Petronio Massimo, il primo, è un latifondista italiano (455). Genserico, che si ritiene libero dagl'impegni presi con Valentiniano III sbarca con la flotta al Tevere. Il popolo in rivolta uccide Massimo: Roma è occupata e messa a sacco dai Vandali, i quali poco dopo si allontanano con bottino immenso. Ora i Visigoti di Gallia impongono il loro candidato Avito e approfittano della situazione per darsi alla conquista della Spagna, ai danni degli stessi Suebi. Un generale di origine sueba per parte di padre e gotica per parte di madre, Ricimero, depone Avito d'accordo con l'aristocrazia italica (456). Per il momento non è eletto nessuno; l'anno dopo è scelto da Ricimero Maioriano. La personalità dell'"ultimo dei Romani" sembra per un momento prevalere su quella del suo protettore. Un'attiva legislazione cerca di porre rimedio ai mali dell'Impero: è estremamente caratteristico come l'imperatore, che proviene dall'aristocrazia, sia obbligato a scagliarsi contro le prepotenze della medesima. In Gallia e in Spagna i regni barbarici sono combattuti con taluni buoni successi: dalla Spagna prepara una grossa spedizione contro i Vandali. L'insuccesso totale della guerra (i Vandali riescono a sorprendere e a distruggere la sua flotta) precipita però presto una situazione, di cui è chiara l'artificiosità. Ricimero, lasciato in Italia da Maioriano, aveva avuto agio di raccogliere un'altra volta gli scontenti intorno a sé. Un altro latifondista italico, Libio Severo, è imposto sul trono invece di Maioriano (461). Di fatto il governo imperiale era limitato in Occidente ormai all'Italia: in Dalmazia sin dalla morte di Valentiniano III si era stabilito, con un governo autonomo sostenuto dall'Oriente, il comes Marcellino; nella Gallia ancora romana un generale, Egidio, stava facendo una politica del tutto indipendente ed era giunto alla vigilia della morte (464) a preparare con Genserico un attacco contro Ricimero. Questi si decise allora a ridare contenuto effettivo alla collaborazione con l'Oriente. Qui i governi di Marciano, alla cui morte (457) si erano trovati nelle casse dello stato 7 milioni di solidi, e di Leone I avevano restituito prosperità allo Stato: quest'ultimo aveva sempre più limitato, con l'aiuto della nuova guardia isaurica, il prepotere dell'ostrogoto Aspar, a cui doveva il trono. Contro quindi la politica di Aspar, che era stata di non intervento, poteva concludersi nel 467 un accordo. Il genero di Marciano Antemio era elevato ad Augusto dell'Occidente (Libio Severo era morto nel 465) e preparava insieme con Ricimero una grande spedizione contro i Vandali, il cui comando però era affidato a due fiduciarî diretti di Leone I, Basilisco e Marcellino, il governatore di Dalmazia.

Il fallimento totale della spedizione decise dei destini dell'Impero in Occidente. Prova per sé di impotenza a organizzare, vuotava le casse del governo d'Oriente che per ovvia ragione aveva dovuto sostenerne il costo: nove milioni di solidi erano perduti. Ne derivava una lunga guerra con i Vandali medesimi, e inoltre una ripresa di potere di Aspar, a eliminare la quale (471) e i suoi postumi, saranno impegnati gli ultimi anni del governo di Leone (morto nel 474). Il suo successore Zenone (per poco associato al figlio Leone), che era un isaurico, anche dopo aver concluso la pace con i Vandali, aveva da lottare con il partito avverso capitanato da Basilisco, doveva una volta fuggire da Costantinopoli (473) e poteva ritornarci solo nel 476, trovandovi problemi gravissimi, dal conflitto non solo religioso tra Costantinopoli e Alessandria alla rivolta dei Goti insediati in Tracia. L'influsso dell'imperatore di Oriente nelle vicende dell'Italia diventava quindi di fatto nullo. Ricimero ne approfittò per agire contro Antemio. Si venne prima a una secessione di fatto: Antemio occupò Roma; Ricimero Milano. Dopo una breve riconciliazione, nel 472 Ricimero assediò Antemio in Roma. Ma questi, che era sostenuto da truppe ostrogote e aveva saputo sostituire Ricimero nella simpatia dei latifondisti del senato, resisteva. Per contropartita Ricimero dovette accettare il candidato di Genserico all'Impero, Olibrio, e farsi aiutare per di più dai Burgundi. La sua vittoria diede occasione nel luglio del 472 al terzo sacco, che Roma subiva nel secolo. Alla vittoria tanto Ricimero quanto Olibrio sopravvivevano di poco. I Burgundi dell'esercito elevavano al trono il comes Glicerio (473), il quale a fatica poteva deviare verso la Gallia un'irruzione di Ostrogoti della Pannonia, che avevano ricominciato a muoversi. A Glicerio si contrapponeva, e riusciva a eliminarlo, il magister militum Dalmatiae, Giulio Nepote, poggiando sulle medesime forze orientate verso Costantinopoli, che avevano favorito Marcellino. L'unico atto importante del suo governo fu l'accordo con i Visigoti, a cui, in conclusione di un conflitto che si trascinava da decennî, era riconosciuto il possesso di tutte le loro occupazioni in Spagna, ormai estendentisi sulla maggior parte del territorio non dominato dai Suebi, e del dominio in Gallia giungente alla Loira e al Rodano. Nell'agosto del 475 il generale Oreste costringeva Nepote a fuggire in Dalmazia donde era venuto e proclamava imperatore il suo giovane figlio Romolo Augusto (Augustolo). Forse perché le difficoltà economiche impedivano al nuovo governo di mantenere i propri impegni con i mercenarî germanico-orientali al suo servizio (Eruli, Sciri, Torcilingi), si organizzò tra questi una ribellione sotto il comando dello sciro Odoacre, che chiese uno stanziamento in Italia per i soldati: la richiesta fu rifiutata. I soldati proclamarono re Odoacre e deposero Romolo Augustolo, che fu confinato in Campania con una pensione annua di 6000 solidi (settembre 476). Presso il senato romano Odoacre trovò favore, appunto perché l'ultimo imperatore non era però venuto dalle sue file; e partì quindi dal senato un'ambasciata a Zenone per chiedere che a Odoacre fosse riconosciuto il rango di patrizio. Zenone lo concesse, ma insistette che fosse riconosciuto Nepote come imperatore. Odoacre invece si rifiutò, fino a quando nel 480 Nepote venne a morte in Dalmazia, e prima come dopo governò l'Italia con la collaborazione del senato, re per i Germani, patrizio per i Romani.

Dal punto di vista costituzionale è evidente che, come un Impero d'Occidente non ci fu mai, così esso non finisce nel settembre del 476. Per la collegialità teorica dell'Impero, quando mancava un Augusto in Occidente, voleva dire che l'Augusto d'Oriente imperava anche in Occidente. E poiché per di piu, nel caso particolare un Augusto di Occidente c'era nella persona di Nepote, debitamente riconosciuto dal collega di Oriente, l'unica questione costituzionale era se Odoacre e il senato romano avessero diritto di rifiutarne da parte loro il riconoscimento, ritenendosi sottomessi al solo Zenone.

Rispondere alla questione costituzionale sarebbe ora per lo meno superfluo. Il fatto fondamentale è altro: nel 476 avveniva il primo insediamento regolare di Germani in Italia, per cui la situazione dell'Italia si parificava anche in ciò a quella delle provincie occidentali, l'ultima delle parificazioni della storia dell'Impero. La Britannia e l'Illirico erano perduti; la Gallia, divisa tra Burgundi, Visigoti, Franchi Salii, Celti indipendenti in Bretagna, contava ormai solo un tratto nel nord sottomesso ai Romani (meglio, al governatore romano Siagrio), che nel 486 sarà occupato dai Franchi; la Spagna, occupata quasi tutta da Suebi e Visigoti, era per il resto (Cantabri e Vasconi sul golfo di Biscaglia) abbandonata a sé; Africa, Sicilia, Sardegna e Corsica erano in mano dei Vandali. La rovina si concludeva con l'insediamento di Odoacre e dei suoi in Italia. Ne conseguiva che cessava la possibilità all'Italia di essere una sorgente autonoma di autorità imperiale: di fatto non vi saranno creati più imperatori. La restaurazione di Giustiniano sarà un'imposizione dell'Oriente. Il primo ritorno di un potere imperiale in Occidente, quello di Carlomagno, non avrà origine in Italia; sarà, come pensavano gli stessi storici medievali, una translatio imperii, qualunque ne sia l'interpretazione giuridica. È quindi legittimo concludere la storia antica di Roma nel 476, per chi consideri che nel 476 cessava di esercitarsi effettivamente in Italia il potere imperiale che in Italia appunto s'era originato.

L'Impero romano come istituzione politica si continuerà in Bisanzio. Ma in Bisanzio non si manterrà nella sua ricchezza ideale il fermento per cui la Chiesa si era venuta sovrapponendo all'Impero quale più vera comunione umana. L'inferiorità della storia di Bisanzio è per molta parte nella superficialità dei conflitti tra Chiesa e Stato (nonostante la controversia iconoclastica). In Occidente il trasferimento dell'universalità di Roma nell'universalità della Chiesa di Roma si era ormai compiuto. A differenza del secolo precedente, la Chiesa è ormai distaccata dalle minute contingenze delle vicende politiche. Nelle lettere dei più grandi papi, Innocenzo I o Leone I, si trovano assai di rado riferimenti alla situazione politica momentanea. Ma in ciò la forza della Chiesa: la quale sembra comparire solo nei grandi momenti, e Leone I che va incontro ad Attila o, sulle porte di Roma, a Genserico, è già per i contemporanei un simbolo. Di fatto la Chiesa di Roma nel sec. V prende per base la situazione politica esistente e di essa si serve per affermare il proprio primato: della rivalità per l'Illirico tra Oriente e Occidente, Innocenzo I si vale per mantenere l'Illirico sottomesso religiosamente a Roma (412); dei contrasti in Gallia Zosimo (417) e poi Celestino (428) si servono per rinsaldarvi l'autorità papale prima costituendo e poi distruggendo i privilegi della sede di Arles. In Africa, in specie dopo l'invasione vandala, la causa della Chiesa cattolica e quella dell'Impero si identificano. In Oriente il papato continua la sua battaglia. Alleato con la sede di Costantinopoli contro Alessandria e la famiglia imperiale nella questione di Giovanni Crisostomo (404); alleato di Alessandria contro Costantinopoli nella questione nestoriana (concilio di Efeso, 431); alleato ancora di Costantinopoli contro Alessandria nella questione monofisita decisa in favore di Alessandria nel concilio di Efeso del 449, ma ripresa poi in favore di Costantinopoli nel concilio di Calcedone (451). Al nostro scopo è di secondario interesse che la voce del papato non venga ascoltata nella questione di Giovanni Crisostomo, come poi che la questione del primato sia risolta sfavorevolmente per Roma nel concilio di Calcedone dove la posizione di superiorità di Roma su Costantinopoli è ancora più sottilmente delimitata che nel concilio di Costantinopoli del 381, mentre di fatto è allargata la giurisdizione di Costantinopoli. Conta dal punto di vista della continuità di Roma quale comunità universale che in questa questione di primato con l'Oriente assuma tutta la sua più precisa consapevolezza la convinzione del papato di continuare in altra sfera d'azione l'Impero. Leone I, il papa che difende più vigorosamente il primato di Pietro, è quello che più chiaramente scrive e fa scrivere sulla pax christiana che conquista il mondo: "isti sunt (Pietro e Paolo) qui te ad hanc gloriam provexerunt, ut gens sancta, populus electus, civitas sacerdotalis et regia, per sanctam Beati Petri sedem caput orbis effecta, latius praesideres religione divina quam dominatione terrena; quamvis enim multis aucta victoriis ius imperii terra marique protuleris, minus tamen est quod tibi bellicus labor subdidit, quam quod pax christiana subiecit" (Sermo, 82).

Tale pax christiana è l'inveramento della pax romana nel nuovo piano di valori e segna nello stesso tempo la continuità e la diversità del nuovo momento storico.

La contrapposizione che Agostino faceva tra la civitas dei e la civitas terrestris, giustificando nella natura della civitas terrestris la storia di Roma, ma d'altro lato aspirando a trasferire i Romani dalla civitas terrestris alla civitas dei, si risolve totalmente nel pensiero di Leone I. E perciò la Chiesa può preparare la convivenza di Romani e barbari in quanto i barbari entrando nella Chiesa sono fatti romani. "Quae tamen [Roma] per apostolici sacerdotii principatum amplior facta est arce religionis quam solio potestatis", dice l'anonimo autore del trattato De vocatione gentium (II, 16). La simpatia che Orosio, e più vivamente Salviano, manifestano per i barbari si comprende nella convinzione di Salviano che i barbari ora sono i veri Romani. La nuova universalità spirituale sostituita all'universalità politica realizza un più profondo concetto di comunione umana, della quale vivranno i secoli avvenire. Ma poiché d'altro lato risorgerà sempre accanto al problema dell'universalità spirituale quello dell'universalità politica, che deve ricostituirsi dalla stessa universalità spirituale, Roma vive in tale duplice senso immortale in tutta la storia fino a noi.

BIBL.: A differenza dagli studî sulla repubblica romana, che hano trasferito le più vive preoccupazioni politiche moderne nella vita antica, e a cui anzi è stato facile rimproverare una modernizzazione arbitraria della storia romana, gli studî sulla storia imperiale hanno conservato un'impronta piuttosto arcaica fino al recente moto, provocato quasi tutto dall'esperienza morale del dopoguerra europeo. Caratteristico e significativo, per esempio, è il fatto che lo storico principe di Roma repubblicana, il Mommsen, lasciasse cadere la penna alle porte dell'Impero e pubblicasse poi solo una descrizione delle provincie imperiali (Römische Geschichte, V: Die Provinzen von Caesar bis Diocletian, Berlino 1885, trad. it., Roma 1890). Da un lato, negli storici dell'Impero, si mantiene il problema agostiniano del rapporto fra civitas terrena e civitas Dei; ma poiché la storiografia della Riforma e Controriforma, ridando alla storia ecclesiastica una nettezza e autonomia che l'umanesimo non conosceva, ne fa anche una pura storia di dogmi e contese religiose, la storia dell'Impero in tale problema non serve che come spiegazione di dati esteriori ad uso della storia ecclesiastica. Che è lo scopo della prima e fondamentale sistemazione delle nostre conoscenze sull'Impero di S. Le Nain de Tillemont - insuperata per l'acribia filologica - Histoire des empereurs et des autres princes qui ont regné durant les six premiers siècles de l'église (Parigi 1690-1738), proveniente da circoli giasenisti. Né la tradizione della teoria dei quattro imperi o simili, passata dalla storiografia medioevale alla moderna per le esigenze universalistiche, riesce a stabilire una più profonda connessione della storia dell'Impero romano sia con la Chiesa sia con le formazioni politiche precedenti e seguenti, appunto perché tale traduzione è ormai di carattere scolastico o almeno accademico (si veda lo stesso Discours sur l'histoire universelle del Bousset, Parigi 1681, e, per un altro esempio, Chr. Gatterer, Versuch einer allgemeinen Weltgeschichte, Gottinga 1792). Dall'altro lato sta la tradizione che si potrebbe chiamare aristotelico-polibiana nel senso che ne assume il concetto di Stato come organismo, il quale ha in sé ragioni di forza e debolezza, di grandezza e di decadenza: dal Montesquieu (Considérations sur les causes de la grandeur et de la décadence des Romains, Amsterdam 1734), il problema si trasforma secondo gl'ideali che si mettono via via a criterio della grandezza e della decadenza, giunge talvolta ad assumere aspetti apparentemente moderni, resta nella sostanza un relitto della metafisica greca. Da E. Gibbon, Decline and fall of the Roman empire (1ª ed. 1776 segg.; se ne veda l'edizione a cura di J. B. Bury, Londra 1896 segg., o la traduzione ital., Storia della decadenza e della caduta dell'impero romano, Torino 1926 segg.), che trova la decadenza nel cristianesimo, ma rianima tutta la descrizione di un illuminismo non mai schematico, a O. Seeck, Geschichte des Untergangs der antiken Welt (Stoccarda 1895 [3ª ed., 1910] - 1923), che vede una causa biologica, a G. Ferrero e C. Barbagallo (Roma antica, Firenze 1921-22; del secondo Storia universale, II, I-II, Torino 1931-32), che vi trovano cause economiche, fino a M. Rostovtzeff, The social and economic history of the Roman empire (Oxford 1926; trad. it. Storia economica e sociale dell'impero romano, Firenze 1933), che vi scopre una lotta tra le classi cittadine e le classi rurali, e ad Aldo Ferrabino, L'Italia romana (Milano 1935), che nella decadenza morale della classe dirigente dell'Italia riconosce la ragione della decadenza dell'Impero, per tacere delle inumerevoli indagini dedicate più specialmente al tema "grandezza e decadenza", è sempre la medesima intelaiatura sistematica.

All'infuori di questi due atteggiamenti di pensiero stanno le storie erudite, talvolta eccellenti (come H. Schiller, Geschichte des röm. Kaiserreichs, Gotha 1883-87, finora la migliore raccolta di fatti per l'Alto Impero, e, soprattutto E. Stein, Geschichte des spätrömischen Reichs, I, Vienna 1928, guida sicura per il Basso Impero: si cfr. anche H. Dessau, Gesch. d. röm. Kaiserzeit, Berlino 1924-30, solo fino al 69 d. C.), nelle quali si può riconoscere facilmente la derivazione dall'erudizione del Tillemont senza consapevolezza del riferimento del Tillemont alla storia della Chiesa; oppure le raccolte di biotrafie (A. v. Domaszewski, Gesch. d. röm. Kaiserzeit, 3ª ed., Lipsia 1921-23, fino a Caro); oppure infine la solitaria History of the later Roman Empire, (Londra 1923; da Arcadio a Giustiniano) di J. B. Bury, in cui lo scetticismo di fronte a ogni interpretazione spezza ogni problema, ma permette una acuta, non mai prevenuta, interpretazione del particolare.

Di fronte a questi schemi di storia è facile scorgere che quanto resta di valore nelle singole esposizioni non è l'interpretazione generale, ma ciò che esse dànno per riportarsi agli uomini dell'Impero, a quella umanità, che spiega l'Impero e l'affiancarsi della Chiesa all'Impero. Donde particolarmente il valore dell'opera di M. Rostovtzeff, sbagliata, come è generalmente riconosciuto, nella tesi generale, ma permeata di un senso vigoroso e realistico dell'attività umana e sostenuta da una enorme conoscenza dei fatti: sicché resta l'opera più significativa del nostro tempo nel campo della storia romana. Oggi il lavoro dei ricercatori, che non ha ancora avuto sistemazione in nessuna storia soddisfacente, ma si esprime nelle monografie (donde l'opportunità dell'ampia bibliografia che segue, a differenza che nella storia repubblicana, per rappresentare gl'indirizzi di studio più recenti), tende appunto più o meno consapevolmente a fondere il problema della grandezza e decadenza di Roma nel problema del trapasso dall'Impero alla dualità Chiesa-Impero e di conseguenza a riportare entrambi a una storia non più dello Stato, ma della coscienza umana che sottostà allo Stato. In ciò favorevolmente influisce la storiografia sul Medioevo, che si è resa più presto conto del problema Chiesa-Impero nei suoi termini moderni; e vi collaborano sia l'indagine economico-sociale, sia le analisi ideologiche, scoprendo la prima un'attività fuori o quasi dell'organizzazione dello Stato come governo, ma decisiva per la vita dello Stato, e le seconde le idealità etiche delle classi e degli uomini al governo. Ne risulta un riavvicinamento allo spirito della Weltgeschichte di L. v. Ranke (II-IV, Lipsia 1882-83), fuori dei suoi presupposti teologici.

Opere generali: Oltre le opere citate più sopra, si cfr.: G. M. Columba, L'impero romano (dal 44 a. C. al 395 d. C.), Milano s. a.; B. Niese, Grundriss der römischen Geschichte, 5ª ed., a cura di E. Hohl, Monaco 1923; H. Stuart Jones, The Roman Empire, Londra 1908; G. Bloch, L'empire romain. Évolution et Décadence, Parigi 1922; T. Frank, History of Rome, New York 1923 (trad. it., Storia romana, Firenze 1931); Joh. Kromayer e L. M. Hartmann, Römische Geschichte, in Weltgeschichte, a cura di L. M. Hartmann, III, 3ª ed., Gotha 1925 (trad. it., Storia romana, Firenze 1924); L. Homo, L'empire romain, Parigi 1925; M. P. Nilsson, Imperial Rome, Londra 1925; V. Chapot, Le mond romain, Parigi 1927; E. Albertini, L'empire romain, ivi 1929; M. Rostovtzeff, A history of the Ancient World, II: Rome, Londra 1927; E. Cavaignac, La paix romaine, Parigi 1928; G. H. Stevenson, The Roman empire, Londra 1930; E. Hohl e H. v. Soden, in Propyläen-Weltgeschichte, II, Berlino 1931; E. Kornemann, in Einleitung in die Altertumswissenschaft, III, 3ª ed., Lipsia e Berlino 1933. Per l'Alto Impero si cfr. anche: J. B. Bury, A history of the Roman Empire from its foundation to the death of Marcus Aurelius, 6ª ristampa, Londra 1913; L. Homo, Le Haut-Empire, Parigi 1933 (fino a Commodo); per il Basso Impero, lo schizzo di H. Gelzer, in K. Krumbacher, Geschichte der byzantinische Literatur, 2ª ed., Monaco 1897; F. Lot, La fin du monde antique et le début du moyen âge, Parigi 1927; id. (in collab. con Chr. Pfister e F. Ganshof), Histoire du moyen âge, I, ivi 1928; V. V. Vasiliev, L'empire byzantin, I, trad. franc., Parigi 1932. Un posto a parte per l'ampiezza e l'importanza della trattazione ha l'opera in collaborazione, The Cambridge Ancient History, X (1934), segg. (in corso di pubblicazione): comprende il periodo fino a Costantino ed è completata da The Cambridge Medieval History, I (1911). Per alcuni problemi dell'Alto Impero, cfr. anche M. A. Levi, Politica imperiale di Roma, Torino 1936.

Per il Basso Impero, fondamentale come ordinamento cronol. del materiale: O. Seeck, Regesten der Kaiser und Päpste für die Jahre 311-476, Stoccarda 1919.

Opere di consultazione: Indicazioni bibliografiche abbondanti per ogni problema si possono trovare in appendice alle traduzioni italiane delle storie di L. Hartmann e J. Kromayer (fino al 1924, a cura di B. Lavagnini) e di T. Frank (fino al 1931, a cura di G. Sanna). Meglio sistemate le indicazioni bibliografiche in E. Kornemann, Einleitung in die Altertumsw. cit., e, soprattutto quelle abbondantissime e scelte della Cambridge Ancient History, X, segg. citata. Già invecchiate le indicazioni della Cambridge Medieval History, I (1911). Sta per essere pubblicata una bibliografia sitematica sull'Impero romano di G. Sanna (edit. La Nuova italia, Firenze); l'Impero romano sarà inoltre compreso nella grande Bibliografia romana che sta preparando l'Istituto di studi romani. Indicazioni periodiche in Bursian's Jahresberichte für die klassische Altertumswiss.; in Marouzeau, Dix années de bibliogr. classique (1914-1924), e L'Année philologique, 1924 segg., e in The Year's Work in class. Studies, 1906 segg.

Tutti gli argomenti sono trattati per ordine alfabetico in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. der klass. Altertumswissenschaft, Stoccarda 1894 segg.: gli argomenti di carattere antiquario e giuridico anche in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, Parigi 1877-1919. Tutti i personaggi importanti dell'Impero fino a Diocleziano sono enumerati coi testi relativi nella Prosopographia imperii romani, Berlino 1897-98, di cui è in corso di pubblicazione la seconda ed. (1933 segg.) rifatta. Il materiale epigrafico è disciplinato in E. De Ruggiero, Dizion. epigr. di antichità romane, 1886 segg. (interrotto provvisoriamente alla lettera I), che spesso in singoli articoli si allarga a complete monografie.

Cronologia: G. Goyau, Chronologie de l'empire romain, Parigi 1898; W. Liebenam, Fasti consulares imperii romani von 30 v. Chr. bis 565 n. Chr., Bonn 1909; W. Kubitschek, Grundriss der antiken Zeichtrechnung, Monaco 1928; M. H. Griffin e G. A. Harrer, Fasti consulares, in Amer. Journ. of Archaeol., XXXIV (1930), p. 360 segg.; E. Bickermann, Chronologie, in Einleitung in die Altertumswissenschaft, Lipsia e Berlino 1933.

Numismatica: H. Cohen, Description historique des monnaies frappées sous l'empire romain, 2ª ed., Parigi 1880-92; H. Mattingly e E. A. Sydenham, The Roman imperial coinage, Londra 1923 segg.; J. Vogt, Die alexandrinischen Münzen, Stoccarda 1924; M. Bernhart, handbuch zur Münzkunde der römischen Kaiserzeit, Halle 1926; R. Münsterberg, Die römischen Kaisernamen der griechischen Münzen, in Numism. Zeitschrift, LIX (1926), p. 1 segg.; id., Die Kaisernamen der römischen Kolonialmünzen, ibid., p. 51 segg.; id., Die Kaisernamen der römischen Kolonialmünzen, ibid., p. 51 segg.; W. Wruck, Die syrische Provinzialprägung von Augustus bis Trajan, Stoccarda 1931; P. L. Strack, Untersuchungen zur römischen Reichsprägung des 2. Jahrh., Stoccarda 1931 segg. (usciti i due primi volumi su Reichsprägung des 2. Jahr, Stoccarda 1931 segg. (usciti i due primi volumi su Traiano e Adriano). C. Bosch, Kleinasiatishe Münzen der römischen Kaiserzeit, Stoccarda 1935 segg. (in corso),

Monografie su singoli imperatori e su singoli periodi: Le seguenti indicazioni rappresentano naturalmente solo una scelta ristretta di opere recenti (v. inoltre gli articoli sui singoli imperatori). Si cfr. anche sempre gli altri paragrafi: per Augusto in specie quelli sulla costituzione e sulle ideologie, V. Gardthausen, Augustus und seine Zeit, Lipsia 1891-1904 (append. bibliogr., 1916); E. Meyer, Kaiser Augustus, in Kleine Schriften, 2ª ed., Halle 1924, p. 441 segg.; M. Rostovtzeff, Augustus, in Röm. Mitteil., XXXVIII-XXXIX (1923-24), p. 281 segg.; M. A. Levi, Augusto (profilo), Roma 1929; id., Ottaviano capoparte, Firenze 1933; T. Rice Holmes, The architect of the Roman empire, Oxford 1928-32; H. Berve, Kaiser Augustus (profilo), Lipsia 1934: L. Homo, Auguste, Parigi 1936. Cfr. anche: C. Suetoni Tranquilli Divus Augustus edited with historical introduction, commentary, ecc., a cura di E. S. Shuckburgh, Cambridge 1896; H. Willrich, Livia, Lipsia 1911; M. Reinhold, Marcus Agrippa, New York 1933.

F. B. Marsh, The reign of Tiberius, Londra 1931; E. Ciaceri, Tiberio successore di Augusto, Roma 1934; J. H. Thiel, Kaiser Tiberius. Ein Beitrag zum Verständnis seiner Persönlichkeit, in Mnemosyne, s. 3ª, II (1935); C. A. Holtzhausser, An epigraphic commentary on Svetoniu's Life of Tiberius, Filadelfia 1918; C. Suetoni vita Tiberii - c. 24-c. 40, a cura di J. F. Rietra, Amsterdam 1928; A. Momigliano, Caligola, in Ann. Scuola norm. Pisa, n. s., I (1932), p. 205 segg.; M. P. Charlesworth, The tradition about Caligula, in Cambr. Hist. Journ., IV (1933), p. 105 segg.; J. P. V. D. Balsdon, The emperor Gaius, Oxford 1934; R. R. Rosborough, An epigraphic commentary on Suetoniu's Life of Gaius Caligula, Filadelfia 1920; A. Momigliano, L'opera dell'imperatore Claudio, Firenze 1932 (con agg. in trad. ingl., Claudius, the emperor and his achievement, Oxford 1934); F. Stähelin, Kaiser Claudius, Basilea 1933 (da Basler Nachrichten, nn. 11 e 12); C. Suetoni Tranquilli vita Divi Claudii, a cura di H. Smilda, Groninga 1896; H. Schiller, Gesch. d. röm. Kaiserreichs unter Nero, Berlino 1872; B. Henderson, The life and principate of the Emperor Nero, Oxford 1903; A. Coen, La persecuzione neroniana dei cristiani, in Atene e Roma, III (1900); G. Schoenaich, Die neronische Christeverfolgung, Breslavia 1911; A. Pirro, Tacito e la persecuzione neroniana dei cristiani, in Studi stor. ant. class., IV (1911), p. 152; W. Nestle, Odium generis humani, in Klio, XXI (1926), p. 91; W. Schur, Die Orientpolitik des Kaisers Nero, in Klio, suppl. XV, Lipsia 1923 (cfr. Klio, XX, 1925, p. 215 segg.); G. Schumann, Griechische und hellenistische Elemente in der Regierung Neros, Lipsia 1930; A. Bailly, Néron, L'agonie du monde, Parigi 1930.

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Per le finanze, v. sotto: Vita economica e sviluppo demografico: Età imperiale.

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Si cfr. inoltre i paragrafi destinati all'amministrazione e all'esercito. È appena da avvertire che lo studio delle singole provincie si sta svolgendo sopra tutto per mezzo della ricerca archeologica producendo una infinità di risultati particolari non ancora elaborati sufficientemente in sintesi. Tengono informati delle singole scoperte specialmente: Revue Archéologique e Revue des Études Anciennes, per la Francia; Germania, Berichte der römisch.-germ. Kommission, Bonner Jahrbücher, Mainzer Zeitschrift e minori, per la Germania; Journal of Roman Studies, per l'Inghilterra; Jahresh. d. österr. archäol. Instituts, per l'Austria; Dacia e Histros, per la Romania; Syria, per la Siria; Journal of Egyptian Archaeology, per l'Egitto; L'Africa italiana, Hespéris e minori, per il resto dell'Africa. - Riassunti sistematici delle scoperte in Bullettino del Museo dell'Impero, American Journal of Archaeology, Archäologischer Anzeiger del Jahrbuch des deutschen arch. Istituts.

Esercito: In generale J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, II e J. Kromayer e G. Veith, Heerwesen und Kriegführung der Griechen und Römer, Monaco 1928.

Th. Mommsen, Die Conscriptionsordung der römischen Kaiserzeit, in Gesamm. Schriften, I, p. 20 segg.; V. Chapot, La flotte de Misène, Parigi 1896; A. v. Domaszewski, Die Religion des römischen Heeres, i Westdeutsche Zeitschr., XIII (1894); id., Die Rangordnung des römischen Heeres, in Bonner Jahrbücher, CXVII (1908); id., Die Annona des Heeres im Kriege, in Epitymbion H. Swoboda dargebracht, Reichenberg 1927; Ch. Renel, Cultos militaires de Rome. Les enseignes, Lione e Parigi 1903; H. Ritterling, Zum röm. Heerwesen des dritten ausgeh. Jahrhunderts, in Festschrift Hirschfeld, Lipsia 1903; id., Legio, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. (1924); id., Troops in the senatorial provinces at the end of the First Century, in Journ. Rom. Studies, XVII (1924), p. 28 segg.; G. L. Cheesman, The auxilia of the roman imperial army, Oxford 1914; E. Babut, Recherches sur la garde impériale et le corps d'officiers de l'armée romaine aux IVe e Ve siècles, in Revue Historique, 1913-14; R. Grosse, Römische Militärgeschichte von Gallienus bis zum Beginn der byzantinischen Themenverfassung, Berlino 1920; P. V. Raynolds, The vigiles of imperial Rome, Oxford 1926; P. Couissin, Les armes romaines, Parigi 1926; H. M. O. Parker, The roman legions, Oxford 1928; id., The legions of Diocletian and Constantine, in Journ. Rom. Studies, XXIII (1933), p. 175 segg.; F. Lammert, Die röm. Taktik zu Beginn der Kaiserzeit u. die Geschichtschr., Lipsia 1931 (Philologus, suppl. 23); R. Syme, Rhine and Danube legions under Domitian, in Journ. Rom. Stud., XVIII (1928), p. 41 segg.; id., Some notes on the legions under Augustus, ibid., XXIII (1933), p. 14 segg.

Per le armate delle singole provincie cfr.: B. Filow, Die Legionen der Provinz Moesia von Augustus bis auf Diokletian, in Klio, suppl. VI (1906); L. Le Roux, L'armée romaine de Bretagne, Parigi 1911; R. Cagnat, L'armée romaine d'Afrique et l'occupation militaire de l'Afrique sous les empereurs, Parigi 1912; J. Lesquier, L'armée romaine d'Égypte d'Auguste à Dioclétien, Il Cairo 1918; E. Stein, Die kaiserlichen Beamten und Truppenkörper im römischen Deutschland unter dem Prinzipat, Vienna 1932. E inoltre: E. Stein, Die Organisation der weströmischen Grenzverteidigung im 5. Jahrh., in XVIII. Ber. der röm.-germ. Komm., 1928, p. 92 segg.; D. Schenk, Flavius Vegetius Renatus, die Quellen der Epit. rei mil., in Klio, suppl. XXII (1930), e, sul medesimo argomento, E. Sander, in Philologus, LXXXVII (1932), p. 369 segg.; id., Der Verfall der römischen Belagerungskunst, in Histor. Zeitschr., CIL (1934), p. 457 segg.

Sul limes orienta E. Fabricius, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., s. v. Limes. Cfr. quanto si è detto per la ricerca archeologica nelle singole provincie. Come esempî di descrizioni di fortificazioni romane si possono ricordare: H. Lehner, Vetera, Berlino 1930 (Röm.-Germ. Forschungen, IV); G. MacDonald, The roman Wall in Scotland, 2ª ed., Oxford 1934.

Classi sociali e politiche; vita economica: Oltre all'opera del Rostovtzeff, delle opere generali si cfr.: M. Weber, Die römische Agrargeschichte, Stoccarda 1891 (traduzione italiana, in V. Pareto, Bibl. di storia economica, II, II, Milano 1907); id., Agrarverhältnisse im Altertum, in Gesammelte Aufsätze, Tubinga 1924, p. 1 segg.; Th. Mommsen, Boden und Geldwirtschaft der röm. Kaiserzeit, in Gesamm. Schriften, V (1908); O. Hirschfeld, Die Grundbesitze der röm. Kaiser in den ersten drei Jahrh., in Klio, II (1902); W. E. Heitland, Agricola, A study of agricolture and rustic life in the greco-roman World, Cambridge 1921; L. Friedlaender, Sittengeschichte Roms, 10ª ed., Lipsia 1921-23; S. Dill, Roman Society from Nero to Marcus Aurelius, Londra 1921 (ristampa); id., Roman Society in the last century of the Western Empire, ivi 1926 (ristampa); A. Dopsch, Wirtschaftliche und soziale Grundlagen der europ. Kulturentwicklung aus d. Zeit von Cäsar bis auf Karl d. Grossen, 2ª ed., Vienna 1923-24; id., Naturalwirtschaft und Geldwirtschaft in der Weltgeschichte, ivi 1930; M. P. Charlesworth, Trade Routes and Commerce of the Roman Empire, 2ª ed., Cambridge 1926; R. Poehlmann e F. Oertel, Geschichte der soziale Frage und des Sozialismus in der antike Welt, 3ª ed., Monaco 1925; T. Frank, An economic history of Rome, 2ª ed., Baltimora 1927; J. Toutain, L'économie antique, Parigi 1927; G. Salvioli, Il capitalismo antico, Bari 1929; E. J. Jonkers, Economische en sociale toestanden in het romeinsche rijk blijkende uit het Corpus iuris, Wageningen 1933.

Tra le ricerche particolari si cfr.: J. Beloch, Die Bevölkerung d. griech.-röm. Welt, Lipsia 1880 (trad. it. La popolazione del mondo greco-romano, in Bibl. di storia econom. di V. Pareto, IV); L. M. Hartmann, Ueber der röm. Kolonat und seinen Zusammenhang mit dem Militärdienste, in Archäol. epigr. Mitteil., XVIII (1893); E. Ciccotti, Il tramonto della schiavitù nel mondo antico, Torino 1899; I. P. Waltzing, Les corporations professionnelles chez les Romains, Lovanio 1895-1900; L. Hahn, Rom und Romanismus in griech. röm. Osten. Bis auf die Zeit Hadrians, Lipsia 1906; id., Zum Sprachenkampf im röm. Reich, in Philologus, suppl. X (1907), p. 677 segg.; M. Bang, Die Germanen im röm. Dienst bis zum Regierungsantritt Constantins I., Berlino 1906; H. Gummerus, Der römische Gutsbetrieb als wirtsch. Organismus nach den Werken des Cato, Varro VIII-XI und Columella, in Klio, suppl. V (1906); H. Bolkenstein, De colonatu rom. eiusque origine, Amsterdam 1906; A. Deloume, La passion de l'argent dans les institutions, les lois et les moeurs des Romains, Parigi 1907; Th. A. Abele, Der Senat unter Augustus, Paderborn 1907; F. Fischer, Senatus romanus qui fuerit Augusti temporibus, Berlino 1908; V. Pârvan, Die Nationalität der Kaufleute im römisch. Kaiserreiche, Breslavia 1909; F. Schmitt, Zur Arbeiterfrage in der röm. Landwirtschaft, Lipsia 1910; M. Rostovtzeff, Studien zur Geschichte des römischen Kolonats, in Arch. f. Papyrusf., I (1910); A. Stöckle, Spätrömische und byzantinische Zünfte, in Klio, suppl. IX (1911); F. Sintenis, Die Zusammensetzung des Senats unter Septimius Severus und Caracalla, Berlino 1914; J. Juster, Les Juifs dans l'empire romain, Parigi 1914; M. Gelzer, Die Nobilität der Kaiserzeit, in Hermes, L (1914), p. 395 segg.; W. Otto, Die Nobilität der Kaiserzeit, ibid., LI (1916), p. 73 segg.; E. Cuq, Une statistique des locaux affectés à l'habitation dans la Rome imperiale, in Mémoire Acad. Inscr., XL (1915); T. Frank, Race mixture in the Roman Empire, in Amer. Hist. Rev., XXI (1915-16), p. 689; E. H. Brewster, Roman Craftsmen and Tradesmen of the Roman empire, Berkeley 1917; G. Lully, De senatorum romanorum patria, Roma 1918; F. Pringsheim, Zum röm. Bankwesen, in Vierteljahrreschrift für Sozial- und Wirtschaftsg., XV (1919); J. Sundwall, Abhandlung. zur Geschichte des ausgeh. Römertums, Helsingfors 1919 (cfr. anche Weströmische Studien, Berlino 1915); G. Calza, La statistica delle abitazioni ed il calcolo della popolazione in Roma imperiale, in Rend. Accad. Lincei, s. 5ª, XXVI (1920); R. Thouvenot, Salvien et la ruine de l'empire romain, in Mélang. Écol. Franc., XXVIII (1920), p. 145 segg.; C. Barbagallo, L'oriente e l'occidente nel mondo romano, in Nuova Riv. St., 1922, p. 141 segg.; A. Segrè, Circolazione monetaria e prezzi nel mondo antico, Roma 1922; H. Hermann, Die Verkehrswege zwischen China, Indien und Rom um 100 n. Chr., Lipsia 1922; id., Loulan, China, Indien und Rom im Lichte der Ausgrabungen am Lobnor, ivi 1931; A. W. Persson, Staat u. Manufaktur im röm. Reich, Lund 1923; J. J. v. Nostrand, The imperial domains of Africa Proconsularis, an epigraphical study, Berkeley 1925; R. Clausing, The Roma Colonate, the theories of its origin, New York 1925; A. Stein, Der röm. Ritterstand, Monaco 1927; H. Gressmann, Jewish Life in Ancient Rome, in Jewish Studies in memory of J. Abrahams, New York 1927, p. 170 segg.; G. La Piana, Foreign Groups in Rome during the first centuries of the Empire, in Harv. Theolog. Review, XX (1927), pp. 183-403 (meno compiutamente col titolo L'immigrazione a Roma nei primi due secoli dell'impero, in Ricerche religiose, 1926-28); R. H. Barrow, Slavery in the Roman Empire, Londra 1928; A. M. Duff, Freedmen in the early roman empire, Oxford 1928; E. H. Warmington, The commerce between the Roman Empire and India, Cambridge 1928; C. S. Walton, Oriental Senators in the service of Rome, in Journ. Rom. Stud., XIX (1929), p. 44 segg.; R. Laqueur, Das Kaisertum und die Gesellschaft des Reiches, in Probleme der Spätantike, Stoccarda 1930, p. 1 segg.; H. Kortenbeutel, Der ägyptische Süd- und Osthandel in der Politik der Ptolemäer und römischen Kaiser, Berlino 1931; E. R. Hardy, The large estates of byz. Egypt, New York 1931; T. Frank, Aspects of Social Behaviour in Ancient Rome, Cambridge Mass. 1932; F. Heichelheim, Zur Währungskrisis des römischen Imperiums im III. Jahrh. n. Chr., in Klio, XXVI (1933), p. 96 segg.; id., Pap. Bad. 37, ein Beitrag zur röm. Geldgeschichte unter Trajan, ibid., XXV (1932), p. 124 segg.; S. Brassloff, Staat und Gesellschaft in der röm. Kaiserzeit, Vienna 1933; L. Homo, Topographie et démographie dans la Rome impér., in Comptes rendus Acad. Inscr., 1933, p. 293 segg.; G. Mickwitz, Gold und Wirtschaft im röm. Reich des vierten Jahrh. n. Chr., Helsingfors 1932; A. Schenk von Stauffenberg, Die Germanen in röm. Reiche, in Die Welt als Geschichte, I (1934); T. Frank, The financial crisis of 33 A. D., in Amer. Journ. Phil., LVI (1935), p. 336 segg.; O. Davies, Roman Mines in Europa, Oxford 1935; W. Kubitschek, Der Übergang von der vordiokletian. Währung ins IV. Jahrh., in Byz. Zeit., XXXV (1935), p. 360 segg.

Ideologie politiche: Per il culto imperiale di Roma, v. sotto: Religione. Qui si dànno solo alcune indicazioni orientative delle varie direzioni di ricerca in campi affini: J. Toutain, Observations sur quelques formes de loyalisme particulières à la Gaule et à la Germaine romaine, in Klio, II (1902), p. 194; F. Cumont, Iupiter summus exsuperantissimus, in Archiv. f. Religionsw., IX (1906), p. 323 segg.; R. Reitzenstein, Die Idee d. Prinzipats bei Cicero u. Augustus, in Nachr. gött. Gesell., 1917, p. 399 segg.; M. Rostovtzeff, Commodus Hercules in Britain, in Journ. Rom. Stud., XIII (1923), p. 91 segg.; W. Deonna, La légende d'Octave Auguste Dieu Sauveur et maître du monde, in Rev. Hist. Relig., LXXXIII-LXXXIV (1921); F. Kampers, Vom Werdegange der abenländ. Kaisermystik, Lipsia e Berlino 1924; W. Weber, Der Prophet und sein Gott, Lipsia 1925; A. v. Domaszewski, Die philos. Grundlagen des august. Prinzipats, in Festgabe Gothein, Monaco 1923, p. 63 segg.; R. Heinze, Cicero's "Staat" als politische Tendenzschrift, in Hermes, LIX (1924), p. 73 segg.; O. Th. Schulz, Die Rechtstitel u. Regierungsprogramme auf röm. Kaisermünzen v. Caesar bis Severus, Paderborn 1925; K. Scott, Identification of Augustus and Romulus, in Trans. Amer. Assoc., LVI (1925), p. 82 segg.; id., Greek and roman honorific months, in Yale Class. Studies, II (1931), p. 199 segg.; id., The significance of statues in precious metals in Emperor Worship, in Trans. Amer. Phil. Assoc., LXII (1931), p. 101 segg.; id., Humor in the expense of the Ruler Cult, in Class. Phil., XXVII (1932), p. 317 segg.; id., Tacitus and the speculum principis, in Amer. Journ. Phil., LIII (1932); G. Hirst, The significance of Augustior as applied to Hercules and Romulus: a note on Livy 1, 7, 9, in Amer. Journ. Philol., XLVII (1926), p. 347; M. P. Charlesworth, The fear of the Orient in the Roman Empire, in Cambr. Histor. Journ., II (1926), p. 9 segg.; J. Kaerst, Scipio Aemilianus, die Stoa und der Prinzipat, in Neue Jahrhb., V (1929), p. 653 segg.; J. Vogt, Orbis romanus, Zur Terminologie des röm. Imperialismus, Tubinga 1929; A. Bruhl, Le souvenir d'Alexandre le Grand et les Romains, in Mél. Écol. Franc., XLVII (1930), p. 202 segg.; Th. Ulrich, Pietas (Pius) als politischer Begriff im römischen Staate bis zum Tode des Kaisers Commodus, Breslavia 1930; J. Gagé, Romulus-Augustus, in Mél. Arch. et Hist., XLVII (1930), p. 138 segg.; id., Un thème de l'art imperial romain, la victoire d'Auguste, ibid., XLIX (1932), p. 61 segg.; id., La "virtus" de Constantin, in Reb. Étud. Lat., XII (1934), p. 398 segg.; J. Carcopino, Virgile et le mystère de la IVe Églogue, Parigi 1930; A. Alföldi, Der neue Weltherrscher der vierten Ekloge Vergils, in Hermes, LXV (1930), p. 360; W. W. Tarn, Alexander Helios and the Golden Age, in Journ. Rom. Stud., XXII (1932), p. 135; H. Lange, Die Wörter Aequitas und Iustitia auf römischen Münzen, in Zeitschr. Savigny Stiftung, Roman. Abteil., LII (1932), p. 296 segg.; E. Klostermann, Statio principis, in Philologus, LXXXVII (1932), p. 358 segg.; J. Liegle, Pietas, in Zeitschr. f. Numism., XLII (1932), p. 59 segg.; J. Gagé, Recherches sur les jeux séculaires, Parigi 1934; H. Dahlmann, Clementia Caesaris, in Neue Jahrb., 1934, p. 17 segg.; A. Alföldi, Die Ausgetaltung des monarch. Zeremoniells am röm. Kaiserhofe, in Röm. Mitteil., 1934, p. I segg.; id., Insignien und Tracht der röm. Kaiser, ibid., 1935, p. I segg.; J. Aymard, Venus et les impératrices sous les derniers Antonins, in Mél. Arch. Hist., LI (1934), p. 178 segg.; H. Kruse, Studien zur offiziellen Geltung des Kaiserbilds im röm. Reiche, Paderborn 1934; A. L. Abaecherli, Imperial Symbols on certain Flavians coins, in Class. Philol., XXX (1935), p. 130 segg.; H. P. L'Orage, Sol Invictus Imperator, in Symbolae Osloenses, XIV (1935), p. 86 segg.

Per affinità di argomenti si cfr.: J. Geffcken, Römische Kaiser im Volksmunde der Provinz, in Nachr. gött. Gesell., 1901, p. 183 segg.; G. Gernentz, Laudes Romae, Rostock 1918; L. Castiglioni, Le lodi d'Italia e la Roma pastorale, in Rend. Ist. lombardo, 1931.

Impero romano e cristianesimo: Per i rapporti tra Stato e Chiesa si cfr.: Th. Mommsen, Der Religionsfrevel nach röm. Recht, in Gesamm. Schriften, III, p. 389 segg.; C. J. Neumann, Der röm. Staat und die allgem. Kirche, I, Lipsia 1890; H. Grisar, Geschichte Roms und der Päpste im Mittelalter, I: Rom beim Ausgang der antiken Welt, Friburgo 1901 (trad. ital., Roma alla fine del mondo antico secondo le fonti scritte e i monumenti, Roma 1930); K. Lübeck, Reichseinteilung und christliche Hierarchie des Orients bis zum Ausg. des IV. Jahrh., in Kircheng. Studien, V (1901); A. Harnack, Kirche und Staat bis zur Gründung der Staatskirche, in Kultur der Gegenwart, I, IV, I, 2ª ed., Berlino 1909; V. Sesan, Kirche und Staat, ecc., I: Die Religionspolitik der christlich-römischen Kaiser von Konstantin bis Theodosius, Czernovitz 1911; H. Gelzer, Über das Verhältnis von Staat und Kirche in Byzanz, in Ausg. kleine Schriften, Lipsia 1907, p. 57 segg.; E. Schwartz, Die Konzilien des IV. und V. Jahrh., in Hist. Zeit., CIV (1909), p. 1 segg.; E. Frank Humphrey, Politics and religion in the days of Augustine, New York 1912; M.A. Huttmann, The establishment of Christianity and the proscription of paganism, ivi 1914; G. Manaresi, L'impero romano e il cristianesimo, Torino 1914; F. Martroye, L'asile et la législation impériale du IVe au VIe siècle, in Mém. Soc., Nat. d. Antiq. de France, 1915-18, p. 159 segg.; id., Le titre de pontifex maximus et les empereurs chrétiens, in Bull. Soc. Nat. Ant. de France, 1928, p. 192 segg.; id., La répression de la magie et le culte des Gentils au IVe siècle, in Rev. Histor. de droit franc. et étr., IX (1930), p. 669 segg.; G. Lardé, Le tribunal des Clercs dans l'empire romain et la Gaule franque, Moulins 1920; G. Costa, Religione e politica nell'impero romano, Torino 1923; J. Geffcken, Der Ausgang d. griech.-röm. Heidentums, 2ª ed., Heidelberg 1929; J. Zeiller, L'empire romain et l'Église, Parigi 1928; M. Vogelstein, Kaiseridee und Romidee und das Verhältnis von Staat und Kirche seit Constantin, Breslavia 1930; P. De Labriolle, La réaction païenne, Parigi 1934; G. Krüger, Die Rechtsstellung der vorkonstantinischen Kirchen, Stoccarda 1935 (Kirchenrechtliche Abhandlungen, 115-116).

Per le persecuzioni, e in genere per la politica dei singoli imperatori, v. le monografie a loro dedicate. Si cfr. inoltre: M. Conrat, Die Christenverfolgungen in röm. Reiche vom Standpunkte der Juristen, Lipsia 1897; L. Cézard, Histoire juridique des persécutions contre les Chrétiens de Néron à Septime Sevère, Parigi 1911. Cfr. ache A. v. Harack, Mission und Ausbreitug des Christentums, 4ª ed., Lipsia 1924.

Non è possibile qui dare indicazioni particolari sulla politica ecclesiastica rispetto all'Impero. Si cfr. le storie della Chiesa e del Papato, di cui dànno largo posto ai rapporti con l'Impero, tra le altre, le seguenti: L. Duchesne, Histoire ancienne de l'Église, I-III, Parigi 3ª-5ª ed., 1910-23; L. Batiffol, Le catholicisme des origines à St. Leon, I-IV, 2ª-10ª ed., ivi 1914-24; B. J. Kidd, A history of the church, I-III, Oxford 1922; K. Müller, Kirchengeschichte, 2ª ed., Tubinga 1924-29; F. X. Funk-K. Bihlmeyer, Lehrbuch der Kirchegeschichte, 9ª ed., Paderborn 1932; E. Caspar, Geschichte des Papsttums: I, Römische Kirche und Imperium Romanum, Tubinga 1930; J. Haller, Das Papsttum, Stoccarda 1934; H. Lietzmann, Gesch. d. alten Kirche, I-II, Berlino 1932-36. Si cfr. anche C. J. Hefele, Conciliengeschichte, 2ª ed., I-II, Friburgo 1873-75 (trad. francese di H. Leclercq, Parigi 1907). Solo programmatico: W. Weber, Röm. Kaisergeschichte und Kirchegeschichte, Stoccarda 1929. Tra le monografie più recenti si notino: H. von Campenhausen, Ambrosius von Mailand als Kirchenpolitiker, Berlino-Lipsia 1929; J. Palanque, St. Ambroise et l'empire romain, Parigi 1933; K. F. Hagel, Kirche und Kaisertum in Lehre und Leben des Athaasius, Tubinga 1933.

Si cfr. anche L. Hertling, Die Zahl der Christen zu Beginn des IV. Jahrh., in Zeitschr. kath. Theol., LVIII (1934), p. 243 segg.

Per le teorie politiche dei padri della Chiesa v. sotto: L'idea di Roma: Cristianesimo antico.

Caratteri dell'opera di Roma; problema della decadenza: Si vedano innanzi tutto le storie generali, poi le opere dedicate alla continuità di Roma nel mondo medievale e moderno. Inoltre si possono cfr.: L. Hahn, Das Kaisertum, Lipsia 1913; J. Bryce, The Holy Roman Empire, Londra 1915; M. Gelzer, Das Römertum als Kulturmacht, in Hist. Zeitschr., CXXVI (1922), p. 189; The legacy of Rome (a cura di varî autori), Oxford 1923; W. Otto, Kulturgeschichte des Altertums, Monaco 1925; F. Klingner, Rom als Idee, in Antike, III (1927), p. 17 segg.; C. H. Beckmann, Das Erbe der Antike im Orient und Okzident, Lipsia 1931; W. Chase Green, The achievemet of Rome, Cambridge Mass. 1933. Si cfr. anche F. Cumont, Pourquoi le latin fut-il la seule langue littéraire de l'Occident, in Mélanges Paul Frédéricq, Bruxelles 1904.

Come esempî di porre il cosiddetto problema della decadenza di Roma citiamo anche: M. Weber, Die sozialen Gründe des Untergangs der antike Kultur (1896), in Gesamm. Aufsätze, Tubinga 1924, p. 289 segg.; J. Beloch, Der Verfall der antiken Kultur, in Hist. Zeitschrift, LXXXIV (1900), p. 1 segg.; G. Ferrero, La ruine de la civilisation antique, Parigi 1921; S. Spengler, Der Untergang des Abendlades, Berlino 1920-22; W. E. Heitland, The roman fate, Cambridge 1922, proseguito in ulteriori discussioni in Iterum or a further discussion of the Roman fate (1925), e Last words on the Roman Municipalities (1928); G. Sorel, La ruine du monte antique, 2ª ed., Parigi 1925; M. Rostovtzeff, The decay of the ancient World and its economic explanations, in The Econom. History Review, II (1930), p. 197 segg. Si cfr. inoltre M. Gelzer, Altertumswissenschaft und Spätantike, in Hist. Zeitschr., CXXXV (1926), p. 173 segg.; H. Lietzmann, Das Problem der Spätantike, in Sitzungsb. Preuss. Akad., 1927, p. 342 segg.

IL CRISTIANESIMO A ROMA NEI PRIMI TRE SECOLI.

Le origini. - L'esistenza di una comunità cristiana in Roma o più esattamente, di una reazione suscitata in seno alla fiorente comunità ebraica di Roma dalla propaganda cristiana, è attestata con certezza verso l'anno 50. Svetonio, infatti, nella vita di Claudio (cap. XXV) attesta che questo imperatore "iudaeos, impulsore Chresto, assidue tumultuantes Roma expulit", e la testimonianza di Svetonio trova la sua conferma in un passo degli Atti degli Apostoli (XVIII, 2) nel quale è riferito che S. Paolo, recatosi (verso il 52) a Corinto, v'incontrò "un certo giudeo per nome Aquila, oriundo del Ponto, venuto di recente dall'Italia insieme con Priscilla sua moglie, perché Claudio aveva comandato che tutti i Giudei se ne andassero da Roma". Anche a Roma, dunque, come nella maggioranza delle altre città dell'Impero, il cristianesimo si era diffuso in un primo momento nell'ambiente ebraico: se è difficile collegare - come è stato fatto - le origini del cristianesimo a Roma con quei Romani 'Ιουδαῖοί τε καὶ προσήλυτοι (Atti, II, 10) presenti al discorso di Pietro a Gerusalemme nel dì della Pentecoste, è certo che ancora all'epoca dell'Ambrosiastro (sec. IV) era viva a Roma una tradizione secondo la quale i Romani "nulla insignia virtutum videntes, nec aliquem apostolorum, fidem susceperant" nella forma giudaizzante (Patrol. Lat., XVII, 46).

Non è arrischiato supporre che negli anni immediatamente seguenti l'editto di Claudio, e nonostante questo, la comunità cristiana di Roma abbia visto considerevolmente aumentare le sue file, anche in conseguenza del fenomeno dell'immigrazione, che doveva portare a Roma cittadini provenienti da tutte le parti dell'impero attratti nella capitale dagl'interessi economici e politici che trovavano in Roma il loro centro naturale. Certo è che verso il 58 - al più tardi - l'apostolo delle genti, San Paolo, con felice intuizione di quella che sarebbe stata la funzione storica della comunità costituitasi nella capitale dell'Impero, indirizzava "a quanti sono in Roma amati da Dio, chiamati a essere santi" la sua lettera più famosa. Anche a prescindere dalla spinosa questione della destinazione romana (secondo alcuni) o efesina (secondo altri) del capitolo XVI della lettera (nella quale Paolo, che non era mai stato a Roma, formula saluti e raccomandazioni per numerosi gruppi di cristiani), è certo che la lettera ai Romani è l'unico documento storico relativo alla comunità di Roma in quel periodo e sembra confermare l'ipotesi che già in quegli anni, accanto alla maggioranza rappresentata dai cristiani provenienti dalla sinagoga e che aderiva ancora al principio del carattere obbligatorio delle opere della legge, si cominciassero a far luce gruppi di cristiani i quali, o per la loro provenienza dalle file dei gentili, o per una loro maggiore indipendenza spirituale dal giudaismo, osservavano verso i primi un certo atteggiamento d'intolleranza. Ma questa è conclusione che si ricava più dal tono generale della lettera e dal genere degli argomenti svolti che da precisi accenni a circostanze di persone e cose (sempre prescindendo dal capitolo XVI): Paolo accenna solamente al suo desiderio di recarsi a Roma "per avere qualche frutto anche fra voi come fra il resto dei Gentili". Il desiderio di "non edificare sul fondamento altrui" lo ha, fra l'altro, trattenuto; ma ora "quando andrò in Spagna, spero, passando, di vedervi e d'essere da voi aiutato nel mio viaggio a quella volta, dopo che mi sarò in parte saziato di voi". noto (v. PAOLO, SANTO) in quali circostanze, così diverse dal previsto, Paolo poté effettuare il suo viaggio a Roma. Dagli Atti (cap. XXVIII, 11 seg.) sappiamo che Paolo sbarcato a Pozzuoli, si vide venire incontro, sulla via Appia, alcuni "fratelli" di Roma; che a Roma fu concesso all'apostolo di "abitare da sé col soldato che lo custodiva"; che poté avere un'intervista, non molto fruttifera, con i capi della sinagoga; che nella "casa da lui presa in affitto riceveva tutti coloro che venivano a trovarlo, predicando il regno di Dio e insegnando le cose relative al Signor Gesù Cristo con tutta franchezza e senza che alcuno glielo impedisse". Poi il racconto degli Atti s'interrompe bruscamente, ma dalla lettera ai Filippesi, scritta da Paolo durante la sua prigionia romana, sappiamo che la sua predicazione aveva dato buoni frutti a Roma: il cristianesimo aveva fatto proseliti persino nella "casa di Cesare". Certamente la comunità doveva avere ancora allargato il suo ambito: "la maggior parte dei fratelli nel Signore - afferma l'apostolo - hanno preso sempre maggior ardire nell'annunziare senza paura la parola di Dio". Non mancano incertezze e dissensi: alcuni "predicano Cristo anche per invidia e per contenzione... con spirito di parte, non sinceramente, credendo cagionarmi afflizione nelle mie catene". Ma l'importante è che "o per pretesto o in sincerità" Cristo sia annunciato.

L'apostolo scriveva fra il 63 e il 64: pochi mesi dovevano passare e un inatteso flagello si abbatteva sulla comunità. Non è qui il caso di accennare alle infinite questioni storiche legate all'episodio dell'incendio di Roma nel 64 (v. NERONE) e all'equivoco racconto che Tacito, un cinquantennio più tardi, ne ha redatto (Annali, XV, 38 segg.). Ma appare assai probabile che la multitudo ingens di cristiani, che secondo Tacito fu da Nerone sottoposta ai più efferati tormenti, sia stata colpita sotto l'accusa di aver appiccato, essi, l'incendio.

Se si eccettuino i vaghissimi accenni alla repressione neroniana che si sono voluti riscontrare nella I Petri - scritta, come attesta la lettera stessa (V, 13) ἐν Βαβυλῶνι e cioè, secondo l'interpretazione più di frequente accolta, a Roma (v. PIETRO, XXVII, p. 237) - l'incendio del 64 e la repressione neroniana non hanno lasciata traccia per circa un trentennio in alcun documento cristiano. Anche della comunità romana non si hanno più notizie e bisogna giungere agli ultimi anni del secolo (verso il 93-95) per imbattersi in un documento di eccezionale importanza per la storia della comunità cristiana di Roma.

È, questa, una lettera scritta in greco, anonima, indirizzata collettivamente dalla "chiesa di Dio peregrinante in Roma" alla chiesa di Corinto. Una tradizione che rimonta a Dionigi vescovo di Alessandria (166-175 circa) ne attribuisce la paternità a un Clemente, che andrebbe identificato, secondo un'altra tradizione di pochissimo posteriore alla prima, col vescovo di Roma di questo nome (v. CLEMENTE I). La lettera costituisce il primo esempio di un intervento della chiesa di Roma nelle faccende interne di un'altra chiesa. Si è pensato che questo intervento sia stato sollecitato (cfr. I, 1) e si è fatto notare che esso si effettua in realtà non in nome di un particolare privilegio della chiesa romana, privilegio al quale l'autore della lettera non si richiama mai; ma il fatto, comunque, rimane e conferisce di per sé stesso alla lettera un singolare valore, accresciuto dall'esplicito ricordo (capitoli V-VI) che l'autore fa delle sofferenze (πόνους) patite dalle "colonne" (στῦλοι): Pietro, il quale "avendo sofferto il martirio" (μαρτυρήσας) "partì verso il luogo di gloria a lui dovuto", e Paolo che "avendo sofferto il martirio... migrò dal mondo e partì per un luogo santo". Del luogo dove i due apostoli avrebbero sofferto il martirio l'autore della lettera non fa esplicito cenno, ma egli, che scriveva da Roma, soggiunge poco dopo che "a questi uomini" (Pietro e Paolo) fu unita una "grande moltitudine di eletti che rimasero come ottimo esempio fra noi (ἐν ἡμῖν)". L'allusione alla repressione neroniana è chiara e del resto l'autore si riferiva ai fatti che dovevano essere notissimi. Comunque è certo che da questa testimonianza della Prima Clementis in poi la serie delle testimonianze affermanti la venuta di San Pietro a Roma e la fondazione della comunità romana per opera sua - testimonianze che, del resto, trovano il loro parallelo nel culto alla memoria dei due apostoli testimoniato in recenti ritrovamenti archeologici nella basilica di San Sebastiano - procede quasi senza soluzione di continuità. Ignazio martire scrivendo dall'Asia (circa il 110-120) ai Romani (IV, 3) si limita a ricordare loro "οὐχ ὡς Πέτρος καὶ Παῦλος διατάσσομαι ὑμίν". Cinquanta anni dopo (verso il 170) Dionigi vescovo di Corinto (presso Eusebio, Hist. Eccles., II, 25, 8) afferma che "Pietro e Paolo dopo aver insegnato insieme in Italia hanno sofferto il martirio contemporaneamente". Verso il 180 Ireneo di Lione (Haer., III, 2, 2-3) presenta la chiesa romana come fondata e stabilita "a gloriosissimis duobus apostolis Petro et Paulo". Al principio del sec. III il prete romano Caio polemizzando col montanista Proclo contrapponeva alle memorie apostoliche frigie "i trofei degli apostoli" Pietro e Paolo presso il Vaticano e sulla via Ostiense (cfr. Eusebio, Hist. Eccles., II, 25, 7). Quasi contemporaneamente Tertulliano, in Africa, affermava "quibus (ai Romani) evangelium et Petrus et Paulus sanguine quoque suo signatum reliquerunt" (Adv. Marcion., IV, 5; cfr. De præscript., XXXVI; Scorpiace, XV). Il Concilio Vaticano, definendo il dogma dell'infallibile magistero del pontefice romano affermava "esser noto a tutti i secoli che la Santa Sede romana era stata fondata da S. Pietro, principe degli Apostoli" (Sessio IV, cap. 2).

Organizzazione e governo. - Uno dei problemi maggiormente discussi dalla critica, è quello della forma di governo ecclesiastico con la quale furono rette le primitive comunità cristiane.

Questo problema non si pone, naturalmente, per chi pensi, come fa la totalità degli studiosi cattolici, che l'episcopato monarchico sia un'istituzione di origine divina, mediante la quale Cristo ha garantito la successione apostolica nelle chiese fondate dagli apostoli e governate in un primo tempo da essi. Ma la critica indipendente, pur non negando a priori che singole comunità possano essere state, fino dal principio, governate da una sola persona, e pur affermando che l'episcopato monarchico è l'istituzione alla quale le comunità cristiane dovevano essere fatalmente spinte dalla necessità stessa - per tacere d'altro - di salvaguardare l'unità della fede e della pratica sacramentale mediante la concentrazione del governo religioso nelle mani di una sola persona, ha affermato che questa forma di governo ecclesiastico rappresenta, nella maggioranza dei casi, il punto di arrivo di un'evoluzione legata a un complesso di fattori, spesso d'importanza strettamente locale, che essa si è studiata di mettere in luce. Il problema, come è ovvio, ha un'importanza capitale per la chiesa di Roma sia in relazione alla situazione particolarissima di Roma nei riguardi di tutte le altre città dell'impero che erano state raggiunte dalla propaganda cristiana, sia per la stessa funzione che la chiesa di Roma era chiamata a esercitare su tutte le altre chiese cristiane.

Verso la fine del sec. II (fra il 180 e il 190) Ireneo di Lione, trovandosi a Roma, introdusse nella sua opera contro tutte le eresie una lista completa dei vescovi romani fino a Eleuterio che allora governava la comunità. "Quando ebbero fondata la chiesa di Roma, gli apostoli Pietro e Paolo - afferma Ireneo (Haer., III, 3, 3) - ne affidarono l'amministrazione (τὴν τῆς ἐπισκοπῆς λειτουργίαν) a Lino, di cui parla Paolo nella sua lettera a Timoteo. A Lino seguì Anacleto. Dopo di questo, Clemente ottenne l'episcopato al terzo posto dopo gli apostoli. A Clemente successe Evaristo, a Evaristo Alessandro; poi Sisto fu stabilito, sesto dopo gli apostoli; dopo di lui Telesforo, che rese gloriosa testimonianza; Igino gli succedette; quindi Pio, che fu sostituito da Aniceto. Sotero succedette ad Aniceto ed Eleuterio occupa oggi il dodicesimo posto dopo gli Apostoli" In base ai cataloghi posteriori la cronologia di questi vescovi è stata, con una certa approssimazione, fissata come segue: Lino (65-76); Anacleto (77-88); Clemente (89-97); Evaristo (98-105); Alessandro (106); Sisto (116-125); Telesforo (126-136); Igino (137-140); Pio (141-155); Aniceto (156-166); Sotero (167-174); Eleuterio (175-189).

Si è in generale d'accordo nel ritenere che la lista tracciata da Ireneo ripeta sostanzialmente quella che pochi anni dopo la metà del sec. II Egesippo, un giudeo-cristiano palestinese, aveva tracciato - conducendola fino ad Aniceto - in Roma dopo aver visitato molte chiese per documentare in esse la continuità della tradizione apostolica. Dalle parole di Egesippo (διαδοχὴν ἐποιησάμην, in Eusebio, Hist. Eccles., IV, 22, 3) si deduce chiaramente che una lista episcopale non esisteva a Roma al momento della sua visita. Per di più la lista presenta gravi difficoltà che mostrano come le tradizioni alle quali attingeva Egesippo fossero spesso discordanti e contraddittorie. Clemente, che nella lista è il terzo dopo gli apostoli, secondo Egesippo stesso sarebbe stato ordinato direttamente da S. Pietro. Della maggior parte di quelli che sono presentati nella lista come successori di S. Pietro (Lino, Anacleto, Evaristo, Alessandro, Sisto) non sappiamo assolutamente nulla. I dati di Ireneo (e quindi di Egesippo) non sempre collimano con affermazioni di Tertulliano, sì che si potrebbe concludere che Telesforo e Igino abbiano esercitato contemporaneamente l'episcopato. Queste le principali difficoltà elevate dalla critica indipendente contro il valore storico della lista di Ireneo e quindi contro la teoria che ammette l'episcopato monarchico in Roma fino da principio. Argomenti in favore dell'episcopato collegiale in Roma si sono cercati anche, e soprattutto, nei documenti letterarî coevi che possano comunque derivare o riferirsi alla comunità di Roma. Ammessa l'origine romana della Prima Petri e della lettera agli Ebrei, è giuocoforza riconoscere che né nella prima né nella seconda è fatta menzione di un vescovo unico della comunità romana o di qualsiasi altra comunità.

Nella Prima Petri è fatto ricordo (cap. V) dei πρεσβύτεροι e l'autore stesso della lettera si qualifica come συνπρεσβύτερος. I presbiteri sono i ποιμένες, i pastori, del gregge. Nella lettera agli Ebrei è fatto spesso ricordo degli ἡγούμενοι ("quelli che conducono") della comunità. Così anche nella Prima Clementis non si fa menzione né di un vescovo di Corinto, né di un vescovo di Roma. La lettera rivela chiaramente che la chiesa di Corinto era retta collegialmente: non solo - è stato osservato - l'autore della lettera non muove rimprovero ai Corinzî circa la costituzione della loro comunità, ma da alcune sue espressioni si potrebbe dedurre positivamente che anche a Roma il regime ecclesiastico fosse identico. Del resto, a non dubitare che, secondo quanto afferma Dionigi d'Alessandria, la lettera sia stata scritta da Clemente (indicato nella lista d'Ireneo come terzo successore di S. Pietro), è certo che da un capo all'altro della lettera il nome di Clemente non è mai ricordato ed è sempre la chiesa di Roma che parla in nome collettivo. Si aggiunge, dai sostenitori della tesi del governo collegiale, che Ignazio d'Antiochia, pur provenendo da una chiesa retta certamente da un vescovo monarchico ed essendo lui stesso tenacissimo assertore dell'autorità del vescovo nella chiesa (è questo uno dei motivi più frequenti nel suo epistolario), scrivendo a Roma s'indirizza impersonalmente alla comunità e ignora completamente la presenza di un vescovo. Erma, l'autore del Pastore, si esprime sempre (salvo che in un punto, Visio, II, 4, 3, di non chiara e di contestata interpretazione) come se la chiesa di Roma avesse alla sua testa un collegio di preti o di vescovi e non un vescovo monarchico.

Da questi fatti la critica indipendente ha dedotto la conclusione che sin verso la metà del secondo secolo la chiesa romana fosse governata collegialmente e che la comparsa delle prime liste episcopali coincida con l'affermazione del primo vescovo monarchico (Pio, verso il 150, secondo il Lipsius; Aniceto verso il 160, secondo A. Harnack), affermazione che peraltro rappresenterebbe il culminare e il maturarsi di un lungo processo passato attraverso stadî successivi. La comunità romana sarebbe stata governata da principio da un collegio di presbiteri presieduto dal più anziano di essi. Durante la seconda decade del sec. II si sarebbe cominciato a eleggere al posto di presidente non il presbitero più anziano, ma il più capace, che sarebbe divenuto così una specie di primus inter pares, il quale peraltro, dalla conferita autorità, doveva trarre impulso a trasformarsi, in processo di tempo, anche per l'esempio delle comunità orientali, dove l'episcopato monarchico era già la regola, in un vero e proprio vescovo monarchico. Le prime liste episcopali sarebbero state redatte a giustificare l'avvenuta trasformazione e le persone incluse in esse, pur essendo storiche, avrebbero così avuto l'attribuzione di un carattere che esse in realtà non ebbero.

Ma contro questa teoria si sono sollevate gravi obiezioni anche dagli stessi autori della tesi dell'episcopato collegiale: il valore quasi esclusivo dato ad argomenti ex silentio, il fatto che Dionigi di Corinto, scrivendo alla comunità romana verso il 170, quando cioè tutti ammettono che l'episcopato romano fosse già monarchico, si rivolge, come Ignazio, alla comunità e non al vescovo Sorero pur nominandolo: si può pensare che anche la lettera romana alla quale Dionigi risponde - perduta - fosse scritta in nome collettivo. D'altra parte noi sappiamo dal Canone muratoriano (v.) che Erma, il quale è invocato come testimone dell'episcopato collegiale, avrebbe scritto il Pastore "nuperrime temporibus nostris, in urbe Roma sedente cathedra urbis Romae ecclesiae Pio episcopo fratre eius". Ma questi argomenti non hanno indotto i sostenitori dell'episcopato collegiale a rinunciare alla loro tesi: nonostante le incertezze e le contraddizioni alle quali conduce il tentativo di cercare nella storia primitiva della chiesa romana il passaggio dall'episcopato collegiale all'episcopato monarchico, significherebbe chiudere gli occhi alla luce - essi affermano - sostenere che la centralizzazione dei poteri fu al principio quella che sarà più tardi. Nessuna chiesa, a partire dall'episcopato di Vittore, scriverebbe alla chiesa romana - essi osservano - collettivamente e impersonalmente senza nominare il vescovo di Roma e viceversa.

Ma le incertezze permangono e solo di recente le indagini della critica liberale, rielaborando dati ed elementi fino ad ora non presi in considerazione, si è studiata di superare le contraddizioni delle testimonianze partendo da un punto di vista che le ha permesso altresì d'inquadrare in una visione organica e coerente tutta la storia del cristianesimo romano durante i primi tre secoli.

Caratteristiche etniche della comunità. - Si è affermato che l'organizzazione e lo sviluppo della comunità cristiana di Roma durante i primi tre secoli non possono essere considerati "come effetto di un processo regolare e costante di un organismo omogeneo caratterizzato non solo da una fede unica, ma anche da un unico e uniforme programma di governo di attività religiose e sociali e da uniforme sistema di costumanze religiose". Non si è tenuto abbastanza in considerazione il fatto che la comunità romana ebbe fino da principio un carattere etnico composito e dopo aver reclutato i primi aderenti in seno alla comunità giudaica, pur accogliendo nelle sue file elementi indigeni (basta appena ricordare, tanto sono famosi, i nomi di Pomponia Grecina, M. Acilio Glabrione, Flavio Clemente, Flavia Domitilla e di altri appartenenti alle illustri famiglie degli Acilî e dei Flavî), risultò costituita, in grandissima maggioranza, da cristiani provenienti, per nascita o per famiglia, dalle principali provincie dell'Impero, che usavano in generale la lingua greca: in greco, di fatti, sono tutti gli scritti cristiani di provenienza romana fino al De Trinitate di Novaziano (circa il 250) e in greco sono scritti tutti i nomi di vescovi sulle lapidi sepolcrali delle catacombe di San Callisto fino al papa Cornelio (251-253). È del resto sintomatico il fatto che le notizie, pur tanto scarse e incerte, sul cristianesimo a Roma durante i primi due secoli siano nella loro grande maggioranza in relazione con la venuta in Roma di personaggi cristiani ivi confluiti da ogni parte dell'Impero. Al tramonto del regno di Antonino "il cristianesimo intero, ricorda L. Duchesne, sembrava essersi concertato per inviare a Roma le sue personalità più caratteristiche: Policarpo, il patriarca asiatico, Marcione, l'irriducibile settario del Ponto; Valentino, il grande maestro della gnosi alessandrina; la dottoressa Marcellina; Egesippo, il giudeo-cristiano della Siria; Giustino e Taziano, filosofi e apologisti: era un vero microcosmo, una vera sintesi del cristianesimo del tempo". Vien fatto di pensare alle acri parole di Tacito a proposito della diffusione della "superstitio" cristiana in Roma "quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque".

Comunità dunque, quella romana, d'immigrati i quali (è facile supporlo considerando quanto avviene anche oggi in tutti i grandi centri a costituzione etnica originariamente cosmopolita) dovettero essere condotti (pur avendo superato, in virtù della stessa professione cristiana, ogni presupposto etnico) a raccogliersi in gruppi distinti a seconda della loro provenienza: che questi gruppi mantenessero tradizioni e pratiche religiose caratteristiche delle chiese locali dalle quali derivavano, basterebbe a provarlo l'esistenza in Roma, agl'inizî del sec. II, di un gruppo di cristiani originarî dell'Anatolia, i quali celebravano la Pasqua all'uso asiatico, in data diversa dal resto della comunità. G. La Piana, che nelle sue indagini sulla primitiva comunità romana ha preso appunto le mosse dall'indagine del carattere composito ed eterogeneo della cristianità di Roma, ha pensato che precisamente a causa di questo carattere sia impossibile riscontrare fino dal principio la costituzione in Roma di un governo ecclesiastico monarchico e che l'affermazione di questo sia stata possibile solo quando, attraverso un lento processo di compenetrazione e di assorbimento, l'elemento latino si è affermato come predominante nella vita dell'intera comunità. Poiché questo processo di latinizzazione della comunità romana appare già evidente alla fine del sec. II con l'episcopato di Vittore, il La Piana pensa che solo a questa data si possa parlare di un vero e proprio episcopato monarchico e che a questo si sia potuto giungere non attraverso un lento ma normale processo di sviluppo, bensì attraverso un periodo di lotte e di contrasti, gl'indizî dei quali si possono riconoscere fino dagl'inizi del sec. II. Pio e Aniceto, dal Lipsius e dal Harnack, rispettivamente indicati come i primi vescovi monarchici di Roma, non avrebbero rappresentato, soprattutto il secondo, che due tentativi d'imporre al collegio dei presbiteri, espressione della molteplicità delle tendenze esistenti nella comunità romana a causa della sua stessa eterogenea composizione, la volontà di un'autorità centrale, simbolo e fattore della necessaria unità della Chiesa.

Certo è che questa tesi ha il vantaggio di superare felicemente le difficoltà in cui sono incappati tutti gli studiosi inclini ad affermare l'originario carattere collegiale del governo ecclesiastico romano, giacché per essa documenti e tradizioni contradditorie, senza bisogno di essere armonizzati contro ogni attendibilità, renderebbero, tali quali sono, testimonianza delle tendenze opposte esistenti nella comunità romana durante i primi due secoli. Inoltre questa tesi inquadrerebbe in un unico logico quadro anche il processo di latinizzazione della comunità romana, che sarebbe dovuto non tanto al prevalere dell'elemento cristiano indigeno, quanto a gruppi di popolazione immigrata ma già latina di liturgia e di mentalità religiosa: ai cristiani di origine africana, in altre parole. E non è senza significato a questo proposito il fatto che Vittore, il quale è da tutti riconosciuto come il primo grande affermatore della supremazia del vescovo di Roma, era di stirpe africana, di quella stirpe cioè alla quale si deve la più grande creazione che la storia religiosa europea possa registrare: il cristianesimo latino. La stessa questione delle ragioni storiche che avrebbero consentito alla chiesa romana l'affermazione di un'autorità primaziale su tutte le altre chiese cristiane, è stata posta in una luce nuovissima.

Le origini del Primato. - Come è noto (v. CATTOLICA, CHIESA), l'affermazione del primato romano non è legata, per gli studiosi e i teologi cattolici, a particolari contingenze storiche, ma al primato di giurisdizione su tutta la Chiesa conferito da Cristo a San Pietro e ai vescovi che gli succedettero nella sede di Roma da lui fondata e governata (v. Conc. Vat., Sessio IV, capitoli I-III e i testi di Matteo, XVI, 16 segg.; Giovanni, XXI, 15 segg. ivi addotti). Ma gli storici che hanno rifiutato l'interpretazione tradizionale del passo di Matteo, e ne hanno persino contestata l'autenticità; che hanno negato - nell'ipotesi più favorevole alla tradizione - la fondazione della comunità romana per opera di S. Pietro; che hanno comunque respinto la tesi cattolica affermante l'esistenza, a Roma, di un episcopato monarchico fino dal primo esordio della comunità cristiana, hanno dovuto cercare i motivi di questa affermazione della Chiesa romana (fino troppo evidente già agl'inizî del sec. III) in una serie di motivi che si possono ricondurre sostanzialmente ai tre seguenti: il fatto da tutti ammesso, che già agl'inizî del secolo II la Chiesa di Roma collegava strettamente le sue origini alla venerata memoria di S. Pietro e di S. Paolo; l'attività benefica svolta dalla comunità di Roma nel soccorrere materialmente e moralmente le comunità più povere o comunque colpite da sciagure di vario genere; il fatto che Roma era la capitale dell'Impero e di tutto il mondo civilizzato. Ma è chiaro che l'apostolicità della fondazione ecclesiastica, che Roma del resto ha in comune con molte altre chiese, "ebbe un valore secondario nel determinare le relazioni giuridiche fra le varie chiese e nel fissarne la gerarchia e che la si invocò solo più tardi per spiegare una situazione di fatto creata da altre cause". Né risulta che l'attività della Chiesa di Roma a favore delle altre chiese assumesse mai, almeno nei primi due secoli, carattere di egemonia materiale e morale. Né, infine, il carattere politico di Roma può essere invocato (senza riferire al sec. II una situazione che si venne creando nel IV) come motivo che abbia influito nel fissare ideali e programmi di organizzazione della comunità romana. Piuttosto il fatto che Roma fosse la capitale dell'Impero venne a creare una situazione pratica che influì profondamente sui caratteri e sugli sviluppi della comunità stanziata alle rive del Tevere. In un momento in cui, attraverso dispute e contrasti senza fine, il patrimonio della fede cristiana era sottoposto a un processo di chiarificazione tendente a eliminarne tutti gli elementi non assimilabili o comunque non atti a garantirne la vitalità, ogni questione, ogni controversia in materia di fede o disciplinare fosse sorta in una comunità cristiana, diventava un problema interno della chiesa di Roma, anche per il fatto che questa riproduceva nella sua costituzione i caratteri eterogenei e cosmopoliti della città nella quale era ospitata. Vero microcosmo di tutta la cristianità, ogni condanna, ogni questione, formulata, dibattuta a Roma si rifletteva per lo stesso motivo su tutte le chiese della cristianità: e così attraverso questo incessante processo di azione e reazione, l'autorità della comunità romana, non sempre disposta a patrocinare le stesse soluzioni accolte nelle chiese provinciali, si affermava sempre più risolutamente e contribuiva per ciò stesso a consolidare una tradizione "che, - secondo l'affermazione del La Piana - si prestò poi ad essere interpretata alla luce di principî generali di superiorità gerarchica, quando specialmente le condizioni pratiche che avevano dato origine e spiegavano questo sistema di relazioni tra Roma e il resto della cristianità erano già sparite da un pezzo, mentre i loro effetti erano divenuti parte vitale della tradizione ecclesiastica". Resta così definitivamente relegata nel mondo delle leggende l'affermazione che la chiesa di Roma sia rimasta estranea durante i primi tre secoli alle pure questioni teologiche. Ché anzi, il contributo in questo periodo recato dalla comunità romana, anche sul terreno dogmatico-speculativo, al processo di stabilizzazione di quell'unità nella fede e nella disciplina sacramentale, che - pur essendo contenuta implicitamente nella coscienza che la chiesa possedeva fino da principio di essere l'unica e sola via di salvezza - aveva corso serio rischio di offuscarsi nella molteplicità di tendenze divergenti, manifestatesi nella presa di contatto del messaggio cristiano con popoli e mentalità tanto diversi gli uni dagli altri, è stato decisivo. Quando Ireneo, verso la fine del secondo secolo, preoccupato di mostrare nelle chiese cristiane una perfetta continuità di tradizione apostolica, rivolgeva il suo pensiero "maximae et antiquissimae et omnibus cognitae, a gloriosissimis duobus apostolis Petro et Paulo Romae fundatae et constitutae ecclesiae" e affermava (Adversus Haereses, III, 3, 2) che a questa chiesa "propter potentiorem principalitatem necesse est omnem convenire Ecclesiam, hoc est, eos qui sunt undique fideles, in qua semper ab his qui sunt undique conservata est ea quae est ab Apostolis traditio", mostrava di aver perfettamente intuito la funzione chiarificatrice, coordinatrice, unificatrice che esercitava e doveva esercitare la chiesa posta nel cuore dell'impero e centro di confluenza delle passioni, delle lotte e delle conquiste della cristianità tutta.

La comunità romana nel sec. II e nel III. - Nell'esporre le questioni sollevate dalla critica liberale intorno al problema della primitiva comunità romana si è già accennato agli avvenimenti principali della sua storia durante il primo secolo: la persecuzione neroniana (v. NERONE), l'intervento della comunità romana nelle dispute sorte a Corinto (v. CLEMENTE I). Agl'inizî del secolo II si ricorda a Roma il martirio d'Ignazio di Antiochia (v.) e di Telesforo, quest'ultimo indicato nella lista episcopale d'Ireneo come settimo successore di S. Pietro, e martirizzato all'epoca di Adriano. Contemporanea del "vescovo Pio" (circa il 140) deve essere l'ultima relazione del Pastore di Erma (v.), che rivela come già allora la comunità romana non dovesse andar esente da discordie interne e come fosse già sentito fortemente il problema della penitenza (v.) e della remissione dei peccati. Verso la fine del regno di Adriano giunse a Roma il principale rappresentante della gnosi alessandrina, Valentino (v.), l'altro gnostico, Cerdone (v.) e Marcione (v.). Quest'ultimo, dopo essere entrato in relazione con i dirigenti della comunità, fu costretto a dare spiegazioni sulla sua dottrina e finì per separarsi dalla comunità (144), fondando una chiesa concorrente. Marcione, strenuamente combattuto da Giustino (v.), anch'esso a Roma in quel periodo, ebbe occasione di imbattersi (nel 154) in Policarpo (v.), vescovo di Smirne venuto a Roma a proposito della famosa controversia pasquale (v. PASQUA), che segna una data nella storia della comunità romana. L'episodio rivela chiaramente come all'epoca di Aniceto (v.) - siro di nascita e pertanto oriundo della provincia da cui ci è pervenuto il primo ricordo dell'episcopato monarchico - il processo di centralizzazione nel governo della comunità romana avesse ricevuto grande impulso anche dalla necessità di fronteggiare le varie congreghe eretiche fondate da predicatori giunti a Roma da ogni parte dell'impero. Certo è che Aniceto tentò d'imporre l'uniformità nella data della celebrazione pasquale e nei digiuni anche a quei cristiani asiatici di Roma (la lettera d'Ireneo a Vittore, in Eusebio, Hist. Eccles., V, 24, 9-18, rivela chiaramente che il dissidio era un dissidio interno della comunità romana) che seguivano l'uso delle loro chiese d'origine. Ma il tentativo di Aniceto fallì, giacché egli, in seguito all'intervento di Policarpo dovette comprendere che la condanna degli asiatici di Roma si sarebbe risolta in una condanna delle chiese dell'Asia Minore. E che la centralizzazione del potere non fosse giunta ancora a maturazione mostra il fatto che Dionigi di Corinto, scrivendo a Roma durante l'episcopato di Sotero (v.), successore di Aniceto, si rivolge ancora, impersonalmente, alla comunità e non al suo vescovo. Ciò che non era riuscito ad Aniceto, a Sotero e ad Eleuterio riuscì a Vittore, primo vescovo latino di Roma (189-198), il quale troncò l'ormai annosa questione privando della sua comunione il gruppo anatolico romano, che si organizzò in chiesa separata con a capo un certo Blasto, e tutte le chiese asiatiche che avevano fatto causa comune con questo.

L'energica politica di Vittore, più che durante l'incerto governo del suo immediato successore, Zeffirino (v.), trova il suo logico coronamento nell'attività di Callisto (v.). Uomo di governo, pratico ed equilibrato, mediante una serie di provvedimenti in materia penitenziale, matrimoniale, liturgica e organizzativa, egli si rivelò animato da una visione realistica della chiesa e delle necessità di una larga massa di fedeli. Poco idealista, poco accorto teologo - per quanto abbastanza equilibrato per sapersi destreggiare fra le varie tendenze - espressione tipica di quella progressiva affermazione dell'elemento latino nella comunità di Roma già chiarissima con Vittore, Callisto dovette urtare nell'irriducibile ostilità dell'elemento greco, ancora potente fra i cristiani di Roma: ne nacque lo scisma d'Ippolito (v.) e le polemiche teologiche connesse con questo, ma ormai la latinizzazione della chiesa romana era nella logica dei fatti e l'elezione di Fabiano (236-250) segna il suo decisivo trionfo.

Siamo alla metà del sec. III: la persecuzione anticristiana organizzata da Roma e a Roma particolarmente acuta (v. PERSECUZIONI) attira sulla comunità romana l'attenzione e il rispetto non solamente delle comunità, soprattutto italiane, che derivano da Roma dalla loro fondazione (v. ITALIA: Culti); ma della grande maggioranza delle altre comunità cristiane - soprattutto di quelle africane - che considerano l'atteggiamento della chiesa di Roma come particolarmente meritevole di ammirazione e di consenso. Non solo, ma le stesse controversie disciplinari, nate a seguito delle persecuzioni, soprattutto in merito al trattamento da usare verso i lapsi (v.), e gli scismi nati da queste controversie, come quello del prete romano Novaziano (v.), offrono alla chiesa romana, col suo moderato atteggiamento equilibratore, un nuovo motivo di rafforzare il suo dominio sulle chiese provinciali, che spesso, a seguito dei dissidî interni, ricorrono alla comunità romana perché intervenga fra le parti in causa: anche quando sorgono conflitti, essi finiscono sempre per risolversi a tutto vantaggio del prestigio del vescovo romano: in questo senso importanti, soprattutto, come si è accennato, i rapporti della chiesa romana con Cartagine e con il suo vescovo Cipriano (v.). I rapporti di questo col successore di Fabiano, Cornelio (251-253), e soprattutto la sua controversia con papa Stefano (morto nel 257) a proposito della validità del battesimo amministrato dagli eretici (v. CIPRIANO; STEFANO I; BATTESIMO) se mostrano come ancora fosse tenace la tendenza all'autonomia episcopale delle chiese più illustri per tradizioni e per situazione, rivelano d'altra parte come l'autorità della chiesa romana fosse un fatto ormai definitivamente consolidato. Aureliano, chiamato a risolvere, lui, imperatore pagano, la controversia sorta ad Antiochia, in seguito all'atteggiamento di Paolo di Samosata, sentenziò (circa il 270) che vescovo legittimo della città fosse considerato quello che era riconosciuto come tale dai vescovi dell'Italia e di Roma.

BIBL.: Oltre a tutte le opere citate nelle voci alle quali si rimanda nel testo: H. Hagemann, Die römische Kirche und ihr Einfluss auf Disciplin und Dogma in den ersten drei Jahrhunderten, Friburgo in B. 1864; R. Lipsius, Chronologie der römischen Bischöfe, Kiel 1869; id., Die Quellen der römischen Petrus-Sage, ivi 1872; J. Neumann, Der römische Staat und die allgemeine Kirche bis auf Diocletian, Lipsia 1890; J. Schmid, Petrus in Rom, Lucerna 1892; A. Harnack, Das Zeugniss d. Irenäus über das Ansehen der römischen Kirche, in Sitzungsberichte Akad. Wissensch. Berlin, 1893, pp. 939-55; F. S. Funk, Der Primat der römischen Kirche nach Ignatius und Irenäus, in Kirchengesch. Abhandlungen, Paderborn 1897, I, p. 1 segg.; J. Reville, Les origines de l'épiscopat, I, Parigi 1894, pp. 357-439 e passim; I. Chapman, Le témoignage de Saint Irénée en faveur de la primauté romaine, in Revue Bénédictine, XII (1895), pp. 49-64; A. Harnack, Die Chronologie der altchristlichen Litteratur, Lipsia 1897; K. Erbes, Die Todestage der Apostel Petrus und Paulus, in Texte und Untersuchungen, XIX, 1, Lipsia 1899; id., Petrus nicht in Rom sonder in Jerusalem gestorben, in Zeitschrift für Kirchengeschichte, XXII (1901); C. Macchi, la critica storica e l'origine della chiesa romana, Prato 1903; H. Böhmer, Zu dem Zeugnisse des Irenäus von dem Ansehen der römischen Kirche, in Zeitschrift f. neutestam. Wiss., 1906, p. 193; A. Harnack, Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, trad. it., Torino 1906; J. Turmel, Histoire du dogme de la papauté des origines à la fin du quatrième siècle, Parigi 1908; P. Batiffol, L'église naissante et le catholicisme, ivi 109; Ch. Guignebert, La primauté de Pierre et la venue de Pierre à Rome, ivi 1909; Schmiedel, War Petrus in Rom?, in Prot. Monatshefte, XIII (1909); L. Salvatorelli, La "principalitas" della Chiesa romana in Ireneo ed in Cipriano, Roma 1910; A. Bauer, Die Legende von dem Martyrium des Petrus und Paulus in Rom, in Wiener Studien, XXXVIII (1916), p. 270 segg.; A. Harack, Die Entstehung des Papsttums, in Aus Wissenschaft und Leben, I, p. 213 segg.; G. La Piana, The tombs of Peter and Paul ad catacumbas, in Harvard Theological Review, XIV (1921), pp. 53-94 (con esauriente bibl. sull'argomento, cfr. n. 1, p. 87); id., Il problema della chiesa latina in Roma, Roma 1922: id., La successione episcopale in Roma e gli albori del primato, ivi 1922; A. Donini, Ippolito di Roma: polemiche teologiche e controversie disciplinari nella chiesa di Roma agli inizi del sec. III, ivi 1925; G. La Piana, The Roman Church at the End of the Second Century, in Harvard Theological Review, XVIII (1925), pp. 201-277; id., La primitiva comunità cristiana di Roma e l'epistola ai Romani, in Ricerche religiose, I (1925), pp. 210-226, 305-326; E. Caspar, Die älteste römische Bischofsliste, Berlino 1926; G. La Piana, Foreign groups in Rome during the first centuries of the Empire, in Harvard Theological Review, XX (1927), pp. 183-403; H. Lietzmann, Petrus und Paulus in Rom, 2ª ed., Berlino 1927; C. Cecchelli, Nuovi studi sulla più antica lista papale, in Atti I congresso di studi romani, Roma 1928; H. Koch, Cathedra Petri, Giessen 1928; E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tubinga 1930; Danebauer, Die römische Petruslegende, in Hist. Zeitschr., CXLVI (1932); J. Haller, Das Papsttum, I, Stoccarda 1934; O. Marucchi, Pietro e Paolo a Roma, 4ª ed., a cura di C. Cecchelli, Torino 1934.

VITA ECONOMICA E SVILUPPO DEMOGRAFICO

Assai arduo, anzi impossibile, è il calcolo esatto della popolazione in qualsiasi periodo del mondo antico; per questo argomento e per i pochi dati frammentarî che ci rimangono, v. POPOLAZIONE, XXVII, pp: 914-16. Qui, prendendo in esame sostanzialmente la vita economica nell'età antica, basterà aggiungere che, relativamente, ci è meglio conosciuto per Roma lo sviluppo demografico dell'età repubblicana, per le cifre di censimento conservate.

Quelle, di sicura autenticità, del sec. III a. C., ci illustrano chiaramente come il normale crescere della popolazione subisse gravi interruzioni per le guerre (262.321 cittadini atti alle armi nel 293; 292.234 nel 264; 297.797 nel 251; 241.712 nel 246; 270.713 nel 233 e 214.000 nel 204 verso la fine della seconda guerra punica). Il sec. II è, nella prima metà, di rapido incremento demografico (337.452 nel 164): succedono decennî di guerre e di stagnazione (317.933 nel 135) e poi una ripresa (394.000 nel 125), nel caso però che le cifre siano esatte ed esattamente interpretate. Con l'inserzione degl'Italici dopo la guerra sociale nella cittadinanza romana perdiamo il filo di continuità nello sviluppo demografico (il censimento del 69 dà 910.000 cittadini). I pochi censimenti di età imperiale (da 4.063.000 nel 28 a. C. a 5.984.072 del 48 d. C.), comprendendo probabilmente donne e bambini dei cittadini romani in tutto l'impero, tolgono un'altra volta la possibilità di parlare di sviluppo demografico, non solo perché non più congruenti con i precedenti, ma perché le loro variazioni indicano piuttosto l'estendersi della cittadinanza romana fra i sudditi. Indubitata è la decadenza demografica particolare dell'Italia in età imperiale, sebbene non se ne possano precisare i limiti: però, a spiegarla, si deve tener conto della forte emigrazione dall'Italia nelle provincie. Che 80 o 100.000 Italici fossero uccisi da Mitridate in Asia nell'88 a. C. è cifra incontrollabile, ma significativa per l'emigrazione d'allora. In particolare non si posseggono dati per seguire lo sviluppo demografico della città di Roma: l'esistenza di almeno 200.000 proletarî in età imperiale fa supporre una popolazione, schiavi compresi, di almeno un milione.

ETÀ REGIA E REPUBBLICANA.

SVILUPPO ECONOMICO. - Dalle origini alla conquista del primato in Italia. - I Latini, stabilendosi nel Lazio, vi trovarono un suolo sufficientemente fertile, che si diedero a coltivare con tenacia e con perizia non comuni, affrontando l'esecuzione di difficili opere di prosciugamento, atte in pari tempo a contenere la malaria e ad impedire le erosioni del terreno. Le prime specie che coltivarono furono la spelta e l'orzo, laddove il frumento si diffuse soltanto dopo la metà del sec. V a. C. Nello stesso torno di tempo assunse qualche importanza la coltivazione della vite, e un po' più tardi quella dell'olivo, introdotto dalla Grecia.

Circa l'organizzazione economico-sociale dei prisci Latini non sono possibili se non congetture, ma è, crediamo, da respingersi l'opinione che attribuisce ad essi una forma originaria di comunismo agrario: questo al più si potrebbe ammettere soltanto per tempi remotissimi, essendovi indizî sicuri che già molti secoli prima delle XII Tavole vigesse presso i Latini la proprietà privata. È vero peraltro che nei primi tempi le proprietà dei singoli dovevano essere esigue e spesso insufficienti ai bisogni di una famiglia, onde diventa probabile che allora vi fossero comuni terreni pascolativi, il cui uso consentisse di correggere quell'insufficienza coi prodotti delle greggi. Le cose cambiarono col procedere del tempo, quando si stabilirono e si accentuarono le differenze tra i più e i meno abbienti, e la proprietà fondiaria si andò accumulando nelle mani dei primi: allora l'organizzazione fondiaria del Lazio fu caratterizzata da possessi relativamente estesi, coltivati per conto dei signori da contadini, le cui condizioni peggiorarono continuamente, di guisa che da questa progrediente disparità nacque la scissione delle due caste dei patrizî e dei plebei; ma non è da ammettere né che i contadini del Lazio si riducessero mai nella condizione di servi della gleba, né che la plebe fosse mai stata legalmente esclusa dal diritto di proprietà.

Nonostante lo sforzo poderoso e tenace della popolazione, i prodotti agricoli del Lazio non eccedettero nei primi secoli, come del resto nemmeno in seguito, i bisogni del consumo locale. Esportazioni di cereali di qualche entità si ebbero per tempo soltanto da parte di città della Magna Grecia, della Campania e dell'Etruria. E pure l'olio e il vino si cominciarono a produrre con abbondanza soltanto nelle colonie greche dell'Italia meridionale verso il sec. V e il IV a. C.

Per difetto di capitali e deficienza di mano d'opera le industrie eb- bero allora in Roma scarso sviluppo, non scarsissimo però, e ciò è dimostrato dai nomi stessi delle corporazioni operaie, la cui istituzione la tradizione attribuisce a Numa Pompilio, ma che sembrano corrispondere ai tempi della fine della monarchia: orefici, calderai, falegnami, conciatori, calzolai, vasai; tintori, flautisti.

Comunque non fu l'industria, ma il commercio di transito che arricchì la Roma primitiva, poiché il Tevere costitui la grande arteria, attraverso la quale scendevano il legname e tutti i prodotti agricoli e industriali dell'Etruria, dell'Umbria e della Sabina, e se ne effettuava lo scambio coi prodotti ricercati delle industrie straniere, risalenti per la stessa arteria su navi greche e fenicie; e in pari tempo il Tevere dava a Roma il dominio delle vie di terra, che si dipartivano da quelle regioni e dalla Campania. Sopraggiunse poi la dominazione etrusca sul Lazio a immettere Roma pienamente nelle grandi correnti commerciali che si incrociavano e si contrastavano sul Tirreno ad opera degli Etruschi stessi, dei Greci e dei Cartaginesi. Il trattato commerciale che fu concluso tra Romani e Cartaginesi nei primi anni della repubblica, nella sua formulazione così precisa e accurata, tramandataci da Polibio, dimostra che il commercio romano, sebbene meno importante di quello cartaginese, era già molto esteso e mirava a espandersi verso il Mediterraneo sud occidentale.

Lo sviluppo dei commerci spinse all'introduzione della moneta, che, preceduta dall'uso del bronzo a peso (aes rude ed aes signatum), avvenne poco dopo la metà del sec. IV, allorché i Romani si assicurarono il parziale dominio della Campania, che era economicamente assai più progredita e da tempo usava moneta d'argento greca e indigena. Allora appunto i Romani cominciarono a emettere l'asse librale fuso di forma lenticolare (aes grave), e fecero coniare per proprio uso e proprio conto moneta d'argento da Capua e da altre città della Campania. La prima emissione di moneta stimolò alle speculazioni, facendo crescere il tasso d'interesse, che per molto tempo era rimasto fermo all'8½ per cento circa, onde per poco tempo dopo la metà del sec. IV pare si rendessero necessarî provvedimenti coercitivi contro gli abusi. Verso il 300 l'asse librale fu ridotto a quattro once, e una trentina d'anni dopo (269-68) a due, nel momento stesso nel quale Roma iniziò l'emissione di una sua propria moneta d'argento: il denaro del peso originario di gr. 4,55, calcolato pari a dieci dei nuovi assi, con ragguaglio del valore dell'argento a 120 volte circa quello del rame, in un rapporto, cioè che, a quanto pare, corrispondeva all'effettivo valore commerciale dei due metalli. Questo rapporto dell'effettivo valore commerciale secondo alcuni fu mantenuto nella successiva riduzione del peso dell'asse a un'oncia nel 217 a. C., mentre altri vedono in questa l'introduzione di una moneta di credito, quale forse fu soltanto l'asse semunciale dei tempi della guerra sociale.

Intanto la plebe, con due secoli circa di lotte, aveva conquistata la sua uguaglianza politica e civile e migliorata la sua condizione economica, specialmente quando, dopo la distruzione di Veio, era stata ammessa alla distribuzione del territorio della città vinta, in lotti viritani di sette iugeri, e quando nel 366 una delle leggi Licinie-Sestie le aprì altre possibilità di ulteriori assegnazioni stabilendo un limite all'occupazione di terre di proprietà statale, della quale occupazione i ricchi tendevano ad abusare. Il proletariato guadagnava con ciò, in quei tempi di lavoro manuale e di coltura intensiva, mezzi sufficienti alle necessità della vita, e lo stato si assicurava in questa nuova classe di piccoli proprietarî una massa sana di cittadini devoti e fedeli e di soldati pronti a combattere, nella convinzione della coincidenza assoluta dei loro interessi privati con quelli della patria. Le assegnazioni di terre giungevano tanto più opportune, in quanto che pare certo che cominciasse ora a farsi sentire nel Lazio una grave crisi agricola dovuta all'isterilimento progressivo del suolo, per il suo precedente eccessivo sfruttamento e per la sua particolare natura geologica; progressivo isterilimento che costituì forse la prima spinta alla sostituzione dei pascoli (e, nella regione albana, delle vigne) alle colture granarie, e diede insieme incentivo alla grande espansione territoriale romana, che cominciò con la prima guerra sannitica, e portò alla fondazione di tante colonie e alla cessione in possesso di tante aree nelle terre via via conquistate.

Dalle guerre puniche alla fine della repubblica. - Ridotta la penisola italiana sotto il suo primato, Roma fu tratta nel vortice della prima guerra punica, della quale le conseguenze furono, nel campo economico, come in tutti gli altri campi, assai notevoli. Nonostante la vittoria finale, la guerra cagionò gravi perdite di materiali, di ricchezze e di vite umane. È ovvio che le perdite maggiori furono subite dai piccoli proprietarî, laddove le classi abbienti si poterono avvantaggiare con l'assunzione delle forniture militari e delle costruzioni navali, e, a pace avvenuta, con gli appalti dei diritti di pascolo e dei dazî portuali della Sicilia. L'incremento del capitalismo segnò un primo passo verso la riduzione a proletariato della classe agricola, e fu fortuna che, per ora, la piccola proprietà trovasse nella lotta contro il capitalismo un'efficace tutela nella riforma dei comizî centuriati.

Questo processo di trasformazione economica e sociale ebbe progressivo sviluppo con la seconda guerra punica e con le grandi conquiste, che le tennero dietro. Le medie e le piccole proprietà scomparvero in gran parte per l'assottigliamento e l'immiserimento dei ceti rustici minori, sui quali ricadeva il peso maggiore delle guerre, e per la concorrenza spesso sleale dei grandi proprietarî, pronti a usurpare di continuo il possesso di terre demaniali, col massimo dispregio delle leggi che ne stabilivano il limite, e a profittare del bisogno dei piccoli per defraudarli dei loro fondi. E al libero contadino divenne sempre più difficile il lavoro a cagione della diffusione della mano d'opera servile, della quale vi era adesso grandissima disponibilità. Ma, se così gravi furono le conseguenze sociali dell'espansionismo provinciale, le condizioni generali dell'economia italiana nel sec. II a. C. appaiono assai floride.

Le conquiste e lo sfruttamento delle provincie fecero affluire in Italia gran parte delle ricchezze del mondo. Si arricchì lo stato con l'acquisto d'immense somme di denaro, di oggetti preziosi d'oro e d'argento, di grandissime estensioni di terre da aratura e da pascolo, foreste, cave, miniere. Si arricchirono gli appartenenti alla classe senatoria mercé i proventi leciti e illeciti del comando degli eserciti e del governo delle provincie. E accanto alla nobiltà sorse adesso in Roma e nelle altre città italiane una classe numerosa e influente di uomini d'affari che speculavano sulle forniture degli eserciti, trafficavano nelle spedizioni, prestavano denaro, appaltavano la riscossione delle imposte provinciali, e tendevano per ogni dove la rete dei loro lucri. Era un vero e proprio ceto di capitalisti, non di rado riuniti in società, i più ricchi dei quali costituivano il ceto dei cavalieri, e vivevano a Roma, spesso aspirando all'onore di entrare nell'aristocrazia senatoria.

Del capitale l'investimento più sicuro e più frequente continuava a essere cercato nell'acquisto di terre, che venivano coltivate con grande preferenza a vigneti, oliveti e pascoli con largo impiego di mano d'opera servile; né per ciò peggiorarono le condizioni rurali dell'Italia, perché, se è vero che la coltura frumentaria regredì sempre più, anche per l'insostenibile concorrenza delle granaglie provinciali, questo danno fu compensato dalla sostituzione delle altre colture su indicate, da bonifiche, migliorie di ogni genere e dall'allevamento sempre più razionale del bestiame.

Altro redditizio investimento del capitale fu nelle intraprese industriali. Circa lo sviluppo dell'industria romana, durante e dopo le grandi conquiste, vi è stato e vi è dissenso tra gli studiosi, nel senso che alcuni la vedono esaurirsi nei metodi rudimentali proprî delle società rurali primitive, altri l'avvicinano al complesso sistema industriale dei tempi moderni. Non si deve esitare a riconoscere che lo sviluppo non ne fu grande, sia per l'arresto dei progressi tecnici sia per la resistenza quasi generalizzata alla trasformazione delle piccole officine in vere fabbriche, nel senso moderno della parola. Tuttavia si sorprendono alcune officine nelle quali il lavoro era già assai differenziato e i cui prodotti erano destinati a un mercato vastissimo: così le ceramiche, delle quali s'individuano un po' più tardi tre grandi centri di fabbricazione a Pozzuoli, ad Arezzo e nella vallata del Po, che bastavano a un dipresso alla richiesta di vasellame da tavola di media qualità, in gran parte dell'Impero: vi erano impiegati delle volte gran numero di lavoratori, schiavi e liberti, e disegnatori di notevole valore. Dell'industria del ferro, che, fino ai tempi della seconda punica, era stata in possesso delle città etrusche, una notevole concentrazione nel sec. II si produsse in Pozzuoli, ove sorsero officine per la produzione di armi, zappe, falci ed altri strumenti: fu sì produzione di tipo capitalistico, ma non vi si riscontrano gli elementi essenziali di un sistema di fabbrica, perché, le fornaci basse non consentendo la fusione del ferro, vi era qui poca divisione di lavoro e poco impiego di macchinario. Un vero sistema di fabbrica si sviluppò invece in Capua per la lavorazione del bronzo e degli oggetti di rame, sicché questa città divenne più tardi uno dei maggiori centri industriali per la produzione di utensili di bronzo d'ogni genere, mentre Taranto assurgeva ad analoga importanza per le stoffe di lana e per l'argenteria. Nel momento stesso in cui l'aumento della ricchezza pubblica e privata derivato dalle conquiste aveva dato incremento alla produzione agricola e industriale, le conquiste stesse avevano provveduto ad aprire sbocchi per il commercio dei prodotti italici, specialmente nelle parti occidentali del mondo antico, la Gallia, la Spagna, l'Africa, e nei paesi settentrionali e danubiani. E anche nella Grecia e nell'Oriente s'insinuarono abilmente banchieri e grandi commercianti italici, sicché dobbiamo continuare a credere, nonostante il dissenso di qualche studioso, anche molto autorevole, che l'Italia ebbe nel sec. II a. C. molta importanza commerciale nella vita economica del mondo, importanza che aumentò poi nel secolo successivo. Tra i prodotti agricoli, le maggiori esportazioni furono quelle del vino e dell'olio, come è dimostrato da numerose anfore di tipo italico e recanti marchi italici, che sono state trovate nelle città celtiche di tutta la Gallia centrale, e sono dello stesso tipo di quelle rinvenute in Delo e a Cartagine: esse attestano un attivo commercio di vino italico in quelle regioni già nella metà del sec. II a. C. In Gallia poi è certo che l'Italia esportava già prima della conquista romana molti manufatti metallurgici e tessili; d'altra parte, il rapido sviluppo di Aquileia dimostra l'importanza del mercato danubiano.

Le ripercussioni sociali e politiche delle grandi conquiste furono preoccupanti specialmente per la diminuzione e l'immiserimento dei medî e piccoli proprietarî, che tra l'altro avevano fino qui costituito il nerbo dell'esercito e la base sana della società. Un tentativo di rigenerazione di questo ceto fu fatto da Tiberio Gracco con la sua legge mirante a confiscare le terre di proprietà dello stato abusivamente occupate dai ricchi, per distribuirle invece ai non abbienti. Questa legge, nonostante l'uccisione del tribuno, trovò applicazione specialmente in alcune regioni italiane, migliorandone le condizioni agricole, ma non raggiunse il suo scopo. Delle più ardite e complesse riforme tentate dal fratello Gaio, le quali fallirono in gran parte, alcune ebbero conseguenze economiche durevoli: accrebbero, cioè, il prestigio del ceto equestre e la sua potenza nello stato, diedero inizio alla fondazione di colonie transmarine, e introdussero il sistema delle sovvenzoni frumentarie alla plebe urbana, che tanto danneggiarono l'erario e tanto incentivo diedero alla corruzione del proletariato cittadino.

La guerra sociale, ai cui motivi non fu estranea l'opera dei Gracchi, cagionò sul principio del sec. I a. C. la devastazione e la rovina d'intere regioni, specialmente dell'Italia meridionale; sopraggiunsero poi i mali delle guerre civili con le loro innumerevoli stragi e spogliazioni. Essendo diritto riconosciuto dei capitani vittoriosi l'impadronirsi dei beni dei nemici e non dei soli nemici per riempire i loro tesori vuoti o per dividerli tra i loro veterani, si assistette in Italia a una periodica ridistribuzione della proprietà: si è infatti calcolato che nel cinquantennio da Silla in giù non meno di mezzo milione di persone ricevettero volta a volta terre in Italia, ma ciò nonostante, trattandosi più che altro di cambiamento di proprietarî, la penisola rimase nel sec. I a. C. prospera e fiorente, come centro della vita economica del mondo. Varrone infatti ce la rappresenta come il paese più prospero della terra per risorse naturali e per buona coltivazione: ville sontuose sorgevano sulle colline e sulle spiagge marine del Lazio, dell'Etruria, della Campania, mentre nelle Puglie, nel Sannio e in buona parte delle isole maggiori si distendevano ampî terreni da pascolo per centinaia di migliaia di ovini e bovini, governate da frotte di schiavi armati. Dalle file dei loro affittuarî e dei loro schiavi Domizio Enobarbo e Pompeo potevano trarre eserciti in piena regola. E accanto all'attività agricola, maggiore slancio prendeva quella mercantile: si sviluppavano sempre più le imprese di appalto per l'esecuzione di lavori pubblici, per la riscossione delle dogane, dei diritti di pascolo e dei tributi provinciali, e maggiore impiego ancora trovava il capitale in affari privati: negozî varî di navigazione e di commercio, costruzione e acquisto di case da affitto (Crasso possedeva intieri quartieri di Roma); prestiti, che apparivano particolarmente lucrosi, perché, se in Roma, per la prudenza tradizionale dei cittadini, il tasso si mantenne generalmente mite, intorno, cioè, al 5%, in Grecia era del 10-12% e in Asia anche superiore. Sappiamo che il re di Cappadocia era debitore a Pompeo e a Bruto di molti milioni di denari, e che Rabirio Postumo, cliente di Cicerone, aveva costituito una società per fornire capitali a Tolemeo Aulete, che ne bisognava per rientrare in possesso dell'Egitto, e vi aveva speculato su avidamente. Il prestito era appunto uno degli affari preferiti dalle banche, il cui meccanismo si era oramai largamente perfezionato, sicché esse, oltre a far prestiti, ricevevano depositi in conto corrente, eseguivano compravendite, e gestivano, con molto vantaggio, il cambio.

La fervida attività agricola, capitalistica e mercantile diede incremento ai centri urbani, proseguendosi così quel processo, già iniziato nel secolo precedente, per il quale molte antiche città decadute videro risorgere la loro agiatezza, e parecchi piccoli centri, villaggi, borgate, mercati, acquistarono figura di vere e proprie città. Fatta però eccezione per Roma, che dai 100.000 abitanti del tempo annibalico era ora assai vicina al milione dell'età augustea, non si devono alle altre città italiane attribuire cifre troppo alte di popolazione. Se il Nissen calcola che, al tempo di Augusto, superassero i 100.000 abitanti Capua e Pozzuoli, e che ne avessero tra i 50 e i 100.000 Ostia, Padova, Ravenna, Bologna, Verona, Milano, Modena, il Beloch lascia in questa categoria soltanto Ostia, e attribuisce alle altre una popolazione oscillante tra i 20 e i 25.000 ab., mentre ne assegna a Napoli 30 o 40.000. Ed è consigliabile accettare queste cifre che s'inquadrano bene nel computo generale della popolazione italiana nell'età romana tentato dal Beloch stesso con molta perizia storica e demografica. Egli calcola che la popolazione complessiva dell'Italia peninsulare dal tempo della seconda guerra punica a quello di Augusto fosse aumentata soltanto di un milione all'incirca, salendo da 4 milioni (ivi compresi gli schiavi per mezzo milione o un milione al più) a 5 milioni, e ciò in virtù specialmente del cresciuto numero della popolazione servile. E a tutta l'Italia augustea, continentale e peninsulare, il Beloch attribuisce da 6 a 7 milioni di abitanti, tra cui due milioni o due milioni e mezzo di schiavi. Questi calcoli, fatta qualche detrazione, debbono valere anche per gli ultimi tempi della repubblica, nei quali, come si è visto, le condizioni economiche della vita cittadina e rurale appaiono, nonostante le guerre civili, sufficientemente floride, sì da offrire terreno fecondo a quel grande slancio che Augusto impresse all'Italia, quando con la battaglia di Azio egli ridiede al mondo la pace.

FINANZE. - L'età più antica. - Per tutta la durata del periodo monarchico e per la parte più antica del periodo repubblicano le funzioni statali si riducevano a quelle più elementari della difesa, del culto, e di una rudimentale amministrazione, e poiché all'armatura e al proprio mantenimento durante le spedizioni guerresche dovevano i cittadini provvedere a proprie spese prima individualmente, poi forse attraverso le tribù, bastarono allo stato pochi cespiti di entrata. Tra essi il principale fu fornito dai fondi demaniali, parte dei quali fu attribuito ai templi per sopperire alle spese del culto; inoltre, data l'ubicazione di Roma sul Tevere, non poterono mancare, già in tempi molto antichi, percezioni sul commercio di transito, come anche risale a remota antichità una specie di monopolio del sale. Alle opere pubbliche, di cui alcune veramente grandiose già nell'età regia, si provvedeva, a quanto pare, con l'imposizione di munera, o prestazioni d'obbligo a quegli elementi della popolazione, che ne fossero suscettibili.

L'età repubblicana: Il tributo dei cittadini. - Quando verso il 400 a. C. il pagamento del soldo alle truppe fu avocato allo stato, questo devolse alla spesa le sue entrate ordinarie, e, nei casi in cui queste non bastavano, ordinò la percezione del tributo (tributum civium romanorum), che va considerato come un'imposta diretta, straordinaria, sulla ricchezza complessiva del cittadino, quale risultava dal censo. Il tributo ebbe questo carattere di straordinarietà, avendo i Romani condiviso con i Greci l'opinione che esso, se permanente, avrebbe costituito una nota di servitù obbrobriosa, e non mancarono casi nei quali il suo importo fu, al termine di qualche guerra vittoriosa, restituito ai contribuenti. Anzi per questa ragione il Huschke e il Mommsen hanno voluto considerare il tributo come un prestito forzoso, opinione che non si può accogliere. Nella dichiarazione censuale, in origine, forse si compresero soltanto i fondi rustici, aventi carattere di agri privati, gl'immobili urbani, e gli accessorî dei fondi rustici (instrumentum fundi), schiavi, animali da lavoro e utensili agricoli; ma, con lo sviluppo progressivo che nell'economia romana andò acquistando la ricchezza mobiliare, non vi ha dubbio che anche questa entrò via via nella determinazione del censo, e quindi cadde sotto l'imposizione tributaria. Generalmente il tributo era fissato nella proporzione dell'uno per mille della ricchezza dichiarata (tributum simplex), ma poteva essere elevato al 2, al 3 e più.

Molti tentativi sono stati fatti per valutare il reddito medio del tributum simplex prendendo a base le cifre dei censi delle classi dell'ordinamento serviano e desumendo da queste il capitale censito, ma sono calcoli malsicuri, essendo incerto a quale valore si debbano conguagliare gli assi di quei censi. Per i tempi della 2ª guerra punica il De Sanctis (Storia dei Romani, III, 2, Torino 1917, p. 623 segg.), muovendo dal passo di Livio, XXXIX, 7, 5, secondo il quale, con le ricchezze portate in Roma da Gn. Manlio Vulsone, da lui valutate a 22.485.480 denari, sarebbe stata rimborsata ai cittadini una somma pari a venticinque volte e mezzo il tributum simplex (corrispondente a quanto dei tributi prelevati durante la 2ª guerra punica non era stato ancora rimborsato) fissa il reddito del tributum simplex a denari 881.783, e il capitale censito al milluplo di questa somma, cioè a un miliardo circa in oro; ma questa è valutazione soltanto congetturale.

Le vedove e gli orfani con patrimonio proprio, ma non compresi nella cittadinanza censita, furono sottoposti al pagamento di un tributum in capita, che, essendo destinato alla fornitura e al mantenimento di cavalli per l'esercito, si disse aes hordearium.

Demanî e imposte provinciali. - Se le guerre di conquista imponevano spese per sopperire alle quali era necessario talvolta ricorrere al tributo e a sacrifici di ogni genere, il risultato vittorioso di esse assicurava all'erario l'affluenza di sempre nuove ricchezze e di nuove entrate permanenti, le quali ultime vanno distinte nel reddito dei demanî (ager publicus) e nelle imposte provinciali. Quasi tutte le guerre portavano con sé accrescimenti dell'ager publicus, e se lo stato ne alienò gran parte, specialmente per quanto riguarda il suolo italiano durante il periodo repubblicano, con le assegnazioni viritane e con la fondazione di colonie, parte ne conservò sempre alla sua amministrazione diretta, dando luogo a vendite, appalti e cessioni in usufrutto, che si traducevano appunto in altrettante entrate dell'erario (v. AGRO: Ager publicus). Le quali tanto più elevate ci dobbiamo rappresentare, in quanto che l'agro pubblico comprendeva non soltanto terre colte e incolte, destinate ad assumere le più svariate forme fiscali di agri occupatorii, quaestorii, in trientabulis fruendi dati, ecc.; ma i pascoli, le foreste, i laghi, i fiumi, le miniere, con le percezioni corrispondenti alla concessione dei diritti relativi di pascolo, di taglio, di pesca, di estrazione. Il demanio, così formato in Italia prima delle conquiste oltremarine, si estese con criterî più vasti alle provincie, dove lo stato romano confiscò talora il territorio di intere città ed ereditò, in genere, i demanî dei governi precedenti, onde il gettito ne divenne ingente e crebbe ognora con la sistemazione progressiva e con lo sfruttamento sempre maggiore.

I territorî extra-peninsulari, a cominciare dalla Sicilia, ebbero, dai Romani, un'organizzazione molto diversa da quella federale da loro data all'Italia repubblicana, l'organizzazione, cioè, provinciale. Mentre alla federazione italica è estraneo il concetto di tributo, la caratteristica saliente dell'organizzazione provinciale è invece, appunto, l'obbligo del tributo. Secondo una teoria, che fu pienamente sviluppata più tardi, tutto il suolo provinciale è di diritto proprietà del popolo vincitore, il quale tollera che i vinti ne continuino a godere, dietro il pagamento di un corrispettivo annuo, il tributum, che quindi rappresenta il segno del dominium preminente dello stato.

Il tributo provinciale è un'imposta diretta di due tipi affatto diversi: 1. imposta fondiaria consistente in un'aliquota del prodotto annuale del suolo, pagata in natura; 2. tributo annuo fisso, pagato in natura, o in denaro o in forma mista. Poiché l'aliquota dovuta nel primo dei due tipi era generalmente la decima, questo nome passò a designare quel tipo, mentre per il secondo tipo fu adottato il nome di stipendium. Pagarono la decima la Sicilia e l'Asia, quest'ultima soltanto nel periodo che va da C. Gracco a Cesare, e per la Sicilia ne conosciamo particolarmente bene il funzionamento, grazie alle Verrine di Cicerone: ivi i Romani mantennero l'organizzazione che all'imposta era stata data da Gerone con una legge che regolava minutamente i rapporti tra sovrano, appaltatori delle imposte e agricoltori.

Pagarono lo stipendium le altre provincie in una forma però non costante per tutte, ma variabile così nella costituzione del tributo come nei modi di riscossione. Il che dipende dal fatto che i Romani, secondo la saggia tendenza della loro politica conservatrice, furono, nei limitI del possibile, rispettosi dei precedenti ordinamenti. Onde avvenne che lo stipendium consistette sempre in una somma fissa, e sempre comprese l'imposta fondiaria, ma con questa concorsero spesso altre imposte variabili da luogo a luogo a seconda delle precedenti consuetudini, e la stessa imposta fondiaria poté rivestire diversi tipi. Per l'accertamento dell'imponibile rimasero naturalmente in vigore nei territorî greci e orientali i sistemi, più o meno perfezionati, precedenti alla dominazione romana: registrazioni censuali e, in qualche caso, misurazioni catastali.

La più frequente e la più importante tra le imposte che concorsero alla formazione dello stipendio con quella fondiaria, fu l'imposta personale, che poté anch'essa avere forma diversa, o di capitazione eguale per tutti, o, più spesso d'imposta variabile secondo le persone e i loro cespiti professionali o capitalistici. Ad ogni modo quello che più importava ai Romani era che la somma fissa, in cui consisteva il tributo, fosse pagata regolarmente; e a tal fine essi solevano frazionare il territorio delle singole provincie in distretti, a ognuno di essi assegnando la propria quota, e del pagamento di questa costituendo responsabili i comuni capiluogo: soltanto quando di questi non ne esistevano, la percezione del tributo doveva avvenire direttamente per mezzo di agenti del governo di Roma.

Sarebbe molto interessante poter valutare il reddito complessivo delle imposte provinciali nelle diverse epoche della storia di Roma, ma mancano purtroppo i dati. Dal passo di Plutarco (Pomp., 45) si può bensì desumere che Pompeo nel trionfo del 61 a. C. si attribuì il vanto di avere accresciuto τὰ τέλη da 50 milioni a 85 milioni di denari, e di questa cifra si può trovare anche conferma nel passo di Cicerone Pro Sest., 25, 55; ma non è certo il significato che si debba dare ai vectigalia di cui è parola in questi passi. È anzi assai dubbio che le cifre di Plutarco si riferiscano al reddito complessivo delle entrate pubbliche di Roma, come credono i più; comunque si tratta di dati relativi al netto e non al lordo delle imposte.

Le spese. - Le principali furono: 1. le spese militari, che si accrebbero di molto, quando, come vedemmo, lo stato si assunse attorno al 400 a. C. il pagamento del soldo alle truppe; 2. quelle per i lavori pubblici, specialmente strade e acquedotti; 3. quelle per garantire l'approvvigionamento di Roma in caso di carestie; 4. quelle per le distribuzioni di frumento, prima, con C. Gracco a prezzo ridotto, poi gratuite (giunsero a beneficiarne ben 320.000 cittadini, poi ridotti a 150.000 e da ciò è possibile formarsi un'idea dell'onere che per lo stato rappresentava questo servizio); 5. quelle per l'amministrazione.

L'amministrazione finanziaria. - Nel periodo aureo della repubblica le funzioni più importanti, quali la determinazione del tasso del tributo, le disposizioni relative ai demanî, il controllo sulla gestione dei magistrati, spettavano al senato, ma gli atti della vera sovranità, anche in questo campo, quali la creazione di nuove imposte e l'accensione di nuove spese, erano riservati a leggi del popolo. Collaboratori del senato ed esecutori erano i censori, che redigevano i ruoli dei contribuenti, assicuravano l'esecuzione dei lavori pubblici, concludevano i contratti per le forniture dello stato; i consoli che subentravano ai censori nei periodi in cui essi non erano in carica; i questori urbani, cui spettava il maneggio del pubblico denaro depositato nell'aerarium posto nel tempio di Saturno, e curavano così l'incasso delle pubbliche entrate, come la rimessa dei fondi ai magistrati autorizzati alle spese. Ausiliarî e intermediarî indispensabili erano i pubblicani, che appaltavano la riscossione di molte delle entrate e l'esecuzione dei lavori pubblici, e costituirono col tempo compagnie e società che valsero alla concentrazione e all'aumento del capitale.

BIBL.: Per la storia economica: Dureau de la Malle, Économie politique des Romains, Parigi 1840; trad. ital., in Biblioteca di storia economica, I, Milano 1899; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, II, 2ª ed., Lipsia 1884; J. Beloch, Die Bevölkerung der griechisch-römische Welt, ivi 1886; trad. ital., in Bibl. di storia economica, IV, Milano 1909 (cfr. Klio, III [1903], p. 471 segg.); H. Blümner, Technologie und Terminologie der Gewerbe und Künste bei Griechen und Römern, Lipsia 1887 segg.; H. Gummerus, Der römische Gutsbetrieb, in Klio, Suppl. V (1906); id., Industrie und Handel, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IX, col. 1444 segg.; H. Oliver, Roman economic conditions in the lose of Republic, Toronto 1907; O. Neurath, Antike Wirtschaftsgeschichte, Lipsia 1909; R. v. Pöhlmann, Geschichte der sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt, 2ª ed., Monaco 1912; J. Kromayer, Die wirtschaftliche Entwicklung Italiens im II. und I. Jahrhundert vor Chr., in Neue Jahrbücher, 1914, p. 145 segg.; R. Herzog, Aus der Geschichte des Bankwesens im Altertum, in Abhandl. der Giessner Hochschulgesell. (1919); F. Pringsheim, Zum römischen Bankwesen, in Vierteljahrsschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, 1919, p. 513 segg.; R. Scalais, Le développement du commerce de l'Italie romaine entre la première guerre punique et la deuxième, in Musée Belge, 1928, p. 187 segg.; M. Rostovtzeff, The social and economic history of the Roman Empire, Oxford 1926; trad. ital. di G. Sanna, Firenze 1933; T. Frank, An economic history of Rome to the end of the Republic, 2ª ed., Baltimora 1927 (trad. ital. della 1ª ed., Firenze 1924); id., An economic Survey of ancient Rome, Londra 1933; L. Spaventa De Novellis, I prezzi in Grecia e a Roma, Roma 1934.

Per le finanze: Guarini, Le finanze del popolo romano, Napoli 1841; F. Hofman, De provinciali sumptu populi romani, Berlino 1851, p. 55 segg.; B. Matthias, Römische Grundsteuer und das Vectigalrecht, Erlangen 1882; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, II, 2ª ed., Lipsia 1884 (Das Finanzwesen); Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, 3ª ed., Lipsia 1887, pp. 359 segg., 434 segg., 544 segg., 902 segg.; III, p. 1111 segg.; R. Cagnat, Étude sur les impôts indirects chez les Romains, Parigi 1882; G. Humbert, Essai sur les finances et la compatibilité chez les Romains, ivi 1887 (queste ultime due opere sono tradotte nel volume V della Biblioteca di storia economica, pp. I segg., 477 segg.); A. Bouché-Leclercq, Manuel des institutions romaines, Parigi 1886 (ristampa nel 1931), p. 219 segg.; G. Bonelli, Le imposte indirette di Roma antica, Roma 1900; M. Rostowzew, Studien zur Geschichte des römischen Kolonates, Lipsia 1910; A. Schulten, Vom antiken Kataster, in Hermes, XLI (1906), p. 1 segg.; H. Dessau, Römische Finanzen, in Handwörterbuch der Staatswissenschaften, IV, 3ª ed., 1910, p. 146 segg. (nella 4ª ed. l'articolo è curato da Th. v. Eheberg, p. 14 segg.); E. Ciccotti, Lineamenti dell'evoluzione tributaria nel mondo antico (introduzione al citato vol. V della Biblioteca di storia economica, Milano 1921).

ETÀ IMPERIALE.

Nell'esposizione storica si sono già indicati i momenti principali dello sviluppo economico dell'impero romano, segnandone anche le più importanti manifestazioni nell'ambito più ristretto della finanza propriamente statale. Nell'esposizione che segue si daranno invece maggiori particolari sulla struttura tecnica della finanza romana in età imperiale.

Il fenomeno più caratteristico è la separazione di un fisco dall'erario (v.), l'originaria cassa della repubblica. Tale fenomeno si è sviluppato gradualmente come conseguenza della separazione voluta da Augusto tra amministrazione senatoriale e amministrazione imperiale ed è quindi posteriore al 27, a. C. Ciò spiega come Velleio Patercolo possa dire ancora che le entrate provenienti dall'Egitto furono assegnate da Augusto all'erario (II, 39, 2). Egli evidentemente si riferisce al momento iniziale (30 a. C.) in cui le entrate dell'Egitto cominciarono a fare parte dell'impero: esse non potevano allora che confluire nell'erario, mancando il fisco. È però da dubitare della tesi recentemente avanzata (T. Frank, in Journal of Roman Studies, 1933) che per tutto il governo di Augusto sia mancata la separazione tra l'erario e il fisco, sicché quest'ultimo sarebbe una creazione di età posteriore, giacché tutta l'organizzazione dello stato pensata da Augusto non avrebbe senso, quando le finanze senatorie non fossero state divise da quelle imperiali. È solo da tenere fermo al fatto già da tempo riconosciuto che, nei primi decennî dell'impero, non ci fu una cassa unica per l'amministrazione imperiale, come c'era una cassa unica per il senato; e solo in un secondo tempo dai varî fisci particolari si venne svolgendo un fisco centrale unitario.

A Claudio è da attribuire una parte preponderante in questo accentramento a cui corrisponde la creazione di un dirigente centrale della finanza imperiale, l'a rationibus, fino ad Adriano un liberto, da Adriano un cavaliere. La tendenza di Augusto a organizzare la sua amministrazione in varie casse a compiti delimitati piuttosto che in una cassa centrale - il che, come è ovvio, aveva i suoi difetti, ma anche il vantaggio di fissare un rapporto costante fra determinate entrate e determinate spese - si scorge bene soprattutto nella creazione di un erario militare speciale per il pagamento dei premî di congedo ai veterani costituito da un fondo iniziale di 1700 milioni di sesterzi da lui donati, alimentato da due tasse (il 5% sulle eredità e l'1% sulle vendite) e governato da tre funzionarî speciali (praefecti aerarii militaris).

Nell'originaria separazione l'erario avrebbe dovuto raccogliere le entrate provenienti dalle provincie senatorie e dall'Italia, in quanto l'Italia, già libera da ogni tassa diretta nell'ultima età repubblicana ed estremamente alleggerita di contribuzioni indirette, potesse venire assoggettata a nuove contribuzioni. Di fatto però, già per quanto riguarda l'Italia, le due maggiori tasse che furono imposte da Augusto, la vicesima hereditatium (5% sulle eredità) che si estendeva a tutti i cittadini romani dell'impero, e la centesima venalium (1% sulle vendite) che incombeva anche sulle provincie, furono sottratte al controllo del senato: la seconda al tempo di Tiberio. Ma questa sottrazione non è che uno degli aspetti dello squilibrio sempre più forte tra il fisco e l'erario, che era nella natura delle cose e corrispondeva non solo al sempre più reciso prevalere dell'autorità dell'imperatore su quella del senato e alla tendenza degl'imperatori di subordinare a sé il senato come corpo di funzionarî privi di sorgente autonoma di autorità, ma anche all'esigenza tecnica di non lasciare sussistere in unico stato due finanze ad amministrazione autonoma e perciò concorrenti. Comincia dunque con Augusto e si continua in varie forme con i successori, sia pure con oscillazioni, un duplice moto della politica imperiale rispetto all'erario: subordinazione nei riguardi dell'ordine gerarchico; impoverimento rispetto alle disponibilità finanziarie. La subordinazione gerarchica dell'erario all'imperatore è per grande parte opera di Claudio, quando con l'apparenza di ripristinare gli antichi quaestores sostituiti da Augusto con i praefecti, li rende di nomina imperiale: qualità che sarà mantenuta ai praefecti ristabiliti da Nerone. Più lunga e più complicata la storia del progressivo assorbimento delle entrate dell'erario nel fisco, anche perché non era senza inconvenienti: come può dimostrare, ad esempio, la necessità in cui si trovò un momento Nerone di dover far passare 40 milioni di sesterzî dal fisco all'erario perché questo potesse fare fronte ai suoi impegni. Che il fisco dovesse avere maggiori entrate dell'erario era già imprescindibilmente imposto dal carico dell'esercito, che nella distribuzione di Augusto passava al bilancio imperiale. Ne conseguiva poi anche che le entrate di carattere militare, come i bottini di guerra, dovessero spettare al fisco. Ma al fisco saranno devolute tutte le entrate di carattere straordinario, come i beni dei condannati, in quanto non andavano al patrimonio imperiale (v. oltre), i beni caduchi e vacanti. Da Claudio cominciano a confluire nel fisco tutti i dazî (portoria), se anche provenissero dalle provincie senatorie: ciò che diventa normale da Vespasiano. E poiché dallo stesso Claudio il fisco toglie all'erario l'impegno di provvedere alle distribuzioni di frumento in Roma (frumentationes), è anche verosimile che da questo imperatore cominci l'assorbimento dei contributi in natura pagati dalle provincie senatorie, in specie per utilizzazione di ager publicus, che poi al tempo di Settimio Severo viene addirittura assunto nel patrimonio imperiale. Correlativamente, si estende il controllo finanziario dell'imperatore sulle provincie senatorie, con la nomina di speciali procuratores, a cui da Claudio è riconosciuta la facoltà di dirimere anche nelle provincie senatorie le cause tra i privati e il fisco. E sin da Augusto la monetazione spetta quasi interamente all'imperatore, perché al senato è lasciata facoltà di emissione solo per le monete di bronzo. Ne consegue d'altro lato che, se il fisco aveva una disponibilità sempre crescente in confronto a quella dell'erario, doveva poi anche assumersi un sempre maggior numero di carichi: nella stessa città di Roma, le spese pubbliche vengono sostenute per molta parte dal fisco; da Vespasiano tocca al fisco pagare i maestri pubblici; da Traiano le alimentazioni per i bimbi poveri; da Settimio Severo la posta pubblica. Le strade sono in gran parte pagate dal fisco. Così gl'impiegati. Il fisco contribuisce anche alle opere pubbliche indirettamente, pagando i soldati che vi collaborano. E i condoni d'imposte vengono nelle provincie senatorie ordinati dall'imperatore. Perciò già sino da Augusto l'organizzazione delle opere pubbliche viene riformata, e resa più efficiente, con il sottoporla al suo controllo e disporne la sorveglianza per mezzo di funzionarî speciali (curatores aedium sacrarum, locorum et operum publicorum tuendorum, curatores aquarum, curatores viarum, ecc.). Noi non possiamo riconoscere ogni fase di questo assottigliamento delle entrate senatorie; ma già al tempo di Adriano l'erario è solo più una cassa sussidiaria, da Settimio Severo in poi è praticamente ridotta a una cassa della città di Roma, per quelle spese a cui non pensasse direttamente l'imperatore.

È difficile distinguere dal fisco, sia giuridicamente sia praticamente, il patrimonio personale dell'imperatore. Di fatto però questa distinzione non è mai venuta meno neppure nel Basso Impero. Il fisco in sostanza era costituito dalle entrate delle provincie imperiali; il patrimonio da quel complesso di attività che l'imperatore aveva in terreni, in imprese industriali, in miniere, ecc. Al patrimonio confluivano le eredità che, in specie nel primo secolo dell'impero, costituivano un importante fattore dell'economia imperiale; e per analogia erano considerati del patrimonio anche i beni provenienti da spossesso di condannati. Entro il patrimonio si faceva poi ancora distinzione tra il vero patrimonium principis e la res privata o familiaris (la terminologia non è costante). La distinzione assunse importanza soprattutto nei cambiamenti di dinastia, quando il patrimonio del precedente imperatore veniva in mano del successore come vero e proprio bene della corona e accanto gli si aggiungeva il patrimonio personale del nuovo imperatore. Settimio Severo accentuò fortemente la distinzione creando un'amministrazione a parte per la res privata; ma in tal modo anche contribuì a darle un carattere pubblico. Nel complesso non c'è dubbio che fisco, patrimonio del principe e sostanza privata costituivano un tutto unico differenziato solo per ragioni contabili. Tanto è vero che nel Basso Impero, a cominciare almeno da Costantino, tutti i beni terrieri di proprietà imperiale vengono riuniti nella res privata, anche se in origine pertinenti al fisco: la cassa della res privata affidata a un comes si affianca ora in amministrazione distinta al fisco diventato sacrae largitiones. Del resto già nell'Alto Impero l'unità di fisco e patrimonio è evidente in particolare per uno dei rami più importanti del patrimonio del principe, le miniere, su cui vigeva un regime di quasi monopolio, nel senso che l'imperatore accentrava praticamente nelle sue mani tutte le più importanti. Da queste miniere del patrimonio era infatti ricavato il metallo per la coniazione delle monete che toccava al fisco.

La tassazione non ha potuto raggiungere unità nemmeno durante l'impero, date le differenti condizioni storiche e naturali delle varie provincie. Anche con le nuove provincie, e in particolare con l'Egitto, l'impero ha mantenuto la sua politica di accogliere nelle grandi linee il sistema tributario precedente. Tuttavia è dato riconoscere una tendenza all'unità tributaria, che si accentuerà nel Basso Impero; ed è anche facile scorgere che i sistemi delle provincie meglio organizzate hanno avuto tendenza a estendersi per tutto l'impero. È un esempio noto la tassa sulle eredità, che ha un'origine egiziana. In linea generale si può dire che per tutto l'Alto Impero, fino a Diocleziano, la politica tributaria si è fondata sulla distinzione fra Italia e provincie e sull'imposizione a queste ultime di due tasse fondamentali: un tributo sulla proprietà fondiaria (tributum soli) e una tassa personale o capitazione (tributum capitis), come già in età repubblicana. Sono queste due tasse i segni per Tertulliano, dunque ancora tra il sec. II e il III, della sudditanza a Roma: sed enim agri tributo onusti viliores, hominum capita stipendio censa ignobiliora, nam hae sunt notae captivitatis (Apolog., 13). L'applicazione di queste due tasse ha però variato profondamente da provincia a provincia, né si può ritenere documentato che tutte le provincie avessero, in forma almeno esplicita, la capitazione. Del resto, noi conosciamo pochissimo del sistema tributario delle singole provincie. Nella tassa fondiaria si può scorgere la tendenza a sostituire il sistema della decima calcolata anno per anno col sistema di una valutazione stabile del suolo, con periodiche revisioni. Il secondo sistema pretendeva naturalmente un'organizzazione catastale assai sviluppata, ma essa appunto ci viene testimoniata variamente, e soprattutto dalla forma censualis tramandataci da Ulpiano (Dig., L., 15, 4), del principio del sec. III, in cui si riferiscono le richieste nel censimento dei terreni e si dividono le terre in sei categorie (campi, vigne, oliveti, prati, pascoli e selve cedue oltre alle saline) obbligando a denunciare il numero degli iugeri di ogni categoria in ogni fondo e il numero dei servi e la loro specialità. Sappiamo inoltre che in qualche regione, come la Pannonia, e già nell'Alto Impero, era fatta distinzione tra la varia fertilità dei terreni. La capitazione poteva prendere l'aspetto di una tassa uguale per tutti i sottoposti, come era il didramma imposto agli Ebrei dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, che del resto faceva confluire soltanto a vantaggio di "Giove Capitolino" in un fisco speciale (fiscus iudaicus) il tributo già precedentemente pagato dagli Ebrei al loro tempio e quindi al loro Dio. Oppure poteva prendere l'aspetto di una tassa differente secondo le varie categorie di persone, che era la norma fondamentale della capitazione egiziana, o infine poteva assumere la vera e propria forma di una tassa sul capitale (o sul reddito) come ci testimonia Appiano (Syriac., 50) per la Cilicia e la Siria definendola una centesima sul capitale. In tale forma la capitazione si avvicinava, fino a non potersi distinguere, alle tasse particolari imposte a determinati gruppi in rapporto con i loro traffici: esempio l'aurum negotiatorum con cui Severo Alessandro colpì i piccoli commercianti e industriali delle città.

Accanto a queste due tasse fondamentali costituivano una delle più importanti entrate i varî dazî e dogane imposti non solo ai limiti dell'impero, ma anche ai limiti di singole regioni, che potevano comprendere anche più provincie. Così, ad esempio, la quadragesima Galliarum (il 2½) era percepita su tutte le merci ai limiti delle Tre Gallie (Lugdunense, Aquitania e Belgica), mentre la Gallia Narbonese costituì forse per lungo tempo distretto doganale a sé. Analoghi distretti ci sono ben testimoniati per la Britannia; per l'Illirico (portorium Illyrici) comprendente inoltre almeno Norico, Pannonia e Mesia; per Bitinia, Paflagonia e Ponto, costituenti un'unità dov'era prelevata una quadragesima, e per la provincia d'Asia, dove pure sussisteva una quadragesima. L'Egitto era diviso in parecchi distretti doganali: il Periplo del Mare Eritreo, 19, ci informa che le merci provenienti dall'Arabia pagavano una dogana equivalente a un quarto del loro valore. Soltanto nel sec. IV si giunge a una unificazione almeno teorica dei dazî nella misura del 12%, che, confrontata con il 2½ prevalente nei primi secoli, può darci un interessante indizio delle difficoltà frapposte al libero scambio dal Basso Impero.

La struttura tributaria dell'Alto Impero era completata da tasse sugli affari, di cui la più importante restò sempre la già citata centesima venalium, che per poco Tiberio ridusse al ½% e Caligola tentò di abolire: accanto si possono ricordare la quinta et vicesima venalium mancipiorum, una tassa del 4% sulla vendita degli schiavi; la vicesima libertatis, cioè il 5% sul valore degli schiavi liberati portata da Caracalla al 10% e restituita da Macrino al 5%; la tassa di successione (vicesima hereditatium) del 5% per i cittadini romani estesa da Caracalla a tutto l'impero con l'estensione della cittadinanza ed elevata al 10%. Ci sono anche testimoniati in varie forme diritti di mercato, come il vectigal ansarii et foricularii promercalium.

S'intende che nell'Alto Impero la finanza poté sempre contare su entrate di vario genere straordinarie, come le ammende, i beni dei condannati, i beni caduchi, cioè le eredità dei celibi e metà delle eredità dei senza figli, che non avessero congiunti fino in terzo grado. A ciò si aggiunga il bottino di guerra, sebbene evidentemente esso non avesse più minimamente l'importanza che aveva nel periodo repubblicano. Ma con la guerra dacica, per es., entrarono nell'impero ingenti capitali, che J. Carcopino (Dacia, I, 1924, p. 28), correggendo la cifra fantastica di Lido (De magistr., II, 28) ha tentato di calcolare in 175.000 kg. di oro e 331.000 di argento. Confluiva infine nelle casse dello stato, come sappiamo, sebbene si potesse formalmente distinguere, il complesso dei redditi demaniali, che provenissero dall'ager publicus o da latifondi (saltus, οὐσίαι) imperiali. Non abbiamo nessuna determinazione quantitativa sull'estensione e sui redditi di questi beni, salvo talune notizie isolate, come quella che Nerone s'impadronì dei latifondi di sei proprietarî in Africa, che rappresentavano metà del territorio della provincia (Plinio, Nat. Hist., XVIII, 35). Ma tracce di demanî imperiali si hanno per tutte le provincie di Africa, specialmente in Egitto e nelle varie provincie dell'Asia Minore. Il fatto che nel Basso Impero i demanî di Cappadocia fossero trasferiti dalla ratio privata all'amministrazione del comes sacri cubiculi, cioè del gran ciambellano, suggerisce, per es., che essi erano sufficienti a coprire le spese di carattere personale dell'imperatore.

Ma con il procedere della vita dell'impero, e in specie durante il sec. III, per ovvî motivi, prendono sempre più importanza fondamentale le imposizioni straordinarie. Le tasse ordinarie vengono completate con tributi straordinarî o con prestazioni di persona o in natura sempre più coattive. Qui possiamo trascurare il fenomeno, che ci interesserà ancora più oltre, della costrizione di privati cittadini a fungere da impiegati statali per varie prestazioni. Ma basterà ricordare l'aurum coronarium, che, offerto in origine ai generali vittoriosi dalle provincie, diviene un'offerta straordinaria, a cui ogni circostanza è buona, quando le finanze la richiedano; la vehiculatio, cioè l'obbligo di provvedere alla posta pubblica imperiale; e infine l'annona militaris, più importante di tutte, cioè i contributi straordinarî in natura per il mantenimento dei soldati.

La finanza del Basso Impero, con le riforme dioclezianee completate da Costantinoi rappresenta nella sostanza oltre che una perfetta parificazione dell'Italia, la città di Roma eccettuata, per tutto il regime fiscale, alle provincie, una sistemazione di questi tributi straordinarî in forma permanente in modo da combinarli con i tributi normali preesistenti e farne una cosa sola. L'aurum coronarium era stabilizzato in una tassa per i decurioni delle città; le offerte dei senatori in un aurum oblaticium di tre misure (1 libbra, ½ libbra e ¼ di libbra d'oro, facendo eccezione per i senatori poveri, che pagavano 7 solidi); le offerte dei commercianti in una contribuzione quinquennale (lustralis collatio o chrysargyron); il pagamento dei latifondisti in sostituzione delle reclute tratte dai loro coloni in un aurum tironicum. Ma soprattutto l'annona fu assunta a tassa fondamentale dello stato, sostituendola sia alla tassa fondiaria sia - forse o per lo meno in certa misura - alla capitazione e, appunto per la sua origine militare, venne sottoposta ai prefetti del pretorio, che si stavano già trasformando da ufficiali in impiegati civili. Oggi pare ai più indubbio che i due termini con i quali vengono indicate le riforme dioclezianee, capitatio e iugatio, non rappresentino già due tasse differenti, ma una tassa sola. Ma la discussione verte sull'interpretazione che si deve dare al collegamento sussistente fra la valutazione dei terreni (iuga) e la valutazione dei suoi coltivatori (capita, che del resto vale anche sia per il bestiame, sia per lo stesso terreno). Indiscutibile è che l'imposta si basava su un catasto nuovo in cui fossero classificate le terre a seconda delle colture e della relativa fertilità: la valutazione veniva espressa in iuga, parcelle ideali, tanto maggiori in estensione quanto minore era il valore del terreno. Il punto in discussione è invece che, secondo taluno, il numero degli iuga era sempre considerato correlativo a un numero di capita, di modo che il caput sarebbe stata l'unità ideale necessaria per coltivare uno iugum, e lo iugum sarebbe stato in tanto imponibile in quanto correlativo a un caput; mentre secondo altri la valutazione dei capita si sommava a quella degli iuga per dare il valore dei fondi. Questioni connesse sono di conseguenza, se si facesse distinzione fra il terreno dei latifondi sottoposti direttamente all'amministrazione del proprietario (indomenicatum) e quello affidato ai coloni; e se la capitatio plebeia fosse una tassa distinta dalla capitatio-iugatio e rappresentasse o una tassa personale per tutti i coloni o un testatico per gli humiliores piccoli proprietarî (per tacere dell'ipotesi caduta in discredito che la plebs colpita sarebbe stata la plebe urbana). Comunque, è chiaro che con questo sistema veniva teoricamente assicurata allo stato un'entrata fissata in precedenza, in quanto l'imposizione sui singoli iuga (capita) veniva fatta in misura proporzionale alla misura complessiva che lo stato riteneva necessaria e bandiva con l'annuale indizione: secondo poi le contingenze economiche il contributo poteva essere chiesto in natura o convertito in denaro (adaeratio). Che poi rimanessero differenze tra provincie e provincie e soprattutto rimanessero confusioni e oscillazìoni nella realizzazione di un piano così vasto di riforma tributaria (donde il fenomeno di un nuovo sovrapporsi di esazioni straordinarie, superindictiones) non rientra più in un'esposizione del sistema finanziario: rientra nella storia delle difficoltà economiche del Basso Impero.

Il sistema di percezione delle tasse ebbe uno sviluppo, che in gran parte è parallelo a quello del sistema tributario stesso. La repubblica aveva segnato il trionfo degli appaltatori d'imposte (publicani) costituitisi in classe sociale e politica influente. L'impero eliminò gradatamente la loro importanza, perché almeno da Tiberio in poi fu tolta loro la percezione delle tasse dirette, e più tardi venne di gran lunga ridotta, e soprattutto controllata, la loro partecipazione nei dazî, portorî, ecc. In parte lo stato sostituì l'amministrazione diretta; più ancora si valse dei municipî e della loro classe dirigente, i decurioni, per l'esazione delle tasse. In tal modo le finanze municipali e in particolare i patrimonî dei decurioni servivano di garanzia allo stato, che se per un lato dovette sempre più legare i decurioni al loro compito, dovette d'altro lato intervenire nell'amministrazione dei municipî. Il passaggio dall'Alto al Basso Impero si caratterizza quindi anche come accrescimento della burocrazia imperiale destinata alla sorveglianza dei singoli organi finanziarî.

Non è possibile ricostruire in nessun momento il bilancio dell'impero romano. Innanzitutto un bilancio regolare non sussistette mai. Le entrate si conformavano alle spese e le spese alle entrate in un giuoco disordinato. Ci fu bensì presso i primi imperatori una certa abitudine di sottoporre un rendiconto periodico al senato; ma non andò oltre Caligola. Poi ci mancano assolutamente dati tali da ricostruire almeno nelle voci principali un ciclo di entrate e di uscite. Cifre complessive di entrate, come quelle che abbiamo per il tempo di Pompeo - del resto di interpretazione discussa - non esistono più. Un'affermazione come quella di Vespasiano (Suet., Vesp., 16), secondo cui ci sarebbero voluti 40.000 milioni di sesterzî per risanare le finanze romane, può darci al più un'impressione, purché la si accetti, dato che non è mancato chi ha pensato di ridurla a 4000 milioni di sesterzî (un sesterzio = ¼ di denaro = ¼ di dramma). Per i tributi delle provincie, le migliori informazioni le abbiamo per la Giudea, in cui le entrate dovevano oscillare intorno ai 2000 talenti attici (1200 talenti giudaici). Di qui si deduce anche con qualche verosimiglianza l'importo dei tributi dell'Egitto che Flavio Giuseppe, il nostro informatore per la Giudea, assevera essere stati dodici volte superiori (Bell. iud., II, 386). È probabile che egli non distinguesse dai talenti ebraici, in cui egli calcolava i tributi giudaici, i talenti greci, in cui i suoi informatori calcolavano i redditi dell'Egitto, e perciò la cifra verosimile dei tributi dev'essere di circa 15.000 talenti, che corrisponde sia ai tributi dell'Egitto al tempo di Tolomeo-Filadelfo (14.800 talenti), sia alle presonzioni di Cicerone sui tributi egiziani (12.500 talenti). Questi dati sull'Egitto, il quale inoltre procurava il grano per quattro mesi a Roma, si dovrebbero poi paragonare con l'asserzione di Velleio Patercolo (II, 39, 2) secondo cui i proventi della Gallia erano press'a poco uguali agli egiziani. Ma la cifra a cui si arriverebbe è in stridente contraddizione con i 40 milioni di sesterzî (= circa 1600 talenti) testimoniati da Svetonio (Caes., 25) ed Eutropio (VI, 17, 3) per la Gallia al tempo di Cesare. Si tratta dunque di errore, o più probabilmente l'asserzione di Velleio rispecchia solo lo stato iniziale dei contributi dell'Egitto a Roma, quando, appena annesso, dopo un periodo di disordine economico straordinario, dovette dare redditi assai inferiori ai normali. S'intende che anche la Gallia dovette dare presto all'impero redditi ben superiori a quelli iniziali. Sappiamo pure da Filostrato (Vitae sophist., II, 3) che l'Asia avrebbe pagato un tributo di 7 milioni di dramme (circa 1150 talenti) al tempo di Adriano: una cifra senza dubbio esatta e caratteristica per la mite politica tributaria dell'impero in Asia a differenza che in Egitto.

Tra le altre cifre che possono avere interesse, ricordiamo che Tiberio lasciò in cassa alla sua morte 2700 milioni di sesterzî (tradizione della cifra malsicura) e altrettanto Antonino Pio, mentre Pertinace non trovò nell'erario un milione di sesterzî.

Come si vede, dal complesso di queste cifre, e di alcune altre analoghe, non è possibile ricavare alcuna idea esatta sull'entità reale delle entrate. Tanto meno si possono fare calcoli, che pure sarebbero di enorme importanza, sulla distribuzione dei carichi tributarî: sebbene si possa ritenere sicuro che o legalmente o illegalmente i carichi di gran lunga maggiori erano per i più umili. Ai quali toccavano le prestazioni materiali ("angherie"), che costituivano un fattore implicito fondamentale della finanza romana. La stessa incertezza regna sulle uscite. Nel bilancio romano esistevano alcune spese fisse, e tra queste la più importante era costituita dagli stipendî all'esercito e agl'impiegati civili, rimunerati questi ultimi, se magistrati, con un rimborso spese, se subalterni (dai quali al nostro scopo non importa distinguere i membri della familia imperiale, schiavi o liberti impiegati nell'amministrazione) con effettivi salarî, che nel Basso Impero specialmente sono pagati per molta parte in natura. Quale abbondanza di persone viventi al proprio carico fosse andato a poco a poco assumendo lo stato romano può indicare l'esagerazione di Lattanzio (De mort. pers., 7) secondo cui il numero di coloro che vivevano sul tesoro dello stato era superiore a quello di coloro che lo alimentavano. Non è però possibile calcolare a quanto ammontasse il pagamento degli stipendî, neppure per l'esercito di cui approssimativamente conosciamo l'entità numerica e il soldo. Per il tempo di Tiberio si è, ad esempio, calcolato (partendo da un soldo di 225 denari per il legionario; 360 [?] per quello delle coorti urbane e 720 per i pretoriani) che queste truppe dovevano costare 46.700.000 denari o 186.800.000 sesterzî circa. Ma, come si vede, non si sono potute comprendere le coorti ausiliarie e le ali, i vigili e la flotta, non si sono potuti calcolare gli stipendî dei graduati e degli ufficiali (nel sec. III un tribunus legionis, per es., riceveva 25.000 sesterzî), né si sono potute valutare le spese per le forniture in natura, che, contrariamente al costume dell'età repubblicana, toccavano ai legionari e dal tempo di Nerone anche ai pretoriani. Sono poi trascurati anche i veterani, a cui l'honesta missio era spesso accompagnata da assegnazioni di terre. D'altronde per l'esercito costituivano quasi parte integrante dello stipendio i donativi, varî secondo i momenti. Per Tiberio si è potuto calcolare un donativo a 12 milioni di denari, non compresi i graduati e ufficiali. Con Claudio comincia l'uso di donativi regolari all'assunzione al trono (da 3750 denari di Claudio medesimo a 25 di Vespasiano, a 5000 di Marco Aurelio, ecc.), da taluno ripetuti nel decennale o nel quindicennale dell'assunzione. È noto poi che il soldo dei legionarî variò fortemente (300 denari con Domiziano, 750 con Caracalla); ma è poi chiaro che queste cifre non possono essere intese se non tenendo conto della diminuzione costante della capacità di acquisto del denaro, che si va estendendo soprattutto dal tempo di Commodo in poi.

Un'altra voce fissa del bilancio era il rifornimento di grano alla città di Roma, a cui nel Basso Impero si aggiunse Costantinopoli. Il rifornimento prendeva un duplice aspetto: distribuzione gratuita al proletariato (plebs frumentaria) calcolato a un numero aggirantesi sempre intorno alle 200.000 persone; vendite a un prezzo di calmiere. Ai proletarî toccavano 60 modî all'anno, cioè in tutto 12 milioni di modî e poiché l'Egitto, che forniva un terzo del grano necessario per Roma, ne mandava 20 milioni di modî (Aurelio Vittore, Epit., 1), restavano 48 milioni di modî di grano da vendere. Calcolando a un denaro il prezzo medio del grano al modio nei primi tempi dell'impero, si ha un valore di 12 milioni di denari per le distribuzioni gratuite di frumento. È ovvio che lo stato, di regola, dati i tributi in natura delle provincie, non aveva bisogno di acquistare il grano per Roma: il che però gli poteva accadere in momenti eccezionali. A queste distribuzioni gratuite o a prezzo ridotto vanno aggiunte le donazioni straordinarie (congiaria) in denaro e in vino, olio, carne, indumenti. I congiaria toccavano talvolta alla plebs frumentaria, talvolta a cerchie maggiori: il Cronografo dell'anno 354 ce ne trasmette un elenco, in cui risulta che la distribuzione in denari oscillava da 60-75-100 per testa (Augusto) a 1000 (Adriano), 850 (Commodo), 150 (Pertinace), 400 (Caracalla), 1550 (Diocleziano). Una spesa di 15-20 milioni di sesterzî era normale per una tale distribuzione, ma essa si poteva perfino centuplicare. È superfluo ripetere l'avvertenza che va sempre tenuto conto della variata capacità d'acquisto della moneta.

Nel sec. III alla distribuzione del frumento si sostituisce la distribuzione di pane confezionato. Dal tempo di Traiano si aggiunge l'alimentazione già accennata, che ha estensione malcerta, ed esigua soprattutto nelle provincie. Naturalmente, lo stato si valeva di acquisti o di requisizioni straordinarie di grano per i bisogni eccedenti.

Tra le spese fisse rientra il culto, ma il numero dei sacerdozî (pontefici, vestali, arvali, auguri, aruspici, forse flamini, quindecemviri sacris faciundis, ecc.) che è a carico dello stato, è in fondo insignificante nell'estensione dell'impero di fronte ai sacerdozî e ai templi, che si mantengono sui propri capitali o sui fondi delle singole città. In Roma toccava allo stato la manutenzione dei templi. Ma ciò rientrava nel complesso della cura delle opere pubbliche, a cui lo stato provvedeva insieme con le città, facendo inoltre spesso contribuire i singoli privati che vi avevano interesse, in specie quando si trattava di strade. E con le opere pubbliche entriamo in quella parte più veramente straordinaria del bilancio romano, variabilissima secondo le disponibilità e le tendenze dei singoli imperatori, complicantesi con l'amministrazione del demanio di cui non abbiamo più nessuna misura, nemmeno lontana. In tali spese straordinarie si assommano tutti quei compiti di civiltà (scuole, biblioteche, igiene, soccorsi), che lo stato romano assumeva in varia proporzione su di sé e che solo negli stati moderni hanno trovato sistemazione fissa nei bilanci. Accanto si pongono per la loro straordinarietà i varî articoli della finanza di guerra, con il giuoco dei tributi, che, in specie nel Basso Impero, lo stato ora riceveva e ora pagava a popoli confinanti.

Giova ricordare infine, per caratterizzare ulteriormente la struttura della finanza romana, alcuni altri particolari. Uno, di complicazione, è il forte decentramento fiscale, dovuto non solo alla suddivisione della cassa dello stato in varie casse (nell'Alto Impero si devono ancora ricordare un fiscus alexandrinus e un fiscus asiaticus di oscura interpretazione, forse destinati rispettivamente alla capitazione della città di Alessandria e della provincia di Asia), ma anche all'importanza delle casse periferiche, sia delle singole provincie, sia delle armate: il decentramento prese forma più consistente nel Basso Impero, quando le varie prefetture del pretorio divennero, anche per gli aspetti giuridici del meccanismo fiscale, unità dotate di fortissima autonomia, L'altro particolare è l'estrema semplificazione della politica del denaro nel senso che i fenomeni creditizî vi furono limitati al minimo. Lo stato, di regola, nell'impero non dava e non contraeva prestiti. I prestiti concessi per la costituzione delle alimentazioni sono eccezioni. Lo stato quindi non assumeva oneri a distanza se non all'estero nella forma di tributi. Anche nella politica monetaria spariscono tutte le preoccupazioni dovute alla necessità di tenere la moneta romana al livello di altre monete. La moneta romana è interamente dominatrice, e le poche monete, che nell'interno dell'impero continuano ad avere un'importanza più che locale (soprattutto la moneta alessandrina e asiatica), si sostengono sulla moneta romana, con cui sono a cambio fisso. Il che non toglie però che, essendo l'impero dipendente dall'estero per talune merci soprattutto di lusso, il problema della bilancia commerciale passiva si palesasse già nel sec. I e dovesse provocare un restringimento, non mai però sistematico, dei rapporti commerciali con l'Oriente. Nella passività della bilancia commerciale è indubbiamente una delle ragioni indirette della crisi finanziaria dell'impero da Commodo in poi, ma la ragione diretta, che in sé assorbe tutte le altre, è lo squilibrio tra spese ed entrate, che l'impero non riuscì a sistemare mai e da cui derivarono i fenomeni d'inflazione, che rovinarono la moneta romana. Con la rovina del sistema monetario nel sec. III furono quindi portate in primo piano talune peculiarità della finanza romana, che però sussistevano già prima, e innanzitutto i pagamenti in natura dei privati allo stato e dello stato ai privati. Il che spiega l'importanza dei beni demaniali non solo come fonte di reddito, ma anche come mezzo di pagamento dello stato e la confisca di enormi zone di terreno avvenuta nel Basso Impero sotto forma di acquartieramento di barbari: in realtà lo stato pagava in terreni i servigi dei barbari togliendo le terre ai propri cittadini.

BIBL.: Per le indicazioni di storia economica, v. sopra: Storia: Età imperiale. Per le finanze, oltre alla bibliografia per l'età repubblicana (v. sopra), cfr. C. Halgan, Essai sur l'administration des provinces sénatoriales, Parigi 1898; W. T. Arnold, Roman Provincial Administration, 3ª ed., Oxford 1914; M. Rostovtzeff, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., s. v. Fiscus e Frumentatio; F. Oertel, ibid., s. v. Monopole; O. Hirschfeld, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten, 2ª ed., Berlino 1905; M. Rostovtzeff, Geschichte der Staatspacht in der römischen Kaiserzeit, in Philologus, suppl. IX (1901); F. Oertel, Die Liturgie, Lipsia 1917; L. Fiesel, Geleitszölle im griech.-römischen Ägypten und im germanisch-romanischen Abendland, in Nachr. d. Gött. Gesell., 1925, p. 54 segg.; V. Martin, La fiscalité romaine en Égypte aux trois premiers siècles de l'Empire, Ginevra 1926; W. Uxkull-Gyllenband, Gnomon des Idios Logos, Kommentar, Berlino 1934: L. Friedländer, Die Steuern dreier römischer Provinzen, in Sittengeschichte Roms, 9ª- 10ª ed., IV, Lipsia 1921, p. 297 segg.; A. Piganiol, L'impôt de capitatin sous le bas-empire romain, Chambéry 1916; F. Lot, L'impôt foncier et la capitation personnelle sous le Bas Empire et à l'époque franque, Parigi 1928; H. Bott, Die Grundzüge der diokletianischen Steuerverfassung, Francoforte 1928; C. Bellieni, Capitatio plebeia e capitatio humana, Sassari 1931; A. Piganiol, La capitation de Dioclétien, in Revue Historique, CLXXVI (1935), p. 1 segg.

RELIGIONE

La religione dei Romani - nonostante le influenze profonde e durature che questo popolo ha subite fino dai primi tempi della sua installazione nel Lazio da parte di altri popoli italici (Osco-Umbri), di Etruschi e di Greci - ha conservato sempre una fisionomia fondamentale, che resta inalterata durante tutti i secoli della sua storia. Essa ci appare come la religione di un popolo di agricoltori in assiduo contatto con la terra, che ha bisogno di essere continuamente sistemata e sottratta con imponenti opere collettive di drenaggio all'insidioso impaludamento; che deve essere coltivata con diuturna fatica e preservata, con tutti i riti e le cerimonie che il rituale conosce e prescrive, dai pericoli che minacciano la vegetazione a ogni epoca dell'anno.

Questa religione, dunque, fatta per soddisfare le esigenze di un popolo agricoltore, intento alle necessità e alla difesa del suo assiduo lavoro, si presenterà povera di quella fantasia coloritrice delle cose che viene dalla vita movimentata e dagli scambî con genti lontane, ma ricca di precisazioni etico-giuridiche che diano a ciascuno, uomo o nume che egli sia, ciò che gli spetta e garentiscano come i confini della proprietà e i rapporti personali, così anche la buona armonia tra il mondo degli dei e quello degli uomini, quella pax deorum che fu la più costante preoccupazione del culto pubblico dei Romani.

Il romano è grave e ponderato, perché la sua vita trascorre tra stenti e occupazioni uniformi, lungi dagli arditi allettamenti e dalle svariate impressioni che dona il mare, e perché tutto il suo lavoro è in balia delle potenze esteriori, atmosferiche e telluriche, che possono in un solo istante annullare la sua diuturna fatica. A lui importa soprattutto conoscere non tanto la figura quanto l'azione di queste potenze (numina) per poterle sollecitare a dovere a vantaggio del suo raccolto e del suo bestiame. Per questo la più antica lista indigena di divinità è un elenco di aggettivi (indigitamenta) che descrivono le prerogative di azione di questi esseri o forze divine (Levana, Cunina, Rumina, Slatilinus, Adeona, Abeona, Fabulinus, per le varie necessità dell'infante; Imporcitor, Insitor, Occator, Redarator, Runcina, Sarritor, Sterculinus, per le operazioni dell'agricoltura, ecc.) concepite come indipendenti; per questo gli atti del culto che servono a propiziare e anche a costringere, con il potere irresistibile della formula e del gesto, le potenze superiori, sono studiati con cura scrupolosa e fissati con quello spirito cauto e pratico che ha fatto dei Romani i maestri del giure nel mondo. Non sviluppi teologici, dunque, non ricami di mitologia, non trasporti di misticismo, ma riconoscimento delle potenze divine ciascuna limitata nel suo ambito e non associata in parentela con le altre; ma esposizione chiara e circostanziata delle proprie necessità con indicazione precisa di quel che si darà in contraccambio, prevedendo ogni caso, non trascurando nessun particolare per non incorrere in nullità; e finalmente ottenuta la cosa domandata, adempiere con fedeltà i patti, ma non fare di più, ciò che sarebbe inane e superfluo (superstitio). Da questo modo di concepire i rapporti tra l'uomo e la divinità segue che il sacerdote non è tanto il portavoce della divinità al cui servizio è votato, quanto il tecnico del rituale, l'"esperto" che è presente per garantire la perfetta esecuzione degli atti religiosi, i quali in realtà vengono compiuti dal capo della comunità: pater familias nella casa, magistrati nello stato, generali nell'esercito.

Altra caratteristica della religione romana è di essere pervasa di senso sociale, di guisa che più che soddisfare all'anelito dell'anima individuale essa provvede a regolare le varie attività dello stato, affinché tutto si compia secondo il beneplacito degli dei. Questo spiega l'importanza religioso-politica data all'auspicio, l'organizzazione statale del sacerdozio sotto la presidenza del pontefice massimo, la permanenza immutata del culto pubblico anche quando per il progresso culturale e politico si erano venute modificando le antiche concezioni religiose.

Perciò la religione romana apparve a Greci, come Polibio, più morale, perché non ammetteva né le intemperanze della mitologia né le sfrenatezze orgiastiche dei culti orientali, e più patriottica, perché consacrava la devozione alla patria in maniera più disciplinata e unitaria e poneva il sentimento e l'interesse dell'individuo in posizione subordinata di fronte a quello dello stato; più educatrice, infine, perché induceva negli animi quella reverenza del divino, quel rispetto della tradizione sacra del paese, quel senso della responsabilità personale che tempra gli spiriti e li rende saldi nell'opera.

Gl'influssi esterni. - Questa fisionomia religiosa non fu alterata dall'apporto, per alcuni aspetti esterni assai ragguardevole, che le altre popolazioni italiche e poi gli Etruschi e i Greci hanno arrecato alla civiltà romana. Delle genti italiche, quella che la tradizione mette a contatto con Roma fino dai primordî, i Sabini (Osco-Umbri), non arreca a Roma elementi di particolare rilievo, poiché la sistemazione della religione, che la tradizione romana attribuisce al sabino Numa Pompilio, è del più schietto carattere romano e se Livio (I, 18) parla di una disciplina "tetrica et tristis veterum Sabinorum" lo fa appunto per esaltare le istituzioni religiose di Roma, che da un re di così inclita religione e giustizia venivano organizzate.

L'apporto degli Etruschi fu invece assai maggiore. Ad esso debbono i Romani l'adozione della triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva) e l'installazione della medesima nel Campidoglio in un tempio a tre celle; e poi l'aruspicina, alcuni usi di carattere religiosocivile, quale la cerimonia del trionfo; il culto della dea Fortuna assimilata all'etrusca. Norzia, dal cui rituale fu tratto il rito della fissazione del chiodo nel tempio capitolino. Ma sono elementi esteriori che non investono l'intimo della religiosità romana. Non troviamo infatti in Roma quella gerarchizzazione del mondo divino che era cara agli Etruschi; né quel senso cupo dell'oltretomba che ha loro suggerito le paurose figurazioni tombali, né quella valorizzazione politica del sacerdozio, incentrato nell'Etruria meridionale nella persona del sommo sacerdote che si eleggeva ogni anno nella grande festa del Fanum Voltumnae. E quello che dagli Etruschi fu effettivamente tolto conservò la sua etichetta di origine: sotto il nome, infatti, di etrusca disciplina andavano l'aruspicina e la disciplina fulgurale.

Le colonie della Magna Grecia o direttamente o per intromissione degli Etruschi ebbero, anche prima che l'ellenismo dilagasse in Roma con la conquista della regione, un influsso notevole. Così, i Libri Sibillini, cioè il culto di Apollo collegato a quella forma superiore di mantica che è quella per ispirazione del nume, entrarono da Cuma nella città al tempo di Tarquinio Prisco; pure dalla medesima regione penetrò il culto di Dioniso nella forma orgiastica dei Baccanali, che i magistrati romani proibirono nel 186 a. C.; e poi Demetra e Core associate con Dioniso e latinizzate in Cerere, Libero e Libera; ed Ercole; divinità elleniche tutte, che non appartengono all'epopea omerica, ma rispecchiano l'umile vita delle plebi agricole emigrate un tempo dalla madre patria e che per questo loro significato hanno avuto accesso in Roma.

Le più antiche divinità romane. Il calendario. - Le divinità più antiche ufficialmente venerate dai Romani sono quelle il cui nome o la cui festa si trova elencata a grossi caratteri nel calendario, il quale dall'epoca anteriore alla riforma di Cesare fino a tutta l'epoca imperiale si è mantenuto invariato, segno evidente che esso era stato fissato a un dato momento della storia religiosa di Roma, anteriore alla fondazione del tempio di Giove capitolino - dedicato dal console M. Orazio nel 509 a. C. - perché questa non è menzionata nel calendario stesso. Esse sono, disposte per ordine alfabetico, le seguenti: Carmenta (Carmentalia, 11 e 15 gennaio); Cerere (Cerialia, 19 aprile); Conso (Consualia, 21 agosto e 5 dicembre); Diva Angerona (Divalia, 21 dicembre); Fauno (Lupercalia, 15 febbraio); Fonte (Fontinalia, 13 ottobre); Furrina (Furrinalia, 25 luglio); Giove (tutte le idi; Vinalia, 23 aprile e 19 agosto; Meditrinalia, 11 ottobre); Lari (Larentalia, 23 dicembre); Lemuri (Lemuria, 9, 11, 13 maggio), Liber (Liberalia); Marte (Equirria, 27 febbraio e 14 marzo; Tubilustrium, z3 marzo; Armilustrium, 19 ottobre); Mater Matuta (Matralia, 11 giugno); Nettuno (Neptunalia, 23 luglio); Opi (Opiconsivia, 25 agosto; Opalia, 19 dicembre); Pale (Parilia, 21 aprile); Portuno (Portunalia, 17 agosto); Quirino (Quirinalia, 17 febbraio); Robigo (Robigalia, 25 aprile); Saturno (Saturnalia, 17 dicembre); Agonio (Sol Indiges, 11 dicembre); Tellure (Fordicidia, 15 aprile); Termino (Terminalia, 23 febbraio); Veiove (Agonio, 21 maggio); Vesta (7-15 giugno); Volcanus (Volcanalia, 23 agosto), Volturno (Volturnalia, 27 agosto).

Di tutte queste divinità le più venerate, come si rileva dal numero dei giorni festivi, sono Giove e Marte. Giove, divinità non solo latina, ma indoeuropea, simboleggiante il cielo padre da cui soprattutto dipende la vita di un popolo agricoltore; Marte, dio protettore della vegetazione primaverile, che deve fecondare il lavoro dei campi e preservare questi dalle calamità della guerra. Anche le altre divinità sono tutte esclusivamente proprie di un popolo di agricoltori e di pastori e le loro feste si raggruppano bene secondo il ritmo delle stagioni. Altre divinità che hanno nel calendario una menzione secondaria e che hanno avuto in Roma un maggior rilievo in seguito a influssi latini o italici sono Giunone, il cui grande santuario si trovava a Lanuvio, Diana che aveva nel bosco di Ariccia un santuario famoso, Minerva, dea degli artigiani, Mercurio, dio della mercatura, ben presto identificato con Ermete. Né vanno, da ultimo, dimenticate quelle divinità di tipo astratto quali Concordia, Pace, Pietà, Fortuna, ecc., particolarmente care alla ideazione religiosa dei Romani.

Le divinità maggiori furono poi raggruppate in numero di 12, formanti quasi un consesso (di consentes) che tuttavia non ebbe mai quel valore che simile aggruppamento aveva presso gli Etruschi. I consenti, conforme all'uso greco, sono distribuiti in sei coppie: Giove e Giunone, Nettuno e Minerva, Marte e Venere, Apollo e Diana, Vulcano e Vesta, Mercurio e Cerere; e durante la fioritura di credenze astrologiche propria dell'epoca ellenistica, furono, nei feriali rustici, messi in relazione con i mesi dell'anno e i rispettivi segni zodiacali, in quest'ordine: Giunone con gennaio e il Capricorno, Nettuno con febbraio e l'Acquario, Minerva con marzo e i Pesci, Venere con aprile e l'Ariete, Apollo con maggio e il Toro, Mercurio con giugno e i Gemelli, Giove con luglio e il Cancro, Cerere con agosto e il Leone, Vulcano con settembre e la Vergine, Marte con ottobre e la Libra, Diana con novembre e lo Scorpione, Vesta con dicembre e il Sagittario. Manilio (II, 439 segg.) varia il rapporto degli dei con i segni zodiacali. Tutto questo a ogni modo non servì a dare un maggior risalto ai consentes in quanto tali, come è confermato dal modesto portico con statue dorate, che essi ebbero nel Foro Romano a imitazione di quelle che sorgevano nell'agorà di Atene (Varr., De re rustica, I, 4), portico che Vezio Agorio Pretestato restaurò nel 367 d. C. (Corp. Inscr. Lat., VI, 103).

I culti del Lazio. - A questo proposito non va dimenticato l'influsso che su Roma hanno avuto taluni culti del Lazio; non già quelli forestieri (peregrini) trasportati dal luogo d'origine in città, né quelli puramente municipali, che Roma ha trovato esistenti e ha lasciato vivere come culti privati; ma i culti federali delle antiche città latine i quali, pur restando nel posto di origine, sono divenuti culti ufficiali dello stato romano. Tra questi vanno menzionati il santuario di Giove Laziale sul monte Albano, che ci riporta a un tempo antichissimo, anteriore alla fondazione di Roma, quando le città della regione laziale riunite in confederazione attorno ad Alba si recavano in pompa solenne (feriae latinae, Latiar con riguardo al sacrificio) sul monte Albano ad offrire innanzi all'ara scoperta dedicata a Giove un toro bianco, le cui carni venivano distribuite a tutti gl'intervenuti (visceratio) per suggellare sacralmente l'unione politica. Entrato il territorio albano in possesso di Roma, al re di Alba si sostituì il console romano, che doveva indire le ferie (conceptivae) appena entrato in carica e celebrarle prima di recarsi nelle provincie. A Giove Laziale, dopo che il Giove del Campidoglio (che è detto Ottimo e Massimo, perché è il migliore e il più potente di fronte a quelli venerati nelle altre città latine) ebbe assorbite molte delle sue prerogative, rimase quella del trionfo minore, che veniva accordato a quei generali cui non era concesso celebrare il trionfo in Campidoglio.

Altro santuario di antichità preistorica, a giudicare almeno dalla barbara legge di successione del sacerdozio, era quello di Diana Nemorense, il cui sacerdote, detto rex Nemorensis, entrava in possesso del suo ufficio a patto di uccidere il sacerdote in carica dopo avere staccato un ramoscello (vischio?) da un albero del bosco sacro: rito che ci riporta alla mentalità delle comunità primitive, in cui il capo del gruppo, re e sacerdote insieme, deve essere sempre in piena efficienza fisica per garentire il ritmo della vita sociale e stagionale. La festa di Diana Nemorense era fissa e cadeva - con grande concorso di popolo e illuminazione di tutta la conca lacustre - il 13 agosto. Il santuario nemorense, del quale, secondo la tradizione, Servio Tullio creò un duplicato nel tempio di Diana sull'Aventino, divenne nel 500 il centro religioso della Lega latina formatasi contro Roma sotto la guida del dittatore Egerio, ma dopo la vittoria del Lago Regillo e il successivo foedus Cassianum (493) entrò anch'esso sotto l'influenza di Roma.

A Lavinio era venerato il santuario dei Penati del popolo romano, che Enea avrebbe portati seco da Troia. Ogni anno i consoli vi si recavano per il sacrificio al loro entrare in carica. A Lanuvio troneggiava il santuario di Giunone Sispita (o Sospita) al cui servizio presiedeva un apposito sodalizio detto degli iuvenes (o sodales) Lanuvini. Ogni anno i consoli vi si recavano per il sacrifizio. Caratteristico di questo culto era il rito ordalico del serpente sacro alla dea, custodito entro una caverna attinente al santuario: una giovinetta doveva offrire il pasto all'animale e se questo ne gustava, era provata la verginità della fanciulla e insieme garantita la fertilità dell'annata. Giunone Lanuvina ebbe un tempio anche a Roma nel Foro Olitorio.

A Ostia, in un'epoca anteriore a quella rivelataci dagli scavi (sec. IV), dovette pure esistere un culto federale a Volcano sotto la presidenza di un capo, che in epoca romana si chiama pontifex Volcani et aedium sacrarum, che controlla la vita religiosa della città ed è assistito da un collegio di sodales arulenses, sotto il controllo del pontefice massimo, e con intervento annuale di magistrati romani. Vanno anche ricordati, pur non avendo il rango di culti federali, quelli dei Castori a Tuscolo, di Ercole a Tivoli, di Feronia al Soratte, della Fortuna Primigenia a Preneste, di Venere ad Ardea, le quali divinità tutte ebbero in Roma culto e templi.

Il culto privato. - Il culto privato merita una particolare menzione, perché, essendo fuori dall'influenza politica dello stato, riproduce più inalterata la fisionomia dell'antica religione romana. Questa è presente in tutte le circostanze della vita della famiglia, sia nelle vicende della nascita, matrimonio, morte, i cui riti, sotto la presidenza del pater familias, si svolgono entro le pareti domestiche, sia in quelle agricole, che si svolgono nel podere, ai confini che lo limitano, ai crocicchi che ne facilitano l'accesso. I riti del culto domestico non hanno un rituale unico, perché ogni famiglia li compie conforme alla sua tradizione "suo quisque ritu sacrificium faciat" (Varrone), ma hanno una fisionomia comune, che non differisce in sostanza da quella del culto pubblico quanto al tipo di religiosità, agli utensili e agli usi dell'oblazione e del sacrificio.

Ministro ordinario del culto domestico è il padre di famiglia, che custodisce la tradizione ricevuta dagli antenati e la trasmetterà ai discendenti come il più sacro deposito. Però per alcune cerimonie straordinarie, quali, p. es., i sacrifici cruenti o difficili, il matrimonio confarreato e la consultazione degli auspici, si chiamano i vittimarî e i sacerdoti edotti delle minuziose prescrizioni del rituale o persone esperte nell'arte divinatoria.

Le divinità a cui si dirige il culto domestico sono i Lari, spiriti degli antenati, i Penati custodi dell'economia familiare, il Fuoco (Vesta) che ha illuminato il volto e ricevuto l'offerta degli avi, il Genio in cui s'impersona la virtù fecondatrice del capo della famiglia. Le immagini di queste divinità sono poste nell'atrio della casa, o collocate nell'interno della medesima e in appresso viene loro dedicata una vera e propria cappella (lararium). Utensili ordinarî del culto sono il piatto (patella) "illud insigne Penatium hospitaliumque deorum" (Cicerone), con cui si versano nel fuoco le offerte, la saliera (salinum) per il sale, elemento purificatore, la scatola dei profumi (acerra). Il rito ordinario consiste nell'offrire, all'ora della mensa, libagioni e dapi al focolare: "cura penum struere et flammis adolere Penates" (Verg., Aen.), mansione che può essere compiuta anche da persone della servitù. Nei casi straordinarî (natalizî, sponsali, anniversarî), s'inghirlanda di fiori la casa, si traggono fuori gli arnesi di culto più belli e si offre un sacrificio cruento. Quelli che sacrificano vestono la toga bianca.

Tutti gli avvenimenti della vita domestica ricevono dal focolare la loro consacrazione. Nove giorni dopo la nascita, il neonato viene cosparso d'acqua lustrale (dies lustricus) e riconosciuto dal padre che gl'impone il nome. All'epoca della pubertà v'è la deposizione degli abiti infantili e la presa della toga virile (sollemnitas togae purae) conclusa da un sacrifizio. Il matrimonio (sacrum nuptiale) è la più solenne delle cerimonie del culto domestico e si compie in tre momenti: la traditio in casa della sposa, dove il padre di lei la scioglie dai vincoli della religione familiare (detestatio sacrorum) e la consegna allo sposo; la deductio in domum o corteo nuziale nel quale la sposa, velata, s'avvia alla nuova dimora; la confarreatio o unione religiosa nella quale avanti al focolare del marito i due sposi mangiano una focaccia di farro (panis farreus).

In campagna il culto privato era diretto alla lustrazione preser- vatrice dei campi, del bosco e del bestiame. Catone il vecchio ce ne ha conservato le rubriche e le formule. Si tratta di offerte di vino e di prodotti agricoli a Giove dapale per la preservazione dei buoi, del sacrifizio di una porca (praecidanea) a Cerere prima della mietitura, del sacrifizio di un porco al dio o alla dea padroni di un bosco prima di farne il taglio, della circumambulazione di un maiale, un montone e un bue (suovetaurile) attorno ai limiti di un campo (ambarvalia) per chiuderlo in un cerchio preservatore e della conseguente immolazione dei tre animali a Marte.

Il culto pubblico. - Il culto più antico dei Romani si svolse nei boschi (luci) ritenuti dimora delle divinità, e il cui ricordo è rimasto negli scrittori. In seguito circoscrissero un luogo dove innalzarono l'ara per i sacrifizî e quivi, sempre all'aperto, resero il loro tributo di culto alla divinità. Celebri are scoperte erano quella di Marte nel Campo Marzio, quella di Ercole al Foro Boario, quella di Giove Laziale sul monte Albano. Infine, per influsso di Etruschi e di Greci, furono costruiti come dimora della divinità veri e proprî edifici sacri chiamati, a seconda dell'importanza, aedes, spesso anche templa, fana, delubra, sacella.

Il concetto di templum non va confuso con quello di aedes, sebbene i due nomi si adoperino promiscuamente. Il templum (letteralmente: sezione, spazio circoscritto) è quello spazio ideale che l'augure circoscriveva con il lituo sulla terra per riscattarlo da qualunque obbligazione sacra potesse gravarvi sopra, o nel cielo, per fare entro quei limiti le sue osservazioni riguardo al volo degli uccelli. La condizione essenziale perché un dato luogo sia un templum è che l'augure l'abbia delimitato e consacrato, sicché un luogo può essere tempio senza che sia dedicato al culto, come la curia Ostilia che a detta di Varrone, "templum est et sanctum non est". L'aedes invece è un edificio destinato a contenere il simulacro della divinità, non per raccogliere il popolo. La forma è in genere rettangolare, ma talora era anche rotonda, come le capanne dell'agricoltore e le urne cinerarie laziali. Fanum è per sé il luogo consacrato, passato poi a designare l'edificio costruitovi sopra. Delubrum (da deluo) è un santuario destinato alle purificazioni e poi, per estensione, qualunque edificio destinato alla divinità: Sacellum è un piccolo recinto sacro limitato da un muro, poi qualunque tempio di piccole dimensioni. Per i ministri del culto, v. PONTEFICE; SACERDOZIO.

I tempi sacri. - v. CALENDARIO.

I riti. La preghiera. - Il modo più ordinario con cui i Romani si ponevano in relazione con la divinità era la preghiera (precatio). Alla quale, purché fatta secondo le prescrizioni del rituale, essi attribuivano un valore sacro-magico connesso con le parole stesse, che perciò non si potevano mai cambiare, né furono di fatto mutate anche quando o per la lingua o per il sentimento erano troppo arretrate. La preghiera si faceva in piedi, con il capo velato dal lembo della toga, per la preoccupazione animistica di non veder facies hostiles che avrebbero profanato il rito. Il sacerdote diceva ad alta voce, leggendola nel rituale, la formula della preghiera (verba praeire), il magistrato che funzionava da officiante la ripeteva scrupolosamente per evitare qualunque errore. Per l'efficacia della preghiera era importante non sbagliare l'indirizzo della divinità: nei casi dubbî perciò si premettevano formule comprensive "sive tu deus, sive dea", "sive mas, sive femina", "sive hoc, sive alio nomine velis appellari". La divinità si salutava portando la mano alla bocca (donde adorare) e, a preghiera finita, si rivolgeva il capo a destra (dextroversum) che è la regione di buon augurio. Nella preghiera romana non v'è misticismo, ma brevità e accortezza; reverenza calcolata, non slancio del cuore: senso del debito che si contrae verso gli dei, non offerta pia del sentimento.

Voto. - Un mezzo più efficace per lusingare gli dei e ottenerne l'aiuto è il voto (vota suscipere), promessa condizionata di compiere una data cosa, purché gli dei ne concedano una data altra. I voti pubblici erano formulati dai magistrati con l'assistenza dei pontefici che garantivano la legalità delle formule e dovevano essere ben precisi quanto alla cosa votata. La quale consisteva in genere in vittime, in bottino dí guerra, in templi da costruire o in giuochi da celebrare. I voti pubblici si facevano in occasioni di peculiare importanza per lo stato, come prima di una battaglia, per la vita di persone autorevoli, per la prosperità del popolo. Il più grande dei voti pubblici era senza dubbio la primavera sacra (v.).

Devozione. - Una forma anticipata di voto era la devotio, per la quale un individuo si votava agli dei per provocare con la sua morte il trionfo di qualche impresa: esempio classico quello di Decio Mure.

Supplicazioni e lettisternî. - La supplicazione (supplicatio) è una forma solenne di preghiera indetta dal senato per un determinato numero di giorni, in occasione di qualche pubblica calamità o prodigio (obsecratio), ovvero per ringraziamento di una vittoria militare (gratulatio) nel qual caso preludeva alla cerimonia del trionfo. Una forma solenne di supplicazione obsecratoria è il lettisternio (lectisternium) di provenienza greca, a giudicare dalle divinità a cui è offerto e dal fatto che il primo fu tenuto per ordine dei Libri Sibillini. Il lettisternio è un banchetto sacro a cui gli dei assistono in effigie sdraiati su cuscini (pulvini, pulvinaria suscipere) mentre il popolo entrava, per l'occasione, nei templi aperti e le matrone a capelli sciolti si trascinavano attorno alle are. Quando veniva offerto alle dee, il banchetto sacro prendeva il nome di sellisternio, perché le immagini delle dee erano collocate su sedie (sellae).

Lustrazioni. - La castità rituale era presso i Romani prescrizione rigorosissima e importava, almeno a principio, la mondizia non tanto da colpe morali quanto da quelle macchie (piacula) di genere sessuale, mortuario o spiritico da cui l'individuo può essere polluto.

A questa categoria va ascritta la lustrazione quinquennale della città compiuta dal censore. Vi s'immolava un porco, un montone e un bue (suovetaurile) i quali prima si facevano girare per tre volte attorno al popolo radunato fuori del pomerio, nel campo di Marte: la cerimonia riconciliava il popolo con la divinità: "lustrato populo di placantur".

Il sacrifizio. - v. SACRIFIZIO.

Le sopravvivenze. - Al disotto di questo mondo divino e del rituale con il quale è onorato, esiste un sottostrato religioso-magico, in parte incorporato in talune cerimonie ufficiali, in parte vivo nella credenza e nella pratica popolari. Così talune interdizioni colpiscono le persone: la donna è esclusa dal sacrifizio a Marte Silvano (Cat., Agr., 83) e da quello ad Ercole nell'ara massima (Plutarco, Quaest. Rom., 60); lo straniero, come portatore d'influssi ignoti e potenzialmente nemico, è escluso da qualsiasi azione sacra, che egli profana con la sua sola presenza (Dig., XI, 7, 36); di lui non è sacra nemmeno la tomba (Dig., XLVII, 12): così si spiegano gli scongiuri praticati dai feziali (v.) entrando in territorio nemico, il criminale (vinctus) perché il delitto viola sempre qualche prescrizione religiosa e rende impuro chi lo commette: questa impurità può tuttavia essere sanata dalla sacra persona del flamine diale.

Altre interdizioni colpiscono le cose. Il ferro, come di uso più recente del bronzo e come più misterioso nel suo processo di forgiatura, è considerato come profano e perciò escluso dagli usi sacri. I fratelli arvali compiono un sacrifizio espiatorio tutte le volte che debbono introdurre nel loro bosco sulla via Campana strumenti di ferro per fare opera di giardinaggio; la legge del tempio di Iuppiter Liber a Furfo (San Nicandro Garganico) autorizza ad adoperare il ferro per opera di restauro (Corp. Inscr. Lat., I, 603); il rito di fondazione delle città prescriveva, per tracciare il solco, il vomere di bronzo; il ponte Sublicio doveva essere restaurato senza chiodi di ferro (Plin., Nat. Hist., XXXVI, 100). Una quantità d'interdizioni arcaiche impedivano al flamine diale la libertà dei movimenti: tra questi v'era l'obbligo di radersi con rasoio di bronzo (Gellio, Noct. Att., X, 15).

Sopravvivenze magiche innestate nel culto pubblico sono l'Aquaelicium per cui, in caso di siccità, si trascinava una pietra (lapis manalis), implorando con processione espiatoria la pioggia; gli Argaei, fantocci di vimini che il 15 maggio venivano gettati nel Tevere dal ponte Sublicio, certo in sostituzione di vittime umane, quale sacrifizio propiziatore per ottenere la pioggia.

Non manca inoltre l'uso d'incantesimi a danno soprattutto della vegetazione dei vicini, incantesimi proscritti dalle XII Tavole; né le esecrazioni in danno di qualche persona il cui nome e la cui maternità (mater semper certa) venivano scritte in lamine di piombo, (defixiones) che, arrotolate e tenute ferme da un chiodo, venivano cacciate in un buco del terreno, presso una tomba o una fonte termale considerate in comunicazione con il mondo infero.

Va ricordato infine l'uso di amuleti (lunulae, oscilla, bullae, conchiglie, ambra, ecc.), bagaglio eterno della superstizione popolare.

La morte e l'oltretomba. - Secondo i Romani, l'anima dopo la morte vive una vita umbratile (simile a quella che ha menato sulla terra) o nella tomba o in una regione comune chiamata Orcus situata sotto la terra. La condizione delle anime nell'altra vita dipende dal trattamento fatto alla spoglia mortale. Dovere principale della famiglia superstite è dunque provvedere alla sepoltura, fornendo il defunto degli utensili già adoperati in vita e apprestandogli banchetti funebri. La più terribile pena che potesse colpire un uomo era quella di essere privato della sepoltura, come la colpa più grave era non darla. Perciò a chi non aveva potuto avere una tomba reale (naufraghi, ecc.) s'innalzava un tumulus inanis (cenotafio), chiamando tre volte a gran voce l'anima vagante perché venisse ad abitare la dimora per lei costruita.

La dimora sotterranea delle anime non era totalmente separata dal mondo dei vivi: esisteva una fossa rituale, il mundus, situata sul Palatino, in comunicazione col mondo infero, e coperta da una pietra che tre volte all'anno (24 agosto, 5 ottobre, 8 novembre) veniva tolta, dando così agio ai morti di uscire nel mondo a ritrovare i vivi. Gli spiriti dei defunti, detti in genere Lares, potevano essere buoni o cattivi verso i viventi a seconda del trattamento ricevuto: donde la duplice concezione di spiriti buoni e placabili (Lares, Manes) e di spiriti tormentatori (Larvae, Lemures) che popolano l'aria, vagolano attorno alle abitazioni e impauriscono i vivi.

I riti osservati nella morte e nella sepoltura erano i seguenti. Al momento del trapasso veniva raccolto l'ultimo respiro del morente e gli venivano chiusi gli occhi, poi si chiamava ad alta voce tre volte (conclamatio). Indi veniva lavato e vestito e deposto nel vestibolo con i piedi verso la porta. Se il funerale era solenne, si formava un corteo con le prefiche, le immagini di cera degli antenati, i parenti e gli amici in veste scura (toga pulla) e senza ornamenti. Il rito poteva essere quello dell'inumazione o della cremazione, promiscuamente usati in Roma, come dimostrano il sepolcreto preromuleo del Foro (a parte la questione della priorità originaria di uno di questi due riti) e la famosa legge delle XII Tavole. Dopo la sepoltura i presenti venivano lustrati tre volte e prima di allontanarsi davano l'estremo vale al defunto.

Seguiva una purificazione generale delle persone e della casa (novendiales e denicales feriae) e un convito funebre (cena novendialis) da non confondersi con il convito ferale (silicernium) che si faceva presso il sepolcro il giorno stesso della sepoltura.

Se il morto era illustre, venivano anche dati giuochi funebri (ludi novendiales), a cui prendevano parte i gladiatori. Ad ogni anniversario si celebrava la parentatio o commemorazione del defunto.

Nel feriale romano v'erano taluni giorni particolarmente dedicati ai defunti: le Lemuria (v. LEMURI), il 9, 11, 13 maggio per i morti della famiglia: le Feralia (21 febbraio) che chiedevano una novena mortuaria (parentales dies) durante la quale i mani tornavano nel mondo a reclamare un piccolo tributo dai vivi. Questi giorni erano naturalmente infausti.

L'ellenismo. - L'ambiente religioso strettamente romano e d'impronta agricola quale ci è documentato dal feriale, povero di speculazione teologica ma ricco di prescrizioni pratiche, comincia ad aprirsi all'influenza straniera, soprattutto greca, attraverso i Libri Sibillini, il cui tipo di divinazione riferentesi direttamente all'ispirazione di Apollo rappresenta un progresso sulla divinazione deduttiva in uso presso i Romani. L'introduzione da Cuma in Roma di questi libri (dalla tradizione riferita a Tarquinio Prisco) significò il libero accesso dei culti greci nella città. Nel 496 è introdotto il culto di Apollo Medico, nell'anno stesso quello di Demetra, Dioniso e Core. Certo per suggerimento dei Libri Sibillini (posto che il tempio stava sotto il controllo dei Quindecemviri [v.], interpreti ufficiali dei Libri Sibillini), viene costruito nel 496 il tempio di Mercurio, assimilato ad Ermete ἐμπολαῖος, sotto il cui auspicio s'inaugura il commercio granario con l'Italia meridionale: e per analoga ragione di commercio marittimo entra il culto di Posidone, identificato con l'indigeno Nettuno. Questi nuovi elementi non modificano tuttavia il complesso della cultura e della vita religiosa romana. Dal principio del quinto si deve scendere al terzo secolo - l'età epica della storia romana, per la conquista del primato in Italia (guerre sannitiche, guerra di Pirro, guerre nella Cisalpina) e per la grande guerra annibalica - per vedere tutta la vita religiosa arricchirsi di nuovi elementi, sempre sotto il controllo dei Libri Sibillini.

E invero nel 293, in seguito a una pestilenza, viene introdotto Esculapio da Epidauro; nel 249, durante la prima punica, entra il culto di Dite e Persefone fissandosi nel Tarento (Campo Marzio, presso Pnte Vittorio Emanuele); nel 217, in seguito a prodigi mostruosi verificatisi durante la seconda punica, viene votata una primavera sacra; e finalmente nel 204 entra in Roma il primo culto orientale, quello della Magna Mater.

Ma dopo le guerre puniche si verificò quello che Cicerone nel De republica (II, 19) attribuisce con troppa anticipazione all'azione di Tarquinio Prisco, cioè il penetrare dell'ellenismo in Roma non con la tenuità di un ruscello ma con l'abbondanza di un fiume. Gli usi, la filosofia, la mitologia, la letteratura e l'arte dei vinti, penetrati in Roma insieme con le spoglie della vittoria, ebbero buon giuoco a combattere contro la vetusta e rigida costituzione dei Romani. Così l'Olimpo ellenico entrò nel dominio astratto delle divinità romane e assorbì quelle con le quali aveva qualche rassomiglianza reale o esteriore, relegando nell'ombra quelle con cui non aveva potuto amalgamarsi, tanto che Varrone prima, Ovidio poi, si trovano imbarazzati a definire alcuni nomi e interpretare alcuni riti, ai quali non trovano un riscontro nella mitologia greca. Anche l'arte plastica contribuì all'evoluzione del pensiero religioso e i Romani, che a detta di Varrone erano stati 170 anni senza conoscere statue degli dei, cominciarono ad averli rappresentati alla greca con antropomorfismo tanto più efficace quanto meno era giovevole alla santità piena di mistero con la quale i Romani si erano immaginate le loro divinità.

La letteratura greca da parte sua, con quel suo senso individualistico assai sviluppato specialmente dagli scrittori filosofi e letterati dell'epoca alessandrina, che sono per l'appunto i più letti e divulgati, contribuisce a esaltare il senso e il valore della personalità contro quello sociale che aveva fino allora imperato nella famiglia e nello stato. E si ha così un rallentamento dei vincoli familiari; la vita politica si può riassumere come la storia dell'individualismo prepotente che si sovrappone all'antica costituzione: non più lotte di partito contro partito ma di uomo contro uomo; nella vita culturale Ennio si fa banditore di due interpretazioni filosofiche che negano il concetto di divinità: l'evemerismo (Euhemerus) e il naturismo (Epicharmus) e nega l'utilid della preghiera (Telamone); il pontefice Scevola dichiara falsa la mitologia dei poeti; nocevole ai popoli, quantunque vera, la critica religiosa dei filosofi, e utile per il popolo, sebbene sia un inganno, il sistema religioso patrocinato dallo stato: "expedire igitur existimat falli in religione civitates" (Aug., Civ. Dei, IV, 27). Punto di vista che è accettato da Varrone e che Cicerone stesso mette in pratica perché, mentre nel De natura deorum si mostra imbarazzato circa il concetto della divinità e nel De divinatione maltratta la religione popolare, nei discorsi al senato e al popolo dichiara altamente la sua fede nel patrocinio degli dei e mostra di annettere grande importanza alle pratiche del culto ufficiale.

Ma questo rispetto al formalismo esteriore non è sufficiente a raffermare la religione della città né nelle persone colte né nel popolo. Le prime, secondo la preferenza individuale, accettano l'una o l'altra delle correnti dottrinali in voga: lo stoicismo, caro ai politici per il valore che dà alla buona condotta della vita ponendo l'individuo in posizione di armonia subordinata rispetto alla Ragione o Legge che governa l'universo (De Officiis di Cicerone); il neopitagorismo - rivelatosi già attraverso apocrifi "Libri di Numa" che l'autorità fece bruciare (181) - caro agli spiriti mistici in quanto accentua il contrasto tra anima e corpo, considerando questo come un carcere da cui l'anima con la morte si libera ritornando all'ignea sfera divina donde è discesa (il sogno di Scipione nel sesto libro del De republica di Cicerone), patrocinato autorevolmente dal senatore Nigidio Figulo; l'epicureismo, che ispirò a Lucrezio una specie di religione della scienza; l'eclettismo della Nuova Accademia, patrocinato da Cicerone, il conciliatore di tutte le opinioni. Il popolo invece, cui erano naturalmente negate queste speculazioni religioso-filosofiche, si appagava meglio dei culti orientali, i quali, al di sopra dei privilegi del sangue e della religione ufficiale, promettevano agli adepti una nuova vita dopo l'iniziazione e un'esistenza di felicità sempiterna dopo la morte. Ed infatti appunto in questo tempo affluiscono in Roma i misteri d'Oriente: la Magna Mater nel 204, Dioniso proscritto nel 186, Mâ al tempo di Silla, Iside proibita invano nel 58, 53 e 50; la Dea Syria con le legioni di Crasso; Mitra con la spedizione di Pompeo in Oriente.

Così il vecchio deposito tradizionale rimane abbandonato dai dotti e dagl'indotti, dai patrizî e dalla plebe, i quali tutti sentono il bisogno che vi si sostituisca qualche cosa di più comprensivo, di più vivo.

La restaurazione augustea. - Augusto fu l'uomo che intese la necessità di restaurare le condizioni politiche e morali dell'impero, cominciando dalla religione. Tutto il suo regime è diretto a giustificare il fatto ormai compiuto della trasformazione di Roma da repubblica in impero, cioè da città dominatrice di provincie rese schiave in un grande aggregato statale, in cui si tende a eguagliare le provincie alla capitale, ponendo leggi fisse là dove era l'arbitrio, dando a tutti, Romani e provinciali, un solo padrone, capace di accogliere i reclami e fare giustizia.

Egli cominciò con accettare nel 27 a. C. il titolo di Augusto, epiteto religioso che implica consacrazione e santità della persona o cosa che n'è investita; nel 13, divenuto pontefice massimo, restaura i templi fatiscenti (il numero di 82 è ricordato da lui stesso nelle sue Res gestae); compie personalmente le funzioni religiose del culto pubblico, risuscita cerimonie e sacerdozî andati in disuso, come l'Augurium Salutis e il flaminato diale, il sacerdozio dei luperci, le ferie dei Lari compitali, dà un particolare rilievo a tre divinità del pantheon che erano legate alla sua persona o alla sua casa e cioè Venere, genitrice mitica della casa Giulia, Marte Ultore ossia vendicatore della morte di Cesare, il cui tempio godette particolari prerogative, e soprattutto Apollo, per cui ebbe speciale devozione e a cui edificò sul Palatino un tempio famoso. Inoltre sfruttando abilmente l'entusiasmo del popolo per la sua persona permise che nella festa dei Lari compitali che cadeva due volte all'anno e si celebrava ai crocicchi dei vici (Plinio ne conta 265) la figura del Genius Augusti figurasse in mezzo alle statuette dei Lari compitali.

Il culto imperiale. - Nelle provincie poi, dove non v'era ripugnanza ideale a questa deificazione dell'individuo, il culto della persona dell'imperatore fu accettato senza riserve. L'Oriente ellenistico del resto era abituato all'adorazione del sovrano. Nella Grecia stessa, dove un tale culto non sarebbe stato possibile nell'epoca dell'indipendenza, esso si sviluppò durante l'era macedonica. Alessandro Magno trovò l'adorazione del sovrano ben radicata in Egitto, in Asia Minore e in Persia; i suoi successori, Tolomei in Egitto, Seleucidi in Siria, Attalidi in Anatolia, ereditarono gli onori divini degli antichi monarchi e, quando ai diadochi successero i Romani, quei medesimi onori furono diretti ai rappresentanti di Roma (Senato, Dea Roma, Popolo romano, proconsoli) e soprattutto poi agli imperatori.

Nelle provincie orientali pertanto il culto imperiale associato a quello della Dea Roma si diffuse, utilizzando le organizzazioni religiose già esistenti presso le città antiche e famose, introducendo il simulacro imperiale e la Dea Roma nel recinto dei santuarî famosi: Efeso, Mileto, Smirne, ecc. (città neocore, ossia custodi di templi dedicati agl'imperatori), riconducendo i loro sacerdozî e le loro assemblee (κοινά) nell'ambito delle istituzioni romane; nella Grecia, più restia a penetrazioni religiose e culturali latine, ricostituì l'anfizionia delfica includendovi, oltre alle popolazioni della Tessaglia e della Grecia propria, anche quelle di Macedonia e dell'Epiro con centro nel santuario di Apollo. Adriano compì l'opera fondando un comune sinedrio dei Greci in Atene con tempio a Zeus Panellenio.

Nelle provincie occidentali invece l'opera religioso-politica di Roma si fece sentire con maggiore efficacia ed autonomia, impiantando dalle basi il culto imperiale con sacerdozio (Flamen Augusti), assemblea provinciale (concilium, conventus), ara o tempio nel capoluogo della provincia, dove i varî delegati provinciali convenuti per le cerimonie del culto discutevano anche dei loro interessi e facevano sentire la loro influenza anche negli uffici del governatore romano.

Accanto al santuario imperiale troviamo impiantato nelle varie regioni d'occidente il Capitolium o tempio della triade capitolina, dove convenivano soprattutto i provinciali vogliosi di testimoniare il loro lealismo verso Roma. Sotto i Flavî la triade capitolina viene posta in grande rilievo; Traiano la costituisce signora dell'impero e dell'esercito. Nell'arco innalzato a Benevento in onore di Traiano si vede Giove che seguito da Giunone e da Minerva consegna all'imperatore il fulmine, simbolo del suo potere, quasi a costituirlo suo rappresentante in terra. Oltre ai campidogli, templi a Giove Ottimo Massimo vengono eretti a uso dei distaccamenti militari, che riconoscevano in lui il dio che aveva guidato le legioni alla vittoria. Al di sotto di questo v'era tutto il mondo minore delle divinità greco-romane, orientali, indigene che Roma lasciava prosperare liberamente.

L'apoteosi. - All'imperatore, deificato in vita, spettava dopo morto l'apoteosi (consecratio). Gli elementi rituali della cerimonia (aquila e pira) vanno ricercati nella Siria, dove è frequente trovare nei monumenti funerarî l'anima del defunto effigiata come un'aquila, l'uccello solare per eccellenza, atto a riportare al loro principio igneo le anime che ne sono discese. Augusto fu il primo a beneficiare di questa cerimonia, la quale divenne tipica nella prassi dei successori. Il suo corpo fu messo su di una pira a forma di piramide, nel Campo Marzio; posta la fiamma al rogo se ne staccò un'aquila che volò verso l'alto a significare che l'anima dell'imperatore se ne volava verso il cielo.

Un collegio di sodales Augustales fu costituito in suo onore (nei municipî i seviri Augustales reclutati nella piccola borghesia) e due templi gli furono dedicati, uno pubblico e l'altro privato, sul Palatino, di cui Livia fu la prima sacerdotessa; ebbe i ludi Augustales il 15 e il 12 ottobre e la festa del dies natalis il 23 settembre. In progresso di tempo la deificazione dell'imperatore assume forme caratteristiche; talora gl'imperatori vengono assimilati alla divinità, alla moda orientale, e ne assumono il nome: Nerone quello di Apollo, Commodo quello di Ercole, Diocleziano quello di Giove, ecc.; i titoli di divus, numen, aeternitas, diventano usuali nel protocollo e gl'imperatori vengono raffigurati con il fulmine nella destra, l'aureola in capo, e la stella sul vertice.

I culti orientali. - I culti orientali rappresentano nella religione romana il complemento dell'arido formalismo indigeno, resosi necessario con lo sviluppo politico e sociale di Roma. All'accentramento politico e amministrativo iniziato da Augusto e che tendeva a fare di tutto l'impero una famiglia di provincie uguali in diritti a scapito della supremazia dell'Urbe, doveva corrispondere mediante i culti orientali un sincretismo religioso che desse diritto di cittadinanza a tutte le religioni e facesse di Roma, anche in religione, una città cosmopolita. I culti orientali avevano in sé stessi il segreto del successo: 1°. perché alla freddezza dignitosa del rituale romano contrapponevano il calore di cerimonie con danze, suoni, canti, rappresentazioni misteriose; 2°. perché, non contenti dell'elemento legalistico, cercavano di dare all'anima il senso di poter raggiungere una sfera di vita spirituale superiore, praticando particolari cerimonie; 3°. perché davano un'assicurazione entusiastica circa il destino ultramondano dell'anima, mentre la religione romana non aveva risposta esauriente intorno al quesito dell'immortalità personale. Circa la fisionomia di questi culti, v. MISTERI.

Oltre a questi culti di mistero basterà qui menzionare alcune divinitȧ siriache che per le progressive conquiste nell'Oriente furono portate in Roma da mercanti e da legionarî: Hadad di Eliopoli (conosciuto come Iuppiter Heliopolitanus), il Baal di Damasco (Iuppiter Damascenus), il Baal di Doliche (Iuppiter Dolichenus), Malakbel di Palmira e Caelestis (Tanit) di Cartagine. Il terzo secolo segna l'apogeo dei culti siri sotto il patrocinio dei Severi, imperatori di provenienza siriaca, e l'imperatore Elagabalo gran sacerdote del Sole pretende fare del culto di Emesa il culto principale dell'impero.

Teologia solare e neoplatonismo. - Il culto imperiale, i culti locali delle provincie, i culti d'Oriente che s'insinuano e si giustappongono al culto ufficiale di Roma e delle provincie: sono questi gli elementi fondamentali del quadro religioso dell'impero. Per completare il quadro bisogna accennare alla teologia solare e alle correnti filosofiche culminanti nel neoplatonismo, che è stato l'oppositore più forte del cristianesimo dal punto di vista intellettuale.

La teologia solare è l'ultima forma che il pensiero religioso del paganesimo greco-romano riveste prima di tramontare definitivamente. Essa deriva dalla scienza astronomica babilonese giunta in occidente attraverso il filtro del pensiero stoico. Dal sole, che occupa il luogo vitale del sistema cosmico al cui centro sta immobile la terra, dipende la realtà e l'armonia dei movimenti celesti e della vita sulla terra, come dal cuore, pur non occupando il centro del corpo, dipende la vita dell'organismo animale. A lui dunque, che agisce sulle vicende umane attraverso i pianeti suoi satelliti, tutto si deve in ultima analisi riportare. Il che dimostra che egli è dunque una luce intelligente e che l'anima, la quale dirige, come ragione, l'azione del microcosmo umano, è una particella della luce solare, la quale s'irradia nella materia corporea e al momento della morte se ne sprigiona per venire riassorbita nella sostanza del sole. Il succedersi delle anime nel mondo è quindi dovuto a un'azione di emissione e di riassorbimento che si compie tra la terra e il cielo per mezzo del calore solare.

Penetrata nell'Occidente attraverso lo stoicismo, che ritrovava nel panteismo cosmico caldeo il suo proprio ilozoismo, si capisce che la teologia solare dovesse costituire la base di una dottrina sincretistica in cui si fondessero, riducendosi a un'espressione locale o a un aspetto singolo dell'unica sostanza solare, le varie divinità tradizionali del politeismo greco-romano. La fusione di queste divinità, sia nella teologia, sia nel culto, costituisce appunto il cosiddetto sincretismo che nel sec. III dell'impero, sotto la dinastia imperiale dei Severi, ebbe la sua voga maggiore e sboccò (fallito il tentativo violento e troppo volutamente orientale di Elagabalo) nel culto ufficiale del Deus Sol, Dominus Imperii Romani, stabilito dall'imperatore Aureliano nel 274, con la fondazione di un magnifico tempio e la costituzione di un collegio di "Pontifices Dei Solis". Il teorizzatore più illustre di questa teologia solare fu Macrobio nel commento al Somnium Scipionis e più nei Saturnalia, come la misteriosofia mitriaca ne fu l'applicazione religiosa più largamente diffusa e il neoplatonismo (v.) la giustificazione filosofica.

Teologia solare e neoplatonismo trovarono un potente seguace nell'imperatore Giuliano il quale appunto su di essi si basò nel suo tentativo di restaurare la religione pagana, dopo che Costantino ebbe con il suo editto di tolleranza (313) costituito di fatto una posizione privilegiata al cristianesimo. Ma il suo fu tentativo di galvanizzare un cadavere. I suoi successori si mantennero più o meno sulla via tracciata da Costantino e, seppure non perseguitarono il paganesimo, non gli fecero certo una posizione di favore, finché con Teodosio venne l'ordine perentorio di chiudere gli edifici religiosi pagani e di abolirne i sacerdozî.

E fu la fine, indarno deprecata da Libanio con l'orazione intorno ai templi e da Flavio Eugenio, eletto imperatore dai soldati e fidente nell'appoggio delle vecchie famiglie patrizie di Roma, con il supremo tentativo di resistere con le armi, poste sotto il patrocinio di Giove Laziale, a Teodosio, sull'Isonzo, nel 394. La sconfitta segnò la disfatta definitiva del paganesimo. L'antica religione rimase ancor viva nei pagi (cfr. Massimo di Torino, Serm. 101, De idolis auferendis) dove aveva salde radici, non completamente divelte neppure quando le vette, i boschi, le fonti e le caverne furono dedicate a qualche santo cristiano. E ancora un occhio attento sa ritrovarle in molte pratiche odierne che, rivestite d'altre forme, traducono l'atteggiamento costante dell'uomo incolto di fronte ai varî casi o misteri della natura e della vita.

BIBL.: Lo studio scientifico della religione romana è parallelo al risorgere degli studî filologici, storici, relativi al mondo greco e partecipa della fortuna e degl'indirizzi di quelli. Per questo punto, v. GRECIA, XVII, 850-854.

Vanno qui menzionate le opere di taluni eruditi che più particolarmente si occuparono di antichità e di religione romana: I. Rosini, Antiquitatum Romanarum corpus absolutissimum, Basilea 1583, ristampato con aggiunte e correzioni da T. Dempster, con il medesimo titolo, Parigi 1613; J. G. Graevii, Thesaurus antiquitatum Romanarum, Utrecht 1694-99; G. H. Nieupoort, Rituum qui olim apud Romanos obtinuerunt succincta explicatio, ivi 1723, di uso più manuale. Dopo il nuovo indirizzo impresso da B. G. Niebuhr allo studio della storia e delle istituzioni romane, sono degni di menzione: J. A. Hartung, Die Religion der Römer nach den Quellen dargestellt, Erlangen 1836; L. Preller, Römische Mythologie, Berlino 1858, la cui terza edizione fu curata da H. Jordan (Berlino 1881-83); J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, Das Sakralwesen, Berlino 1856 (2ª ediz. curata da G. Wissowa, ivi 1885); G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, Monaco 1902 (2ª ed. 1912), opera fondamentale sugli elementi del culto romano e sua organizzazione, sullo sviluppo storico e sui culti stranieri che hanno avuto sede in Roma; W. Fowler, The religious experience of the Roman People, Londra 1911; H. M. R. Leopold, De ontwikkeling van het Heidendom in Rome, Rotterdam 1918 (tradotta da Pia Leopold-Ceconi, La religione dei Romani nel suo sviluppo storico, Bari 1924); F. Altheim, Römische Religionsgeschichte, voll. 3, Berlino 1931-33. Sussidî naturali di studio si trovano sempre in Friedländer-Wissowa, Darstellung aus der Sittengeschichte Roms (9ª ed.), Lipsia 1919-20, il cui terzo volume contiene una sezione dedicata alla religione; e nei quattro lessici: Pauly-Wissowa, Real-Encycl; Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines; W. Roscher, Ausführliches Lexikon der gr. und. röm. Mythologie; E. De Ruggiero, Dizionario epigrafico di antichità romane.

Sui caratteri generali della religione romana e i suoi elementi indigeni: G. Boissier, La religion romaine d'Auguste aux Antonins, voll. 2, Parigi 1906-1908; J. B. Carter, The religion of Numa, Londra 1906; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, cap. 8°; K. Latte, Über eine Eigentümlichkeit der ital. Gottesdarstellung, in Arch. für Religionswiss., XXIV (1926), p. 244 segg.

Sul culto: A. De Marchi, Il culto privato di Roma antica, voll. 2, Milano 1896, 1903; W. W. Fowler, The Roman Festivals of the period of the Republic, Londra 1899; G. Appel, De Romanorum precationibus, Giessen 1909; N. Turchi, La preghiera presso i Romani, in Saggi di storia delle religioni, Foligno 1924, pp. 127-152; K. Latté, Die Religion der Römer und der Synkretismus der Kaiserzeit, Tubinga 1927, dà larghissima parte alle formule di preghiera e al rito.

Sulle sopravvivenze magico-religiose: E. E. Burris, Tabu, Magic, Spirits. A study of primitive elements in Roman Religion, New York 1931.

Sulla morte e l'oltretomba: Fustel de Coulanges, La cité antique, Parigi 1864, trad. ital. G. Perrotta, con introd. e note di G. Pasquali, Firenze 1924 (altra, di G. E. Calapai, Bari 1925); W. F. Otto, Die Manen, Berlino 1923, specialmente il cap. 2°.

Sulla decadenza repubblicana: oltre alle opere del Carter e Fowler già citate più sopra, v. W. Fowler, Roman Ideas of Deity in the last century before the Christian Era, Londra 1914; V. Macchioro, Roma capta, Messina 1928; T. Franck, The Bacchanalian cult of 186 B. C., in Class. Quarterly, XXI (1927), p. 128 seg.; F. Blumenthal, Ludi saeculares, in Klio, XV (1915), pp. 217-242.

Sulla restaurazione augustea e il culto imperiale: E. Beurlier, Le culte impérial. Son histoire et son organisation depuis Auguste jusqu'à Justinien, Parigi 1891; J. Toutain, Les cultes payens dans l'empire romain, I: Les cultes officiels, ivi 1905; F. Cumont, L'aigle funéraire des Syriens et l'apothéose des empereurs, in Rev. Hist. des religions, LXII (1910), p. 119, riprodotto con aggiunte in Ètudes syriennes, Parigi 1917; H. Heinen, Zur Begründung des röm. Kaiserkultes, in Klio, XI (1911), p. 129 seg.; F. Geiger, De sacerdotibus Augustorum municipalibus, Diss., Halle 1913; G. I. Laing, The cult of the city of Rome as seen in the inscriptions in Amer. Journ. Archaeol., 1914, p. 80 seg.; F. Wilhelm, Das röm. Sakralwesen unter Augustus als Pontifex maximus, Diss., Strasburgo 1915; E. Strong, Apotheosis and after life, Londra 1915; M. Rostovtzeff, Augustus als religiöser Reformator, in Mitth. deutsch. arch. Inst., röm. Abt., XXXVIII-XXXIX (1923-24), p. 281 seg.; A. Stein, Zur sozialen Stellung der provinzialen Oberpriester, in Epitymbion H. Swoboda dargebracht, Praga 1927, p. 300 seg.; F. Folliot, De principiis cultus imperat. Romanorum quaestio, in Harvard Studies in Class. Phil., XXXVIII (1927), p. 143 seg.; E. Bickermann, Die röm. Kaiserapotheose, in Arch. für Religionswiss., XXVII (1929), p. I seg.; E. Kornemann, Neue Dokumente zum lakonischen Kaiserkult, Breslavia 1929; M. Rostovtzeff, L'emp. Tibère et le culte impérial, in Revue Historique, 1930, p. I seg.; questo scritto e quello precedente del Kornemann si riferiscono alla iscrizione di Gythion; L. R. Taylor, The divinity of the Roman Emperor, Middletown 1931; J. Gagé, Les sacerdoces d'Auguste et ses réformes religieuses, in Mél. d'archéol. et d'histoire, XLVIII (1931), p. 75 seg.; id., Divus Augustus, in Revue archéologique, s. 5ª, XXXIV (1931), p. 11 seg.; S. Eitrem, Zur Apotheose, in Symbolae Osloenses, X (1932), p. 31; XI (1933), p. 11 seg.; R. Heinze, Die augusteische Kultur (2ª ed.), Lipsia 1933; A. D. Nock, Seviri and Augsutales, in Mélanges Bidez, Bruxelles 1934; id., Religious developments from the close of the republic to the reign of Nero, in The Cambridge Anc. Hist., X, Cambridge 1934, cap. II°, p. 465 seg.; F. Sauter, Der röm. Kaiserkult bei Martial und Statius, Stoccarda 1934; M. P. Charlesworth, Some observations on ruler-cult, especially in Rome, in The Harvard Theol. Review, XXVII (1935), p. 5 seg.; H. P. L'Orange, Sol Invictus Imperator. Ein Beitrang zur Apotheose, in Symbolae Osloenses, XIV (1935), p. 86-114; F. Taeger, Zum Kampf gegen den antiken Herrscherkult, in Arch. für Religionswiss., XXXII (1935), pp. 282-92.

Sui culti orientali: F. Cumont, Les religions orientales dans le paganisme romain, Parigi 1909 (trad. it. L. Salvatorelli sulla 3ª ed., Bari 1913), soprattutto la 4ª edizione, Parigi 1929, e la trad. ted. della stessa, con aggiunte, Lipsia 1930, 3ª ed. 1931; J. Leipoldt, Die Religionen in der Umwelt des Urchristentums (Bilderatlas zur Religionsgeschichte, IX-XI), Lipsia 1926; G. La Piana, Foreign Groups in Rome during the first Centuries of the Empire, in Harvard Theol. Review, 1927; J. Toutain, Les cultes payens dans l'empire romain, II: Les cultes orientaux, Parigi 1911, e la bibliografia citata alla voce MISTERI.

Sul sincretismo e la teologia solare: J. Reville, La religion à Rome sous les Sévères, Parigi 1886; F. Cumont, La théologie solaire du paganisme romain, in Mém. Acad. Inscr., ivi 1909; id., Astrology and Religion among the Greeks and Romans, New York 1912; id., Fatalisme astral et religions antiques, in Revue hist. relig., 1912, p. 513 seg.; Fr. Boll, Sternglaube und Sterndeutung, Lipsia 1918 (3ª ed. 1926, a cura di Bezold); Gundel, Sterne und Sternbilder im Glauben des Altertums und der Neuzeit, Bonn 1922; H. Gressmann, Die hellenistische Gestirnreligion, Lipsia 1925; J. Carcopino, La basilique pythagoricienne de la Porta Maggiore, Parigi 1927, per le correnti neopitagoriche; P. De Labriolle, La réaction païenne, ivi 1934, per il neoplatonismo e Porfirio; G. Negri, Giuliano l'Apostata, Milano 1902; P. Allard, Julien l'Apostat, I, Parigi 1903; G. Mau, Die Religionsphilosophie Kaiser Julians, Lipsia 1907; J. Bidez, Vie de l'empereur Julien, Parigi 1932; Giuliano imperatore, Degli dei e degli uomini, introd. e vers. di R. Prati, Bari 1932; R. Farney, La religion de l'empereur Julien et le mysticisme de son temps, Parigi 1934.

Sulla fine del paganesimo: G. Boissier, La fin du paganisme, voll. 2, Parigi 1891; V. Schultze, Geschichte des Untergangs des gr.-röm. Heidentums, Jena 1887-1892; A. Dieterich, Untergang der antiken Religion, in Klein Schriften, Lipsia 1911, p. 449 seg.; J. Geffcken, Der Ausgang des gr.-röm. Heidentums, Heidelberg 1920; G. Costa, Religione e politica nell'impero romano, Torino 1923; L. Homo, Les empereurs romains et le christianisme, Parigi 1931.

DIRITTO

DIRITTO PRIVATO.

NOZIONE E FASI DI SVILUPPO. - L'espressione "diritto romano" può assumere significazioni diverse. Essa può adoprarsi per indicare il diritto formatosi nelle varie epoche della storia di Roma fino alla compilazione che nel sec. VI d. C. ne fece l'imperatore Giustiniano; o per indicare la legislazione giustinianea; o per indicare, finalmente, questa legislazione nell'aspetto, negli adattamenti, negli sviluppi, che assunse per la larga influenza della nuova civiltà medievale e moderna, reggendo quasi tutte le nazioni europee fin verso il declinare del sec. XVIII, la Germania fino all'alba del secolo XX.

Nel primo significato, si parla più propriamente di diritto romano, senz'altra aggiunta; nel secondo, si parla di diritto romano giustinianeo; nel terzo, di diritto romano comune.

Ma nel primo significato l'espressione "diritto romano" abbraccia uno spazio di tempo così ampio, che occorre procedere a distinzioni di età e a classificazioni di sistemi: le seconde, naturalmente, generate dalle prime. E propriamente si possono distinguere tre grandi periodi, ai quali corrispondono tre grandi sistemi: avvenimenti politici formidabili, trasformazioni economico-sociali profonde separano i tre periodi e i tre sistemi.

Il primo periodo si estende dalle origini di Roma, che la tradizione colloca nel 753 a. C., al 150 circa a. C., cioè al momento in cui il piccolo comune rustico è ormai divenuto una potente città-stato, dominatrice del mondo antico, posta a contatto con le civiltà più fiorenti: è il periodo del diritto schiettamente romano, del diritto quiritario. Le fonti di questo diritto sono soprattutto i mores, cioè la consuetudine; la lex XII tabularum che, nel suo insieme, per quanto concerne almeno il diritto privato, non fa che presupporre le consuetudini antiche e apportarvi eccezioni e deroghe; la giurisprudenza pontificale.

Il secondo periodo abbraccia tutto quel tempo che sta fra il 150 a. C. e la fine del sec. III d. C., alla quale appartengono Diocleziano e Massimiano: gli ultimi imperatori, che alle provincie insofferenti del diritto romano, esteso anche ad esse dall'editto dell'imperatore Caracalla del 212 d. C., strenuamente resistono e ne impongono l'osservanza. È il periodo del grande splendore della civitas in ogni campo; e così anche, anzi soprattutto, nel campo del diritto. La vita sociale si amplia e si affina; le relazioni commerciali si accrescono e si semplificano; Roma è fatta il centro di un commercio mondiale, alimentato dal lavoro agricolo e industriale di territorî immensi. Si sviluppa in questo periodo il cosiddetto diritto romano universale; un diritto, che si viene via via adattando alla varietà e alla universalità dei bisogni e dei commerci, sempre più aderente alla rinnovantesi struttura sociale: l'augusta e severa architettura del diritto quiritario non è infranta, ma innumerevoli principî nuovi come eccezioni, complementi, adattamenti, sviluppi, si pongono accanto ai vetusti principî del diritto quiritario sì da formare un nuovo sistema, profondamente diverso nel suo spirito, assai più ampio nel suo respiro. Molto agevolarono il meraviglioso cammino i diritti dei popoli civili intorno al bacino del Mediterraneo; ma propulsori e coordinatori del movimento furono: il pretore, la giurisprudenza (specie la giurisprudenza classica dall'età di Augusto a quella dei Severi), gl'imperatori.

Il terzo periodo va dalla fine del sec. III alla compilazione di Giustiniano. Quando questo periodo si apre, il diritto romano già da quasi un secolo si applica in territorio in gran parte nuovo, e a popoli in gran parte diversi da quelli ove era nato e cresciuto; e specialmente fra popoli delle provincie orientali, i meno romanizzati dell'impero, incontra resistenze vivaci, che il potere centrale non riesce più a dominare e quasi asseconda. II centro legislativo - precipuo, prima; unico, poi - è la nuova capitale sul Bosforo nel mezzo della civiltà ellenica: la sede più disadatta per continuare quella intransigente difesa del romanesimo, così gagliarda ancora nella fierezza dei rescritti dioclezianei. È il periodo dell'urto tra i diritti locali delle provincie e il diritto ufficiale dell'impero, e del vittorioso sopravvento, assai spesso, dei primi; di una vasta trasformazione negl'istituti e nelle norme giuridiche derivante da altre molteplici cause, quali l'influenza ardente del cristianesimo sulla vita dei singoli e dello stato; l'invincibile forza delle correnti spirituali e dottrinali greco-bizantine, che investono pur le scuole di diritto; le inevitabili ripercussioni dei nuovi ordinamenti politici e del nuovo ambiente economico-sociale. Si elabora in questo periodo, che è periodo di fermentazione - anche giuridica - intensa, un nuovo sistema: il sistema del diritto postclassico, o, come si suole anche chiamare, il sistema del diritto romano-ellenico: sia perché l'apporto dell'Oriente greco fu, nella dottrina e nella pratica, più ampio di quello dell'Occidente; sia perché questo complesso di nuovi elementi penetrò, in larga parte almeno nella compilazione giustinianea che conchiude il periodo, e viene posta così in evidenza e più precisamente determinata l'origine ellenistica di quegli elementi che si aggiungono e s'innestano sul vigoroso tronco del diritto romano in questa compilazione. Caratterizzano il terzo periodo epitomi delle opere della giurisprudenza classica: collezioni di testi dei giureconsulti e di costituzioni imperiali, suggerite dai bisogni della pratica; gli ampliamenti di quelle raccolte private di costituzioni imperiali che vanno sotto il nome di Codex Gregorianus e di Codex Hermogenianus, redatte sulla fine del sec. III; la raccolta ufficiale delle costituzioni imperiali ordinata da Teodosio II (Codex Theodosianus). Ma niente, forse, maggiormente esprime il naturale disorientamento e il grande travaglio della prassi in questo periodo e, insieme, lo sforzo di uscirne in qualche modo fuori; niente, forse, più colorisce quest'epoca, in cui il diritto delle costituzioni dei primi tre secoli e della giurisprudenza classica è in cospicua parte ormai superato - mentre, all'incontro, i nuovi principî d'origine provinciale si vanno sempre più affermando e dilatando -, come quella costituzione di Teodosio II e di Valentiniano III dell'anno 426, che si suole chiamare legge delle citazioni, con la quale si attribuiva valore legislativo alle opere di cinque giureconsulti, cioè quattro dell'epoca dei Severi (Papiniano, i suoi discepoli Paolo e Ulpiano, Modestino discepolo di quest'ultimo) e Gaio dell'epoca degli Antonini, nonché ai pareri dei più antichi giuristi citati da loro quando si potessero confrontare gli originali. Erano, queste, le opere che, o per il loro carattere prevalentemente istituzionale, o per l'espressione ultima del pensiero classico che esse racchiudevano, erano state più largamente studiate, commentate, chiosate, nelle scuole postclassiche in uno spazio di tempo più che secolare: cosicché additare ai giudici le opere di questi giuristi per applicare il diritto, voleva significare additare ad essi proprio quelle opere in cui, attorno al testo classico, sotto la forma di glosse o di scolî, non raramente anche dentro lo stesso testo classico mutato, i nuovi principî erano riusciti a collocarsi e a inserirsi: quelle opere, insomma, in cui il diritto nuovo era riuscito, se non a fondersi, almeno a mescolarsi imperfettamente col diritto classico.

Pertanto, quando noi ci riferiamo al diritto romano pregiustinianeo, sappiamo di riferirci a tre sistemi profondamente diversi: espressioni di tre epoche storicamente differenziate tra loro. Dobbiamo soltanto soggiungere che, mentre nelle due prime il sistema giuridico - sia quello del diritto quiritario, sia quello del diritto romano universale - è tipicamente romano, in quanto che anche il secondo diede a tutto ciò che assorbì da altre civiltà, specialmente la greca, alle norme e agl'istituti che importò dagli altri popoli viventi intorno al bacino del Mediterraneo, veste romana e spirito romano, nella terza epoca invece, sia per la molteplicità degli elementi nuovi e contrastanti, sia per il venir meno di quella potenza intellettuale e di quella specifica attitudine a coltivare la scienza del diritto che era propria della giurisprudenza romana, sia soprattutto e insomma per il declinare fatale della romanità, non vi fu tra le norme antiche e le recenti fusione vera, ma soltanto mescolanza incomposta, anche se le posteriori innovazioni furono, non raramente, veri sostanziali progressi. Per modo che il sistema non riuscì omogeneo. E questo difetto del sistema romano-ellenico è il difetto che permane, anzi si accentua, nel sistema del diritto romano giustinianeo.

Altre partizioni storiche del diritto romano sono pur da ricordare. S. Di Marzo (Corso di storia del diritto romano, Roma 1913) distingue quattro epoche: dell'età regia (754-509 a. C.); dell'età repubblicana (509-28 a. C.); del principato (28 a. C.-284 d. C.); della monarchia assoluta (284-565 d. C.). Contro questa partizione è da osservare che i periodi, che rappresentano le fasi dello svolgimento politico e del diritto pubblico romano, non coincidono sempre esattamente con quelli che meglio rappresentano lo svolgimento del diritto privato e le sue cause. G. Cornil (Ancien droit romain, Bruxelles-Parigi 1930), distingue tre periodi: diritto nazionale (754-350 a. C.); diritto classico (350 a. C.-300 d. C.); diritto bizantino (300-565 d. C.). Questa partizione anticipa troppo la fine del periodo del diritto nazionale (ius Quiritium), quantunque non si possa negare che anche prima del 150 a. C. lo ius gentium sviluppò la sua influenza modificatrice e integratrice; classifica peraltro esattamente il periodo dal 300 al 565 d. C. come un periodo nel quale "les principales transformations du droit romain sont dues désormais à l'influence du christianisme et de l'hellénisme". S. Perozzi (Istituzioni di diritto romano, I, 38, R0ma 1928), distingue due periodi, l'uno dal 754 a. C. al 250 d. C., l'altro dal 250 al 565 d. C.: "caratterizzati l'uno dal dominio della civitas sull'orbe, l'altro dal suo assorbimento nell'orbe". Questa classificazione giova a mettere in evidenza lo spirito romano che opera nella formazione del diritto romano universale; ma, d'altra parte, sommerge la distinzione, pur così importante, tra diritto quiritario e diritto classico. Una bipartizione, movendo da un punto di partenza opposto e naturalmente fissando termini diversi, fa S. Riccobono (Annali della università di Palermo, 1929, p. 645): egli distingue un periodo che va dalle XII Tavole al sec. VII di Roma, cioè al 150 circa a. C., in cui ebbe vigore il diritto dei Quiriti: "diritto rozzo, formalistico, rigoroso, corrispondente alle condizioni primitive della comunità romana", e un periodo che va dal principio del sec. VII fino a Giustiniano "in cui si vien formando il nuovo diritto, tutto ispirato ai principî dell'equità, con la più decisa tendenza alla libertà di forme, complesso nei suoi elementi tecnici e strutturali, ricco di ordinamenti e di mezzi e con caratteri ed elementi di universalità". È la distinzione che più si allontana da qualunque altra, in quanto che il Riccobono pensa che il diritto romano nell'età postclassica, da Costantino a Giustiniano, non si sarebbe anche sostanzialmente innovato, ma si sarebbe soltanto semplificato da se stesso nella pratica dei tribunali, mediante la fusione di tutti gli ordinamenti classici in un unico ordine giuridico".

FONTI. - 1. Fonti del diritto romano pregiustinianeo. - L'indagine comparativa ci rivela che tutti i popoli della terra hanno cominciato col reggersi mediante usi praticati con la convinzione della loro obbligatorietà: espressione immediata e spontanea della coscienza giuridica dei popoli stessi. Non diversamente avvenne per il popolo romano: la tradizione ci attesta che il fondo delle norme vigenti nell'epoca regia era costituito dai mores maiorum, cioè dalle consuetudini che i consorzî gentilizî, venuti a fondersi nella città (nell'ipotesi che se ne ammetta la preesistenza), avevano portato con sé dalla vita precittadina o avevano formato nella vita cittadina: così Pomponio (Dig., I, 2, de orig. iur., 2, 1) ricorda che "initio civitatis populus sine lege certa primum agere instituit". Accanto a questo fondo di diritto consuetudinario la tradizione asserisce che esistessero leges regiae: ma, o si tratta d'istituti la cui origine è attribuita ai re, perché non se ne sanno indicare le origini, mentre sono il prodotto d'uno svolgimento storico; o si tratta di disposizioni di diritto sacro di età diverse: che poi le cosiddette leges regiae fossero raccolte in una collezione designata come ius civile Papirianum è un'invenzione di Pomponio (Dig., I, 2, de orig. iur., 2, 2).

A circa tre secoli dalla fondazione della città, e precisamente negli anni 451 e 450 a. C., cade, secondo la tradizione, la legge delle XII Tavole. Gli antichi la esaltano come una codificazione generale e completa del diritto pubblico e privato romano: Livio (III, 34) la designa come il "fons omnis publici privati que iuris" e Cicerone (De orat., I, 43) afferma che essa abbraccia "totam civilem scientiam". Codificazione generale è certamente, perché riguarda il processo e il diritto pubblico, il diritto penale e il diritto sacro, il diritto privato nei suoi diversi campi: ma non codificazione completa e organica. Soltanto il processo è regolato da una serie di norme fra loro concatenate; nel resto, gl'istituti fondamentali sono presupposti e la legge si limita a darci disposizioni particolari sull'uno o sull'altro di essi. Nell'epoca repubblicana, fonte di diritto è la lex, statuizione che emana direttamente o indirettamente dal popolo e s'impone alla sua osservanza: detta lex publica, per distinguerla da quelle statuizioni emananti da persone private che sono obbligatorie per altri soggetti (lex collegii, lex venditionis, lex locationis, ecc.). La lex è rogata o lata, se votata dai comizî rogante magistratu; è data, se non è votata dai comizî direttamente, ma emanata dal senato o da un magistrato dietro autorizzazione del popolo: con leges datae si provvide all'ordinamento dei municipî e delle colonie, e alla organizzazione delle provincie. A vincolare tutto il popolo via via mirarono anche le deliberazioni dei concilî plebei (concilia plebis tributa): l'epoca della parificazione del plebiscitum alla lex non può essere determinata con precisione. La tradizione l'attribuisce a tre leggi successive (Valeria Orazia, del 449 a. C.; Publilia del 339, a più di un secolo di distanza; Ortensia del 289): storicamente certa è solo quest'ultima. La lex regolò prevalentemente materie di diritto pubblico, penale e processuale: nel periodo di cinque secoli, che va dalla legge delle XII Tavole alla fine della repubblica, le leggi di diritto privato furono scarsissime (una trentina, secondo G. Rotondi), saltuarie, inorganiche; e si possono ritenere, tutte, plebisciti. La lex non si applica che ai cittadini romani, sia che risiedano in Italia, sia che risiedano nelle provincie: agli alleati e ai peregrini Roma riconobbe un diritto nazionale proprio; e soltanto eccezionalmente estese ad essi le sue leges: nelle città alleate valevano soltanto quando queste avessero espressamente dichiarato di accettarle. La massa delle leggi repubblicane ci è nota soltanto per il nome e per il contenuto riferito dagli scrittori giuridici e letterarî: più spesso il contenuto è indicato, in tutto o in parte, con termini non testuali; talvolta abbiamo relazioni frammentarie del dettato preciso: alcuni pochi frammenti di leggi della repubblica, sia latae sia datae, ci sono pervenuti nelle iscrizioni. (Il più completo elenco delle leggi votate dai comizî e dai concilî plebei, dalle origini fino allo spegnersi della loro attività legislativa, ordinate cronologicamente, è quello redatto nel 1912 da G. Rotondi, v. Comitialis lex, in Enciclopedia giuridica italiana).

Per lungo tempo base dello ius civile, cioè dello ius Quiritium, rimasero i mores maiorum e la legge delle XII Tavole. A interpretare e a svolgere questo nucleo giuridico fondamentale sino al 304 a. C. provvide il collegio dei pontefici. La più antica giurisprudenza romana è esclusivamente giurisprudenza pontificale ("Omnium tamen harum [XII tabularum] et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant": Dig., I, 2, de orig. iur., 2, 6); e ha carattere integrativo nel campo del diritto processuale, carattere evolutivo nel campo del diritto sostanziale: dai giuristi posteriori è detta interpretatio o communi nomine ius civile. Si laicizzò quando Gneo Navio riuscì a pubblicare il calendario e i formularî delle legis actiones. Ma, accanto agli iuris prudentes laici, concorsero a promuovere l'evoluzione del diritto anche i pretori.

Il passaggio dalla giurisprudenza pontificale alla giurisprudcnza laica segnò un continuo sviluppo, anche se soltanto agl'inizî del primo secolo a. C. il tono della giurisprudenza si eleva e comincia lo studio scientifico del diritto. Dalla attività pratica, consistente nel cavere, nell'agere, nel respondere, si svolge la prima forma rudimentale di attività letteraria, con collezioni di cautiones, di responsa, di regulae: si svolge anche l'attività didattica. I due maggiori giuristi repubblicani, Q. Mucio Scevola e S. Sulpicio Rufo, sono già indicati come capi di due scuole frequentatissime. L'influenza della giurisprudenza sullo svolgimento del diritto, già notevole nel periodo repubblicano, tocca la sua massima altezza nel periodo del principato da Augusto ai Severi, sia perché si affinò la scienza del diritto; sia perché, concesso da Augusto e dagl'imperatori successivi a molti giuristi il privilegio di dare responsa ex auctoritate principis, la loro attività consultiva assunse una veste ufficiale. Dalla efficacia e autorità dei responsi emessi sul caso concreto, che nell'età augustea era forse di mero fatto, si passò all'efficacia legislativa, nell'età adrianea, sia dei responsa, sia delle sententiae e delle opiniones in genere, purché concordi, dei giuristi patentati. Recenti scrittori, filologi e giuristi (J. Stroux, S. Riccobono, B. Ḱuebler, G. La Pira) hanno sostenuto esservi stata una preponderante influenza delle scuole greche di filosofia e di retorica sulla giurisprudenza romana, nel momento in cui tutte le manifestazioni della vita di Roma (costumi, letteratura, arte, filosofia) risentivano l'influenza della cultura greca. È stato, peraltro, osservato (P. Bonfante, C. Longo, E. Albertario) che vi ha in questa affermazione una indubbia esagerazione. Da influenze greche la giurisprudenza romana restò sostanzialmente immune, anche se la filosofia greca può avere contribuito alla formazione dei genera di Quinto Mucio e la retorica greca può avere contribuito a perfezionare il procedimento logico della interpretatio; è sempre vera l'osservazione del Leibniz (Opera omnia, ed. Lud. Dutens IV, p. 257): " [Romani] ab his [Graecis] philosophiam, medicinam, studia mathem. mutuo sumpserunt... in una iurisprudentia regnant". Il genio politico - che è caratteristica originale del popolo romano - si manifestò anche in quel campo, che costituisce una delle pietre angolari di ogni organizzazione politica: il campo dell'ordinamento giuridico e della elaborazione delle sue norme. Nel periodo del principato passano in seconda linea il cavere e l'agere; si esalta l'attività letteraria (opere elementari: institutiones, enchiridia, definitiones, regulae; commenti al diritto pretorio: libri ad edictum; commenti al diritto civile: libri ex Q. Mucio o ad Sabinum; opere di vasto piano come i digesta; collezioni di decisioni di casi pratici: responsa, quaestiones, disputationes; notae ad opere di giureconsulti antecedenti; monografie su leggi speciali, su senatoconsulti o singoli istituti), e cresce d'importanza l'attività didattica: da Augusto a Marco Aurelio tengono il campo le due scuole dei sabiniani e dei proculeiani. Sarebbe errore ritenere che tutti i giuristi meritino la lode del Leibniz: "sommi geometri del diritto" l'uno pari all'altro. La critica moderna distingue gli spiriti veramente creatori, come Labeone e Giuliano, le menti costruttive come Quinto Mucio e Sabino, il genio libero e pur meditativo di Papiniano, il carattere didascalico di Pomponio e di Gaio, il ragionamento pratico e sobrio di Scevola, l'indirizzo concettualistico di Paolo, la facile prosa di Ulpiano, in cui è pur tanto equilibrio di pensiero. Uguali nel sentire la funzione pratica della loro missione anche a discapito della perfezione teorica formale delle dottrine e del sistema; uguali nel non smarrirsi dietro concezioni astratte del diritto e dietro postulati di giustizia assoluta, i giuristi classici sono tuttavia inconfondibili fra loro.

Il compito di mettere in armonia il diritto con le mutate condizioni sociali, derivanti dall'espansione di Roma fuori della penisola italiana e dalla nuova economia mercantile e capitalistica fu assunto, oltre che dalla giurisprudenza da quel magistrato che aveva per competenza specifica l'amministrazione della giustizia civile: il pretore. Si viene costruendo mediante l'edictum praetorium un corpo di norme giuridiche nuove, non nel senso formale (praetor ius facere non potest), ma nel senso materiale (perciò prendono il nome di ius praetorium o honorarium), adiuvandi, supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia. Se è preclusa la possibilità di iniziative innovatrici, per quanto concerne almeno la protezione dei rapporti tra cittadini romani, finché dura il sistema processuale delle legis actiones, l'attività del pretore è immensa quando s'introduce il nuovo sistema processuale per formulas dalla lex Aebutia: lex di data incerta, ma probabilmente compresa tra il 149 e il 120 a. C. Mezzi tecnici della sua attività sona: a) la denegatio actionis e b) l'exceptio, ancorché una pretesa sia fondata sullo ius civile; c) la concessione di nuovi tipi di azioni, che sono actiones o, meglio, formulae ficticiae; actiones o, meglio, formulae con trasposizione di soggetti; actiones utiles; actiones o, meglio, formulae in factum; d) una serie di rimedî fondati sull'imperium, indipendentemente da un vero processo: cioè, stipulationes honorariae o praetoriae o cautionales; missiones in possessionem; interdicta; restitutiones in integrum.

Come fons iuris, l'editto del pretore riunisce in sé i pregi della legge e della consuetudine: la precisione e la riflessione dell'una, l'elasticilà e la mobilità dell'altra; anche se, dato il modo, quasi alluvionale, col quale si andò nei secoli formando, non presenta un sistema perfettamente logico e armonico. L'attività del pretore gradatamente inaridisce durante il principato, quando la effettiva direzione del movimento giuridico passa nel senato e nel principe e cessa quando Adriano, secondo le notizie forniteci da Giustiniano, incaricò verso il 130 il giurista Salvio Giuliano di fissare definitivamente il testo dell'edictum che ora è detto perpetuum, non già, come prima, perché non poteva essere mutato dal pretore durante l'anno della carica, bensì perché aveva ormai assunto l'immobilità di una legge.

Nell'ultimo secolo della repubblica e nella prima epoca del principato è anche notevole l'intervento del senato nello svolgimento del diritto: intervento, dapprima, soltanto indiretto (facoltà di estendere o restringere la portata delle leggi con la propria interpretazione; di cassare le leggi viziose per difetto di forma e di sostanza e di dispensare dall'osservanza delle leggi senza chiedere la ratifica dei comizî); poi, con la instaurazione del principato, diretto (ingiunzione ai pretori di accogliere nell'editto le norme da esso sancite; esercizio di vero e proprio potere legislativo nel senso di modificare lo ius civile esistente e d'introdurre nuove norme iuris civilis). L'iniziativa del senato si ridusse a lettera morta, quando l'oratio del principe, in base alla quale il senato deliberava, divenne la cosa principale e il senatoconsulto, che l'accoglieva, finì con essere un'aggiunta di mera forma, tanto che l'oratio principis, e non il senatoconsulto, veniva commentata e considerata come la vera fonte delle norme.

L'organo che, accanto al senato e - come si è detto - ben presto invece del senato, sostituisce l'attività comiziale e l'attività pretoria, nella prima età imperiale inariditesi, è il principe. Questi non si limitò a provocare la votazione di leggi comiziali e di senatoconsulti, ad emanare leges datae, ma emise anche ordinanze e decisioni proprie, da Adriano in poi chiamate col generico nome di constitutiones principum e che sono o edicta o mandata o decreta o rescripta o epistulae e la loro efficacia si accrebbe via via nel tempo, quando edicta e mandata non vennero più meno con la morte del principe e acquistarono carattere di norme permanenti, e decreta e rescripta assunsero forza obbligatoria, indipendentemente dalla questione a cui si riferivano. Così, nel periodo del principato, come il senatoconsulto, le constitutiones principum non sono formalmente leges, ma vicem legis optinent e sono fonte di ius civile.

Questa molteplicità, apparentemente tumultuaria, delle fonti del diritto, per cui sostanzialmente, se non formalmente, legiferano il pretore e il giureconsulto, l'imperatore e il senato, non turba l'unitario e lineare sviluppo del diritto romano: in fondo, la grande forza di propulsione del movimento si irradia sempre dal giureconsulto, sia direttamente con la sua interpretatio e con i suoi responsa, sia indirettamente per il fatto che il pretore è un giurista o è assistito da giuristi, e giuristi primeggiano nel senato e orientano la cancelleria imperiale.

Consolidatasi la monarchia assoluta con l'imperatore Costantino, unica fonte attiva di diritto, conformemente all'ordinamento autocratico, rimane la volontà dell'imperatore. E questa concentrazione nell'imperatore della podestà legislativa si rispecchia anche nella terminologia: la costituzione imperiale assume ora il titolo di lex, che prima spettava alla sola norma votata dai comizî e che nei testi classici, soltanto se interpolati, è attribuita a fonti diverse dalla lex comitialis. La divisione dell'impero in due parti non significò in linea di principio la fine della sua unità: per ciò, le costituzioni emanate in una pars imperii dovevano valere anche nell'altra e portavano il nome dei due imperatori. Ma, successivamente, le cose cambiarono; e nel 429 Teodosio II dispose che le leggi emanate da uno degli imperatori non avessero valore nel territorio del collega se non quando fossero inviate a lui con una pragmatica sanctio e da lui accettate. Dopo di allora si ebbero invii di leggi dall'Oriente all'Occidente (oltre il Codice Teodosiano, ne inviarono Teodosio II, poi Marciano e Leone I), mentre non si ha traccia di invii dall'occidente all'Oriente.

2. Fonti conservate del diritto romano pregiustinianeo. - Poco ci è stato epigraficamente conservato di leges e di senatusconsulta dell'età repubblicana. Tra le leges rogatae sono da ricordare: 1. leges (Osca et Latina) tabulae Bantinae; 2. lex de praedonibus coercendis; 3. lex Acilia (o Servilia) repetundarum; 4. lex agraria; 5. lex Cornelia de XX quaestoribus; 6. lex Antonia de Termessibus; 7. lex quae dicitur Rubria de Gallia Cisalpina. Tra le leges datae sono da ricordare:1. lex municipalis Tarentina; 2. lex Pompeia de civitate equitibus Hispanis danda; 3. lex coloniae Genetivae Iuliae seu Ursonensis. Tra i senatusconsulta: 1. Sc. de Baccanalibus; 2. Scc. de Thisbaeis; 3. Sc. (et epistula) de Oropiis. E poco ci è stato conservato di leges, senatusconsulta, constitutiones principum dell'età del principato in iscrizioni e papiri. Delle leges rogatae, la lex Quinctia de aquaeductibus; delle leges datae et dictae la lex Salpensana e la lex Malacitana, le leges metalli Vipascensis, la lex de Villae Magnae colonis; dei senatusconsulta, i Scc. de ludis saecularibus, il Sc. Calvisianum de pecuniis, i Scc. Hosidianum et Volusianum de aedificiis non diruendis; delle orationes principum, l'oratio Claudi de iure honorum Gallis dando, l'oratio Claudi de decuriis iudicum et de accusatoribus coercendis; delle constitutiones principum, l'edictum Augusti de aquaeductu Venefrano, l'edictum Augusti ad Cyrenenses, l'edictum Claudi de civitate Anaunanorum, l'edictum Neronis (?) de temporibus appellationum, l'edictum incerti principis de sepulchris violatis, la forma idiologi (γνώμον τοῦ ἰδίου λόγου), il rescriptum Commodi de saltu Burunitano, i rescripta Severi et Caracallae de praescriptione longi temporis, la constitutio Antoniniana de civitate peregrinis danda.

Poco pur ci giunse, fuori del tramite giustinianeo, dell'opera gigantesca della giurisprudenza romana. In stato quasi integro, con pochi glossemi e poche interpolazioni, ci giunsero le institutiones di Gaio. Gravemente sospette di libera rielaborazione postclassica ci pervennero le sententiae, o receptae sententiae, che vanno sotto il nome di Paolo (G. Beseler, G. Rotondi e altri), e non hanno forma classica né sempre hanno contenuto classico (E. Albertario, F. Schulz) i cosiddetti tituli ex corpore Ulpiani. D. una compilazione a catena, redatta da un privato studioso di Occidente tra la fine del IV e il principio del V secolo d. C. ci è pervenuto un gruppo di 341 frammenti, quasi tutti giurisprudenziali, in un codice della Biblioteca Vaticana scoperto nel 1820 da Angelo Mai (fragmenta iuris romani vaticana): in essi non mancano interpolazioni frequenti introdotte dal compilatore o da altri prima di lui (E. Albertario, G. Beseler, S. Solazzi). Molto più povera è la serie di testi della giurisprudenza, non immuni anch'essi da interpolazioni (E. Albertario, F. Schulz e altri), raccolti nella cosiddetta lex Dei, sive Mosaicarum et Romanarum legum collatio e nella consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, pubblicata dal Cuiacio nel 1577 su un manoscritto oggi smarrito. All'infuori di queste opere della giurisprudenza romana, ci rimasero tenui frammenti leggibili talvolta in piccola parte; ricordiamo fra i principali: alcuni frammenti delle institutiones di Ulpiano; tre passi di disputationes dello stesso scrittore; il fragmentum de formula Fabiana, anch'esso con elementi spurî (E. Albertario); frammenti dei responsa di Papiniano; i fragmenta de iure fisci; il cosiddetto fragmentum Dositheanum; un tractatus de gradibus cognationum; tre brevi frammenti pergamenacei con l'indicazione de iudiciis (libri II). Segnaliamo poi i fragmenta interpretationis Gai Augustodunensia, modesto commento postclassico a singoli tratti delle institutiones di Gaio, riprodotti letteralmente, fatto in Occidente, ma ispirato a dottrine della scienza giuridica romano-ellenica (P. Bonfante, E. Albertario); gli scholia Sinaitica, noterelle ai libri di Ulpiano ad Sabinum parzialmente pervenuteci e attestanti l'interpolazione di questi libri (S. Riccobono, E. Albertario). Espressione della mediocre dottrina dell'Occcidente postclassico è l'Epitome Gai.

Indipendentemente dalla compilazione giustinianea, ci giunse buon numero di costituzioni imperiali. Il numero sempre crescente di queste e la difficoltà di conoscerle fecero sì che, specialmente quando venne meno la giurisprudenza che le accoglieva nelle proprie opere, si sentisse la necessità di collezioni che per uso della pratica e dell'insegnamento raccogliessero in ordine sistematico le costituzioni disperse. A tale esigenza si provvide già sulla fine del sec. III per iniziativa privata; soltanto nel sec. V il compito venne assunto dallo stato. Le raccolte principali sono: il codex Gregorianus, il codex Hermogenianus, il codex Theodosianus. Il Gregoriano e l'Ermogeniano non sono pervenuti fino a noi; ma da essi furono attinte varie costituzioni riprodotte nella collatio legum mosaicarum et romanarum, nei fragmenta vaticana, nella consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, nelle leggi romano-barbariche: del Teodosiano, che specialmente in Occidente ebbe lungo vigore, sono rimasti, per quanto non completi, manoscritti numerosi, e una parte notevole fu rifusa nella lex romana Visigothorum (v. GERMANICI, POPOLI: Diritto).

Ricordiamo infine due compilazioni postclassiche di diritto romano provenienti dall'Oriente, il breve trattatello greco De actionibus, contenente rapidissime definizioni dei fini e della struttura delle azioni di uso più comune, e la compilazione che va sotto il nome di δικαιώματα, o Leges Constantini Theodosii Leonis, e sotto il nome moderno e più improprio di Libro di diritto siro-romano: le versioni siriache sono tratte da un testo greco del sec. V, elaborazione didattica mediocre dell'antico ius civile e di quello risultante dalle più recenti costituzioni.

3. Fonti del diritto romano giustinianeo. - Sono le quattro grandi collezioni: Institutiones (30 dicembre 533), Digesta o Pandectae (30 dicembre 533), Codex repetitae praelectionis (29 dicembre 534), Novellae (constitutiones: dal 535 al 565). Queste collezioni, dal sec. XIII in poi, sono indicate col nome di Corpus iuris e per distinguerle dall'analoga collezione del diritto canonico, detto Corpus iuris canonici, sono indicate col nome di Corpus iuris civilis (sul loro modo di formazione e sul loro contenuto, v. GIUSTINIANO: Legislazione giustinianea; sugli adattamenti dei testi romani alla nuova realtà sociale e sulle loro frequenti alterazioni, v. INTERPOLAZIONE: Diritto). La compilazione giustinianea, compilazione di diritto romano, ma fatta nell'Oriente e da un principe cattolico, si illumina attraverso le fonti bizantine dell'età attorno alla compilazione stessa o anche successiva. La conoscenza di queste fonti (v. BIZANTINA, CIVILTÀ: Diritto) è utile: a) perché ivi appaiono campeggianti le dottrine che nella compilazione giustinianea affiorano appena in rari testi interpolati; b) perché ci attestano talvolta (Taleleo) l'avvenuta interpolazione di costituzioni imperiali; c) perché ci conservano altra volta il testo genuino senza tener conto del testo interpolato della compilazione.

Letteratura romana non giuridica e patristica. - Non scarsa importanza ha per la conoscenza del diritto romano la letteratura romana non giuridica, ed è stato lodevole proposito quello di raccogliere i riferimenti al diritto che in essa si incontrano, nelle commedie di Plauto e di Terenzio (quando non derivano dagli originali greci), nelle opere di Cicerone, ecc. Ma a questo riguardo, è anche opportuno non dimenticare che invano si pretenderebbe di trovare negli scrittori non giuristi quel tecnicismo che dei giuristi romani è proprio. Per fare un solo esempio, quando Cicerone scrive (Pro Caec., 3, 7): "qui per tutelam aut societatem aut fiduciae rationem fraudavit quempiam, in eo quo delictum maius est, eo poena est tardior", adopera il termine delictum in un senso che non è certo quello della giurisprudenza classica, che conosce quattro soli delicta, di cui non è elemento costitutivo necessario il dolo. In secondo luogo, per quanto possa all'interprete superficiale sembrare paradossale, vi è non raramente più consonanza della letteratura romana non giuridica con le costituzioni di Giustiniano o degli altri principi cristiani, che non tra retori e filosofi romani da un lato, e giuristi romani dall'altro. Così Cicerone ammonisce: "soli enim ratione utentes (cioè tutti gli uomini, liberi e schiavi) iure ac lege vivunt", e testi notoriamente interpolati riconoscono allo schiavo una capacità giuridica imperfetta, nel campo dello ius civile, e intera, nel campo dello ius naturale. Ma il giurista classico non esita a dire che nel campo dello ius lo schiavo pro nullo habetur o che communionem iuris non habet. L'amore degli uomini (la propensio ad diligendos homines), è secondo Cicerone fundamentum iuris, ed è questo amore degli uomini che fa assegnare dai Giustinianei alla giurisprudenza come sua missione non soltanto il discernere ciò che è lecito da ciò che è illecito, ma anche il desiderare di rendere gli uomini buoni: "bonos non solum metu poenarum verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes" (queste parole sono interpolate in Dig., I, 1, de iust. et iur., 1, 1). Ma il diritto, secondo la giurisprudenza romana, è ispirato, anziché all'amore per gli uomini, alla loro utilitas. Cicerone, finalmente, sprona al risarcimento del danno qualunque esso sia, anche non giuridico, scrivendo: "ius autem, quod ita dici appellarique possit, id esse natura, alienumque esse a sapiente non modo iniuriam cui facere, verum etiam nocere". Precisamente come insegnano i Giustinianei in un notissimo testo interpolato (Dig., XII, 6, de cond. ind., 14): "natura aequum est neminem cum alterius detrimento fieri locupletiorem". Noi, peraltro, sappiamo per certo che il giurista Pomponio, diversamente dai Giustinianei, reputava equo che nessuno cum alterius detrimento et iniuria diventasse più ricco: poneva, cioè, come presupposto del risarcimento del danno che esso fosse stato arrecato iniuria; che fosse, insomma, un danno giuridico. Come da questi e da altri moltissimi esempî emerge, è possibile sorprendere una concordanza impressionante, a distanza di secoli, tra Cicerone da un lato e gl'imperatori postclassici e i commissarî giustinianei dall'altro: invece, è visibile una discordanza, si direbbe violenta, tra Cicerone da un lato e la giurisprudenza romana dall'altro. Il fenomeno, apparentemente assai singolare, ha la sua spiegazione semplice e chiara. Nel mondo latino classico, ordine etico e ordine giuridico non tendono a confondersi in un ordine solo; nel mondo romano ellenico e nella legislazione dei principi cristiani, la norma etico-religiosa tende a tradursi in norma anche giuridica: lo sforzo del legislatote mira a far sì che l'etica diventi tutta quanta diritto, in modo che la coazione esterna intervenga tutte le volte sicura, quando una inosservanza dell'etica vi sia. Gli è perciò che nelle fonti giuridiche alterate o postclassiche e nelle costituzioni giustinianee incontriamo i richiami alla benevolentia, alla benignitas, alla caritas, alla clementia, alla humanitas, alla pietas, che troviamo a Roma nelle opere della retorica e della filosofia, ma non nelle opere della giurisprudenza; queste virtù, additate dall'etica, sono diventate motivo legislativo.

E anche sotto l'aspetto formale, per quanto anche qui possa sembrare paradossale, vi sono affinità di lingua e di stile tra i compilatori giustinianei e gli scrittori latini non giuristi, che invano si cercherebbero tra questi ultimi e i giureconsulti: affinità, che non debbono pertanto costituire motivo di esitazione per il ricercatore di interpolazioni nelle fonti giustinianee.

Sullo sviluppo postclassico del diritto romano l'influenza del cristianesimo è stata immensa; assai utile, pertanto, è la conoscenza delle opere dei Padri della Chiesa per poterla determinare in tutta la sua ampiezza. Dal principio del sec. IV il diritto romano si svolgeva in un ambiente sociale dove fermentava, calda di passione e splendente di campi, la nuova vita spirituale. La qualifica delle seconde nozze come speciosum adulterium o honesta fornicatio, che s'incontra nelle opere dei Padri, si riflette nelle espressioni e nei provvedimenti legislativi concernenti le seconde nozze; l'ammonimento, fatto da S. Ambrogio ai contraenti, di non ingannarsi vicendevolmente, si riflette nello spirito della legislazione giustinianea che esige un equilibrio tra prestazione e controprestazione; il rimprovero di S. Agostino a chi vuol comperare un immobile a meno della metà del suo valore, si traduce nel precetto giustinianeo della rescissione della compravendita immobiliare per lesione enorme, cioè per non avere avuto neppure la metà del iustum pretium. Gli esempî si potrebbero moltiplicare.

SCIENZE AUSILIARIE. - Sono scienze ausiliarie del diritto romano l'epigrafia, la papirologia, il diritto comparato.

1. Epigrafia. - Già si è detto che epigrafi ci conservano testi di leges, di senatusconsulta, di constitutiones principum. Ma, attraverso il materiale epigrafico, si possono anche non raramente delineare in modo perspicuo alcuni istituti. La pollicitatio, ad esempio, cioè la promessa fatta dal cittadino alla res publica di un opus o di pecunia, è istituto che nelle iscrizioni ci appare ben distinto nelle sue due specie di pollicitatio ob honorem e non ob honorem, anziché nelle due specie pollicitatio ob iustam causam e sine causa che ci presentano le fonti giustinianee; la distinzione tra sepulchra familiaria e sepulchra hereditaria, certamente non originaria, splende nelle epigrafi che ammettono o escludono dal sepolcro l'erede, cioè l'erede estraneo: hoc monumentum heredem (o heredem exterum) non sequetur; iscrizíoni numerose ci parlano delle multe sepolcrali.

2. Papirologia. - Un nuova miniera di fonti per la storia del diritto comparato si ha nei papiri, negli ostraca, nelle pergamene, nelle scritture su cuoio, tela, legno, ecc., che si sono scoperte o si vanno scoprendo in Egitto. È sorta così la papirologia giuridica. Interesse diretto offrono i papiri, ormai numerosi, i quali ci conservano leggi, o editti, o altri atti romani, e applicano diritto romano. Ma non meno importante, sia pure indirettamente, è la serie dei papiri che applicano diritto greco, giacché essi ci illuminano sulla vera influenza esercitata dal diritto greco rispetto al diritto romano, sulle interferenze, sulla fusione e confusione dei due diritti nella crisi dell'epoca romano-ellenica. Anche prima della costituzione antoniniana il diritto locale agì come elemento modificatore del diritto romano, applicato dai Romani in Egitto. Basterà richiamare i negozî proprî del diritto ellenistico e in uso fra i Romani: ὑπάλλαγμα, finta singrafe, deposito irregolare, quitanza avente valore dispositivo. Ma il diritto locale operò più vastamente e più profondamente in seguito, specialmente a partire dagl'inizî del sec. IV. L'evoluzione o l'involuzione degl'istituti fondamentali del Corpus iuris è stata definitivamente rischiarata, o anche per la prima volta illuminata, dai papiri: così la degenerazione della traditio e della stipulatio, la longi temporis praescriptio, il regime delle ipoteche legali, il regime dotale e la donatio propter nuptias, ecc. La vittoria degli usi locali si afferma talvolta con le Novelle di Giustiniano, come accade per la trasformazione della solidarietà romana nella mutua fideiussione.

3. Diritto comparato. - Lo studio di altri diritti è di indubitabile giovamento anche per la conoscenza del diritto romano, quando non sia uno studio preconcetto e l'indagine esplorativa sappia di muoversi su un terreno molto insidioso.

L'idea di una sostanziale affinità delle istituzioni greco-romane, germogliata dalla tradizione classica e rafforzata nei tempi moderni dalla ricognizione dell'unità originaria degli Arî, ha fatto costruire un'unità giuridica greco-italica a storici e giuristi eminenti: a Th. Mommsem e a R. Jhering, a N. D. Fustel de Coulanges e a B. W. Leist. L'affinità tra le città, o le maggiori città dell'Ellade e Roma nelle istituzioni pubbliche; la facilità con cui i Greci, i sudditi orientali di Teodosio e Giustiniano, dal sec. III in poi avrebbero fatto proprio il diritto di Roma, cospiravano a farla costruire. Invece, è difficile pensare a due sistemi di diritto privato così diversi, come il romano e il greco. Richiamarsi all'unità originaria degli Arî per indurne unità di istituzioni giuridiche, non giova. Se c'è diritto lontano totalmente dalla tradizione romana e dalla arianità questo è il giapponese. Nessuno può supporre comunanza genetica, contatti, influenze degli antichi Romani sui piccoli gialli dell'Estremo Oriente: eppure, tra i Giapponesi ritroviamo l'organizzazione familiare romana, la parentela agnatizia, la designazione del successore per opera del predecessore, la capitis deminutio per adozione, il preciso riscontro della arrogazione romana.

La comparazione, illuminata da una fine analisi giuridica, rivela la differenza profonda che intercede fra testamento romano e διαϑήκη ellenica: il primo, istituto destinato a designare un successore, originariamente il più degno tra i sui, e contenente l'istituzione di erede; il secondo, istituto destinato esclusivamente al trapasso del patrimonio e non in prima linea al conferimento di una carica sovrana. La comparazione rivela pure la netta differenza tra la romana adoptio e la greca υἱοϑεσία, benché il bizantino Teofilo dica che un istituto val l'altro (Paraphr., I, 11, 1: ἡ δὲ υἱοϑεσία ῥωμαϊκῂ ϕωνῂ λέγεται adoptίων); tra la romana possessio e la greca κατοχή, benché i compilatori in un passo interpolato (Dig., XXXXI, 2, de adq. v. am. poss., 1 pr.) dicano che la κατοχή dei Greci è la possessio dei Romani; tra l'actor civitatis romano e il σύνδικος greco, benché i compilatori esplichino actor civitatis, scrivendo id est syndicus. E questi sono, tra i moltissimi, assai pochi esempî.

Né deve trarre in inganno la sorte subita dai testi romani raccolti nel Corpus iuris. Certamente, a leggere che la proprietà del marito sulla dote è una subtilitas legum e una finzione, che naturali iure è proprietaria della dote la donna, e a vedere, in generale, il regime dotale del diritto giustinianeo, verrebbe fatto di pensare a un'affinità tra l'istituto dotale greco e l'istituto dotale romano, se non fosse che l'affinità deriva proprio dal fatto che i Giustinianei hanno modificato l'istituto romano a immagine dell'istituto greco. E questo si dica di molti altri istituti, che ci appaiono conformi al diritto greco dentro la compilazione giustinianea soltanto perché nella lotta tra il diritto locale greco e il diritto ufficiale romano vinse, durante il basso impero e per l'opera dei compilatori giustinianei, il diritto greco sul diritto romano.

La comparazione insegna che istituti diversi possono adempiere alla stessa funzione: il testamento romano ha per l'appunto la funzione della primogenitura (che degenera poi nell'istituto della primogenitura feudale o del maggiorasco). Tacito dice che presso i Germani non vi è testamento, ma poco più sotto osserva che il maior natu riceve i penates e gli iura successionum. Primogenitura e designazione sono istituzioni correlative: adempiono una funzione sociale essenziale - evitano la divisione del gruppo - trasmettendo la carica sovrana, alla quale sono inerenti diritti e obblighi.

Procedendo alla comparazione, bisogna guardarsi dalle fallaci apparenze; da quelle, ad esempio, che hanno condotto a disegnare una evoluzione della proprietà romana corrispondente in tutti i suoi tratti a quella della proprietà germanica e così a rappresentare la proprietà collettiva del villaggio; il possesso, prima annale, poi oltreannale, ma sempre temporaneo, attribuito alle famiglie sui singoli lotti; la consolidazione graduale di questo possesso nelle famiglie, ecc. La proprietà romana non è derivata dallo stato-città, ma è preesistita ad esso. La proprietà individuale germanica è il possesso consolidato ed elevato via via a proprietà; la proprietà individuale romana è la sovranità territoriale via via trasformata e ridotta a proprietà. La prima ha per suo punto di partenza i mobili; la seconda si può ben dire che abbia per suo punto di partenza il fondo.

INTERPRETAZIONE. - L'interpretazione del diritto romano può rivolgersi alle fonti di questo diritto, succedentisi nei varî periodi della sua storia; ma particolare interesse e importanza ha l'interpretazione del diritto romano giustinianeo.

L'interpretazione del Corpus iuris è stata ardua in ogni tempo, per quanto ispirata nelle varie epoche a non coincidenti finalità. La scuola bolognese dei glossatori con Irnerio e i suoi quattro discepoli e continuatori - Bulgaro e Martino, Iacopo e Ugo - iniziò una fase interpretativa, che favorì l'adattamento del diritto romano giustinianeo alle condizioni del tempo. E se la scuola di Bulgaro è legata alla parola del testo giustinianeo, la scuola di Martino mira non soltanto a illustrale e raccogliere gli elementi vivi di questo diritto, ma a svolgerlo altresì e a dilatarlo, così da essere non esatta interprete del testo, ma degna e felice continuatrice di Giustiniano; e l'insegnamento della scuola di Martino riesce a prevalere nella prassi e nella vita.

Nel sec. XIV, dopo il decadimento dell'insegnamento bolognese, si riapre un periodo di nuovo e ricco splendore. È il periodo dei tre grandi giuristi che rendono celebre la scuola dei postglossatori, detta anche dei commentatori o degli scolastici: Cino da Pistoia, Bartolo da Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi. Come la corrente dei glossatori, che riconosceva in Martino il suo capo, e ancora più di quella corrente, questi insigni commentatori si preoccupavano di rendere moderno, anzi italiano, il diritto romano: ancora più liberamente e audacemente scostandosi dall'analisi letterale del testo giustinianeo e ricavando dal testo stesso spunti per teorie generali, anche se non potevano assurgere a vaste costruzioni e sintesi; ravvivando l'esegesi; ravvicinandola alla pratica dei tribunali e del diritto statutario; spogliando il diritto romano di quanto aveva di incompatibile con l'età in cui vivevano. Ancora una volta l'opera dei dottori, nell'interpretare il testo giustinianeo, lo superò. Fu questo mos italicus di interpretazione e di insegnamento del diritto romano; fu questo svolgimento e superamento del diritto giustinianeo per adattarlo alla nuova civiltà italica e alla nuova vita europea, che cooperò, con quelle che furono le profonde cause d'ordine politico ed economico, a fare del diritto romano il diritto universale d'Europa.

Fino al sec. XVI l'interpretazione del diritto giustinianeo fece a meno di ogni indagine storica e si mosse sprovvista di quei preziosi aiuti che potevano essere la filologia e l'archeologia. Da Firenze, centro dell'umanesimo, dove buoni studî giuridici si erano mantenuti, ebbe inizio il movimento che portò a rimettere in onore le fonti, a investigarle da un punto di vista storico e con cultura filologica adeguata. Ma il movimento, iniziatosi a Firenze, si delineò veramente poi come un poderoso rinnovamento, per merito di Andrea Alciato in Italia; di Ulrico Zasio, dell'Aloandro, del Gifanio, in Germania; di Guglielmo Budeo in Francia; soprattutto per la vasta, dotta, originale opera di Giacomo Cuiacio. È il periodo della giurisprudenza culta, che apre una nuova fase nell'interpretazione del diritto giustinianeo. In questo periodo il diritto giustinianeo non è riguardato come un tutto omogeneo, ma come composto di opere di diversi giuristi e di diverse scuole, di diverse età e di diverse tendenze: monumento insigne della sapienza latina in ciò che ha di incorrotto, sia che lo si consideri come opera giuridica o come opera letteraria; nel quale, peraltro, sono molti elementi eterogenei, sostanziali e formali; e, se sostanziali, non risplendenti di quell'ars, in cui la giurisprudenza romana fu maestra insuperata; se formali, prodotto mediocre di Graeculi semilatini, non confondibile col purissinus sermo dei giuristi di Roma. Così viene sviluppandosi la critica storica e filologica delle fonti del diritto giustinianeo.

Dalla scuola di Bourges, dove il Cuiacio insegnò lungamente, partì quel mos gallicus docendi, che seguirono il Brissonio, illustratore delle formule romane; Dionisio Gotofredo, editore critico e illustratore del Corpus iuris; Iacopo Gotofredo, dottissimo commentatore del Codex Theodosianus; il Balduino, che scriveva: "sine historia caecam esse iurisprudentiam"; Francesco Ottomano, il Molineo e Antonio Fabro: quest'ultimo, il più fiero e acuto indagatore delle interpolazioni nei testi giustinianei.

Ma anche la scuola degli umanisti esagerò e fuorviò, e però presto decadde: in Francia, la filologia soverchiò la giurisprudenza e provocò la reazione, di cui fu capo eminente Alberico Gentili, anch'egli della scuola culta, ma educato nel metodo dell'Alciato, che volle essere sopra tutto giurista e formare esperimentati consulenti. Il movimento della scuola culta si arrestò nei paesi latini, nuovamente soffocato dal sorgere delle tendenze pratiche; ma degnamente continuò per tutto il sec. XVII nell'Olanda, che si gloria di studiosi come Ulrico Huber, il Vinnio, il Bynkershoek, il Noodt e lo Schulting. Le Notae ad Digesta seu Pandectas di Antonio Schulting, edite e accresciute di osservazioni critiche da Nicolò Smallenburg, sono un prezioso strumento per l'intelligenza e la critica del Corpus iuris, anche perché contengono e raccolgono le numerosissime segnalazioni delle interpolazioni giustinianee, che dal Cuiacio in poi i culti, e quelli che alla giurisprudenza culta s'ispiravano, erano andati via via facendo.

Il nuovo rinascimento della scienza del diritto romano si svolge parallelamente - un'altra volta - al rifiorire degli studî classici e alle mirabili scoperte nel campo della filologia e della storia. Se non l'iniziatore, il più alto maestro della nuova scuola, che dal nuovo indirizzo è detta la scuola storica, è il Savigny. Questa, insegnando, contro la dominante scuola filosofica del diritto naturale, che il diritto, nonostante tutte le apparenze, non è il prodotto accidentale o arbitrario della mente di un legislatore, ma un prodotto organico e un portato naturale della vita di un dato popolo, fecondò e ampliò la scienza del diritto romano e i metodi di interpretazione di questo diritto. Impulso vivo, carattere organico e positivo ne ebbero la ricerca genetica degl'istituti, la formazione dei concetti giuridici e l'ordinamento sistematico del diritto. Ma questa scuola, splendidamente affermatasi agl'inizî del sec. XIX, idealmente coordinantesi con la giurisprudenza culta del sec. XVI, che però svolgeva e superava, non poté per tutto l'Ottocento - cioè finché il diritto romano giustinianeo, sotto il nome di diritto delle Pandette, ebbe vigore, come parte del diritto comune tedesco, nella Germania, dov'essa era nata - espandersi e dare quei copiosissimi frutti di cui era capace.

Il sec. XIX è il secolo d'oro della pandettistica. Animati da quello spirito pratico e moderno, che alimentò l'opera della scuola di Irnerio e della scuola di Bartolo, ma anche da uno spirito scientifico introvabile nei glossatori e nei commentatori, i giuristi tedeschi del secolo XIX abbandonarono la critica storica facendo, però, non soltanto opera d'interpretazione più o meno libera del diritto giustinianeo, ma di questo diritto, così come attraverso l'opera interpretativa e creativa dei glossatori e dei commentatori si era svolto, edificando il sistema dottrinale. Elaborarono così la dogmatica di questo diritto: dogmatica, che ha la sua espressione più limpida, più felice, più alta, nel trattato di Pandette di Bernardo Windscheid.

Venuto meno il vigore positivo del diritto romano in Europa, questo diritto poteva per la prima volta essere studiato come un organismo storico-sociologico unico al mondo, rintracciato e scoperto nelle sue successive stratificazioni formatesi attraverso il corso dei secoli; e il Corpus iuris giustinianeo poteva essere scomposto nei suoi elementi costitutivi: elementi discordanti, perché confluiti insieme da diversi ambienti e da diverse età.

L'interpretazione del Corpus iuris civilis ha oggi per suo compito preliminare, questo: separare nelle Institutiones, nei Digesta, nel Codex di Giustiniano, i testi genuini dai testi interpolati; e, fra questi ultimi, distinguere quelli la cui interpolazione è soltanto formale da quelli la cui interpolazione è anche sostanziale. Così procedendo, i testi non vengono coordinati malamente e forzatamente insieme, ma, dove il contrasto appare, gli uni - i genuini - vengono adoperati per costruire il diritto romano classico, gli altri - i sostanzialmente interpolati - vengono adoperati per costruire il diritto romano giustinianeo: i primi sono nella legislazione di Giustiniano, materiale archeologico e storico; i secondi, elementi vivi della realtà giuridica nuova. Nella stessa legislazione vi è la storia e il dogma.

CONCETTI E PARTIZIONI FONDAMENTALI. - 1. Ius. - A indicare la norma giuridica i Romani adoperano il termine ius, termine di oscura etimologia, che i giuristi moderni tendono a riconnettere alla parola sanscrita iaus. Iustus è l'atto o il rapporto conforme allo ius (così, iustus filius; iustum testamentum; iustus magistratus; iustum imperium, ecc.). Legitimus, invece, è l'atto o il rapporto conforme allo ius derivante dalla lex (così, legitima hereditas; legitima quaestio, ecc.). Nel diritto postclassico, diventata la lex la fonte quasi esclusiva del diritto, l'atto o il rapporto conforme al diritto è detto legitimus: il iustus filius diventa il legitimus filius, le iustae nuptiae diventano il legitimum matrimonium. Nel periodo centrale dell'evoluzione del diritto romano non c'è quella confusione tra norma giuridica e norma morale o religiosa che c'è nel momento di una incipiente civiltà giuridica, e così nell'antichissima Roma, o nel momento di decadenza di questa civiltà, e così nell'epoca romano-ellenica. I giuristi ammoniscono che "non omne quod licet honestum est" (Dig., L, 17, de div. reg. i. a., 144 pr.); "non videtur dolo facere qui iure suo utitur" (Dig., eod. tit., 55); "nemo damnum facit, nisi qui id fecit, quod facere ius non habet" (Dig., eod. tit., 151). E Seneca (De ira, II, 27) scrive: "Quam latius officiorum quam iuris patet regula! quam multa pietas, humanitas, liberalitas, iustitia, fides exigunt, quae omnia extra publicas tabulas sunt!".

2. Aequitas. - Non è per i Romani una nozione antitetica a quella di diritto: lo ius civile, dice Cicerone, è aequitas constituta iis qui eiusdem civitatis sunt; è, anzi, sostanza del diritto e meta a cui tende. Essa ha un'etimologia certa: deriva da una radice che significa unità, uguaglianza (aequus = eguale; aequor = il piano e, poeticamente, il mare) e vuole esprimere che il fine del diritto sta nell'applicare pari trattamento in causa pari: perciò lo ius è detto da Celso (Dig., I, 1, de iust. et iur., 1 pr.) "ars boni et aequi". Lo svolgersi della coscienza sociale, a cui non corrisponda immediatamente lo svolgersi dell'ordinamento giuridico, pone fatalmente di fronte ius ed aequitas: così si rivela iniquum (Gai., 3, 18-25) l'antico diritto successorio che esclude dalla successione il figlio emancipato, quando nella società romana dell'età classica il vincolo della cognazione tende ad affermarsi di fronte a quello dell'agnazione. Se si dice che lo ius honorarium ha il suo fondamento nell'aequitas, gli è perché il pretore è stato l'interprete della nuova coscienza sociale e della civiltà romana via via evolventesi. Nozione antitetica a quella di ius è, invece, l'aequitas per i Giustinianei. L'aequitas giustinianea coincide assai frequentemente con la nozione aristotelica e cristiana di equità (ἐπιείκεια) e si denomina spesso humanitas, benignitas, benevolentia, pietas, caritas. L'aequitas romana si trasforma nell'aequitatis benignitas di Giustiniano. Valerio Massimo scrive ancora: "misericordiam illam quaestionem, non aequitas rexit", ma già nel sec. IV il grammatico e retore Donato scrive (Ad Ter. Adelph., 1, 1, 26): "inter ius et aequitatem hoc interest: ius est quod omnia recta et inflexibilia exigit: aequitas est, quae de iure multum remittit".

3. Ius scriptum, ius non scriptum. - È una classificazione non romana, ma postclassica giustinianea. I Greci chiamavano νόμοι le norme imperative di qualsiasi genere e le distinguevano in due categorie: scritte (νόμοι ἔγγραϕοι) e non scritte (νόμοι ἄγραϕοι). Le prime erano le leggi; le seconde abbracciavano tutto l'ἔϑος, cioè il diritto consuetudinario, le norme morali e del costume. Questa partizione dei νόμοι fu, come ben vide S. Perozzi, adattata allo ius. E i Giustinianei dicono ius non scriptum, il diritto consuetudinario; ius scripium, dicono la lex, il plebiscitum, il senatusconsultum, i principum placita, i magistratuum edicta, i responsa prudentium. Distinzione non felice, e priva d'importanza pratica.

4. Ius publicum, ius privatum. - Nel mondo romano antico l'antitesi tra diritto pubblico e diritto privato non è ancora di essenze diverse, bensì di sfere diverse. Non vi ha un istituto di diritto pubblico che non trovi il suo corrispondente in un istituto di diritto privato (sebbene ciò sia da storici contestato): termini, concetti, elementi di struttura e di funzione, tutto si riscontra. Il pater romano nella familia è precisamente il re dello stato, designato pur esso col nome di pater; la potestas o manus del paterfamilias è la potestas o manus del re; il consilium domesticum è il consilium regis; l'auctoritas tutorum sui pupilli è l'auctoritas patrum rispetto al popolo; la proprietà del paterfamilias è una sovranità territoriale; lo ius prohibendi del condomino, col quale egli paralizza l'azione degli altri, è l'intercessio del magistrato verso il collega; il termine lex significa tanto le private disposizioni contrattuali (lex contractus), quanto le supreme sanzioni pubbliche (lex lata o data), e così via. Ciò dipende dal fatto che la civitas non è, nelle origini, il solo organismo politico, ma l'organismo politico più vasto: anche la familia è un organismo politico, per quanto minimo. La diversa base emerge quando gli organismi politici minori scompaiono e la civitas si afferma come l'organismo politico unico. Allora si dice che lo ius pubblico regola i rapporti politici, i fini che lo stato deve raggiungere: ad statum rei romanae spectat; lo ius privatum regola i rapporti tra i privati cittadini, fissa condizioni e limiti nell'interesse dei singoli: ad singulorum utilitatem pertinet (Dig., I, 1, de iust. et iur., 1, 2). Si parla però di ius publicum anche per indicare le norme che regolano rapporti tra privati ma che, concorrendo con l'interesse individuale anche un interesse sociale o generale, non possono essere dalla volontà delle parti derogate: non dunque norme dispositive o suppletive, ma imperative o assolute. È allo ius publicum, inteso in questo secondo senso, che si riferiscono gli aforismi: "ius publicum privatorum pactis mutari non potest" (Dig., II, 14, de pact., 38); "privatorum conventio iuri publico non derogat" (Dig., L, 17, de div. reg. i. d., 45, 1).

5. Ius civile, ius gentium, ius naturale. - Ius civile è il diritto di tutto un popolo e, senz'aura aggiunta, del popolo romano: poiché civitas (come il corrispondente greco πόλις) significa la società ordinata a stato libero e ci rappresenta il grado dell'agglomerazione politica con ordinamento libero a cui si fermarono gli stati dell'antichità classica. Ius gentium, secondo la definizione gaiana (Gai., 1, 1), che si ispira a una concezione speculativa astratta, è il diritto quo omnes gentes utuntur e che naturalis ratio inter omnes homines constituit, una specie di diritto ideale comune a tutti i popoli civili conosciuti, che si ottiene considerando l'identico sostrato della maggior parte degl'istituti giuridici e astraendo dalle particolari esplicazioni e modificazioni. Nel suo significato positivo ius gentium serve a designare quel complesso di norme applicabili a tutti coloro che godono la tutela giuridica nel territorio romano, siano essi, o no, cittadini: allo ius gentium in tal senso si dicono appartenere i contratti non formali, alcuni modi originarî di acquisto della proprietà, la tradizione, ecc.: restano esclusi specialmente il diritto successorio e il diritto matrimoniale. Ius naturale è per i Romani lo ius gentium, nella prima concezione astratta speculativa. Così che essi contrappongono allo ius civile lo ius gentium che, per essere imposto dalla naturalis ratio, è detto anche ius naturale.

Nel diritto postclassico giustinianeo alla dicotomia classica si sostituisce una tricotomia, che risente l'influenza sia di concezioni filosofiche greche sia del cristianesimo. Derivata dalla concezione di una setta filosofica greca - come vide G. Castelli - è la definizione pseudoulpianea (Dig., I, 1, de iust. et iur., 1, 3): "ius naturale est quod natura omnia animalia docuit", ecc. (cfr. Dem., XXV, par. 65-66); ispirate alla nuova dottrina cristiana sono sia la definizione attribuita a Paolo (Dig., I, 1, de iust. et iur., 11), secondo la quale lo ius naturale è lo ius semper aequum ac bonum, sia quella dei compilatori delle istituzioni (Inst., I, 2, de iur. nat. gent. et civ., 11) per i quali "naturalia iura, divina quadam providentia constituta, semper firma atque immutabilia permanent". La separazione dello ius gentium dallo ius naturale doveva fatalmente avvenire nel diritto giustinianeo, per conciliare l'esistenza della schiavitù, istituto dello ius gentium, col principio cristiano dell'uguaglianza degli uomini. La schiavitù per i Romani, essendo iuris gentium, era per ciò stesso iuris naturalis: i Giustinianei dicono che essa trae origine dallo ius gentium, ma è contro lo ius naturale.

6. Ius commune, ius singulare, privilegium. - Norme di ius commune sono quelle conformi ai principî generali del sistema; le norme di ius singulare sono quelle che deviano da tali principî e si presentano come eccezione giustificata da ragioni speciali. Tanto la norma eccezionale quanto la regola generale hanno per fondamento l'aequitas. Paolo (Dig., I, 3, de leg., 16) definisce lo ius singulare come quel diritto "contra tenorem rationis propter aliquam utilitatem auctoritate constituentium introductum". Sarebbe erroneo credere che l'utilitas venisse considerata soltanto nella norma di ius singulare, mentre tutto il diritto privato, secondo la definizione ulpianea, ad singulorum utilitatem pertinet: gli è, invece, che in esse l'utilitas spicca più evidente. Rappresentando poi un'eccezione alla regola, tali norme non sono estensibili per interpretazione analogica. Ma lo ius singulare ha spesso un significato più profondo di quello che appare dalla definizione di Paolo: esso, o rappresenta un avanzo di un sistema più antico, che si è andato modificando nell'essenza sua fondamentale; o, più spesso, prelude a un ordinamento futuro. Un esempio della prima specie fornisce la promissio iurata liberti, residuo storico dell'antica sponsio asseverata dal giuramento; esempî della seconda il testamentum utilitis, il beneficium inventarii, ecc. Distinto dallo ius singulare è il privilegio: disposizione eccezionale non conforme all'aequitas, più spesso consistente in condizioni di favore a una persona o a una classe, in esenzione da pesi o regole gravose. Il privilegio è designato con perifrasi varie. La linea di confine tra un concetto e l'altro in alcuni casi è assai vaga.

IL SOGGETTO DEL DIRITTO. - Soggetto del diritto nel senso più ampio è nella società romana l'uomo che sia libero, cittadino, sui iuris. Per la capacità giuridica si richiedono pertanto: esistenza dell'uomo, status libertatis, statas civitatis, status di paterfamilias. Per i concepiti ex iustis nuptiis nel diritto nazionale romano, per qualunque concepito nel diritto giustinianeo, vi è riserva di diritti, non già attribuzione: questo, e questo soltanto, significa la massima "conceptus pro iam nato habetur" o l'altra "qui in utero sunt intelleguntur in rerum natura esse". Lo status libertatis si acquista per nascita o per liberazione dalla schiavitù: non è identica la condizione sociale e giuridica del soggetto nell'un caso e nell'altro; cioè dell'ingenuo e del liberto. Lo status civitatis si acquista pure per nascita o per liberazione dalla schiavitù (il dominus, con l'atto della manomissione, non fa soltanto libero lo schiavo ma lo rende cittadino); lo status di paterfamilias si acquista da chi non ha ascendenti in linea maschile. Correlativamente, la perdita della capacità giuridica si ha, quando venga meno o il requisito naturale (esistenza dell'uomo), o lo status libertatis (capitis deminutio maxima), o lo status civitatis (capitis deminutio media), o lo status familiae (capitis deminutio minima). Alla perdita dello status libertatis si richiamano due importanti istituti di diritto singolare: lo ius postliminii e la fictio legis Corneliae.

Soggetto di diritti non è soltanto l'uomo. Può essere tale un'associazione di persone considerata come ente a sé stante, facendo astrazione dalle persone e dalle volontà singole che la compongono. Può anche accadere che il diritto sia propriamente privo di soggetto e soltanto riservato a uno scopo che lo rende utile a persone o a classi di persone. Nell'un caso e nell'altro la dottrina moderna parla di persona giuridica contrapposta all'uomo, persona fisica, e designa la prima figura di persona giuridica, la più naturale e più antica, col nome di corporazione; la seconda, più artificiosa e di formazione più recente, col nome di fondazione. Si suol dire che la prima figura è già nel diritto nazionale romano; la figura generale della fondazione, invece, si può dire estranea allo stesso diritto giustinianeo, dove sarebbero riconosciute soltanto alcune figure analoghe alla fondazione moderna: il fiscus e l'hereditas iacens. Ma, per ciò che riguarda l'associazione, sia politica sia privata, il diritto nazionale romano non giunse ancora alla concezione di un soggetto di diritto, astratto e fittizio, indipendentemente dalle persone che compongono l'ente, secondo la concezione moderna; considera, invece, come soggetto di diritto la collettività concreta delle persone stesse. Basta richiamare la terminologia. Lo stato - l'associazione politica più vasta - è detta populus romanus. Se noi diciamo che la lex è emanazione dello stato, i Romani dicono lex ciò che populus iubet. Gaio dice che è sacrum ciò che ex auctoritate populi romani consecratum est; che del solum provinciale, il dominium spetta al populus romanus. Lo ius dello stato è lo ius dei Quirites (cfr. la formula della mancipazione: "meum esse aio ex iure Quiritium"). Così si dica per gli organismi politici minori: municipium, forum, conciliabulum, castellum, vicus. Per il mumcipium, ad esempio, le fonti parlano di res communis municipum municipii, di dare pecuniam municipibus municipii, di locare praedia communi nomine municipum municipii. I termini adoperati per indicare l'associazione hanno una significazione spiccatameme collettiva: collegium, sodalicium, sodalitas, corpus. Con quest'ultimo termine è indicata la plebe, il patriziato, l'ordine equestre. Utrumque corpus sono il patriziato e la plebe; al collegium si contrappongono i certi homines, che ne sono gli elementi. Ma ciò che più conta, è la limitazione della capacità giuridica delle associazioni, derivante organicamente da questa concezione. ll populus romanus, i municipes, per il continuo rinnovellarsi dei loro elementi, sono un corpus incertum: quindi non possono essere istituiti eredi (tit. ex corp. Ulp., XXII, 5); non possono possedere (Dig., XXXXI, 2, de adq. v. am. poss., 1, 22): "municipes per se nihil possidere possunt, quia universi consentire non possunt". Si dubita se possano chiedere la bonorum possessio; il giurista oppone: "movet quod consentire non possunt". Dalla concezione romana deriva pure la massima, solitamente male intesa, che si legge in un passo di Marcello (Dig., L, 16, de sign. verb., 85): "Neratius Priscus tres facere existimat collegium et hoc magis sequendum est". Deriva, cioè, che per l'esistenza del collegium sono necessarî in ogni momento almeno tre membri. L'associazione è concepita come soggetto di diritti astratto, fittizio, nell'età postclassica giustinianea, per lo spirito più vivo di astrazione della mentalità dei teologi e filosofi del basso impero. Il mutamento della concezione produce le sue conseguenze inevitabili. Non si parla più, come prima, di populus romanus, di municipes, ecc.: caratteristici sono alcuni testi, in cui l'astratto municipium sostituisce, per interpolazione, il concreto termine municipes che sopravvive nella parte del testo non alterata. Le fonti bizantine, che traducono municipes, rendono con l'astratto πόλις il termine concreto romano. Il termine corpus muta significato e assume quel significato unitario astratto, che ha nel linguaggio dei Padri della Chiesa, quando Agostino parla dell'unitas del corpus della Chiesa, o quando Tertulliano dice che la Chiesa è il corpus del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E il termine universitas, per il quale i Romani sottintendevano l'apposizione civium, è il termine con predilezione adoperato per indicare il soggetto astratto e unico di diritto. Il corpus, diventato un'unità astratta, non è più incertum, ma certum. Conseguenza organica della nuova concezione è il dilatarsi della capacità giuridica: la corporazione può possedere, può essere istituita erede. E la massima proclamata da Nerazio, e riferitaci da Marcello, attiene oramai solamente al momento della costituzione del collegium: occorrono tre persone per costituire la corporazione; ma - soggiunge un testo interpolato (Dig., III, 4, quod cuiusc. univ. nom., ecc., 7, 2); "si universitas ad unum redit... ius omnium in unum reccidit et stat nomen universitatis".

L'OGGETTO DEL DIRITTO. - I giureconsulti romani indicano col termine res tanto i fondi e le cose mobili, oggetto di diritti reali, quanto i servigi e le prestazioni immateriali, che costituiscono l'oggetto dell'obbligazione. Nella materia dei diritti reali, peraltro, la res elimina da sé le entità incorporee, astratte, e designa un'entità reale obiettiva esteriore, avente un valore economico: la res in questa materia è detta da Gaio e, con una evidente predilezione dai Bizantini, res corporalis o corpus. Più precisamente la res, oggetto del diritto reale, è per i Romani un'entità esteriore, nella coscienza economico-sociale isolata e concepita come unità a sé stante. Suoi requisiti sono la tangibilità e la visibilità: requisiti non più richiesti dalla concezione moderna, che riconosce come oggetto di proprietà i gas, che non sono cose tangibili; e l'elettricità, che non è neppure mai visibile.

Non tutte le cose sono suscettibili di rapporti giuridici privati e patrimoniali, ed ecco allora presentarsi la summa divisio tra res extra commercium o res extra patrimonium e res in commercio o in patrimonio. Le prime si distinguono a loro volta in due categorie: res extra commercium divini iuris (o sacrae o religiosae o sanctae) quando la signoria umana recede per rispetto alla signoria divina; rex extra commercium humani iuris (publicae, nel diritto classico; communes, publicae, universitatis, nel diritto giustinianeo) quando la proprietà privata è negata da ragioni di ordine pubblico. Nel campo delle res in commercio o in patrimonio la distinzione fondamentale è, nel diritto nazionale romano, tra res mancipi e res nec mancipi; nel diritto postclassico giustinianeo tra res immobiles e res mobiles. Essendo la parola mancipi il genitivo di mancipium (il termine più antico che indica la proprietà), la distinzione si risolve in un'antitesi tra cose di proprietà (s'intende, del capo del gruppo) e cose non di proprietà: antitesi attenuatasi e oscuratasi successivamente, quando indica cose, la cui più rigorosa giuridica protezione fa pensare all'importanza, anche sociale, che esse hanno a differenza delle altre. In questa successiva significazione la distinzione non è particolare al diritto romano, ma comune - si può dire - sia pure con diverso nome, a tutti i popoli. La posteriore e moderna distinzione, tra cose immobili e cose mobili, non ha una base diversa.

Prescindendo da questa summa divisio, entro le res in commercio troviamo altre distinzioni numerose: tra cose fungibili (res quae in genere suo functionem recipiunt) e infungibili; tra cose consumabili (res quae usu consumuntur o quae in abusu consistunt) e inconsumabili; tra cose divisibili e indivisibili (res dividuae e individuae); tra cose semplici (quae uno spiritu continentur), composte (corpora ex contingentibus o ex cohaerentibus), collettive (corpora ex distantibus), cioè il gregge, che i Giustinianei qualificano come universitas (rerum o facti); tra cosa principale e accessoria; tra cosa e parte di cosa. Un concetto, nelle apparenze naturalistico, nella realtà economico-sociale, e quindi più o meno relativo e storico, presiede alla distinzione delle cose giuridicamente capaci in queste varie categorie, stabilendo un regime giuridico diverso in questo o quel rapporto. Così la distinzione tra cose fungibili e infungibili è variabile negli usi (gli animali costituivano probabilmente nell'economia antica di Roma cose fungibili, e presso i selvaggi sono esseri fungibili le donne); il carattere variabile del concetto di cosa consumabile emerge da un celebre contrasto fra un testo (Dig., VII, 9, us. quemad. cav.) che considera la veste come inconsumabile e un passo delle istituzioni giustinianee (Inst., II, 4, de usufr., 2) che considera consumabili i vestimenta alla pari del vino, dell'olio, del grano: il contrasto è dovuto a un'interpolazione del testo delle istituzioni, e l'interpolazione rivela come i Romani affermassero l'inconsumabilità della cosa nonostante il suo logoramento con l'uso, mentre i Giustinianei ravvisano nel logoramento la sua consumabilità. Distinzione non naturalistica è anche quella tra cose divisibili e indivisibili, perché s'intendono come divisibili quelle soltanto che possono essere ridotte in parti serbanti l'essenza e la funzione economico-sociale del tutto; tripartizione, nel suo sostrato reale, avente una ragione di essere puramente economico-sociale è quella fatta tra cose semplici, composte, collettive, benché presentata nelle fonti con apparato filosofico, e ritenuta elaborata già dal Cuiacio e dall'Alciato, sotto l'influenza della filosofia e della fisica stoica. L'idea della parte di cosa è un concetto economico-sociale non altrimenti che la cosa. Anche i frutti sono quelle parti staccate della cosa che negli usi sociali si considerano come il reddito della medesima.

IL NEGOZIO GIURIDICO. - La dottrina giuridica moderna parla di fatto giuridico, per indicare qualunque fatto da cui il diritto obiettivo fa dipendere l'acquisto, la perdita o la modificazione di un diritto, e distingue i fatti giuridici in fatti giuridici in senso proprio e fatti giuridici volontarî, detti anche atti giuridici, a seconda che l'effetto giuridico si verifica senza, o con, la manifestazione di volontà da parte del soggetto. Gli atti giuridici a loro volta si distinguono in negozî giuridici e atti illeciti, a seconda che la volontà si esplica entro i limiti stabiliti dal diritto obiettivo o fuori dei limiti stessi. Una dottrina generale del fatto giuridico e delle sue classificazioni non fu costruita dalla giurisprudenza romana, ma è stata costruita dalla pandettistica del sec. XIX sulla base delle fonti romane giustinianee. Il problema più grave, e oggi particolarmente ardente, è quello che riguarda la volontà e la sua manifestazione. Il regime del diritto antico è attestato dal precetto delle XII Tavole: "uti lingua nuncupassit, ita ius esto", che da ogni indagine sull'esistenza della volontà faceva prescindere. I boni mores, la fides dei vecchi quiriti agivano nel senso che la volontà non fosse esclusa o coartata. Ma, col rallentamento dell'antica fides e col dilatarsi delle relazioni commerciali, il precetto decemvirale poteva sanzionare palesi ingiustizie, e allora nei iudicia bonae fidei il giudice tenne conto, per tempo, del dolo e della violenza, e per i negozî che non portavano a iudicia bonae fidei, ma a quei iudicia che i Giustinianei dicono stricti iuris, più tardi il pretore provvide concedendo, secondo i casi, restitutio in integrum, actio o exceptio. Una differenza profonda esiste, peraltro, nel ricercare la volontà, tra diritto classico e diritto giustinianeo. Per il giurista romano i gesti e le parole delle parti, anche se non fissate in formularî immutevoli, vengono sempre interpretati secondo il criterio oggettivo della valutazione che ogni parola o gesto trova nell'ambiente sociale: l'eventualità che l'interno volere sia diverso da quello che da tale indagine risulta, è un rischio da cui l'interessato deve sapersi guardare. E quando "in verbis nulla ambiguitas est, non debet admitti voluntatis quaestio" (Dig., XXXII, de leg. et fid., 25, 1). Quando il testatore scrive fundum lego, adopera un verbum, in cui non c'è ambiguitas; vuol dire che egli lega la proprietà del fondo, cioè il diritto e il godimento del diritto stesso; poco importa che ad altri leghi l'usufrutto dello stesso fondo: ciò produrrà la sola conseguenza che il godimento del diritto sarà comune al proprietario e all'usufruttuario: usus fructus inter eos communicabitur: quando non c'è ambiguitas, ancora un tardo giurista classico, Modestino, avverte che plus valet scriptura. Il diritto giustinianeo, invece, è dominato dalla tendenza di prendere in esame anche circostanze estranee pur di cogliere ad ogni costo l'interno volere; perciò le interpretazioni oggettive date dai giuristi classici alle varie clausole dei testamenti e dei contratti, che la pratica metteva sotto i loro occhi, sono assai spesso nel Digesto interpolate con la riserva dell'eventuale diversa volontà del singolo testatore o contraente, e la determinazione della categoria, in cui ciascun negozio rientra, non è più fatta in relazione ai suoi elementi obiettivi, ma con riferimento all'intenzione (animus) dell'interessato. La dottrina moderna, la quale assume che compito dell'ordinamento giuridico non è di dare attuazione alla volontà privata, qualunque essa sia, ma di tutelare l'aspettativa di coloro che sulla manifestazione hanno fatto affidamento, interpretandola secondo la sua valutazione sociale, si riallaccia inconsapevolmente al diritto classico; la dottrina, invece, secondo la quale la dichiarazione va considerata come un vero tramite per il riconoscimento del volere, tramite che può essere fallace e deve quindi essere integrato con tutti gli altri mezzi con cui l'interno volere può ricercarsi, interpreta, anch'essa inconsapevolmente, il regime del diritto giustinianeo.

Lo ius civile conosceva due sole possibilità: o negozio giuridicamente perfetto, o negozio giuridicamente inesistente: tale era il negozio che non era stato voluto, essendo la volontà un elemento costitutivo del negozio stesso. Ma lo ius honorarium introdusse una terza possibilità: l'annullabilità del negozio, nei casi sopra accennati in cui, pur non essendo la volontà esclusa, si fosse irregolarmente manifestata per dolo o per violenza. Nel diritto giustinianeo, per la fusione operatasi tra i due sistemi dello ius civile e dello ius honorarium che nel diritto classico si contrapponevano, la distinzione tra le cause che impediscono la nascita del negozio e i vizî che lo rendono annullabile, ha un senso sostanziale: nullo è il negozio che le parti e il giudice possono e debbono considerare come non mai posto in. essere; annullabile è quello che l'ordinamento giuridico considera produttivo di effetti, offrendo all'interessato un mezzo (azione o eccezione) col quale egli può, se crede, provocarne l'annullamento o eliminarne le conseguenze.

Nella più gran parte dei casi il negozio può essere sottoposto ad una condizione o a un termine; se è a titolo gratuito, può essere sottoposto anche a un modus.

La rappresentanza nella volontà non è riconosciuta dallo ius civile. Chi amministra affari altrui, o per legge (tutore), o per convenzione (mandatario), o per iniziativa spontanea (gestore senza mandato), non poteva far sì che gli atti da lui compiuti avessero direttamente efficacia per l'amministrato. Ciò deriva dalla struttura dell'organismo familiare romano, piccolo organismo politico autonomo, e dalla conseguente repugnanza di delegare a persone estranee alla familia la volontà del paterfamilias.

Le eccezioni spuntano nello ius honorarium e si allargano nel diritto giustinianeo.

L'ATTO ILLECITO. - La dottrina dell'atto illecito è una delle dottrine più difficilmente ricostruibili nella sua storica evoluzione. Atto illecito - si dice - è l'atto lesivo di un diritto altrui; la volontarietà dell'atto costituisce la colpa, la lesione del diritto consiste nel danno. Si dice poi colpa contrattuale quella che interviene negli atti che sono illeciti a cagione di un particolare rapporto con la persona lesa, solitamente contrattuale, extracontrattuale, quella che occorre in tutti gli atti illeciti per sé stessi. Dicendosi così, si usa il termine colpa in un significato improprio: il termine, così usato, comprende il dolo e la colpa propriamente detta.

I problemi sorgono particolarmente intorno al concetto tecnico di colpa e al modo di atteggiarsi e di evolversi della responsabilità nei contratti e negli atti illeciti produttivi di obbligazione.

Nell'atto illecito extracontrattuale, riparabile mediante la prestazione di una poena, si risponde per dolus e per culpa: termine, codesto, che nell'età antica, e anche classica, non sembra indicare difetto di negligenza, prevedibile non previsto, imperizia nella propria arte o mestiere; ma invece, e soltanto, nesso causale fra l'azione o omissione individuale e l'evento dannoso o pericolo che ne deriva. Particolarmente interessanti sono i testi concernenti la responsabilità derivante da quell'atto illecito (delictum) che è il damnum iniuria datum, nei quali il rilievo della culpa intesa come mancanza di diligenza sembra, con molta probabilità, dovuto a interpolazione dei testi stessi; per modo che, se si risponde nell'atto illecito extracontrattuale anche per colpa, sia nel diritto classico sia nel diritto giustinianeo, il regime della responsabilità è diverso nei due diritti, diverso essendo il concetto di colpa.

Più delicata è l'indagine circa i limiti dell'atto illecito contrattuale. Che la responsabilità per dolo rappresenti, nella massima parte dei casi, il punto di partenza, è tra i risultati che si possono considerare sicuri: soltanto per dolo si risponde originariamente nel mandato, nella tutela, nella società, nella fiducia. Ma una più aggravata responsabilità non doveva tardare, in alcuni casi, a profilarsi: Gaio (3, 205-206) accenna all'obbligo di praestare custodiam da parte del fullo, del sarcinator, del commodatario, e l'attuazione pratica più saliente è nella responsabilità del debitore per il furto commesso da altri sopra le cose affidategli, anche se al furto non abbia in alcun modo concorso né la mala volontà né la negligenza di lui. La responsabilità per colpa è piuttosto tardiva, e, anche quando si afferma, conformemente all'uso letterario rilevato da L. Mitteis, sembra esprimere un nesso causale oggettivo, proprio quel nesso che sembra esprimere nell'atto illecito extracontrattuale. La responsabilità contrattuale per colpa, anche qui intesa come mancanza di diligenza, sarebbe un nuovo criterio della determinazione della responsabilità affermatosi nel diritto giustinianeo anche in ordine all'atto illecito contrattuale.

Certamente postclassiche giustinianee sono le gradazioni e classificazioni dei varî tipi di colpa nel nuovo significato: la distinzione tra culpa lata e culpa levis (O. Lenel); la distinzione tra culpa in abstracto e culpa in concreto (L. Lusignani); l'equiparazione della culpa lata al dolus (A. de Medio). Di là da ogni responsabilità è il casus fortuitus, il perimento della cosa che non sia in alcun modo imputabile all'obbligato. I testi giustinianei insistono nel rilevare che ciò vale soltanto per quegli accadimenti che nessuna prudenza umana potrebbe antivedere: in quelle calamità che i Greci chiamavano ϑεοῦ βίαι.

Danno risarcibile è, naturalmente, il danno giuridico; non la privazione di qualunque vantaggio economicamente valutabile.

CLASSIFICAZIONE DEI DIRITTI. - Nel diritto classico e giustinianeo, come nel diritto moderno, i diritti reali e di obbligazione rientrano nel più vasto concetto dei diritti patrimoniali. Il diritto di proprietà e gli altri diritti reali, i diritti di credito, sono, infatti, elementi costitutivi del patrimonio (bona) di un soggetto. Ai diritti patrimoniali si contrappongono i diritti di famiglia. Ma nel diritto più antico il raggruppamento è diverso: nelle origini si avvicinano, fin quasi a confondersi, i diritti di famiglia e i diritti reali. I termini ius e potestas si adoperano promiscuamente per gli uni e per gli altri: in re potestas è definita la proprietà; ius è la denominazione del potere sopra le persone dipendenti, che si dicono per ciò alieni iuris. La vindicatio si esercita così per rivendicare la proprietà sulla cosa, come la patria potestà sul filius familias: ex iure Quiritium sono l'una e l'altra. Le obbligazioni, invece, si svolgono nei rapporti tra familia e familia. Le due sfere antitetiche sono così segnate: la sovranità familiare sulle persone e sulle cose; i rapporti interfamiliari tra gruppo e gruppo.

LA FAMIGLIA. - Secondo la teoria prevalente fra i giuristi, la familia è nella primitiva società romana un piccolo organismo politico, le cui funzioni vanno diminuendo e alterandosi nel corso del tempo. Nelle società primitive, e così nella romana, non è mai costituito un solo organismo per mantenere l'ordine e provvedere alla difesa, ma ve ne ha una serie; l'uno al disopra dell'altro. Familia iure communi è l'organismo costituito dall'insieme di tutti coloro che sarebbero soggetti alla stessa autorità se il comune pater familias non fosse morto; familia iure proprio è l'insieme delle persone congiunte fra loro dall'autorità che una di esse esercita su tutte le altre per fini che trascendono l'ordine domestico. Nelle origini, la morte del paterfamilias non provocava lo scioglimento del gruppo, perché il testamento del paterfamilias destinava a succedergli uno dei filiifamilias, il più degno, e tutte le persone del gruppo venivano così assoggettate all'autorità del nuovo capo: successivamente alla morte del paterfamilias, i sui, o per testamento o ab intestato, succedono e singuli singulas familias incipiunt habere: cioè la familia iure communi non è più in atto; peraltro, tra i sui si attua una legitima e naturalis societas nel senso che, pur diventando ognuno dei filiifamilias erede, l'unità patrimoniale della familia non è rotta né spezzato il territorio sul quale il paterfamilias morto esercitava il suo potere sovrano. Al potere di un solo (il suus designato) sottentra il potere dei sui, nella stessa guisa che nel campo della civitas al potere del rex, magistrato unico, si sostituisce nel tempo il potere collegiale dei consules; finalmente, e certo già a partire dalla legge delle XII Tavole, i sui possono chiedere la divisione del patrimonio o del territorio con l'actio familiae erciscundae. Ulpiano (Dig., L, 16, de verb. sign., 195, 2) mette ancora in risalto la struttura e la funzione della familia scrivendo: "iure proprio familiam dicimus, plures personas quae sùb unius potestate aut natura aut iure subiectae sunt": la famiglia moderna, che ha la sua base nel vincolo del sangue, non nella soggezione delle persone che la compongono al suo capo, nel diritto romano non ha un nome. Il termine paterfamilias non esprime un rapporto di parentela, ma un rapporto di potestà: pater era anche il capo antico della gens; patres sono i senatori, cioè probabilmente i capi delle gentes in origine; ovvero i patrizî, la classe dei signori, di fronte alla plebe; pater è il titolo che si dà alla divinità o ai principi della leggenda antica. Paterfamilias è colui qui in domo dominium habet; con questa parola - dice Ulpiano - si esprime lo ius di cui la persona è investita. Filiusfamilias, correlativamente, è termine che non indica un vincolo di parentela, ma un rapporto di soggezione: il paterfamilias è sui iuris; il filiusfamilias è alieni iuris, perché sottoposto allo ius del proprio paterfamilias. Il complesso dei poteri del paterfamilias sui filiifamilias o sui servi si dice manus o potestas; il potere sulle cose, o sui filiifamilias altrui, venduti o dati in espiazione di un delitto da loro commesso, mancipium.

La costituzione del vincolo familiare (agnazione) avviene in modi perfettamente analoghi a quelli che regolano l'acquisto della qualità di cittadino in uno stato. Primo titolo per cui si diventa membri di una familia è la procreazione ex iustis nuptiis da un individuo maschio della familia, precisamente come nello stato il titolo primo di acquisto della cittadinanza è la nascita da padre cittadino. È titolo equipollente l'essere assunto nella familia per opera del paterfamilias, precisamente come nello stato il potere sovrano può concedere allo straniero, o a comunità straniere annesse, la cittadinanza. Codesta assunzione si ottiene con l'adozione, con l'arrogazione, con la conventio in manum: nel primo caso, si ha l'assoggettamento di un filiusfamilias; nel secondo, quello di un paterfamilias, che importa l'estinzione di una familia; nel terzo caso, quello di una donna che, in occasione del matrimonio si assoggetta (al marito, se paterfamilias, o al paterfamilias del marito, se questi è filiusfamilias) o con l'atto della confarreatio o con l'atto della coemptio o mediante l'usus.

Anche i modi con cui si esce dalla familia e si rompe il vincolo agnatizio sono, quanto al carattere generale, perfettamente analoghi ai modi di perdita della cittadinanza. Il vincolo familiare si rompe con l'adozione in altra familia, con l'arrogazione, con l'emancipazione, oltre che cessa con la perdita della libertà e della cittadinanza. Può parer singolare che i Romani parlino di capitis deminutio non solo nel caso di arrogazione, in cui l'arrogato perde la qualità di sui iuris, ma anche nel caso di adozione, che non altera la capacità giuridica dell'adottato, o di emancipazione che, anziché diminuirla, la fa piena. Se, ciò nonostante, ne parlano, è perché la familia è un piccolo gruppo analogo alla civitas, e l'uscire da essa non si può rappresentare diversamente che come l'uscire dalla civitas.

La natura del potere del paterfamilias è quella della sovranità nei corpi politici. È un potere perpetuo.

Come ogni organismo politico dell'età antica, la familia aveva i suoi sacra, e il paterfamilias ne era il sacerdote. Egli poteva disporre dei filiifamilias vendendoli (ius vendendi), locandoli, esponendo o uccidendo i neonati. L'uccisione dei neonati deformi o gracili è opera di eliminazione dei membri deboli per conservare i più forti, i più atti alla difesa e al lavoro produttivo; l'esposizione dei neonati, specialmente di sesso femminile, mira a ridurre le nascite esuberanti che eccedano le possibilità del gruppo o gli riescano soverchiamente onerose; la facoltà di vendere o locare i filiifamilias corrisponde alla esigenza di sopperire ai bisogni economici della familia col sacrificio dei singoli o a quella di eliminare i membri nocivi.

Il paterfamilias era giudice dei filiifamilias e, per le colpe commesse, aveva autorità di punirli in tutti i modi possibili: con la prigionia, con pene corporali, con la morte (ius vitae et necis): questo potere, il più grave di tutti, come dice Dione Crisostomo, non è ancora rinnegato nell'età adrianea, quando si condanna alla deportazione un paterfamilias, non perché uccise il filiusfamilias, ma per il modo (latronis more magis quam patris iure) con cui l'uccise. I mores della familia stabilivano le colpe, le condanne, le forme. Il diritto punitivo nello ius publicum è ricondotto all'imperium del magistrato, nello ius privatum all'imperium domesticum: il paterfamilias è designato come domesticus magistratus o censor. Per i delitti commessi verso gli estranei poteva liberarsi da ogni responsabilità consegnando il filiusfamiltas alla persona lesa o alla sua familia, come si usava dalle antiche comunità internazionali (ius noxae dandi).

Egli è, inoltre, l'unico soggetto di diritti patrimoniali. Le persone sogette acquistano necessariamente a lui, ma non possono obbligarlo: melior condicio fieri potest, non deterior (Dig., L, 17, de div. reg. i. a., 133). Questo regime è conforme all'indole politica del consorzio familiare: obbligare lo stato per convenzione, o impegnarsi a cedere i beni dello stato, può internazionalmente soltanto chi ne ha la rappresentanza e, nel governo monarchico della familia, il paterfamilias. Poteva egli concedere alle persone a lui sottoposte un piccolo patrimonio o un'azienda di affari (peculium); ma la persona sottoposta non ne diventava padrone neppure se il paterfamilias l'avesse voluto. Anche quando nell'età imperiale una ragione squisitamente politica fa diventare proprio del filiusfamilias miles ciò che egli acquista al campo, o gli viene donato quando entra nella militia (peculium castrense), l'unità patrimoniale della familia è appena scalfita, non spezzata; morto senza testamentn il filissfamilias, il peculio castrense torna al paterfamilias iure peculii. Nei rapporti con i terzi il paterfamilias non rimane obbligato per i debiti contratti dalle persone soggette alla sua potestà: soltanto l'interesse del commercio portò a questo principio alcune eccezioni, che erano limitazioni naturali, in quanto vi ha il consenso esplicito o implicito del paterfamilias a obbligarsi: esplicito quando c'è la sua dichiarazione espressa (onde l'actio quod iussu); implicito, quando c'è la preposizione della persona sottoposta, filius o servus, a un'azienda (onde l'actio exercitoria e l'actio institoria), o la concessione di un peculio (onde l'actio de peculio o l'actio de in rem verso o l'actio tributoria).

Questo edificio della familia crolla nell'età del Basso Impero, sia per l'involuzione stessa dell'organismo familiare, sia per le influenze ellenistiche e cristiane. Il vincolo dell'agnazione cede il posto al vincolo della cognazione. La conventio in manum è un istituto spento; l'adoptio è un istituto modellato sulla greca υἱοϑεσία, e non fa distaccare il filiusfamilias, nella maggior parte dei casi, cioè nella cosiddetta adoptio minus plena, dalla familia donde esce; a datare da Valentiniano, nei delitti lo ius patrium deve cedere allo ius publicum; la nova hominum conversatio fa abolire lo ius noxae dandi rispetto ai filiifamilias; l'augusta patria potestas è ridotta a un misurato potere di correzione e di disciplina, non diverso da quello del padre nel diritto moderno se non in ciò che nel diritto giustinianeo è ancora diritto esclusivo del maschio (e precisamente dell'ascendente più remoto) e perpetuo. L'unità patrimoniale della familia è rotta, e i filiifamilias acquistano una capacità giuridica patrimoniale: peculium castrense, attribuito in ogni caso al filius familias, o agli eredi suoi; peculium quasi castrense (costituito con i lucri pubblici); peculium adventicium, in cui rientrano bona materna, bona materni generis, lucri acquistati per l'altrui liberalità o col proprio lavoro. L'ordinamento circa il peculium adventicium è tale quale negli articoli 228-229 del cod. civ. italiano.

Nella familia possono esservi varie società domestiche (quelle che noi chiamiamo famiglie), soggette al potere del paterfamilias. Base della società domestica è il matrimonio. La definizione modestiniana (Dig., XXIII, 2, de ritu nupt., 1): "nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio") rende esattamente con le parole consortium omnis vitae l'intimità e la comunanza del vivere, descritta come individuae consuetudo vitae in altra definizione, forse ulpianea; e con le parole divini et humani iuris communicatio esprime adeguatamente quelle che erano le conseguenze del matrimonio accompagnato da assoggettamento alla manus, per cui la moglie, fatta filiafamilias, partecipava ai sacra della familia del marito e si collocava come suus heres in questa familia. Nel diritto giustinianeo la definizione è conservata, ma assume una ben diversa significazione. Le parole consortium omnis vitae stanno a indicare il carattere di indissolubilità che il matrimonio deve avere; la communicatio humani iuris ha una vaga significazione sociale e non una precisa significazione giuridica; la communicatio divini iuris esprime non una conseguenza del matrimonio, ma una condizione per contrarlo e vuol dire che è vietato il matrimonio tra persone appartenenti a religione diversa. La conclusione del matrimonio non richiede alcuna forma giuridica: è posto in essere dalla deductio della donna in domum mariti e dalla intenzione di vivere come marito e moglie (intenzione, che nel linguaggio giustinianeo è detta affectio maritalis); perché il matrimonio duri, è necessaria la continuità, sia del consensus, sia della convivenza; continuità non materialmente intesa, ma socialmente valutata. Per ciò il divorzio è conseguenza necessaria di questa nozione del matrimonio: c'è divorzio, quando il consensus di vivere maritalmente vien meno. Gl'imperatori cristiani intraprendono una gagliarda lotta contro il divorzio; ma questo è valido, anche quando è punito per essere sine causa o quando è punito il coniuge che ha offerto la causa di divorziare all'altro. E se Giustiniano nella Nov. 22 afferma ancora: "ex iis quae inter homines eveniunt ligatum omne dissolubile", l'affermazione ha un valore più teorico che reale e riflette la contraddittorietà dello spirito del legislatore, ondeggiante fra il nuovo e l'antico: in testi interpolati egli afferma che nuptias consensus facit svalorando l'elemento della convivenza e fa, nonostante il venir meno di questa, perdurare il matrimonio del captivus e il matrimonio del deportato.

Il matrimonio può essere preceduto dagli sponsali: istituto più sociale che giuridico nell'età classica; largamente regolato dal diritto, sotto l'influenza orientale e cristiana, nella legislazione giustinianea.

Distinto dal matrimonio è il concubinato, che nel diritto classico è la convivenza stabile con donna di bassa condizione, in generale una propria liberta, senza l'honor matrimonii, e nel diritto iustinianeo è la convivenza stabile con donna di qualunque condizione, senza l'intenzione, che deve risultare da una dichiarazione espressa, di convivere con lei maritalmente. L'istituto è naturalmente combattuto dagli imperatori cristiani, ma con armi diverse: gl'imperatori anteriori a Giustiniano, vietando o limitando le donazioni e i lasciti alla concubina e ai suoi figli (liberi naturales); Giustiniano, elevando il concubinato a inaequale coniugium. Nell'epoca romano-ellenica, a favore dei liberi naturales, sorge l'istituto della legittimazione.

Il regime patrimoniale fra coniugi è il regime dotale. La dote è termine che etimologicamente significa dazione, donazione: ed era effettivamente una donazione fatta al marito dalla donna o da altri per lei. I diritti costituiti in dote erano acquistati al marito e soprattutto egli diventava proprietario delle cose dotali. Ma presto, quando avvennero i primi divorzî non giustificati dal costume, il costituente la dote usò stipulare la restituzione della dote stessa (cautio rei uxoriae) nel caso di divorzio; successivamente, per qualunque altra causa di scioglimento del matrimonio. Più tardi venne data un'azione per la restituzione della dote anche se non ne era stata stipulata la restituzione, cioè l'actio rei uxoriae, di probabile origine pretoria. Essa era attivamente intrasmissibile; cosicché, morta la donna, poteva essere restituita soltanto la dote costituita dal padre; quella costituita dalla donna stessa o da altri che non fosse il padre, restava presso il marito. La finalità sociale dell'istituto era quella di provvedere ad sustinenda onera matrimonii: per ciò, ad assicurare il raggiungimento di questa finalità, viene fatto obbligo al marito di bene amministrare la dote e la lex Iulia intervenne a vietare l'alienazione del fondo dotale. Nel diritto classico peraltro, il diritto di proprietà del marito è controllato e limitato può, sciolto il matrimonio, cessare; ma non è rinnegato mai, anzi sempre presupposto. Nel diritto del Basso Impero, invece, la struttura dell'istituto si altera sotto l'influenza ellenistica: la dote non è più un negozio a titolo lucrativo, ma si trasforma in negozio a titolo oneroso. La finalità sociale della sua destinazione, ad sustinenda onera matrimonii, diventa la sua causa giuridica. Il marito non fa più suoi i frutti della dote come proprietario, ma li fa suoi - dice un testo interpolato (Dig., XXIII, 3, de iure dot., 7 pr.) - per una considerazione di equità: "cum enim ipse onera matrimonii subeat, aequum est etiam eum fructum percipere". Egli è un amministratore della dote e ne percepisce i frutti, è considerato alla stregua di un usufruttuario; è detto dominus, secondo Giustiniano, per una mera subtilitas legum, ma iure naturali proprietaria della dote è la donna. È da questa mescolanza della concezione romana con la concezione ellenistica che è nato il celebre bisticcio, interpolato in un testo di Trifonino (Dig., XXIII, 3, de iur. dot., 75): "quamvis in bonis mariti dos sit, mulieris tamen est". Coerentemente, le costituzioni giustinianee generalizzano l'obbligo della restituzione della dote, sia rendendo trasmissibile agli eredi della donna l'azione dotale (ora detta actio dotis o de dote e nella costituzione riformatrice, con grande improprietà, actio ex stipulatu), sia restringendo il concetto di dos profecticia, cioè i casi in cui la dote doveva essere restituita al paterfamilias.

Ignoto al diritto nazionale romano è l'istituto della donazione nuziale, così diffuso e ricco fuori del mondo romano e radicato in Oriente. Esso è regolato nella legislazione del Basso Impero: è la donazione del marito, con la funzione di fornire alla donna un appannaggio vedovile. Ma il diritto di proprietà della moglie sulle cose che formano oggetto della donazione nuziale è attribuito ai figlioli di primo letto, se la vedova passa a seconde nozze, da una costituzione di Teodosio il Grande del 382; è ridotto ad una quota virile della donazione, anche senza seconde nozze, da Giustiniano. Il quale regola uniformemente dote e donazione nuziale nell'interesse dei figli.

Rientrano nel diritto familiare anche gli istituti della tutela e della cura. Tutore era, nelle origini, il nuovo capo chiamato a reggere la familia; di questa fase originaria dell'istituto cè ancora traccia nella definizione di Servio (Dig., XXVI, 1, de tut., 1 pr.): "tutela est vis ac potestas in capite libero ad tuendum eum, qui propter aetatem <vel sexum > sua sponte se defendere nequit, iure civili data ac permissa" e nella maggiore accentuazione dell'auctoritas del tutore, anziché della sua gestione patrimoniale. Soggetti a tutela erano le donne sui iuris e i maschi impuberi sui iuris. Via via che ci si allontana dalle origini, la tutela muliebre, di cui Gaio confessa di non sapersi rendere plausibile ragione, va smarrendo ogni carattere di potestà e va sempre più riducendosi, finché nel secolo IV d. C. scompare. In direzione perfettamente opposta all'istituto nazionale romano, Valentiniano III (anno 390) permise alla madre e all'ava di essere tutrice dei proprî figli e nipoti. Anche la tutela degli impuberi sui iuris perde ogni carattere potestativo e, trasformatasi in un mero istituto di protezione, diventa un pubblico officio (munus publicam).

La cura rappresenta un complesso di istituti che hanno per carattere comune la gestione di un patrimonio appartenente a un soggetto, che non può amministrarlo da sé, o l'assistenza (consensus) agli atti che il soggetto compie. La cura dei pazzi (furiosi) e dei prodighi (cioè, originariamente, di coloro che bona paterna avitaque disperdunt) risale alla legge delle XII Tavole; la cura dei minori di venticinque anni spunta in seguito alla lex Plaetoria (191 a. C.). Sennonché la cura minorum ha svolgimento assai diverso da quello della cura furiosi e della cura prodigi. Il curatore del minore non è mai divenuto nel diritto classico un amministratore obbligatorio. Il minore, che lo desiderasse, poteva avere, da principio, un curatore ad singulas causas, cioè dato per singoli negozî; a datare da Marco Aurelio, un curatore stabile. Ma questo era dato minoribus desiderantibus, ai minori che idonee negotia sua tueri non possunt. È principio fermo nel diritto romano classico, e sopravvivente come lettera morta nelle istituzioni giustinianee, che i minori inviti curatorem accipere non possunt. L'obbligatorietà della cura minorum si sviluppa nel Basso Impero sotto l'influenza dei diritti ellenistici, che facevano acquistare la capacità di agire in un'età oscillante fra i venti e i venticinque anni: in piena contraddizione con i testi genuini, un testo interpolato (Dig., IIII, 4, de min. v. q. ann., 1, 3) avverte che il curatore si dà a tutti i minori, "quamvis bene rem suam gerentibus". Per ciò nella legislazione giustinianea la cura minorum è accostata alla tutela, fusa e confusa con essa. Anche l'azione data nei rapporti tra curatore e minore, l'actio negotiorum gestorum, è detta actio utilis (tutelae).

LA PROPRIETÀ E GLI ALTRI DIRITTI REALI. - I Romani non hanno mai definito il diritto di proprietà: la definizione è frutto della riflessione giuridica moderna. D'altra parte la definizione moderna, che la dice la signoria generale sulla cosa sia in atto, sia per lo meno in potenza, è definizione che si conviene non soltanto al dominium ex iure Quiritium, ma ad altri istituti che i Romani non designavano con questo nome: così, alla possessio dei fundi tributarii e stipendiarii, alla possessio dell'ager publicus occupatorius. Se queste possessiones non erano reputate proprietà nel diritto romano, ciò non accadeva perché vi mancassero gli elementi caratteristici della proprietà nel senso odierno: il contenuto economico della proprietà vi era tutto; il suo carattere dinamico, anche; ciò che mancava erano alcuni elementi non economici che caratterizzavano il dominium ex iure Quiritium. Ed erano questi. Il fondo, oggetto di dominium, aveva nell'antica età confini segnati mediante la limitatio e uno spazio libero attorno ai confini (iter limitare in campagna, ambitus in città), come l'urbs nel suo pomerio attorno alle mura; e, come le mura e il pomerio, i confini dei fondi (limites) erano annoverati fra le res sanctae. Il dominium è, nelle origini, signoria assoluta, illimitata internamente: le stesse servitù rustiche sembrano ignote al più antico diritto. Il dominio, come respinge ogni influenza straniera, ha virtù assorbente entro i suoi confini: acque, metalli, tesoro, piante, edifici, alluvioni, res nullius o res alienae che si incorporino nel fondo, tutto appartiene al dominus del fondo. Il fondo, di cui si ha il dominium, è immune, franco e libero da ogni peso: l'antico tributo si paga secondo i beni, non sul dominio. Il dominium è infine perpetuo; non si può costituire ad tempus.

Tutto ciò sta a dimostrare che il dominium ex iure Quiritium è, da principio, più un diritto politico di sovranità che un diritto privato di proprietà, avente un vero contenuto economico: è precisamente il diritto sovrano che il paterfamilias esercita sul territorio della familia. L'evoluzione storica ha logorato gli elementi non economici del dominium; e, come la società domestica si sostituisce alla familia nel senso romano, la proprietà nel senso moderno si sostituisce al dominium nel suo senso originario. I due movimenti sono graduali e paralleli. I Romani indicano pure l'essere proprietario col dire che la cosa ci appartiene: res in bonis est, onde i diritti altrui sulla cosa nostra sono iura in re. Quando all'appartenenza della cosa al soggetto si dà minore rilievo e si preferisce rappresentare la proprietà come ius in re - e ciò accade nel diritto giustinianeo e moderno - i diritti altrui sulla cosa nostra sono iura in re aliena. I modi di acquisto della proprietà si sogliono nella dottrina moderna distinguere in modi originarî e derivativi, secondo che è un rapporto diretto con la cosa o un rapporto con la persona dell'antico proprietario che giustifica l'acquisto. La distinzione è estranea alle fonti romane, e non felice. L'acquisto della proprietà dei frutti è, a seconda dei casi, originario o derivativo; l'usucapione mal si sa collocare tra gli uni o tra gli altri. Sono classificati tra i modi originarî: l'occupatio, l'inventio, l'accessio, la specificatio, la confusio e la commixtio; tra i derivativi, la mancipatio e la cessio in iure per le res mancipi, la traditio (per le res nec mancipi nel diritto classico e per tutte le res nel diritto giustinianeo) e modi di acquisto stabiliti ex lege. La tradizione, che già non era più intesa in senso materialistico (era però sempre intesa in senso realistico) nel diritto classico, si viene spiritualizzando nel diritto giustinianeo: la traditio clavium, fatta a distanza dal magazzino in cui le merci sono riposte, precede storicamente la polizza di carico e la fede di deposito nell'operare il trasferimento di proprietà della cosa senza bisogno di materiale spostamento. Un posto a sé tra i modi di acquisto occupa - abbiamo detto - l'usucapione: essa è la fusione, nel diritto giustinianeo, della usucapio, applicata nell'età antica e classica ai fondi in solo italico, e della longi temporis praescriptio, applicata nell'età classica ai fondi provinciali. "Bono publico" introdotta - come dice Gaio (Dig., XXXXI, 3, de usurp. et usuc., 1) - "ne scilicet quarundam rerum diu et fere semper incerta dominia essent", è definita da Modestino (Dig., ibid., 3) "adeptio dominii per continuationem possessionis temporis lege definiti". Il tempus lege definitum è un'interpolazione, richiesta dal fatto che nel diritto antico e classico le res soli si usucapivano in due anni, le ceterae res in un anno, mentre Giustiniano stabilisce il termine di tre anni per le cose mobili, di dieci o di venti anni per le cose immobili a seconda che le parti siano presenti, o no, nella stessa provincia. Per quanto la fusione tra usucapio e longi temporis praescriptio sia avvenuta, Giustiniano programmaticamente parla di usucapio in ordine ai mobili, di longi temporis praescriptio in ordine agli immobili.

Tra i modi di perdita della proprietà ha particolare rilievo la derelizione, cioè l'abbandono assoluto della cosa fatto con animo di rinunciare al dominio. Giustiniano segue l'opinione sabiniana che la proprietà si perda immediatamente e non quando altri se ne impadronisca. La proprietà è difesa dalla rei vindicatio e dalla actio negatoria (nel diritto classico duplice: negatoria, prohibitoria). Il convenuto nella rei vindicatio deve restituire la cosa cum omni causa: Giustiniano modifica il regime dei frutti, costringendo il possessore di buona fede a restituire prima della contestazione della lite i fructus extantes e il regime delle spese impostandolo sul generale principio che il dominus non deve arricchirsi neppure a danno del possessore di mala fede.

Particolarmente interessante è l'istituto del condominio. La norma classica, "duorum vel plurium in solidum dominium esse non potest", reagisce contro la più antica concezione dell'istituto, in cui ogni condomino poteva disporre di tutta la cosa (p. es.: vendere un fondo, manomettere uno schiavo) indipendentemente dagli altri, proprio come nel diritto pubblico ognuno dei due consoli era titolare di tutto il potere sovrano. Gli è che nelle origini, essendo la proprietà una sovranità, il condominio era una consovranità. Limite a tutto il potere dell'uno era l'intercessio del collega, lo ius prohibendi del condomino. Sopravvivenza di questo regime entro l'età classica è l'uso indipendente che ciascun condomino può fare della cosa comune, ma che può essere impedito da uno qualunque dei condomini. L'istituto si modifica profondamente nel diritto giustinianeo: l'uso della cosa è regolato dalla maggioranza dei condomini; la pars derelicta da un condomino non si accresce all'altro condomino, ma è oggetto di occupazione; la quota dello schiavo manomesso non si accresce all'altro condomino, ma questi è tenuto, favore libertatis, a vendere dietro indennizzo la quota sua. Altre innovazioni sono dettate dal favor religionis.

Le limitazioni del diritto di proprietà, indipendenti dalla volontà del proprietario, cioè legali, non sono originarie nel diritto romano e sono rare, e generalmente di carattere transeunte, nel diritto romano classico. Dilagano invece nel diritto giustinianeo, generate da diverse tradizioni e dalle diverse condizioni della proprietà fondiaria nelle provincie. Fanno il loro ingresso nel diritto, tra le altre, l'espropriazione per causa di pubblica utilità e il passaggio coattivo al sepolcro intercluso, che si svilupperà più tardi nel passaggio coattivo a qualunque fondo intercluso e nell'acquedotto coattivo.

La servitù, nel concetto romano, è un peso imposto a un fondo (servente) a vantaggio di un altro fondo (dominante): servitù, insomma, è quella che noi moderni diciamo servitù prediale e i Romani dicevano anche, rispetto al fondo dominante, ius praedii. Nel diritto giustinianeo, invece, la servitù è un concetto più largo, comprendente anche i diritti personali di godimento sulla cosa altrui: usufrutto, uso, abitazione, opere degli animali e degli schiavi; allargato e snaturato il concetto classico, Giustiniano distingue tra servitutes personarum (usufrutto, uso, abitazione, opere degli animali e degli schiavi) e servitutes rerum (che erano le sole servitutes romane).

Caratteristiche della servitù prediale sono l'inalienabilità, separatamente dal fondo a cui aderisce, e l'indivisibilità (una servitù non può essere costituita pro parte, ad esempio da uno dei condomini). La perpetua causa era probabilmente richiesta soltanto nella servitù di acque. Le servitù si distinguono in rustiche e urbane (il criterio della distinzione è controverso: P. Bonfante); le rustiche (le più antiche tra esse sono la servitù di passaggio - iter, actus, via - e la servitus aquaeductus) sono res mancipi (attengono all'economia agricola propria dell'antico popolo quirite); le urbane, nec mancipi. Prima della lex Scribonia le servitù erano usucapibili, non perché si possedesse il diritto di servitù, ma perché il fondo posseduto aveva quella qualitas dalla servitù rappresentata: la lex Scribonia l'abolì (nel diritto classico il diuturnus usus, la vetustas fa presumere - ma non acquistare - il diritto); ma risorge nel diritto giustinianeo come acquisto del diritto di servitù attraverso il possesso del diritto stesso, che la legislazione giustinianea ammette.

L'usufrutto e l'uso sono diritti personali di godimento che nell'evoluzione storica si sono andati accostando. Hanno origine assai più recente delle servitù prediali. L'usufrutto è definito (Dig., VII, 1, de usufr., 1) "ius alienis rebus utendi fruendi salva rerum substantia", cioè senza alterare la destinazione economica della cosa. L'usufruttuario (dominus ususfructus, fructuarius o usus fructuarius) deve usare della cosa da buon paterfamilias, può fruire delle miniere in esercizio e nel diritto giustinianeo può anche aprirne di nuove; fa suoi i frutti naturali nel momento della percezione, i frutti civili giorno per giorno. A garanzia dei suoi obblighi deve promettere al proprietario (dominus proprietatis, nel diritt0 giustinianeo dominus nudae proprietatis) se usurum boni viri arbitratu et restituturum. Nel diritto intermedio l'obbligo di conservare per restituire divenne inerente all'usufrutto, cioè legale. Si disputò - nel diritto classico - se potesse costituirsi usufrutto a favore di persone giuridiche: la disputa nasceva dalla considerazione ne in perpetuum inutiles essent proprietates semper abscendente usufructu: il diritto classico superò la disputa ammettendone la possibilità; il diritto giustinianeo fissa il termine massimo di cento anni, che si considerano finis vitae hominis longaevi. L'usufrutto, come dalla definizione emerge, non può esistere che su cose inconsumabili. Per le consumabili si costruì il quasi usufrutto (la terminologia è probabilmente giustinianea).

L'uso nel diritto classico era il diritto di usare della cosa altrui; nel diritto giustinianeo è altresì il diritto di percepire i frutti nella misura dei proprî bisogni: così la differenza tra usufrutto e uso nel diritto giustinianeo non è più qualitativa, ma quantitativa.

Nell'età postclassica si collocano entro il quadro dei diritti reali anche l'enfiteusi e la superficie. Questi istituti hanno radici profonde nella storia del diritto romano, benché il primo derivi soprattutto da istituti ellenistici. Ma nel diritto romano non sorgono come iura in re. L'enfiteusi ha un addentellato nella locatio degli agri vectigales: qui si ha un rapporto di locazione-conduzione; il vettigalista è un conductor. La lunga durata del rapporto (Centum anni pluresve) ha fatto rafforzare la difesa dell'istituto con un interdictum de loco publico fruendo; la perpetuità del rapporto l'ha rafforzata con gl'interdetti possessorî; forse, anche, con un'actio in factum, modellata sulla rei vindicatio. Ma l'enfiteusi ha un addentellato più profondo nello ius emphyteuticum e nello ius perpetuum del diritto greco: istituti sorti dietro la pressione delle condizioni economiche e ricollegantisi a particolari condizioni sociali. Nel diritto giustinianeo, l'enfiteusi è un diritto reale, alienabile e trasmissibile agli eredi, che attribuisce il pieno godimento del fondo con l'obbligo di non deteriorarlo e di pagare un annuo canone. I testi che parlavano dell'ager vectigalis sono stati adattati all'ager emphyteuticus; nelle fonti troviamo l'equazione: ager vectigalis, id est emphyteuticarius: ma l'equazione storicamente è falsa, perché la configurazione del diritto di godimento dell'ager vectigalis come ius in re è contraddetta dalle fonti classiche che parlano di locatio, sebbene anche in perpetuum fatta.

La superficie trasse origine nel mondo romano dalla necessità di rimediare alle conseguenze antieconomiche del concetto di dominium. Tutto ciò che sorge sul suolo iure naturali appartiene - dice Gaio - al proprietario del fondo. Si introdusse allora, prima sul terreno dello stato, poi delle città, infine dei privati, l'uso di concedere ad altri il diritto di fabbricare e godere a tempo o in perpetuo dell'edificio dietro il pagamento di un corrispettivo annuo (solarium). Proprietario della superficies, cioè dell'edificio, era il proprietario del fondo: tra questi e il superficiario si costituiva, anche qui, un rapporto di locazione-conduzione. Data la lunga durata del godimento, anche qui venne rafforzata la difesa del rapporto con un apposito interdetto che si richiamava alla lex locationis. Quando la locazione era fatta in perpetuum, è dubbio se anche qui fossero estesi gli interdetti possessorî e se addirittura fosse concessa un'actio in factum. Il titolo de superficiebus (Dig., XXXXIII, 18) è uno dei titoli del Digesto più largamente rimaneggiati dai compilatori giustinianei. Certo è che soltanto nel diritto giustinianeo la superficies si configura come ius in re, anch'esso alienabile e trasmissibile agli eredi, analogamente all'enfiteusi.

IL POSSESSO. - Il possesso ha, secondo la teoria qui accettata, la sua più remota origine nella concessione di terre, che il capo della gens faceva ai suoi clienti, con l'obbligo di restituirle ad ogni sua richiesta. Essendo il diritto sul territorio, sul quale la gens era insediata, un diritto di sovranità, il cliente, a cui la concessione era fatta, esercitava in fatto un potere sovrano revocabile ad arbitrio del concedente. Sorse, così, il precarium nella forma di un rapporto di vassallaggio. Dopo la costituzione della civitas un fenomeno molto analogo si ha nella concessione dell'ager publicus al godimento dei cittadini, dum populus senatusque romanus vellet: anche qui esercizio in fatto di una signoria sull'ager, di cui era titolare la civitas. L'espansione provinciale di Roma allargò immensamente la sfera del possesso: "in solo provinciali - Gaio (2, 7) avverte - dominium populi romani est vel Caesaris, nos autem possessionem tantum habere videmur".

Il godimento del territorio gentilizio concesso al precarista, prima; il godimento dell'ager publicus e dei fundi tributarii e stipendiarii, concessi al privato poi, erano tutti detti usus, fructus, possessio, e tutti costituivano una signoria di fatto sulla cosa: non importa se quella sul territorio della gens, prima, e sul territorio della civitas, poi, era signoria essenzialmente revocabile, mentre tale non era quella dei fundi tributarii e stipendiarii. Ogni signoria di fatto era possessio, fosse, o no, revocabile nel tempo. L'istituto trovò altre applicazioni extraprocessuali e anche processuali: sorsero, così, la possessio del creditore pignoratizio e del sequestratario. Finalmente, oltre questa possessio scompagnata dal diritto di proprietà ma concessa dallo stesso dominus, si delinea e si afferma la possessio di colui che, avendo la signoria giuridica sulla cosa, in fatto la esercita, e la possesio di colui che né ha la signoria giuridica sulla cosa, né esercita una signoria di fatto concessa dal dominus della cosa, ma esercita questa signoria contro la volontà (vi, clam) del dominus stesso. Naturalmente quest'ultima possessio aveva la protezione giuridica minima: era difesa interdittalmente, quando non fosse stata viziosa nei riguardi dell'avversario, e difesa non per proteggere un interesse giuridico privato, ma per riguardo a esclusive ragioni d'ordine pubblico e di sicurezza sociale. A questo punto, l'evoluzione è al sommo.

Ma il concetto della possessio doveva fatalmente semplificarsi. Quando sul finire dell'età repubblicana la possessio dell'ager publicus si consolidò in proprietà, la più vasta applicazione di possessio revocabile scomparve, e divennero figure irregolari di possessio quella del precarista, del creditore pignoratizio, del sequestratario, cioè le poche figure di possessio revocabile sopravvissute. La figura, che emergeva e dominava, era quella della possessio senza limite di tempo: consistente nella fisica disponibilità della cosa (detentio; naturalis possessio; corporalis possessio) con l'intenzione di tenerla sempre per sé (animus possidendi), non soltanto difesa dagl'interdetti, ma anche conducente, quando avesse avuto certi requisiti (esente da vizî di clandestinità, di violenza, di precarietà; ex iusta causa; bonae fidei), alla usucapione.

Questa, la possessio classica, non più espressa anche dai termini usus, usus fructus, che si trasportano invece nel campo dei diritti reali a indicarne due distinti tipi: signoria di fatto, che continua ad avere un regime profondamente diverso da quello dei diritti.

Agl'inizî del Basso Impero il concetto della possessio subisce un ulteriore mutamento. Con l'equiparazione dei fondi provinciali ai fondi italici, divenuti anche i fondi provinciali oggetto del dominium privato, cade una vasta applicazione - l'ultima - della possessio scompagnata dalla proprietà per concessione del dominus: la possessio allora o è soltanto quella del dominus o quella invito domino; ma la possessio, che socialmente rileva, è quella del dominus o di colui che crede almeno in buona fede di esserlo: la possessio animo domini, o bonae fidei, o - come anche dicono i Giustinianei - pro suo. L'altra è degradata e accostata alla detenzione e chiamata perfino con lo stesso nome (possessio naturalis o corporalis). In questa età si vuole che possegga chi ha il diritto di possedere. Collocato l'istituto sopra questa base, non è più nettamente considerato nella legislazione postclassica giustinianea come rapporto di fatto, ma piuttosto come un diritto. La natura di rapporto di fatto, insita nel possesso romano, fa sì che il possesso delle cose ereditarie non passi all'erede, se non vi sia stata una adprehensio delle cose stesse; che il coniuge donatario possieda le cose donate nonostante il divieto delle donazioni fra coniugi; che il pupillo acquisti il possesso senza l'auctoritas tutoris; che in ordine al possesso si ammetta la rappresentanza negata in ordine ai diritti; che, per effetto del postliminium, non possa essere continuato il possesso interrotto dalla captivitas e così via. Ma il diritto giustinianeo ammette che il captivus non perda il possesso (Dig., XXXXI, 2, de adq. v. am. poss., 23, 1: dove l'avverbio corporaliter è interpolato), né che lo perda l'assente (Cod., VIII, 4, unde vi, 11); ammette che si conservi il possesso del servus fugitivus (Dig., XXXXI, 2, de adq. v. am. poss., 13 pr.) e delle cose alienate dal rappresentante infedele (Cod., VII, 32, de adq. e. ret. poss., 12) o abbandonate dall'intermediario e occupate da altri (Dig., XXXXI, 2, de adq. v. am. poss., 3, 8). In tutti questi casi si dice che animo retinetur possessio: cioè che uno degli elementi-base della nozione del possesso romano (la detenzione) è svalorato: ciò che soprattutto conta è l'animus, e non il classico animus possidendi, che ha anche il ladro, ma il giustinianeo animus domini, la giustinianea opinio domini (ψυχὴ δεσπόζοντος). La nuova dottrina giustinianea è contenuta in. due celebri testi: il primo (Dig., XXXXI, 2, de adq. v. am. poss., 8) assume una significazione generale, avulso dalla sede originaria e non più in relazione alla fattispecie classica che lo giustificava; il secondo (Dig., XXXXIII, 16, de vi e. de v. a., 1, 25) assume una significazione generale espressa specialmente dalla parte finale interpolata: "ex omnibus praediis, ex quibus non hac mente recedemus, ut omisisse possessionem vellemus, animo retinemus possessionem". Una parallela evoluzione, o involuzione, avveniva nel campo di un altro rapporto di fatto, parallelo al possesso, il matrimonio. Anche qui la convivenza nel diritto giustinianeo poco rileva; rileva, indipendentemente dalla convivenza, la maritalis affectio.

I Romani non riconoscevano, accanto al possesso della cosa, il possesso dei diritti: gli ultimi giureconsulti classici ripetono ancora che "possideri possunt quae sunt corporalia", che "non intellegitur possideri ius incorporale". Vero è che avevano esteso, in via utile, gli interdetti possessori a difendere l'esercizio del diritto di usufrutto, di uso, di abitazione; ma la formula interdittale accennava nettamente all'uti frui, all'uti, non al possidere. Vero è anche che l'esercizio di alcune servitù di passaggio o di acque era protetto interdittalmente: ma, anche, qui, prescindendo dal rilevare che talvolta si richiedeva la buona fede o la prova del diritto, la formula interdittale accennava all'usus, non alla possessio. Nel caso, insomma, dell'esercizio dell'usufrutto e dei diritti similari, protezione interdittale costante, ma non possessoria; nel caso dell'esercizio delle servitù prediali, protezione né possessoria né costante.

Il possesso dei diritti è opera della scuola e della prassi del Basso Impero. E fu la conseguenza di due cause preponderanti. Prima: la concezione della proprietà non più veduta anche immedesimata, come per l'innanzi, con la cosa stessa (onde si esprimeva l'essere proprietario anche col dire res mea est, in bonis meis est), quanto soltanto come ius in re: che ragione vi era allora di distinguere tra il massimo ius in re e gli altri iura in re (aliena)? Ammessa la possessio rispetto al primo, sembrava ovvio ammettere la possessio anche rispetto agli altri. Seconda: la scomparsa di ogni differenza tra interdicta utilia e interdicta directa entro l'età postclassica. I maestri di questa età potevano rilevare che l'esercizio dell'usufrutto, dell'uso, dell'abitazione, era difeso così come se fosse stato possesso. Ecco di qui germinare sul terreno del diritto sostanziale la quasi possessio per indicare il possesso dei diritti. Prima, del diritto di usufrutto, di uso, di abitazione; poi, dei diritti costituenti le varie servitù prediali, accostate ai primi dentro l'ampia giustinianea categoria delle servitutes. La timida affermazione quasi possessio nel corso del tempo si trasforma senz'altro in possessio, e la legislazione giustinianea riconosce apertamente un possesso del diritto di proprietà, che esplicitamente chiama possessio rei, e un possesso degli altri diritti reali, che chiama possessio iuris. Che anzi, la possessio diventa un istituto che trascende il campo dei diritti reali. Non soltanto l'esercizio di un diritto reale è raffigurato come possessio e, come tale, difeso; ma nell'età postclassica e nella legislazione giustinianea si ammette la possessio della hereditas come tale e la possessio di un determinato status (o libertaas o servitutis o civitatis), la possessio di un privilegium. E, come attraverso la possessio di un diritto di servitù, la servitù può essere usucapita, attraverso la possessio dello status libertatis si può acquistare il diritto alla libertà. L'applicazione della terminologia possessoria agli status personali non ha un valore metaforico, ma reale: il concetto della possessio, trasportato anche in questo campo, è anche qui produttivo dei suoi giuridici effetti. Merita di essere riveduta la dottrina, largamente diffusa, che la tutela possessoria è stata estesa fuori del campo dei diritti reali soltanto nel diritto intermedio per influenza del diritto germanico, dei canonisti e della pratica. Questa estensione è già nella legislazione giustinianea.

L'OBBLIGAZIONE. - A distanza di quattordici secoli l'obbligazione moderna è definita nel modo stesso col quale viene definita nella compilazione giustinianea: "vinculum iuris, quo necessitate adstringimur alicuius rei solvendae" rapporto diverso dal diritto reale, e a questo contrapposto, perché "non in eo consistit ut aliquod corpus nostrum faciat, sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid vel faciendum vel praestandum". Ma, perché si potesse giungere a considerare l'obbligazione quel rapporto giuridico per il quale un soggetto ha diritto di esigere una data prestazione e, in difetto, una congrua soddisfazione patrimoniale, occorse lungo cammino.

La costrizione giuridica era nelle origini costrizione materiale, effettiva. Le parole che esprimono il sorgere del vincolo (obligare da ligare; nectere; adstringere) e, per contrario, il suo sciogliersi (solvere, liberare) esprimono nell'antico diritto romano una realtà viva: asservimento del debitore, o di altra persona in vece sua: asservimento, da principio, a titolo di pena; asservimento, poi, a titolo di garanzia quando interviene la pactio (composizione volontaria) o quando l'obbligazione, anziché sorgere da delitto, sorge da contratto, e il paterfamilias mutuatario assoggetta al paterfamilias mutuante un proprio dipendente (filius o servus) fino alla restituzione della cosa fungibile mutuata. L'età delle XII Tavole conosce, come regime già largamente diffuso per le obbligazioni ex delicto il sistema della composizione legale, sostituitosi a quello della composizione volontaria, per cui il debitore si sottrae all'asservimento pagando la pena costituita da una somma di denaro e fissata dalla legge: ma l'asservimento è ancora in atto, sia per il debitore ex delicto che non paghi la pena, sia per il debitore ex contractu fino al momento del suo adempimento. Un momento storico fondamentale nell'evoluzione dell'istituto è la data del 326 a. C., a cui risale la lex Poetelia: legge che vieta l'asservimento per i debiti derivanti da contratto: "ne quis, nisi qui noxam meruisset, donec poenam lueret in compendibus aut in nervo teneretur: pecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium esse". Le parole di Livio, che vedono in questa innovazione "velut aliud initium libertatis plebei romanae", non sono retoriche. Siamo, peraltro, ancora lontani dall'obbligazione classica, giustinianea e moderna. Perché, al sorgere dell'obbligazione, non è assoggettato il corpus ma è assoggettato necessariamente il patrimonio: l'obligatio si trasferisce dalla persona alle res. Per ciò si parla di res obligata. Altro cammino doveva compiersi, prima che anche il patrimonio non si assoggettasse necessariamente al creditore, ma si lasciasse nella disponibilità del debitore; a meno che con uno speciale negozio, fuori del rapporto obbligatorio e accessorio a questo (fiducia; pignus; nel diritto postclassico, hypotheca) il creditore ne effettuasse l'assoggettamento. Sopravvivenza storica, testimoniante ancora nel diritto classico l'antico regime della obligatio, è l'istituto della noxae deditio, per il quale il paterfamilias si libera dei filiifamilias e dei servi colpevoli consegnandoli a chi patì l'offesa: la noxae deditio per i delitti dei servi è istituto ancora vivo entro l'età giustinianea.

Come presso tutti i popoli antichi, nell'obbligazione romana antica si distinguono i due elementi del debitum e della obligatio: la persona asservita (cioè obligata) può essere diversa dalla persona che deve o la poena o la res. Anche nei negozî conchiusi durante il periodo statuale il fenomeno si ripete: nel contratto d'appalto il debitum è assunto dall'appaltatore (manceps); ma, se il manceps non adempie, la civitas si rivolge non contro di lui ma contro chi si è obbligato per lui: il praes o i praedes; si rivolge contro il manceps quando, con altro negozio, questi si sia costituito praes di sé stesso. Ma le rare figure di obbligazione, in cui in capo a un soggetto è il debitum, in capo a un altro l'obligaitio, nel corso del tempo scompaiono; e la persona, che debet, è la persona obligata. E il termine praestare smarrisce il suo significato e la sua funzione, quando in una delle due tradizionali definizioni della obbligazione indica ciò che al creditore è dovuto accanto al dare e al facere: e irriconoscibili sono l'antico significato e l'antica funzione nel nostro termine "prestazione", che indica ciò a cui il debitore è tenuto: o un dare o un facere. Tuttavia i debiti nascenti da un negozio lecito o da un atto illecito, disciplinato dal pretore, non sono chiamati dalla giurisprudenza romana obligationes, ma semplicemente debita. Gaio (4, 2) dice che è obligatus soltanto colui, contro il quale intendimus dare facere praestare oportere: cioè, contro chi è debitore secondo lo ius civile. La ragione sta in ciò: che, non essendo il pretore investito di funzione legislativa, non può creare l'obligatio, come non può creare il dominium né creare l'hereditas: ma crea una situazione giuridica sostanzialmente identica rispettivamente col debitum, con l'in bonis habere, con la bonorum possessio. La differenza pertanto tra obligatio e debitum è, dentro l'età classica, formale soltanto e terminologica: tanto vero che, quando, nell'età postclassica e nella legislazione giustinianea, scompare la distinzione tra ius civile e ius honorarium e diventa, anche formalmente, diritto lo ius honorarium, il termine obligatio si estende a indicare il debitum disciplinato dal pretore. Perciò nella definizione dell'obbligazione attribuita al giurista Paolo, ma compilatoria, si dice che l'obligatio costringe alcuno verso di noi ad dandum aliquid vel faciendum vel praestandum, e si omette l'oportere del testo gaiano, che restringeva i casi di dare, di facere, di praestare, al campo dello ius civile. Maturati tutti questi svolgimenti, si comprendono le definizioni dell'obbligazione, che contengono le fonti giustinianee.

RANDE LETT-R 32esimo 30

Nelle quali troviamo una fondamentale distinzione tra obligatio civilis e obligatio naturalis. Il significato di questa distinzione, chiaro nel diritto giustinianeo, è molto controverso nel diritto romano classico. Nel diritto giustinianeo l'antitesi riflette la contrapposizione tra ius civile e ius naturale; e, come l'obligatio civilis è vinculum iuris, l'obligatio naturalis è vinculum aequitatis: cioè vinculum senza coazione giuridica, appunto perché non vinculum iuris; produttivo, peraltro, di numerosi effetti giuridici, tra i quali la soluti retentio; tra i quali, soprattutto, la compensazione. Nel diritto classico, invece, obligatio naturalis era probabilmente soltanto l'obligatio del servus (S. Perozzi) e aveva effetti assai più limitati: soluti retentio e possibilità di formare oggetto di fideiussione.

La prestazione, per essere oggetto di obbligazione, deve riunire i seguenti requisiti: essere possibile (fisicamente e giuridicamente), lecita, determinata o determinabile, e - secondo almeno l'opinione dominante - deve offrire un interesse pecuniario per il creditore. Quando non si richiese più la determinatezza assoluta della prestazione, ma si ritenne bastare la sua determinabilità, sorsero le due figure dell'obbligazione generica e della obbligazione alternativa.

Se dal lato attivo o dal lato passivo del rapporto obbligatorio vi sono più soggetti, la regola è che essi sono creditori o debitori in solidum; la parziarietà guadagna via via terreno come regime di eccezione: cosi tra gli eredi, in forza della legge delle XII Tavole; tra gli sponsores, in virtù della lex Furia; tra i fideiussores, in forza del beneficium divisionis adrianeo; per espresse disposizioni di Giustiniano (Nov., 99) il movimento si fa più intenso nel diritto giustinianeo, cosicché in questo diritto ben si può dire che la parziarietà è fatta regola e la solidarietà eccezione. Dall'obbligazione solidale è da tenere distinta l'obbligazione cumulativa, in cui si sommano più obbligazioni aventi lo stesso oggetto; ma fu uno dei più tremendi abbagli della critica del Corpus iuris la distinzione tra obbligazioni solidali e obbligazioni correali, originata da un incompleto adattamento dei testi classici alla riforma giustinianea che non ammette l'estinzione dell'obbligazione per la contestazione della lite con uno dei debitori, se la contestazione della lite non è seguita dall'effettivo pagamento.

Il regime dell'obbligazione indivisibile è, nel diritto classico, assai semplice: l'obbligazione indivisibile è trattata come un'obbligazione solidale. Il diritto giustinianeo cerca di conciliare il carattere parziario dell'obbligazione indivisibile con la necessità del suo soddisfacimento integrale, nascente dall'indivisibilità del suo oggetto, e pone alcune eccezioni al regime della solidarietà: sopra tutto quella che l'obbligazione è pro parte, quando, a causa dell'inadempimento, si è trasformata in un'obbligazione al risarcimento del danno.

Le fonti delle obbligazioni sono diversamente poste nei testi genuini e nei testi giustinianei. Gaio nelle istituzioni (3, 88) dice che "omnis obligatio vel ex contractu nascitur vel ex delicto": contratto e delitto sono, dunque, le due fonti classiche delle obbligazioni. Un testo, pure attribuito a Gaio, e conservatoci nel Digesto (Dig., XXXXIII, de obl. et act., 1 pr.) direbbe invece che "obligationes aut ex contractu nascuntur aut ex maleficio aut proprio quodam iure ex variis causarum figuris": queste variae causarum figurae, diverse dal contractus e dal delictum, sarebbero - come successivamente viene detto - figurae, in cui l'obbligazione nasce quasi ex contractu vel quasi ex delicto. È opinione, che tende oggi a prevalere, che l'opera avente per titolo Res cottidianae, da cui questo frammento è stato estratto, sia un rifacimento postclassico delle istituzioni di Gaio. In questo rifacimento le fonti delle obbligazioni si presentano sostanzialmente quadripartite, come nelle istituzioni giustinianee, che, omettendo di parlare di variae causarum figurae, dicono addirittura, scostandosi dal modello delle istituzioni gaiane: "omnis obligatio nascitur ex contractu vel quasi ex contractu, ex maleficio vel quasi ex maleficio".

Non si valuterebbe, però, esattamente la divergenza tra diritto classico e diritto giustinianeo, se si credesse che la divergenza si limitasse soltanto a ciò: che le fonti delle obbligazioni, bipartite nel diritto classico, sono quadripartite nel diritto giustinianeo. La divergenza è più ampia e più profonda. Innanzi tutto, nel diritto romano classico contractus e delictum non sono categorie generali: quel diritto riconosce determinate figure di contractus e di delicta. Gli obblighi disciplinati dallo ius honorarium, nascenti da negozî leciti o atti illeciti, per lo stesso motivo per cui non sono propriamente obligationes, ma debita, non hanno per fonte il contractus o il delictum, che sono figure appartenenti, come l'obligatio, soltanto al campo dello ius civile. In secondo luogo, il concetto di contractus e il concetto di delictum sono diversi, secondo che si considerano queste fonti nel diritto antico e classico o nel diritto giustinianeo. Contractus è nel diritto antico e classico, termine che non presuppone l'accordo di due volontà, cioè la conventio: così è contractus la negotiorum gestio, il pagamento dell'indebito, la comunione incidentale. Delictum è termine che non presuppone il dolo: il damnum iniuria è delictum, anche se chi recò il danno non agì dolosamente. Invece, nel diritto postclassico giustinianeo la conventio diventa elemento essenziale del contractus; e allora il negozio lecito produttivo di obligatio, in cui l'accordo delle parti manca, si dice quasi contractus: il dolo diventa l'elemento subiettivo del delictum; e allora l'atto illecito, in cui il dolo non c'è ma c'è soltanto la colpa, si dice quasi delictum. E, come i debita dello ius honorarium, per la scomparsa della distinzione tra ius civile e ius honorarium, sono diventati anch'essi obligationes, così ogni negozio lecito da cui l'obbligazione deriva è contractus o quasi contractus; ogni atto illecito è delictum o quasi delictum.

Nell'antico diritto romano la costituzione di obbligazioni contrattuali richiedeva l'uso di forme solenni e queste erano prevalentemente, come negli altri campi del diritto, orali. I contratti verbali, nexum, promissio iurata, dotis dictio, slipulatio, sono i più antichi e occupano un posto eminente anche quando sorgono gli altri contratti formali: i letterali: nomen transcripticium, singrafe, chirografo. La promissio iurata, consistente in un giuramento di colui che si obbliga, adibita unicamente per lo meno in epoca storica e nel diritto giustinianeo per la promessa giurata di opere o donativi di uso, fatta dal liberto al proprio patrono (iusiurandum liberti), è una sopravvivenza storica ammonitrice del carattere sacro dell'antica promessa, che doveva essere asseverata dal giuramento, e dell'indifferenziazione primitiva tra norma giuridica e norma religiosa. Ma, già prima del periodo classico, alcune determinate cause costituirono contratti riconosciuti indipendentemente dall'uso di forme tipiche e solenni e vennero distribuite in due categorie rispettivamente qualificate con le frasi re contrahitur o consistit obligatio e consensu contrahitur o consistit obligatio: donde le denominazioni moderne: contratti reali (mutuo, comodato, deposito, pegno), e contratti consensuali (compravendita, locazione-conduzione, società, mandato. Nell'età postclassica, poi, si giunse a riconoscere come contratti molti negozî costituiti dalla trasmissione di cose o dalla prestazione di opere eseguite al fine di conseguire una diversa prestazione (do ut des, do ut facias, facio ut des, facio ut facias). il Brachylogus iuris civilis, che offre sempre un sistema più coerente di quello delle istituzioni giustinianee, raggruppa queste quattro figure di negozî sotto la designazione di contractus innominati (in quanto nel diritto classico non avevano un nomen, cioè non erano una figura di contractus riconosciuta): ma già il diritto giustiniante li considera contractus e li immette nella categoria dei contratti reali, per modo che la nozione classica del contratto reale viene a modificarsi: il creditore nel contratto reale classico aveva diritto a eandem rem recipere; nel contratto reale giustinianeo a aliquid recipere. La dommatica giuridica classifica i contratti da altri angoli visuali, e così distingue tra contratti a titolo oneroso e contratti a titolo gratuito, secondo che la causa giustificativa dell'acquisto rappresenta, o no, una perdita corrispondente. È da tenere presente l'empirismo che domina il campo del contratto a titolo oneroso nel diritto giustinianeo: in questo diritto una immodica laesio, cioè una sproporzione grave tra prestazione e controprestazione, vale per sé stessa a far conseguire la rescissione del negozio, non altrimenti impugnabile: il principio è generale; ma la sua applicazione più appariscente si ha in materia di divisione e di compravendita immobiliare (per quest'ultima si parla di lesione enorme o ultra dimidium).

I contratti a favore di terzi (v. CONTRATTO, App. p. 147) sono, ancora nel diritto classico, nulli: alteri stipulari nemo potest: una serie di eccezioni giustinianee viola il principio classico, rigidamente tenuto fermo ancora dai rescritti dioclezianei.

I diritti di obbligazione, o crediti, passavano come i debiti nell'erede, nelle origini probabilmente anche se derivanti ex delicto; ma non si potevano trasmettere nel diritto antico da persona a persona. Questa regola, tuttavia, tramandata da un'epoca in cui il carattere personale dell'obbligazione si sentiva ancora fortemente, doveva piegarsi dinnanzi ai bisogni del commercio, e si piegò: l'obbligazione, assunto il carattere schietto di istituto patrimoniale, non tardò a diventare commerciabile: si ricorse prima a un espediente fornito dalla rappresentanza processuale, poi ad altri espedienti predisposti dal diritto imperiale e dallo stesso Giustiniano.

L'obbligazione può essere variamente modificata dalla stessa volontà delle parti mediante pactum o stipulatio. Il pactum è sufficiente nei negozî di buona fede, ma deve essere un tutto unico col negozio stesso, cioè deve essere concluso al momento del suo sorgere, in continenti, non ex intervallo. Negli altri negozî, invece, per le obbligazioni accessorie dirette ad augendam obligationem, si deve conchiudere un nuovo contratto nella forma della stipulazione: per i patti aggiunti in continenti alla stipulazione, sembra tuttavia che si sia pervenuti a riconoscerne la validità.

L'obbligazione può essere garantita: in senso meno rigoroso è garanzia l'arrha confirmatoria, la clausola penale (stipulatio poenae), il giuramento. In senso più rigoroso sono garanzia dell'obbligazione i rapporti in base ai quali il creditore può soddisfarsi in caso di inadempimento sopra una cosa (obligatio rei) o sopra una persona diversa da quella del debitore (obligatio personae). Nelle prime rientrano la fiducia, il pignus, l'hypotheca, nelle seconde, l'adpromissio, avente tre forme: sponsio, fidepromissio, fideiussio, il mandato cosiddetto qualificato (mandatum pecuniae credendae), il constitutum debiti alieni.

L'estinzione delle obbligazioni può avvenire ipso iure o ope exceptionis. Nel primo caso l'obbligazione è annullata con tutti i rapporti accessorî che ne possono dipendere; nel secondo è attribuito un diritto di impugnativa, che si fa valere di solito mediante exceptio contro il creditore che intenta la sua azione; ma l'obbligazione può sopravvivere rispetto ad altri coobbligati, come possono sopravvivere le obbligazioni accessorie e le garanzie. Nell'antico diritto occorrevano forme solenni a sciogliere l'obbligazione, parallele alle forme in cui l'obbligazione era sorta: la nexi liberatio, l'acceptilatio letterale, l'acceptilatio verbale: in seguito, anche sotto l'influenza dello ius gentium, fu riconosciuta piena efficacia estintiva alla solutio (pagamento).

Le antiche forme scompaiono: soltanto l'acceptilatio verbale sopravvive nel diritto giustinianeo, ma con funzione mutata già entro il diritto classico: data la piena efficacia del pagamento, come tale, essa vien detta una imaginaria solutio ed è sostanzialmente un atto solenne di remissione del debito. Oltre la solutio e l'acceptilatio, le cause principali di estinzione dell'obbligazione sono: la datio in solutum (v. PAGAMENTO), la novatio, la compensatio, la confusione della persona del creditore con quella del debitore, la impossibilità sopravveniente della prestazione (perimento fortuito della cosa dovuta). Le cause di estinzione ope exceptionis sono numerosissime. Particolare rilievo meritano la novazione e la compensazione, per le profonde mutazioni avvenute nel passaggio dal diritto classico al giustinianeo. Fondamento della virtù estintiva della novazione classica era l'idem debitum della nuova obbligazione, giacché non erano ammessi fra le stesse persone due contratti aventi lo stesso oggetto, come sullo stesso oggetto non erano possibili due processi (bis de eadem re agi non potest); nel diritto giustinianeo il concetto classico della novazione è svanito; e, in vece del requisito obbiettivo, perché. l'obbligazione nuova sostituisca l'antica, è richiesto un requisito subiettivo: l'animus novandi. Quanto alla compensazione, essa aveva nel diritto classico un campo limitato e operava ope exceptionis. Giustiniano ordina la compensazione come modo generale di estinzione dell'obbligazione e dichiara che opera ipso iure. Tra i modi di estinzione, che operano ope exceptionis ancora nel diritto giustinianeo, va segnalato il pactum de non petendo, radicalmente modificato da Giustiniano, che distingue tra pactum de non petendo in rem e pactum de non petendo in personam (G. Rotondi).

L'EREDITÀ. - Il diritto giustinianeo e il diritto moderno chiamano successione il rapporto che intercede tra l'alienante (autore) e l'acquirente (avente causa) in ogni trasferimento di diritti; esprimono, insomma, un concetto che coincide con quello di acquisto derivativo. E, siccome vi può essere trasferimento o acquisto di diritti singoli e separati, oppure trasferimento con unico atto di un complesso di diritti spettanti a una stessa persona, distinguono tra una successione singolare o particolare (successio in rem o in res singulas) e una successione a titolo universale (successio per universitatem o in universitatem, successio in universum ius).

Il diritto romano antico e classico ravvisava esservi successione soltanto nel secondo caso: ossia, per i Romani era successione quella che noi moderni, seguendo i Giustinianei, chiamiamo successione universale. La successione romana (come l'etimologia del termine rivel: sub cedere), consisteva nel subingresso di una persona in uno status, e, come conseguenza, nella posizione giuridica complessiva occupata prima da un altro soggetto. Da questo concetto scaturivano i seguenti corollarî: a) la successione non operava mero acquisto di diritti, ma trapasso dei rapporti giuridici inerenti a quella determinata situazione e quindi accollava, almeno per principio, al successore anche gli oneri e le responsabilità contratte dal predecessore; b) i rapporti giuridici trapassavano identici, cioè il successore li continuava; c) il trapasso dei diritti avveniva con un atto unico; d) al successore trapassavano diritti intrasmissibili a titolo singolare (così il fondo dotale che, in seguito alla lex Iulia, era inalienabile; il diritto sui sepolcri che sono res extra commerc¡um; le obbligazioni, il cui trasferimento a titolo singolare non era originariamente riconosciuto); e) la misura dei rapporti che trapassavano al successore era a priori indeterminata (successio in ius, in locum et ius); f) non si aveva trapasso di soli rapporti patrimoniali, ma anche. trapasso di elementi aventi schietto carattere extrapatrimoniale (potestà sulle persone, culto famigliare, patronato).

La successione si poteva attuare in una serie di casi ben determinati e in essi si attuava necessariamente. Quattro figure risalgono a epoca preistorica e sono originarie: l'adrogatio, che produceva una successio a favore del paterfamilias arrogatore; la conventio in manun, che produceva una successio a lavore del paterfamilias coemptionator; la riduzione in servitù di persona libera sui iuris, che produceva una successio a favore del dominus del nuovo schiavo. Erano, codeste, figure di successione inter vivos. L'hereditas, la quarta figura, era successione mortis causa. Altre figure di successione sorsero in epoca . storica piuttosto recente, modellate sulla hereditas, ad essa assimilate, protette con azioni ereditarie o analoghe alle ereditarie: a) la bonorum possessio o eredità pretoria; b) la bonorum venditio; c) l'hereditas fideicommissaria; d) la successio del fisco; e) l'addictio bonorum libertatum conservandarum causa.

Nelle successioni tra vivi (adrogatio, conventio in manum, riduzione in servitù di persona sui iuris) è possibile constatare che la successio si riconnetteva a un fatto costante e comune alle tre ipotesi: l'acquisto di una potestà famigliare sopra un altro soggetto sui iuris; cioè, sopra un altro gruppo famigliare che rimaneva assorbito in quello in cui si trovava l'acquirente: il parallelo tra la successione inter vivos e la successione nelle cariche pubbliche non può essere più manifesto: anche nelle prime, dato il carattere eminentemente politico del primo gruppo famigliare romano, non obliterato nell'epoca storica, e data la funzione pubblicistica che campeggia nella figura del paterfamilias, il subingresso nella potestà significava anzitutto ed essenzialmente subingresso in un ufficio. Il trapasso di una potestà famigliare era l'oggetto immediato e principale della successione inter vivos: l'acquisto del patrimonio, l'oggetto mediato e secondario.

È ovvio dedurre - e il Bonfante dedusse (ma è teoria contestata soprattutto da storici) - che, essendo l'hereditas anch'essa una successio, doveva servire nella sua primitiva funzione al trapasso dell'autorità sovrana, cioè della potestà sulla familia: trapasso naturalmente più evidente, quando alla morte del paterfamilias il gruppo familiare restava unito sotto il nuovo capo, l'heres, che era uno dei filiifamilias designato nel testamento; pur sempre evidente, quando l'unità familiare si spezza e alla morte del paterfamilias singuli filiifamilias familiam incipiunt habere. E, per vero, tutti gli elementi strutturali della hereditas confermano questa sua funzione:

1. Incompatibilità della successione testamentaria e legittima espressa dalla massima nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest. Tra la delazione testamentaria e la delazione legittima vi ha una naturalis pugna, proprio perché, quando un sovrano è designato in una forma, non se ne ammette contemporaneamente uno designato in guisa diversa.

2. Diritto di accrescimento. Quando sono chiamate a succedere più persone, se alcune di esse rinunciano o non possono acquistare o vengono a morire prima della adizione, le parti caduche sono acquisite ai coeredi in proporzione della quota ereditaria di ciascuno, proprio come nella sovranità collegiale la morte e la rinuncia dell'uno non può che trasmetterne il diritto e l'esercizio agli altri: la sovranità intera è necessariamente devoluta al superstite o ai superstiti. Non si rielesse un collega il primo 1l di Roma; non usavano completarsi i tribuni della plebe; non si completano i tribuni militari con potestà consolare; non si completò il collegio dei consoli nel 216, nel 208, nell'84, nel 68 a. C.; non si completò il collegio dei pretori nel 184; non si rielesse un collega nella censura Appio Claudio; non si rielessero un collega nel consolato Caligola e Nerone, né sempre si rielessero un collega gl'imperatori.

3. Intrasmissibilità assoluta della delazione. Hereditas delata, nondum adquisita, non transmittitur ad heredes, proprio come la chiamata all'impero è eminentemente personale.

4. Necessità dell'istituzione di erede e, fino a tempi storici avanzati, indifferenza dell'assegnazione patrimoniale. L'uno e l'altro principio sono inspiegabili, se l'hereditas non fosse servita a designare il nuovo capo e non fosse stato irrilevante il suo contenuto patrimoniale.

5. Assurdità dell'istituzione di erede in una cosa determinata e revoca assoluta del testamento per un nuovo testamento, anche se le disposizioni patrimoniali del primo siano compatibili con quelle del secondo. L'una e l'altra sono conseguenze essenziali del principio che l'erede è il nuovo sovrano e la designazione di questo nuovo sovrano è lo scopo del testamento.

6. Responsabilità dell'erede anche ultra vires hereditatis. Principio incomprensibile coi fini meramente patrimoniali dell'hereditas, ignorato dalle nazioni più commerciali, l'Inghilterra e l'America, indipendenti dalla tradizione romana; principio conciliantesi, invece, col fatto che l'erede è il nuovo signore della familia e gli stati sono tenuti integralmente per le obbligazioni e gli oneri delle generazioni anteriori, e il nuovo capo è obbligato quale rappresentante del gruppo che non muore mai. Se diverso è il regolamento dei debiti nelle successioni inter vivos, ciò avviene perché in esse l'assoggettato viene a porsi nella condizione di filiusfamilias o servus nella nuova familia ed è risaputo che nella familia romana il paterfamilias non era tenuto per le obbligazioni contratte dai soggetti in forza del principio che costoro non potevano deteroiorem eius condicìonem facere.

7. Preminenza della successione testamentaria sulla successione intestata. Essa rappresenta la designazione del successore eseguita dal predecessore, quale vige negli ordinamenti politici di Roma come principio esclusivo o concomitante per la nomina di re, di magistrati, d'imperatori, in una tradizione ininterrotta.

Nel diritto giustinianeo le successioni inter vivos sono ridotte a un rudere. E tutto lo svolgimento storico dal più antico diritto fino a Giustiniano consiste nell'esaurire i principî fondamentali dell'hereditas con eccezioni e istituti singolari di vasta efficacia. Se la legislazione giustinianea li mantiene, il mondo non romano in Occidente e in Oriente li ha tutti eliminati. L'incompatibilità delle due delazioni venne abolita nel diritto imperiale per la successione dei militari; fu limitata dal sorgere della successione legittima contro il testamento; resa di fatto vana dall'istituzione dei codicilli; fu abolita nel diritto postgiustinianeo dal diritto bizantino e dalla legislazione statutaria. Il diritto di accrescimento, eliminato dalla successione dei militari, è ristretto dalle trasmissioni, via via riconosciute, della delazione e da varie e particolari eccezioni. L'intrasmissibilità della delazione fu ridotta via via dalle transmissiones, misuratamente accolte nel diritto classico, cresciute su vasta scala nel diritto postclassico con la transmissio ex capite infantiae resa indipendente dalla patria potestà e la transmissio ex iure sanguinis; fu praticamente annientata con la generale trasmissione giustinianea ex iure deliberandi. L'istituzione di erede abbandona sempre più la solennità antica; si mantiene in piedi il testamento nonostante la cancellazione del nome dell'erede; l'istituto del codicillo e della clausola codicillare esaurisce la regola entro il diritto romano classico; il diritto bizantino e la legislazione statutaria l'abbandonano nettamente.

L'istituzione dell'erede ex re certa nel testamento militare viene riconosciuta pienamente valida; e la giurisprudenza classica, prima, la riforma giustinianea, poi, reagiscono contro l'antico concetto, dando rilievo alla volontà del defunto. La revoca assoluta per opera di un testamento posteriore è attenuata dall'istituzione del fedecommesso e cade nel diritto bizantino. I varî beneficia (beneficium abstinendi, inventarii, separationis) sono altrettante eccezioni al principio della successione illimitata nei debiti.

Le più antiche forme di testamento sono il testamentum calatis comitiis e il testamentum in procinctu, al tempo di Cicerone spariti dall'uso. Anche queste forme testimoniano che l'hereditas aveva una funzione che trascendeva quella patrimoniale. La forma di testamento in uso nell'epoca classica, ìl testamento per aes et libram, mostra la prima affermazione del fine patrimoniale dell'istituto. Da questo si sviluppò il testamento pretorio. Il testamento scritto o nuncupativo del diritto giustinianeo ha nome di tripertitum, per le tre fonti da cui deriva: l'antico ius civile, lo ius honorarium, le costituzioni imperiali. Ma, accanto a questo, già riconosciuti da Onorio e Teodosio II, vi sono due testamenti conformi allo spirito burocratico della nuova età: il testamemum apud acta e il testamento presentato al principe, principi oblatum.

In mancanza di testamento ha luogo la successione ab intestato. Le XII Tavole chiamano i sui; in mancanza di sui, l'adgnatus proximus; in mancanza di adgnati, i gentiles. Contro questo ordinamento della successione intestata reagì poderosamente il pretore chiamando al possesso dei beni le persone non secondo il vincolo politico della familia e della gens (agnazione), ma secondo il vincolo del sangue (cognazione). Sorse così la bonorum possessio, nelle orígini sine re di fronte all'erede legittimo, sicché solo in difetto di eredi legittimi il bonorum possessor conservava il godimento dei beni; progressivamente diventata cum re. I chiamati sono, in primo luogo, i liberi o discendenti; in secondo luogo, i legitimi, cioè i chiamati dalla lex; in terzo luogo, i cognati o parenti del sangue; da ultimo, il coniuge superstite, vir et uxor. Nel diritto classico le nuove norme che più meritano di essere segnalate sono quella introdotta dal senatoconsulto Tertulliano, che chiamò alla successione la madre, in posizione, però, ancora subordinata agli altri successibili, e il senatoconsulto Orfiziano, che chiamò alla successione i figli rispetto alla madre. Nell'età postclassica giustinianea, disgregata la familia nel senso romano, la successione si pone nettamente sulla base della cognazione: con le Novelle 118 e 127 vengono chiamati, nella prima classe, i discendenti; nella seconda, gli ascendenti in concorso coi germani, germane e loro figli; nella terza, i fratelli e le sorelle unilaterali; nella quarta, gli altri più prossimi parenti. In mancanza di successibili per vincolo di sangue, Giustiniano serba la bonorum possessio a favore del coniuge superstite.

La successione legittima contro il testamento si svolse come reazione al diritto assoluto di testare del paterfamilias, quando l'hereditas aveva già perduta la sua primitiva funzione. Durante l'impero si svolge, nella pratica dei giudizî centumvirali, una limitazione sostanziale alla facoltà di testare, consistente nell'obbligo di lasciare una quota dei beni ai più stretti congiunti tra i successibili ab intestato (la portio legitima o debita): istituto ben diverso dal sistema della riserva famigliare con cui la legittima si è fusa nel diritto moderno. Questa quota, fissata in un quarto della porzione intestata da Marco Aurelio, fu elevata fino a un terzo, se i legittimarî erano quattro o meno, alla metà se erano più, da Giustiniano. Il quale determinò stabilmente le persone dei legittimarî: discendenti, ascendenti, fratelli e sorelle germani e consanguinei, i quali ultimi venivano ammessi nel solo caso che fosse stata loro preferita una persona turpe. Con la Novella 115 poi lo stesso imperatore prescrisse che gli ascendenti e i discendenti dovessero essere necessariamente istituiti eredi e la diseredazione oramai non è consentita se non per motivi gravissimi e determinati nella stessa Novella.

La distinzione tra l'eredità e il legato nei codici moderni si suole stabilire nel seguente modo: è erede chi è chiamato nell'universalità o in una quota dei beni; è legatario chi è chiamato in beni singoli e determinati (v. LEGATO). La qualità di erede attribuisce oneri e debiti; la qualità di legatario esonera dai debiti. Nel diritto romano, legatario è anche chi è chiamato nell'universalità o in una quota dei beni, quando non gli sia attribuito il titolo di erede, mentre ciò che fa l'erede è appunto il titolo. Probabilmente il legato era, nelle origini, una donazione a causa di morte. Fu un passo decisivo nel diritto romano, quando simili donazioni si ammisero, a datare forse dalla legge delle XII Tavole, nello stesso atto in cui si designava l'erede. Allora presero il nome di legata, probabilmente da legare nel senso di dare incarico o mandato, poiché erano veri incarichi affidati all'erede. Le leggi limitative dei legati: lex Furia testamentaria, tra il 200 e il 169 a. C.; lex Voconia, del 169 a. C.; lex Falcidia, del 40 a. C., provano che vi fu un tempo, in cui il testatore poteva elargire tutto il suo patrimonio in legati e non lasciare all'erede se non il titolo insieme con i diritti extrapatrimoniali: i sacra, i sepolcri, i diritti di patronato, gli oneri d'ogni natura.

Sembra che la prima forma sia stato il legato per vindicationem, il quale trasferiva immediatamente la proprietà della cosa al legatario; vi si aggiunse il legato per damnationem, che stabiliva una obbligazione a carico dell'erede, e il legato sinedi modo, per il quale l'erede è tenuto a lasciar fare o a permettere; il legato per praeceptionem era quello lasciato a uno degli eredi. Ciascun legato aveva requisiti suoi proprî. Il modo col quale funziona il diritto di accrescimento tra collegatarî è la dimostrazione più schietta della singolarità del diritto di accrescimento ereditario. Nel legato romano, come nell'eredità moderna e nel legato moderno, il diritto di accrescimento dipende dalla volontà del defunto, fatta manifesta per via della congiunzione reale, coniunctio re o coniunctio re et verbis, ossia nello stesso oggetto, senza operare alcuna divisione tra i varî onorati. Le conseguenze del rigore formale furono diminuite dal senatoconsulto Neroniano, il quale stabilì che un legato invalido per indicationem potesse essere valido per danmationem. Le forme dei legati, come ogni forma schiettamente romana, svanirono nel periodo postclassico, finché Giustiniano tolse loro ogni differenza attribuendo a tutte le forme lo stesso effetto, cioè l'azione obbligatoria e l'azione reale, salvo che fosse stata legata la cosa di un terzo. Accanto ai legati spuntano nell'ultima età repubblicana, come incarichi affidati all'onestà e alla fede altrui (onde fidei commissa), e hanno sanzione giuridica nel diritto imperiale, i fedecommessi (v.). Nacquero dal desiderio di lasciare a persone incapaci e fuori del testamento, che non sempre era comodo fare. La protezione dell'istituto fu introdotta da Augusto extra ordinem. L'atto, in cui si ordinavano i fedecommessi, si diceva codicillo, in antitesi al codex testamenti.

Giustiniano abolì ogni differenza tra legati e fedecommessi, che si erano venuti avvicinando, e dei due istituti ne fece uno solo: il primo testo, che apre nelle Pandette la trattazione dei legati e dei fedecommessi, notoriamente interpolato dai Giustinianei, dice: per omnia exaequata sunt legata fideicommissis e nel Corpus iuris è programmatica l'interpolazione legatum et fideicommissum; fideicommissum sive legatum. Nel diritto giustinianeo, per effetto della fusione, può essere gravato di legato non soltanto l'erede, ma chiunque riceva un beneficio patrimoniale dal defunto, e il legato si può ordinare anche fuori del testamento.

IL PROCESSO CIVILE. - La più vivace caratteristica del processo civile è il suo resistente carattere volontario e privato dall'inizio all'esecuzione. Corsero mille anni e forse più, prima che il processo venisse interamente nelle mani del magistrato. L'assunzione dell'amministrazione della giustizia da parte dello stato è, dapprincipio, limitata sotto più aspetti: il momento più noto di questa invasione dello stato è la divisione dei giudizî fra la persona pubblica del magistrato (in iure) e il giudice privato (in iudicio): il cosiddetto ordo iudiciorum privatorum. Ciò che interessa lo stato non è la giustizia, bensì la pace: i suoi organi non intervengono nelle controversie se non in quanto è necessario per salvaguardare la pace pubblica.

La progressiva evoluzione del processo consiste esteriormente in una crescente invasione dello stato; sotto un altro aspetto, di più intima natura, in una trasformazione insensibile della funzione di pace in funzione di giustizia, dell'intervento meccanico e quasi indifferente dello stato in compito amministrativo per finalità etiche, finché, al termine del cammino evolutivo, l'amministrazione della giustizia diventa una parte distinta dell'amministrazione pubblica, e la parte più alta e più essenziale.

Le tracce dell'assoluto carattere privato del processo si ritrovano nelle XII Tavole: ma il procedimento extragiudiziale, la cosiddetta ragion fattasi (v.), viene via via diminuita da una serie di sanzioni. Nel procedimento giudiziale si distinguono tre sistemi, corrispondenti alle tre fasi più importanti della storia del diritto romano: le legis actiones, le formulae, l'extraordinaria cognitio.

Nel primo sistema la funzione del potere pubblico è aneora assai limitata. Le parti litiganti si presentano davanti al magistrato, il quale peraltro si limita a conciliare le parti, indurle a far la pace con equa transazione (pactum); se le parti non si accordano, non ha altro potere se non quello di intimar loro il giudice. Il processo è regolato da forme solenni e simboliche che si dicevano actiones, e, per essere conformi alle disposizioni delle XII Tavole, legis actiones. Erano le antichissime cinque: legit actio sacramento, per iudicis arbitrive postulationem, per condictionem, per manus iniectionem, per pignoris capionem.

Questo sistema doveva cedere di fronte all'incremento della potenza e dell'attività dello stato. Il nuovo magistrato stabilito per la giurisdizione, il pretore, probabilmente sin da principio esercitò un'azione invadente nella formazione e applicazione del diritto: la sopravvenuta lex Aebutia (tra il 149 e il 126 a. C.) diede ad essa fondamento legale. Nel secondo sistema introdotto da questa lex, nel processo formulare, si distinguono ancora due stadî, in iure e in iudicn, ma il magistrato non si limita a udìre le pretese delle parti e a dar loro un giudice: egli redige un'istruzione scritta, nella quale, esposti succintamente i fatti allegati (demonstratio), il diritto su quei fatti accampato (intentio), comanda al giudice, se quei fatti sono veri, di condannare il convenuto, altrimenti di assolverlo (condemnatio). Una novità, di vasta portata, del processi o formulare è l'exceptio (in or) gine, praescriptio). Essa è l'indice del nuovo potere del magistrato, sia perché crea sostanzialmente nuovo diritto eliminando le norme contrastanti con la nuova coscienza e col nuovo ordinamento sociale, sia perché il giudice privato è ridotto impotente nelle mani del magistrato. Altta particolarità del processo formulare, ricollegantesi anch'essa al carattere privato del procedimento, è il carattere necessariamente pecuniario della condanna. L'esecuzione avveniva nel primo sistema per manus inectio: a questa il processo formulare ha sostituito l'actio iudicanti, la quale può aprire un nuovo processo, se il convenuto contrasti la validità della sentenza e trovi un garante, sottoponendosi alla pena del doppio in caso di perdita. Se il contenuto non la contrasti, si ha esecuzione diretta sulla persona (duci iubere): il pretore ha tuttavia introdotto, in via elettiva, anche un'esecuzione patrimoniale; questa, peraltro, non mira, come l'esecuzione moderna, a una diretta soddisfazione del creditore sul patrimonio del debitore, ma a costringere il debitore a soddisfare il suo creditore o a collocare nel patrimonio un nuovo titolare che lo soddisfi (missio in bona rei servandae causa). Mezzi basati direttamente sull'imperium del magistrato, che appaiono come un'anticipazione del processo extra ordinem, sono le stipulationes pretorie, le missiones in possessionem, gli interdicta e le restitutiones in integrum.

Il processo extra ordinem, nel quale il magistrato non rinviava la controversia al giudice, ma la decideva personalmente, s'introduce in casi rari nei primi tempi dell'impero: in materia di fedecommesso e nomina di tutori; poi, nelle controversie di alimenti, nelle retribuzioni di onorarî per servizî liberali, nelle controversic di liberià e ingenuità, nelle controversie che concernevano l'amministrazione dei nuovi funzionarî generali. Il nuovo processo incontrava particolarmente favore nelle provincie, dove non era viva la tradizione romana. Il processo formulare nelle provincie scompare verso la metà del sec. III; scompare in Roma con la riforma amministrativa di Diocleziano. Giudice e magistrato diventano così una sola persona, un funzionario pubblico: tali, il prefetto del pretorio, dei vigili, della città, dell'annona, magistrati municipali e delegati dei magistrati, i iudices pedanei. Il processo è aperto dalla litis denunciatio, più tardi dal libellus conventionis, citazione scritta, in cui si notificano al convenuto le pretese dell'attore, e il convenuto su questa deve dar cauzione di comparire in tribunale; altrimenti vien posto sotto custodia fino al giorno della comparizione. La sentenza condanna direttamente nell'oggetto della controversia e per l'esecuzione soccorrono la bonorum distractio e il pignus in causa iudicati captum. Il carattere privato, i residui della funzione primitiva del processo sono nel diritto giustinianeo completamentc obliterati: i termini antichi significano cose essenzialmente diverse, come la contestatio litis; o vennero eliminati mediante programmatiche interpolazioni dei testi classici.

BIBL.: Sulle fasi di sviluppo del diritto romano, v. principalmente: S. Riccobono, Fasi e fattori dell'evoluzione del diritto romano, in Mélanges de droit romain... G. Cornil, Gand 1926, II, pagg. 235-382; P. de Francisci, Premesse storiche alla critica del Digesto, in Conferenze per il XIV centenario delle Pandette, Milano 1931; E. Albertario, Introduzione storica allo studio del diritto romano giustinianeo, Milano 1935, e l'ampia bibliografia citata in queste opere.

Sulle fonti del diritto romano, v. principalmente: A. F. Rudorff, Römische Rechtsgeschichte, Lipsia 1857; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, ivi 1885-1902; P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, Berlino 1888; H. Fitting, Alter u. Folge der Schriften römischer Juristen, Halle 1908; P. Krueger, Geschichte der Quellen u. Lit. des römischen Rechts, 2ª ed., Monaco-Lipsia 1902; R. v. Mayr, Römische Rechtsgeschichte, Lipsia 1913; T. Kipp, Geschichte der Quellen des röm. Rechts, 4ª ed., ivi 1919; B. Kuebler, Gesch. des röm. Rechts, ivi 1925; P. de Francisci, Storia del dir. rom., I, Roma 1926, II, ivi 1929; V. Arangio-Ruiz, Storia del dir. rom., Napoli 1931; P. Bonfante, St. del dir. rom., 4ª ed., Roma 1934; C. Longo e G. Scherillo, St. del dir. rom., Milano 1935.

Edizioni delle fonti pregiustinianee conservate: C. G. Bruns, Fontes iuris romani antiqui (7ª ed., curata da O. Gradenwitz), Berlino 1909 (Index di queste Fontes, Berlino 1912); P. Krueger, T. Mommsen, G. Studemund, COllectio librorum iuris anteiustiniani, ivi 1899; Ph. E. Huschke, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, 5ª ed., Lipsia 1886 (nuove edizioin curate da B. Kuebler e E. Seckel); P. F. Girard, Textes de droit romain, 5ª ed., Parigi 1923; G. Baviera, C. Ferrini, S. Riccobono, Fontes iuris romani anteiustiniani, Firenze 1908; C. G. Bruns a E. Sachau, Syrisch-römisches Rechtsbuch aus dem fünften Jahrhundert, Lipsia 1880; F. Schulz, Die Epitome Ulpiani, Bonn 1926; V. Arangio-Ruiz, I nuovi frammenti di Gaio, in Bull. ist. dir. rom., 1934; T. Mommsen e P. Meyer, Theodosiani libri XVI, ecc., Berlino 1905; P. Krueger, Codex Theodosianus (ed. incompiuta), Berlino 1923. Molto utile è il Corpus legum ab imperatoribus romanis ante Justinianum latarum, curato da G. Haenel, Lipsia 1857.

Sui manoscritti delle fonti giustinianee, v. GIUSTINIANO: Legislazione giustinianea. L'edizione più critica del Corpus iuris civilis è quella curata da P. Krueger (Institutiones), T. Mommsen e P. Krueger (Digesta), P. Krueger (Codex), R. Schoell e G. Kroll (Novellae). Del Digesto vi ha un'ed. ital. in piccolo formato curata da P. Bonfante, C. Fadda, C. Ferrini, S. Riccobono, V. Scialoja (Milano 1932). Per la critica delle fonti giustinianee sono fondamentali le due opere di O. Lenel, Das Edictum perpetuum, 3ª ed., Lipsia 1927, e Palingenesia iuris civilis, ivi 1889. Perla critica delle fonti giustinianee sono fondamentali le due opere di O. Lenel, Das Edictum pepetuum, 3ª ed., Lipsia 1927, e Palingenesia iuris civilis, ivi 1889. Per la critica sia delle fonti pregiustinianee, sia (e soprattutto) delle fonti giustinianee, v. l'ampia bibliografia sotto la voce INTERPOLAZIONE. Si hanno anche indices e vocabolarî delle fonti: P. Zanzucchi, Vocabolario delle Istituzioni di Gaio, Milano 1910; C. Longo, Vocabolario delle costituzioni giustinianee, in Bull. ist. dir. rom., 1897-98; Vocabolarium iurisprudentiae romanae (in corso di pubblicazione), Berlino; R. v. Mayr e M. San Nicolò, Vocabularium Codicis Iustiniani, Praga 1923-25; O. Gradenwitz, Index zum Theodosianus, Berlino 1925 e 1929; E. Levy, Ergänzungsindex zu ius und leges, Weimar 1930.

Sulle fonti del diritto bizantino, v. BIZANTINA, CIVILTÀ: Diritto.

Sulle fonti romano-barbariche, v. principalmente: M. Conrat, Geschichte der Quellen und Literatur im früheren Mittelalter, I, Lipsia 1891; id., Breviarium Alaricianum, römisches Recht im fränkischen Reich, ivi 1903; edizioni: G. Haenel, Lex romana Wisigothorum, Berlino 1847 (v. anche GERMANIA: Diritto).

Sulla papirologia giuridica, v. bibliografia in EGITTO: Diritto: aggiungi principalmente R. Taubenschlag, Geschichte der Rezeption des röm. Rechts im Aegypten, in Studi in onore di P. Bonfante, I, Milano 1930, p. 367 segg.

Trattati di Pandette: F. Glück, Ausführliche Erläuterung der Pandekten, opera cominciata nel 1797, continuata da altri, non compiuta (trad. it. promossa da F. Serafini, poi da C. Fadda e P. Cogliolo, Milano dal 1888 in poi); C. F. v. Savigny, System des heutigen römischen Rechts, Berlino 1840-49 (trad. it. di V. Scialoja, Torino 1886-98); C. A. Vangerow, Lehrbuch der Pandekten, 7ª ed., Marburgo 1867; A. Brinz, Lehrbuch der Pandekten, 2ª ed., riveduta per le ultime parti da F. Lotmar, Lipsia 1873-92; E. I. Bekker, System des heutigen Pandektenrechts, Weimar 1886-89; F. Reselsberger, Pandekten, I, Lipsia 1893; L. Arndts, Lehrbuch der Pandekten, 14ª ed., curata da J. Pfaff e F. Hofmann, Stoccarda 1889 (trad. it. sulla 7ª ed. di F. Serafini, arricchita di note, appendici e confronti, Modena 1872); H. Dernburg-Sokolowski, System des römischen Rechts, 8ª ed., Berlino 1908-1912; B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts, 9ª ed., curata da T. Kipp, Francoforte sul Meno 1906 (trad. it. di C. Fadda e di P. E. Bensa, con note di questi e di altri, Torino, ristampa stereotipa, 1925).

Opere generali. Italiane: C. Ferrini, Pandette, Milano 1904; F. Serafini, Istituzioni di diritto romano, 10ª ed., Roma, 1920; E. Costa, Storia del dir. rom. privato dalle origini alle compilazioni giustinianee, 2ª ed., Torino 1925; S. Perozzi, Istituzioni di dir. rom., 2ª ed., Roma 1928; P. Bonfante, Diritto romano, Firenze 1900; id., Istituzioni di dir. rom.,9ª ed., Milano 1932; id., Corso di diritto romano (opera insigne anche per vastità, purtroppo incompiuta), Roma 1925-1933; V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di dir. rom., 3ª ed., Napoli 1934; E. Betti, Diritto romano (parte generale), Padova 1935. - Francesi: C. Accarias, Précis de droit romain, 4ª ed., Parigi 1886-1891; P. F. Girard, Manuel élémentaire de droit romain, 8ª ed., curata da F. Senn, ivi 1929; P. Collinet, Études historiques sur le droit de Justinien, ivi 1912, 1925, 1932. - Belghe: C. Maynz, Cours de droit romain, 4ª ed., Bruxelles 1877; P. Van Wetter, Cours élémentaire de droit romain, Parigi 1893; G. Cornil, Ancien droit romain, Bruxelles 1930. - Tedesche: R. v. Jhering, Geist des römischen Rechts, 10ª ed., Lipsia 1924; A. Pernice, M. A. Labo, römisches Privatrecht im ersten Jahrhundert der Kaiserzeit, Halle 1873-1900; L. Mitteis, Reichsrecht u. Volksrecht in den östlichen Provinzen des röm. Kaiserreichs, Lipsia 1891; id., Das römische Privatrecht, ivi 1908; L. Wenger, Das Recht der Griechen und Römer, ivi 1914; E. Rabel, Grundzüge des römischen Privatrechts, in Enzykl. d. Rechtswiss., 2ª ed., I, Berlino 1915; R. Taubenschlag, Römisches Privatrecht zur Zeit Diokletians, Cracovia 1923; R. Sohm, L. Mitteis, L. Wenger, Geschichte u. Institutionen des röm. Rechts, 17ª ed., Monaco 1923; C. R. v. Czylarz e M. San Nicolò, Institutionen des röm. Rechts, 18ª ed., Vienna 1924; H. Siber, Römisches Privatrecht, Berlino 1928; T. Kipp, Römisches Recht, in Das gesamte deut. Recht, ivi 1931, II; F. Schulz, Prinzipien des röm. Rechts, Monaco 1934; P. Jörs, W. Kunkel, L. Wenger, Römisches Recht, Berlino 1935. - Inglesi: H. J. Roby, Roman private Law in the times of Cicero and of the Antonines, Cambridge 1902; W. W. Buckland, Roman Law from Augustus to Justinian, 2ª ed., ivi 1932; H. F. Jolowicz, Historical Introduction to the study of Roman Law, ivi 1932.

Monografie, note, recensioni critiche di diritto romano contengono esclusivamente le due riviste: Bullettino dell'Istituto di diritto romano, fondata a Roma nel 1888, e la Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, romanistische Abteilung, Weimar, dal 1880 in poi (preceduta dal 1860 al 1880 dalla Zeitschrift für Rechtsgeschichte). Ma monografie, note, recensioni critiche di diritto romano sono pure in gran numero in altre riviste, non esclusivamente romanistiche, principalmente nell'Archivio giuridico, nella Rivista italiana per le scienze giuridiche, nella Revue historique de droit français et étranger, nella Zeitschrift für das privat- und öffentliche Recht, di C. S. Grünhut, fino al 1900 nell'Archiv für die civilistische Praxis, nei Jherings Jahrbücher für die Dogmatik.

Esistono collezioni, già numerose, di monografie di varî studiosi: G. Rotondi, Scritti giuridici, voll. 3, Milano 1922; G. Castelli, Scritti giuridici, ivi 1923; P. Bonfante, Scritti giuridici vari, Torino 1916 e segg.; G. Segrè, Scritti giuridici, Cortona 1930; C. Ferrini, Opere, voll. 5, Milano 1929-1930; V. Scialoja, Studi giuridici, voll. 4, Roma 1933-34; E. Albertario, Studi di diritto romano, vol. 1°, Milano 1933; F. de Visscher, Études de droit romain, Parigi 1931. Finalmente molta letteratura romanistica si trova, oltre che in atti, rendiconti, memorie di accademie italiane e straniere, in raccolte di studî per onoranze; così, per l'Italia, negli Studi in onore di V. Scialoja, Milano 1905; Studi in onore di F. Schupfer, Torino 1898; Studi in onore di B. Brugi, Palermo 1910; Studi in onore di C. Fadda, Napoli 1906; Studi in onore di L. Moriani, Torino 1906; Studi in onore di S. Perozzi, Palermo 1925; Studi in onore di P. Bonfante, Milano 1930; Studi in memoria di G. Rotondi, Roma 1921; Studi in memoria di P. P. Zanzucchi, Milano 1927; Studi in memoria di U. Ratti, Milano 1934; Studi in memoria di A. Albertoni, Padova 1934. Per la Francia, in Mélanges Ch. Appleton, Lione 1903; Mélanges H. Fitting, Montpellier 1908; Mélanges P. F. Girard, Parigi 1912; Mélanges P. Fournier, ivi 1929. Per la Germania, in Festélchrift für O. Lenel, Lipsia 1921; Festgabe für R. Sohm, Monaco 1915; Festgabe für R. v. Jhering, Lipsia 1892; Festgabe für R. v. Gneist, Berlino 1888; Festgabe für J. T. Schirmer, Königsberg 1900; Festgabe für H. Dernburg, Halle 1900; Symbolae Friburgenses in honorem O. Lenel, Lipsia 1935; Gedächnisschrift für E. Seckel, Berlino 1927; Gedächtnisschrift für L. Mitteis, Lipsia, ecc. Per il Belgio, in Mélanges G. Cornil, Gand 1926.

Per la letteratura romanistica italiana, v. la guida bibliografica di P. de Francisci, Il diritto romano, Roma 1928, e, per la francese, quella di P. Collinet, Bibliographie de travaux de droit romain en langue française, Parigi 1930.

DIRITTO PUBBLICO.

Fin dove può risalire la conoscenza storica, e mettendo perciò da parte ogni congettura circa il modo di vita nei pagi che potrebbero aver preceduto la fondazione della città, Roma è una πόλυς, o - nella terminologia latina - una civitas; il che vuol dire che vi si ritrovano tutte le caratteristiche di una società di uomini liberi, organizzata a difesa in un piccolo agglomerato urbano e ricavante i mezzi di sussistenza dal breve contado circonvicino. Secondo lo stile proprio delle città, dove il condominio dei consociati sopra il territorio può consensualmente trasformarsi in proprietà solitaria dei singoli sopra gli appezzamenti risultanti dalla divisione, la tradizione immagina che il primo re, Romolo, abbia assegnato a ciascun capo di famiglia due iugeri, il cosiddetto heredium; ciò che però non sembra da intendersi come spartizione delle terre da coltivare a cereali (anche perché i lotti risulterebbero del tutto insufficienti), bensì come assegnazione del terreno necessarlo alla casa e all'orto. Non sappiamo, peraltro, se questa primordiale proprietà quiritaria sia stata riconosciuta a tutta la cittadinanza o soltanto a quella classe privilegiata che sembra essere esistita fin da quando la città è sorta, e che fu detta dei patrizî in contrapposto ai plebei: pare certo, comunque, che al possesso fondiario i soli patrizî abbiano direttamente partecipato. Ma non con quel diritto pieno di proprietà (dominio, come si diceva, ex iure Quiritium), esclusivo di ogni ingerenza della comunità, che era riconosciuto per l'heredium; bensi con una semplice possessio, o signoria di fatto, su terreni che restavano pubblici (ager publicus), ma erano abbandonati dalla comunità allo sfruttamento di chi avesse la possibilità economica di metterli in valore, sia mediante la pastorizia sia attraverso la coltivazione di alberi e di cereali. I plebei, a meno che non esercitassero in città l'artigianato e il piccolo commercio, ottenevano dalle grandi famiglie patrizie piccoli appezzamenti da coltivare, col bestiame e gli utensili necessarî, in concessione revocabile e con l'obbligo di versare una quota del prodotto; e si mettevano così di fronte ai concedenti in un rapporto che si diceva di clientela, e che importava un dovere reciproco di fedeltà e di protezione in ogni congiuntura. Tuttavia non vi è traccia di un qualunque periodo nel quale alla plebe sia stato disconosciuto il diritto di cittadinanza: anzi pare ch'essa abbia fatto parte fin dalle origini così dell'esercito come dell'assemblea.

Fin dall'inizio, Roma ha avuto i tre organi fondamentali di ogni stato-città: il capo, rex, sul cui modo di designazione la tradizione oscilla fra le varie idee della successione di padre in figlio, della designazione da parte del predecessore e - con evidente anacronismo - dell'elezione, e il cui potere si protrae vita natural durante, il consiglio degli anziani, senatus, costituito a quel che pare dei capi delle gentes patrizie; infine l'assemblea popolare, comitiatus o comitia, a cui tutti i cittadini maschi in età militare prendono parte, distribuiti in curie. La composizione dei due ultimi organi porta la traccia di una moltiplicazione per tre, verificatasi durante l'epoca regia (non si sa se per incremento demografico o per fusione con comunità confinanti): il senato ci si dice portato da 100 a 300 membri, e le curie, che erano state dieci in origine, sono poi divenute trenta, dieci per ciascuna delle tre primitive tribù, dei Tities, Ramnes, Luceres. È facile pensare che ogni curia abbia dato alla legione (di 3000 fanti e 300 cavalieri) dieci patrizî che servivano a cavallo e cento plebei (i loro clienti) che servivano a piedi; con la conseguenza che in guerra e in pace il rapporto di clientela facesse sentire i suoi effetti.

Comunque, dei tre organi ricordati quello che primeggia è il re. Vero è che la tradizione, tutta dominata dal proposito di far risalire alla più remota antichità i principî fondamentali della costituzione successiva, attribuisce ai primi re, latini e sabini, la maggior deferenza verso il senato e il comizio, fino ad ammettere che le curie eleggessero i re e su proposta loro votassero le leggi; ma questa tradizione, oggi unanimemente respinta come fallace, trova la sua critica interna nel fatto che alla dinastia dei Tarquinî, di provenienza etrusca, viene attribuito dalla tradizione stessa il più superbo dispregio verso la collaborazione degli altri organi, nonché l'istituzione degli emblemi caratteristici del potere (imperium), come i littori armati di fasci con le scuri, la sedia curule, il mantello di porpora. Ora è stato osservato che per l'appunto questi dati relativi alla regalità etrusca sono i soli che trovino qualche conforto nei risultati degli scavi archeologici e nello sviluppo stesso delle istituzioni. Certo in un ambiente dove le gentes patrizie avevano vasti possessi territoriali e disponevano di larghe clientele fra i plebei, e dove non risulta nettamente stabilito un principio dinastico, il prestigio della regalità doveva essere ora maggiore ora minore in confronto al senato, i cui consigli hanno in dati periodi potuto imporsi al re; ed è quindi possibile che un nucleo di verità esista nella tradizione secondo la quale si determinò proprio nelle alte sfere della popolazione un movimento contrario ai Tarquinî. Ma, quanto ai comizî curiati, la riflessione sul modo in cui procede l'evoluzione giuridica romana porta a credere che le loro funzioni fossero in epoca regia quelle sole che conservarono anche in regime repubblicano, cioè l'assistenza al testamento e all'arrogazione e l'acclamazione dei nuovi capi, intesa come promessa di fedeltà: naturalmente, come nella monarchia omerica, il re avrà convocato l'assemblea per tenerla al corrente delle più gravi decisioni, e dell'atteggiamento dell'uditorio avrà tenuto conto nelle deliberazioni ulteriori, ma senza che tali riunioni sboccassero in vere e proprie votazioni.

Nella parte più propriamente dedicata alla storia di Roma è esposta e criticata la tradizione circa la caduta della monarchia, volutamente identificata dagli antichi con la liberazione dalla dominazione straniera: espulsione della dinastia etrusca e instaurazione della repubblica sono per essi i due aspetti di una sola e rapidissima rivoluzione. Ma fra i giuristi non può non avere molto seguito la tesi secondo la quale la monarchia, anzichè cessare di un colpo, si esaurì lentamente, come ad Atene, per esserlesi sovrapposte magistrature elettive sempre più vigorose: a parte l'indizio fornito dalle leggende relative al primo anno della repubblica, troppo denso di eventi e di personalità tendenti a un potere esclusivo, la prova è nel fatto che un rex è sempre esistito nella costituzione romana, e sempre come potestà vitalizia, pur riducendosi, prima nella competenza e poi anche nel nome, a una formale direzione delle cerimonie religiose (rex sacrorum). La prima magistratura sorta accanto alla regalità (dittatura o pretura che sia) ebbe come funzione essenziale il comando dell'esercito: quando e per quali vie le sia stata trasferita anche la giurisdizione, e come intorno al re abbia assunto sempre maggiore importanza il collegio dei pontefici, che perfino nel campo della religione ne venne limitando il potere, è sviluppo che non ci è dato seguire neppure nelle linee generali.

Nella lenta formazione della costituzione repubblicana, svoltasi in tempi (sec. V e IV a. C.) ancora refrattarî a una sicura conoscenza storica, possono tuttavia fissarsi alcuni punti fermi. La magistratura suprema si determina sempre meglio nella sua struttura, e sorgono accanto a essa altre magistrature con competenze particolari; la circoscrizione amministrativa delle tribù si trasforma, per effetto delle numerose terre assegnate nel contado ai plebei, distinguendosi quattro tribù urbane e un numero molto maggiore, e sempre crescente, di rustiche; una nuova assemblea del popolo, ispirata alla più complicata organizzazione dell'esercito, assume le nuove funzioni elettorale e legislativa, in guisa da liberare definitivamente i plebei dal vincolo della clientela ma da graduare il potere politico in proporzione della proprietà fondiaria; la plebe combatte peraltro contro il patriziato una dura e lunga guerra, dapprima per ottenere le assegnazioni di terreni, poscia, aumentato il benessere, per raggiungere anche l'eguaglianza politica, e finisce per ottenerla; il potere di coercizione dei magistrati viene fortemente limitato nel suo esercizio entro il territorio cittadino.

Ma i particolari sono spesso sospetti nella tradizione, e la ricostruzione storica dà luogo ai più gravi conflitti di opinioni. Si discute, ad es., se la magistratura suprema originaria sia stata veramente, come la tradizione vuole, il consolato, e se la dittatura sia sempre stata quella magistratura eccezionale che era nel sec. III; se il potere dei due consoli, detti dapprima praetores perché come comandanti precedono l'esercito, sia sempre stato eguale, oppure vi sia stata in origine una gerarchia; se il terzo pretore, che la tradizione vuole introdotto nel 367 con funzioni esclusivamente giurisdizionali, non sia esistito fin dall'istituzione della pretura-consolato (v. CONSOLE; DITTATORE; PRETORE). Più chiara è l'origine della censura e della questura (v. CENSORE; QUESTORE), sorte entrambe nel corso del sec. V, l'una per il censimento e l'altra per aiutare i consoli nell'amministrazione finanziaria e nella giurisdizione penale. A molte e complesse questioni dà luogo altresì lo sviluppo delle rivendicazioni della plebe; il fatto che i primi tribuni, rappresentanti scelti per far valere le ragioni dei rivoltosi, furono (secondo l'interpretazione delle fonti che sembra migliore) quattro, è con grande probabilità da interpretare nel senso che la rivolta sia sorta da principio solo entro le quattro tribù urbane, ma potrebbe anche contenere l'indizio che al tempo delle famose secessioni (499 e 471 a. C.) le tribù rustiche non esistessero ancora. Neppure sappiamo se le rivendicazioni tendenti a partecipare alle cariche pubbliche e a far riconoscere ai plebisciti forza di legge siano state anch'esse sollevate dal popolo minuto, ovvero, come meglio risponderebbe all'evento, da quella sola parte della plebe che, per la proprietà fondiaria acquistata e per il felice risultato di imprese commerciali, aveva raggiunto un benessere paragonabile a quello del patriziato. Particolarmente discussa è poi la cronologia degli avvenimenti, turbata dalle infinite anticipazioni: così l'assemblea delle centurie è attribuita dalla tradizione al re Servio Tullio, mentre almeno nella formazione, che gli antichi descrivono come originaria e che presuppone un largo sviluppo delle assegnazioni di terre ai plebei, non può risalire oltre l'inizio del sec. IV; così l'appello al popolo (provocatio) contro la condanna a morte, suprema guarentigia della libertà, è attribuito a tutta una serie di leggi Orazie e Valerie e Valerie Orazie, che vanno dal tempo del mitico re Tullo Ostilio fino al 300 a. C.; così la parificazione dei plebisciti alle leggi è anch'essa ripetuta tre volte, mentre solo l'ultima delle tre disposizioni, la legge Ortensia del 286, può considerarsi storica.

Comunque, gli ordinamenti repubblicani raggiungono il loro assestamento intorno al 300, completandosi in seguito all'accordo fra le classi anche la serie delle magistrature: di quelle che i plebei si erano create nella loro organizzazione rivoluzionaria, il tribunato rimane nella sua struttura di organo di difesa degl'interessi plebei, mentre l'edilità è portata da due a quattro posti, aggiungendosi gli edili curuli (in un primo tempo patrizî) agli edili plebei.

Il comando (imperium) risiede presso i magistrati. Sue caratteristiche sono la temporaneità, normalmente annualità, la gratuità, la collegialità; intesa quest'ultima nel senso specifico romano, per cui ognuno dei magistrati di pari grado può compiere qualsiasi atto compreso nella competenza dell'ufficio, finché non ne sia impedito dal veto, intercessio, di un collega. Ma queste caratteristiche si attuano in pieno soltanto nell'imperio domestico (imperium domi), mentre per quanto riguarda il comando in guerra, e l'amministrazione delle provincie che ne è il prolungamento naturale i principî si adattano alle circostanze: così, mentre il console che sente scoccare in città la mezzanotte del 31 dicembre ritorna istantaneamente privato cittadino, quello che si trova in guerra aspetta l'arrivo del successore; egualmente, il principio della gratuità non si oppone a che i governatori delle provincie ricevano indennità cospicue; infine la necessità di condurre la guerra su parecchie fronti simultaneamente, e l'unità di governo che sempre fu osservata in provincia, fanno sì che nell'imperium militiae l'intercessio entri in azione molto di rado.

L'imperium indifferenziato, suscettibile di attuarsi volta a volta come imperio domestico e comando in guerra, appartiene del resto solo ai consoli e ai loro colleghi minori, i praetores, salvo ad essere in fatto esercitato, per una specie di delegazione permanente, anche dai loro ausiliarî, i questori: in pace è riservato ai consoli il potere di polizia e la preparazione delle leggi da presentare all'assemblea delle centurie, ai pretori la giurisdizione civile e in progresso di tempo la criminale (v. oltre: Diritto penale), ma in guerra e in provincia le loro funzioni sono eguali, sicché l'amministrazione delle terre conquistate ha potuto essere organizzata aumentando solo i posti di pretore (da due a quattro, e poi a sei e a otto). Ma inoltre è stato necessario trar profitto dalla regola per cui l'imperium militiae cessa soltanto con l'arrivo del successore, e prorogare il più delle volte per un secondo anno il potere dei consoli e pretori scaduti, ma sempre con impieghi all'estero (v. PROCONSOLE; PROPRETORE).

Gii altri magistrati (censori, tribuni, edili) hanno funzioni limitate al territorio romano. I due censori, eletti ogni cinque anni per il censimento della popolazione, procedono anche alla scelta dei senatori e alla distribuzione dei cittadini fra le varie classi e tribù, esercitando in queste circostanze un severo controllo sulla moralità pubblica e privata; gli edili sovraintendono a quella che anche oggi chiamiamo edilizia cittadina, nonché al mercato e ai giuochi pubblici; i tribuni della plebe, portati ben presto da quattro a dieci, partecipano alla legislazione mediante la proposta dei plebisciti e alla giurisdizione penale chiamando le tribù a giudicare delle eventuali malefatte dei magistrati scaduti, ma non possono uscire dal pomerio della città senza perdere, oltre al diritto di veto, anche quel carattere di sacrosancti che era loro riconosciuto in base all'accordo fra patriziato e plebe. Vedi, per i particolari, CENSORE; EDILI; TRIBUNO.

Le leggi che avevano sancito la pace sociale, riservando ai plebei un certo numero di posti, non dicevano che gli altri spettassero ai patrizî: questo silenzio, che allora derivava dall'essere la cosa intuitiva, fu sfruttato in seguito, restringendosi sempre più le file del patriziato, per riconoscere valide anche le elezioni da cui tutti i posti risultassero assegnati a plebei. Non perciò l'accesso alle cariche pubbliche fu aperto a tutti; anzi uno spirito di tradizione, alimentato, oltre che dall'alto costo della carriera politica, anche dall'influenza crescente del senato, fece sì che le cariche si circoscrivessero entro la cerchia di qualche centinaio di famiglie, componenti la cosiddetta nobilitas, nella quale solo a grandi intervalli riuscivano a penetrare uomini nuovi, insigni per meriti civili e militari. Inoltre, una serie di regole legali e consuetudinarie fissava i termini della carriera, o cursus honorum: non si può esser questori prima dei trent'anni; fra la questura e la pretura, fra questa e il consolato devono intercorrere certi intervalli (durante il primo, più lungo, si può eventualmente rivestire l'edilità o il tribunato); censore può essere solo chi sia già stato console; non si possono rivestire due magistrature quali che siano in due anni consecutivi; nessuna magistratura può essere rivestita due volte, salvo il consolato dopo un intervallo di dieci anni.

Il limite principale posto per legge all'imperio domestico dei magistrati è nel divieto di condannare a morte il cittadino senza convocare i comizî: appunto ad esprimere questo divieto i littori (v. LITTORE) portano in città i fasci senza scuri. Funzionano d'altronde come limiti da una parte la competenza legislativa ed elettorale delle assemblee, dall'altra il costume che esige la convocazione del senato prima di ogni decisione di notevole importanza politica.

Della composizione dell'assemblea delle centurie si è detto altrove; e in seguito si dirà del concilio plebeo delle tribù, nonché dell'uso, invalso almeno a partire dal sec. II, di convocare per tribù anche l'assemblea di tutto il popolo. Qui basti ricordare che così nei comizî centuriati come nei tributi la grande maggioranza delle unità votanti è assicurata ai piccoli proprietarî rurali, riducendosi il proletariato urbano e la massa crescente degli schiavi affrancati in cinque centurie su 193, ovvero nelle 4 tribù urbane, contrapposte nell'ordinamento definitivo a 31 rustiche.

D'altronde, il potere legislativo ed elettorale dei comizî non è mai stato inteso in quel senso di governo diretto delle masse, che è tipico, ad es., della democrazia ateniese. In tema di legislazione, le assemblee, a cui è negata ogni iniziativa, si limitano a votare per il sì o per il no: le riunionì private (v. CONCIONE) che hanno luogo nell'intervallo fra la proposta e la votazione dànno modo ai personaggi più eminenti di far valere i varî punti di vista circa l'opportunità della legge, ma in massima è il proponente stesso che ritira le proposte impopolari, sia pure al solo fine di emendarle. Analogamente, la votazione annuale circa i magistrati dell'anno successivo è stata per molto tempo una semplice approvazione delle proposte fatte dai magistrati in carica: soltanto in epoca avanzata, forse a partire dalla seconda metà del sec. III, prevalse ìl sistema delle candidature molteplici, controllate però anch'esse dai predecessori e da loro presentate al popolo. È caratteristico che non solo nel tempo della più feconda pace interna, ma anche nei periodi più convulsi il popolo romano è stato sempre guidato dai suoi magistrati: la figura tipicamente ateniese del capoparte, che senza occupare nessun pubblico ufficío dirige la politica del paese, è a Roma un fatto patologico, di cui si ha appena qualche accenno alla vigilia del cambiamento di regime.

La posizione dei magistrati è invece, all'apogeo della costituzione repubblicana, sempre più deferente, anzi politicamente dipendente, nei riguardi del senato. Questo consiglio degli anziani non ha mai cessato di essere, in diritto, un organo meramente consultivo; e le sue deliberazioni, che portano il nome appropriato di senatoconsulti, hanno la forma tipica del parere (senatus censuit). Ma l'ampliamento dell'orizzonte politico di Roma faceva sì che molti problemi superassero il prestigio individuale e la responsabilità del magistrato che sarebbe stato chiamato a risolverli; né le assemblee popolari, alle quali (come si è visto) ogni problema doveva essere presentato in stato di perfetta elaborazione, avrebbero potuto coprire con la loro propria autorità la persona del proponente. D'altronde, essendo ormai il senato costituito esclusivamente di ex-magistrati, il console, che da 13 anni almmo ne faceva parte e che pensava di veder ripresa la sua carriera dai figli e dai nipoti, aveva maggior interesse a conservare e accrescere il proprio prestigio presso i pari che ad essere ricordato per aver preso da solo la responsabilità di un'azione politica rischiosa. Anche in senato, poi, l'ordine del giorno è preparato dal magistrato che lo convoca, e questo guida la discussione e vi prende la parola quante volte creda, come i ministri in seno ai nostri corpi legislativi; ma egli deve invitare a parlare, in ordine di dignità, cioè di carica rivestita, cominciando quindi dal più anziano degli ex-censori, tanti senatori quanti ne occorrono a che il consiglio stesso si senta sufficientemente illuminato; e infine deve prendere i voti, con la conseguenza di non potere, per regola di correttezza costituzionale, allontanarsi dal risultato della votazione. In definitiva, non solo la politica estera ma anche la finanziaria, e perfino l'alta direzione strategica delle operazioni di guerra, finisce per essere nelle mani del senato, mentre le più alte ambizioni dei magistrati come tali tendono al successo sul campo di battaglia.

In questo senso, il regime repubblicano romano ci appare, nell'epoca migliore, come un governo della nobilitas, cioè dell'aristocrazia fondiaria, sotto una presidenza affidata per turno ai rappresentanti più autorevoli della classe stessa, e con l'appoggio dei piccoli proprietarî organizzati nei comizî.

A siffatto regime toccò anche il compito, sopra ogni altro delicato, di dar forma giuridica all'egemonia sull'Italia e sulle provincie. Quanto all'Italia, dopo un primo momento nel quale l'annessione del territorio dei popoli vinti fu largamente praticata per far fronte alle richieste di terre per parte dei plebei, parm miglior partito ricorrervi il più raramente possibile, specialmente per punire, mettendoli in stato di sudditanza, paesi particolarmente infidi (v. MUNICIPIO). Per la maggior parte delle città italiche e italiote, sia che soccombessero in seguito a guerra leale sia che volontariamente si mettessero sotto la salvaguardia romana, prevalse il sistema dell'alleanza, foedus; che fu aequum o iniquum secondo che le parti contraenti si vincolassero su un piede di eguaglianza o che, come divenne sempre più usuale, la politica internazionale rimanesse riservata a Roma, obbligandosi le città alleate a fornirle uomini e danaro. Così le tribù rustiche, il cui incremento si arrestò verso il 240 a. C. con l'istituzione della 31ª (35ª dell'ordinamento complessivo), occupavano un territorio compatto per un migliaio di chilometri quadrati intorno alla città, e inoltre avevano ciascuna varie appendici non continue, insinuate come oasi di romanità fra i territorî degli alleati. Ma nelle zone di confine, e dove le città alleate apparivano troppo forti o altrimenti pericolose, si deducevano forti colonie agricole-militari, volta a volta composte o di soli cittadini romani (nel qual caso entravano naturalmente a far parte di una tribù rustica) o di cittadini e latini insieme (nel qual caso entravano con Roma in quella più stretta forma di alleanza che appunto si diceva latinitas; v. LATINI).

Le provincie, invece, prime fra tutte la Sicilia e la Sardegna, sono considerate come territorî soggetti: conformemente alle tradizioni degli abitanti, tutti i criterî proprî dello stato-città sono qui abbandonati e sostituiti da quelli specifici degli antichi stati patrimoniali. Salvo che anche in provincia le città preesistenti sono normalmente rispettate, attuandosi nei loro confronti una forma di alleanza ineguale, o protettorato, che ne lascia formalmente intatta l'autonomia.

L'equilibrio della costituzione di cui abbiamo segnato le linee maestre, si rompe verso la fine del sec. II a. C.: la crisi deriva anzitutto dalla decadenza della piccola proprietà fondiaria, ma anche dal sorgere di una nuova classe, quella dei cavalieri, arricchitasi nel commercio internazionale e nell'appalto delle imposte provinciali, che si allea col popolo minuto nel combattere l'aristocrazia senatoria. Quest'ultima, del resto, non rivela più nella conservazione del prestigio suo proprio e di quello della città attitudini pari alla fama che le derivava dall'abilità con la quale era divenuta arbitra della politica interna e internazionale; anzi, così di fronte alle altre classi della cittadinanza come nei rapporti con gli alleati e coi sudditi, si chiude in un egoismo cieco che inasprisce i dissidî. Il largo reclutamento dì proletarî, che trasforma il servizio militare in un mestiere e i generali della repubblica in signorotti che combattono per il loro potere personale; la conseguente frequenza di comandi straordinarî, attribuiti agli uomini di primo piano piuttosto per favorirne l'ambizione che per reali interessi del paese; lo sfruttamento irrazionale delle provincie, alle quali il proletariato cittadino domanda viveri sotto costo mentre i cavalieri le opprimono con le ingiuste esazioni e i governatóri con le concussioni; infine le congiure contro lo stato e gli accordi fra privati per dividersi i pubblici poteri, sono insieme effetti della crisi e cause di nuovi turbamenti. Sempre più visibile è il paradosso di un grande impero governato da una piccola repubblica cittadina, dilaniata da conflitti di classi e di persone.

Fra gli aspetti giuridici della grande battaglia che s'inizia il 133 con Tiberio Gracco e termina il 31 con la vittoria di Ottaviano su Antonio, vanno ricordati i tentativi, solo in piccola parte riusciti, di ricostituzione della piccola proprietà; le leggi giudiziarie, dirette alternativamente a riservare a giudici senatori o ad affidare ai cavalieri la decisione dei processi politici, soprattutto di concussione o di corruzione elettorale; gli sforzi dei tribuni rivoluzionarî per avocare ai comizî plebei quella distribuzione dei vari impieghi fra i magistrati eletti e gli uscenti, che era forse tra le funzioni del senato la più importante politicamente; l'arma altrettanto rivoluzionaria del senatusconsultum ultimum, col quale si sospendeva il principio della provocatio ad populum nei processi penali, con grave scandalo della democrazia; infine l'energica restaurazione sillana, caduca in molte parti e sfruttata per altre parti a fini opposti a quelli per cui era stata disposta, come in quella separazione dell'imperium domi dall'imperium militiae, che voleva ridurre i consoli e i proconsoli a semplici funzionarî, rispettivamente civili e militari, del senato ma fu invece fra i più saldi presupposti giuridici del principato.

La vera e grande innovazione di questo torbido periodo fu l'estensione della cittadinanza all'Italia; dapprima (89 a. C.) all'Italia nel senso ristretto che allora si dava al nome, cioè dalla Magra e dal Rubicone fino allo stretto di Messina, ma poi, sotto Cesare o per interpretazione postuma di suoi provvedimenti, anche alla Gallia Cisalpina e alla Sicilia. La quale riforma, di enorme importanza politica, non va peraltro intesa come trasfomazione dello stato-città in stato nazionale (una concezione alla quale il mondo antico non seppe mai arrivare), bensì nel senso che tutta la penisola fu considerata come territorio cittadino e tutti gli abitanti come romani, salva l'appartenenza amministrativa alla città di origine, organizzata in municipio.

La svalutazione che gli ottimati avevano effettuato, a opera di Silla, delle assemblee popolari e dei magistrati, piuttosto che conferire al prestigio del senato, accrebbe la fede che attraverso i successi militari e la devozione dei mercenarî si rivolgeva agli uomini di primo piano, ritenuti capaci di dare un nuovo assetto allo stato. D'altronde, già dal 100 a. C., ogni volta che uomini di alto prestigio si sono presentati sulla scena politica, leggi speciali o procedimenti nettamente illegali hanno derogato alla costituzione, sia consentendo all'infinito l'iterazione del consolato, sia creando poteri proconsolari illimitati, sia attribuendo la dittatura, che l'antico costume limitava a sei mesi, per lunghissimi termini o addirittura vita natural durante, sia - infine - affidando i pieni poteri a piccoli comitati come è il caso del triumvirato (v).

Il merito di Ottaviano Augusto, che alla nuova tendenza diede la formulazione definitiva, consistette fondamentalmente nel distaccare quanto più fosse possibile il proprio potere dall'organismo costituzionale dello stato, per modo che questo apparisse governato in tutto dagli stessi principî che nell'età repubblicana lo avevano informato. Le magistrature, il senato, le assemblee popolari riebbero formalmente la somma di poteri che all'apogeo della repubblica era stata propria di ciascun organo; a se stesso l'imperator, come tale acclamato - secondo il costume - dalle milizie, riservò la difesa dell'Impero e l'approvvigionamento dell'Italia, l'una e l'altro espressi nel nome dell'imperium proconsulare, nonché il diritto di opporre il veto alle iniziative dei magistrati cittadini, come già lo avevano avuto i tribuni (tribunicia potestas). Piuttosto che essere inseriti nella costituzione, questi poteri le sovrastano come un apparato protettore, giuridicamente del tutto analogo a quello secondo il quale erano state regolate le egemonie dei re sulle città (a partire da Filippo di Macedonia) o delle città su altre città (a partire dal cosiddetto Impero ateniese). La conseguenza fu che accanto agli organi dello stato protetto, cioè della repubblica romana, sorgessero gli organi del protettore, cioè del principe, e che gli uni e gli altri si movessero nelle orbite rispettive, riuscendo tuttavia molte volte a un conflitto di competenze: così le provincie sono distinte in senatorie e imperiali, riservandosi al principe l'amministrazione di quelle che a suo stesso giudizio sono necessarie ai fini della difesa e dell'approvvigionamento, ma non senza che la sua vigilanza si estenda, in nome delle stesse finalità, anche sulle provincie governate secondo i principî repubblicani; così la giurisdizione penale rimane incardinata nelle giurie costituite dalle apposite leggi, specie dei Gracchi e di Silla e dì Cesare, ma il largo potere di polizia che il principe si arroga fa sì ch'egli possa conoscere, prevenendo l'accusa popolare, dei delitti politici nel senso più largo (v. appresso: Diritto penale); così l'erario pubblico, amministrato dagli organi repubblicani e alimentato in speoie dalle imposte delle provincie senatorie, è affiancato dal fisco di Cesare (v.), amministrato dal principe e nutrito dai tributi delle provincie imperiali. I funzionarî dell'imperatore rappresentano da ogni punto di vista l'antitesi delle magistrature: non vincolati a un periodo di tempo ma conservati nell'ufficio finché piaccia al principe, non collegiali ma unici nel grado o con competenze territorialmente distinte, non gratuiti ma stipendiati, non sovrani nell'esercizio delle rispettive funzioni ma gerarchicamente ordinati.

Basato com'è sulla dichiarata devozione dell'esercito e del senato a un uomo eminente capace di proteggere la repubblica, il principato rimane per oltre due secoli un potere extra-costituzionale e straordinario, ribelle al principio dinastico. La conservazione integrale delle istituzioni repubblicane fa sì che la vita dello stato potrebbe senza alcuna riforma continuare il suo corso anche senza il principe: se ad ogni vacanza un nuovo personaggio è stato scelto a dirigere la vita politica, questa è piuttosto una realtà di fatto che l'ossequio a una norma giuridica. Tant'è che neppure esiste un modo unitario di designazione: come il senato può attribuire a un cittadino quella potestà tribunizia che simboleggia, più che descriverlo, il potere imperiale, così l'esercito può acclamare imperator un generale, anzi le varie unità militari possono acclamare varî imperatores (il che è però teoria non da tutti accolta; cfr. più sopra: Storia: età imperiale). Ove la pluralità delle scelte si verifichi, il conflitto non si apre fra un sovrano legittimo e un usurpatore, ma fra due potenze, e soltanto la guerra può deciderlo. Se questa situazione, a parte periodi di grave crisi, si è verificata abbastanza di rado, ciò è dipeso sia dall'ossequio spontaneamente prestato ai discendenti di principi benemeriti, sia dall'adozione che i principi stessi praticavano per segnalare delicatamente al senato il loro desiderio circa la successione, ma più ancora dall'uso invalso della coreggenza, cioè di associarsi un secondo imperatore in modo da evitare che la morte desse luogo a una vacanza.

Mentre le istituzioni repubblicane rimangono, conformemente alla loro struttura, cittadine, cioè particolaristiche, incapaci di affermarsi di fronte a popolazioni allogene non ordinate a città in altro atteggiamento che non sia quello del padrone di fronte al suddito, la potestà imperiale che le protegge è per sua intima tendenza universale e livellatrice; onde fin dal primo momento essa si attribuisce consapevolmente la funzione di ridurre a unità le sparse membra dell'Impero. Appunto perciò, i progressi della romanizzazione delle provincie (ottenuta attraverso una più equa amministrazione delle finanze e della giustizia, attraverso il reclutamento delle legioni nelle provincie stesse di frontiera, attraverso la formazione di borghesie locali devote all'Impero per i benefici ricevutine) vanno di pari passo con l'esaurimento della costituzione tradizionale: la concezione dell'imperatore come monarca, familiare fin dal primo momento alla maggior parte delle provincie come quella che rispondeva alla tradizione orientale ed ellenistica, si afferma sempre più nettamente anche nella metropoli, con alti e bassi determinati dal diverso prestigio e dalle varie tendenze dei singoli principi, ma guadagnando di decennio in decennio sempre nuovo terreno.

Nel corso del sec. III d. C., i privilegi degl'Italici cadono a uno a uno. Cade nel 212, per il noto editto di Antonino Caracalla, il privilegio della cittadinanza, venendo questa elargita a tutti gli abitanti dell'Impero. Il privilegio delle giurisdizioni civili e criminali, attribuite al senato e ai magistrati, mentre cede sempre più di fronte alla concorrenza delle giurisdizioni imperiali, si restringe per quel che ne rimane a Roma e al prossimo contado, mentre nella restante penisola nuovi funzionarî rendono giustizia in nome dell'imperatore; la costituzione municipale, elargita anche in provincia a tutti i centri urbani di qualche importanza, perde il suo carattere semi-sovrano per trasformarsi in un'organizzazione amministrativa diretta a garantire il gettito delle imposte, sotto la sorveglianza di rappresentanti dell'autorità imperiale; perfino il privilegio della piena proprietà fondiaria, esente da tributi che affermino un diritto eminente dello stato, è abolito dall'imperatore Aureliano. Ma soprattutto è il centro di gravità dell'Impero che sempre più si sposta verso l'Oriente, per modo che il concetto stesso della romanità si diluisce in mero simbolo dell'universalità dello stato.

Certo il processo di trasformazione del principato in monarchia di diritto divino non si può dire compiuto neppure con Diocleziano, quantunque le sue molteplici riforme sanciscano la definitiva esclusione del senato da ogni partecipazione attiva alla legislazione e al governo, e la riduzione delle magistrature elettive a titoli onorifici. Piuttosto che elevarsi a emissario della divinità in terra, il grande imperatore illirico intese riaffermare con la potestà imperiale l'autorità dello stato e il vigore delle leggi: lo stesso sistema della tetrarchia, congegnato senza troppa penetrazione dell'umana psicologia ma con la più meticolosa cura di evitare le scosse derivanti dalla mancanza di norme circa la successione al trono, esprimeva l'intenzione dell'imperatore di considerarsi piuttosto come capo del governo che come padrone. Comunque, il fatto che tutta l'immensa gerarchia civile e militare non facesse capo che a lui, la ricostruzione dell'ordinamento provinciale secondo la triplice gradazione delle provinciae nel senso nuovo, delle diocesi, delle enormi prefetture a contatto immediato del principe, e infine il rinnovato ordinamento unitario dell'esercito, che toglieva autonomia alle legioni provinciali, erano altrettanti passi giganteschi sulla via della monarchia assoluta. Non è quindi da stupirsi che il passo decisivo sia stato fatto ben presto da Costantino, con la ruvida affermazione del principio dinastico e con la concezione della monarchia cristiano-apostolica. Da questo momento, cioè dal principio del sec. IV, si affermò appieno quella identificazione tra uffici civili e milizia, e quell'equiparazione dell'uno e dell'altro servizio ai varî gradi della domesticità imperiale, che furono i corollarî del principio despotico. L'imperatore è ormai dominus, non tenuto al rispetto delle leggi perché legge vivente (νόμος ἔμψυχος) egli stesso, e i funzionarî non sono organi dello stato ma emanazioni della sua personalità: la nuova divisione della popolazione in classi, lungi dal rappresentare una graduazione del potere politico, ha il solo scopo di facilitare al signore e alla complessa gerarchia da lui dominata i compiti dell'amministrazione e della difesa, primo fra tutti quello di esigere le imposte.

BIBL.: J. Beloch, Der italische Bund unter Roms Hegemonie, Lipsia 1880; F. Bernhöft, Staat und Recht der römischen Königszeit, Stoccarda 1882; E. Costa, Storia del diritto rom. pubblico, Firenze 1920; O. Hirschfeld, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diokletian, 2ª edizione, Berlino 1905; L. Homo, Les institutions politiques romaines, Parigi 1927; C. Jullian, Les transformations politiques de l'Italie sous les empereurs romains, ivi 1883; I. N. Madvig, Die Verfassung und Verwaltung des römischen Staats, Lipsia 1881-82; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, ivi 1873-78; E. Meyer, Caesars Monarchie und das Prinzipat des Pompeius, Stoccarda-Berlino 1918; Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, 3ª ed., Berlino 1887-88; id., Disegno del dir. pubbl. rom., trad. P. Bonfante, Milano 1905; K. J. Neumann, Römische Staatsaltertümer, in Gercke e Norden, Einleitung in die Altertumswiss., III, Lipsia 1909; G. Pacchioni, Breve storia dell'impero romano narrata da un giurista, Padova 1935; A. Rosenberg, Der Staat der alten Italiker, Berlino 1913; G. Rubino, Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte, Kassel 1839; O. Schulz, Das Wesen des röm. Kaisertums der ersten zwei Jahrhunderte, Paderborn 1916; G. Segrè, Alcune osservazioni sulla costituzione dell'impero da Diocleziano a Giustiniano, in Atti Congr. internaz. dir. rom., I (Roma 1833), p. 211 segg.; E. Täubler, Der römische Staat, in Gercke e Norden cit., 3ª ediz., III, 5, Lipsia 1934; P. Willems, Le droit public romain depuis l'origine de Rome jusqu'à Constantin le Grand, 7ª ed., Lovanio 1920 (oltre alle opere generali di storia romana e di storia del diritto romano, e quelle indicate sotto le singole voci).

DIRITTO PENALE.

Degl'inizî del diritto penale è già detto qualche cosa alla voce PENA: ivi è rilevato come all'origine della repressione dei delitti sia da una parte la vendetta privata di ogni offesa alla persona e al patrimonio, dall'altra la libera coercizione magistratuale, che reprime i fatti lesivi dell'incolumità della civitas. Lo sviluppo della civiltà è nel senso di ridurre in più stretti confini la vendetta, sia in quanto è avocata alla pubblica autorità la punizione dei reati che possono dar luogo alla pena di morte, sia in quanto il diritto di vendicarsi si riduce alla facoltà di pretendere la somma del riscatto: così il diritto penale privato diviene una branca del diritto delle obbligazioni, protetta da azioni civili conformi a quelle che tutelano tutti gli altri rapporti giuridici patrimoniali, mentre la repressione criminale propriamente detta si afferma sempre più come una funzione di stato, affidata con cura gelosa agli organi supremi della repubblica.

Ma, anche a non parlare delle massime (più religiose che giuridiche) attribuite dalla tradizione all'epoca regia, nella legge delle XII Tavole questo sviluppo appare ancora incompiuto. Da una parte, mentre sono fr