ROBERTO d’Angiò, re di Sicilia-Napoli

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 (2017)

ROBERTO d'Angio, re di Sicilia-Napoli

Jean-Paul Boyer

ROBERTO d’Angiò, re di Sicilia-Napoli. – Nacque nel 1278 nella torre di Sant’Erasmo nell’antica Capua (Santa Maria Capua Vetere), da Carlo principe di Salerno, il futuro re Carlo II (figlio ed erede di Carlo I, il capostipite della dinastia d’Angiò), e Maria, figlia di Stefano V d’Ungheria. Era il terzo maschio della coppia, dopo Carlo Martello e Ludovico.

Quando nacque Roberto, Carlo I – re di Sicilia ossia del Regno, e per questo vassallo della Chiesa – governava il Meridione d’Italia sino a Malta, dominava gran parte del Piemonte ed era il leader dei guelfi italiani; era inoltre re di Gerusalemme e di Albania, principe di Acaia, conte di Provenza, di Forcalquier, di Tonnerre, dell’Anjou e del Maine, ed estendeva dunque i suoi dominî dalla Francia a quel che restava del regno latino di Terrasanta. Ma il destino suo e della dinastia - e dunque di Roberto - fu segnato ben presto dalla rivolta del Vespro, nella primavera del 1282, che provocò la perdita della Sicilia a beneficio della dinastia catalano-aragonese e mise in pericolo l’intero dominio angioino. Per di più Carlo di Salerno cadde nelle mani dei Siculo-aragonesi il 5 giugno 1284, e quando Carlo I morì, il 7 gennaio 1285, era ancora prigioniero in Catalogna.

Mandato nel 1282 in Provenza, Roberto vi rimase fino al 1288 insieme ai fratelli Ludovico e Raimondo Berengario, per sfuggire ai pericoli della guerra del Vespro. Il suo futuro, da figlio cadetto, si annunciava nondimeno subordinato ai superiori interessi della stirpe. Carlo II tornò in libertà dopo aver stipulato a Canfranc, il 28 ottobre 1288, un trattato con Alfonso III d’Aragona che lo teneva imprigionato, associando al governo Carlo Martello come figlio più anziano e successore; e in cambio furono consegnati al re d’Aragona nel novembre 1288 Roberto e Ludovico, cui si aggiunse in marzo Raimondo Berengario.

I tre rimasero in ostaggio in Catalogna fino a quando Carlo II e Giacomo II d’Aragona acconsentirono all’accordo di Anagni (1295); ma non per questo fu trascurata la loro formazione intellettuale, affidata ai frati minori. Essi impartirono ai giovani principi un’educazione di buon livello, presentando loro anche il modello di un francescanesimo esigente: in particolare, il frate catalano Pietro Escarrer trasmise loro i fermenti della corrente spirituale e stabilì un legame tra i suoi allievi e il suo amico Pietro di Giovanni Olivi. E sette anni di prigionia lasciarono un’impronta decisiva sulla personalità dei giovani principi Angiò: durante quel periodo presero consistenza le ambizioni culturali di Roberto e la sua inclinazione per i francescani, e Ludovico dal canto suo si impegnò nella vita religiosa.

La scelta di vita di Ludovico, in particolare, contribuì al cambiamento di scenari per il regno angioino e indirizzò il futuro di Roberto. Carlo Martello era morto nell'agosto 1295 lasciando un figlio di sette anni, Caroberto, che ereditò il titolo di re d’Ungheria che suo padre aveva ricevuto dalla propria madre, Maria. Si trattava allora di pure e semplici aspirazioni a un regno che sarebbe poi stato assoggettato tra 1301 e 1323; tuttavia in forza di tale prospettiva Caroberto fu privato della successione a Carlo II. Ma Ludovico rinunciò nel 1296 al suo diritto al trono, entrò nell’ordine francescano e ricevette il vescovado di Tolosa. Dal febbraio di quell’anno Carlo II considerò Roberto suo ‘primogenito’ e successore in toto (per il regno meridionale, ma anche per gli altri titoli), e Bonifacio VIII acconsentì alla designazione il 24 febbraio 1297. Non si applicava rigidamente, all’epoca, il principio della «successione per rappresentazione», che avrebbe garantito a Caroberto di poter prendere il posto del defunto padre come erede di Carlo II; tale soluzione sembrava politicamente inopportuna, e prevalse pertanto la designazione a favore di Roberto.

Il re e il sommo pontefice s’accordarono sulla necessità di dare un nuovo assetto alla monarchia angioina: non si voleva un sovrano che coltivasse ambizioni eccessive e dispersive, e nell’immediato occorreva invece un figlio che potesse assistere il padre e ne fosse poi l’erede, tanto più che la pace di Anagni non rese meno impellente quella necessità (Giacomo d’Aragona aveva rinunciato alla Sicilia; ma il suo vicario nell’isola, il fratello Federico, si ribellò, fu acclamato re il 15 gennaio 1296 e prese il titolo di Federico III).

Ciononostante non mancarono opposizioni e malumori a proposito della opportunità ottenuta da Roberto, né furono limitate ai rancori degli Angiò di Ungheria; in seguito emersero apertamente, ma la necessità di contrastarli s’impose a Roberto sin da quel momento iniziale della vita pubblica e dunque egli, nell’interesse non solo della monarchia ma proprio, assunse il ruolo di erede e di collaboratore del padre. Il 13 febbraio 1296 Carlo II lo promosse vicario generale del Regno e duca di Calabria.

In seguito il re avrebbe ampliato la base territoriale del figlio, assegnandogli in particolare il principato di Salerno (5 maggio 1304) e la contea di Piemonte (17 febbraio 1309). Il Piemonte era in fase di riconquista e la Calabria fronteggiava la Sicilia catalana: Roberto si insediò dunque in territori che richiedevano un consolidamento, e assecondò il padre tanto nell’amministrazione ordinaria quanto nella lotta politico-militare.

Il 24 giugno 1299 Carlo II nominò Roberto vicario in Sicilia per recuperare quella provincia, ed egli condusse la guerra - con fortune alterne - fino al 1302. Con Carlo di Valois, che lo aveva raggiunto, Roberto negoziò il trattato di Caltabellotta con Federico III, che promise la restituzione dell’isola alla sua morte (31 agosto 1302). L’accordo non fu poi rispettato, ma nell’immediato liberò le province continentali dalle minacce e facilitò un ritorno degli Angiò nell’Italia centro-settentrionale. Roberto fu dunque promosso nel 1304 «capitano generale» della lega guelfa capeggiata da Firenze, e combatté valorosamente in Toscana nel 1305. Nel 1305-06 svolse l’incarico di vicario generale in Provenza con impegni di grande importanza per la monarchia; si trattò di un significativo tirocinio in vista della prospettiva di regnare da solo (Pécout, 2016, pp. 816-825). Poi, tra luglio 1306 e maggio 1308, Roberto si sostituì del tutto per quasi due anni a Carlo II, assente, nel governo del Meridione.

Il suo profilo regio si completò con adeguate alleanze matrimoniali. Nel marzo 1297 aveva sposato Violante d’Aragona, perché sorella di Giacomo II. L’unione faceva parte del piano di recupero della Sicilia; Giacomo d’Aragona si impegnava dunque nella guerra contro l’usurpatore dell’isola, benché fosse suo fratello, ma l’intesa ebbe esiti mediocri e transitori. Con la morte di Violante (agosto 1302), Roberto si poté risposare (nell’estate 1304) con Sancia, figlia di Giacomo, re di Maiorca e cadetto della casata aragonese. Il regno maiorchino offrì agli Angiò un alleato all’interno del sistema di potere catalano-aragonese, di fronte alla Sicilia e all’Aragona-Catalogna. Da questo matrimonio non nacquero figli, almeno che sopravvivessero alla loro primissima infanzia; ma da Violante d’Aragona Roberto aveva avuto due figli: Carlo, nato nel 1298, e Ludovico, nato nel 1300. Divenuti adulti, l’uno e l’altro avrebbero potuto diventare collaboratori di fiducia del padre e in ogni caso dissipavano le incertezze sulla sua successione.

Alla morte di Carlo II (5 maggio 1309), Roberto teneva ben saldo un retaggio che aveva contribuito lui stesso a rafforzare.

Certamente un confronto con la vastità dei domini di Carlo I era improponibile. Le perdite non si limitavano alla Sicilia e dintorni: non c’erano più i possessi francesi, la perdita di San Giovanni d’Acri toglieva ogni sostanza al titolo di re di Gerusalemme, la Romània angioina era limitata territorialmente e precaria. La capacità di intervento in Italia centro-settentrionale era modesta, eccetto che in Piemonte, ove peraltro l'occupazione era limitata alla parte meridionale della regione.

E tuttavia, in compenso, il ripiegamento territoriale aveva favorito una maggiore solidità nei territori superstiti o recuperati del potere angioino (Piemonte meridionale, Provenza e Regno continentale); il miglioramento amministrativo aveva riordinato i territori e favorito il consenso dei sudditi.

Roberto si proclamò senza esitazione, lo stesso giorno della morte di suo padre, Dei gratia rex Jerusalem et Sicilie, ducatus Apulie et principatus Capue, Provincie et Forcalquerii ac Pedimontis comes («per la grazia di Dio re di Gerusalemme e di Sicilia, [re] del ducato di Puglia, [re] del principato di Capua, conte di Provenza, di Forcalquier e di Piemonte») [Minieri Riccio, 1883, p. 50]. Clemente V lo riconobbe subito, lo incoronò e fece consacrare nella cattedrale di Avignone (3 agosto 1309). La cerimonia insistette sulla sacralità del nuovo sovrano e sulla sua funzione, che nelle aspirazioni dei sostenitori della teocrazia lo avvicinava a quella dell’imperatore. La sua autorità venne difatti proposta come strumento della Chiesa; in quanto detentore di arma celestia, egli garantiva la pace. Il pontefice in sostanza esaltò la monarchia di Roberto, dando un impulso ulteriore ai suoi orientamenti ideologici (Boyer, 1997).

Iniziò così un regno destinato a durare quasi 34 anni, nel quale ideologia e rappresentazione assunsero un rilievo eccezionale. Secondo Bartolomeo da Capua, principale ministro di Roberto, l’incoronazione sanciva l’«alta sapienza» di un monarca «profondamente dotto in sacra teologia» e la sua scienza di «esperto nella filosofia dell’uomo (moralia) e nella logica» (Boyer, 1995 A, pp. 240 s.). Il prestigio intellettuale di Roberto divenne un fondamento del regime. Egli manifestava le sue capacità negli atti pubblici e nella corrispondenza; si ispirava inoltre a modelli accademici e clericali (intr. a Roberto d’Angiò, 1970, pp. 31*-46*). Alcuni scritti (come un Liber de dictis philosophorum antiquorum e un Trattato delle virtù morali) gli sono attribuiti in modo infondato; ma due trattati teologici li compose effettivamente. Indirizzò infatti nel 1323 a Giovanni XXII un opuscolo sulla povertà evangelica, allo scopo di mediare nella controversia tra il papa e i francescani radicali (Siragusa, 1891, pp. XIII-XXVIII, ed. parziale). In un secondo opuscolo (inviato nel 1332 al papa e rispedito poi con modifiche a Benedetto XII nel 1335: Roberto d’Angiò, 1970 pp. 3-104) si schierò contro lo stesso pontefice, il quale sosteneva che la visione beatifica era differita sino al giudizio universale. Inoltre, ebbe una larghissima notorietà come predicatore, e si conservano all’incirca 280 (289 secondo Goetz, 1910, pp. 46-68) suoi sermoni «laici» o testi assimilabili a sermoni (a tutt’oggi poco studiati e per lo più inediti, salvo 18 soltanto: Boyer, 1995 B, pp. 131-136; Id., 1999 A, pp. 658 s.; Id., 2005 A, pp. 403-411; Id., 2013, pp. 296-303; Id., 2014, pp. 46-48; Fantuzzi, 1782, pp. III-VIII; Gamboso, 1985, pp. 338-378; Goetz, 1910, p. 69 s.; Musto, 1997, pp. 484-486; Pásztor, 1955, pp. 69-81; Pryds, 2000, p. 127; Walz, 1925, pp. 171 s.). Si tratta di testi sottovalutati perché considerati meri repertori di citazioni, ma se ne dimentica la natura scolastica e il contesto (Siragusa, 1891, p. 50).

Il personale impegno culturale e teologico del re fu un elemento sostanziale per la mobilitazione delle risorse intellettuali al servizio della monarchia. Resta famosa la sua biblioteca; ricorse a studiosi ebrei, a traduttori dal greco e dall’arabo; mostrò interessi svariati (dallo Pseudo-Dionigi ad Averroè e ad Aristotele, del quale fece predisporre un’ampia sintesi da parte del minorita Giacomo de Alexandria). Fu in sintonia con parecchi letterati e artisti, e in particolare il suo entourage napoletano manifestò una straordinaria intensità di relazioni e vivacità. Vi fu l’appoggio dei grandi conventi mendicanti della capitale; si accentuò un'osmosi fra i giuristi dello Studium e l’alta amministrazione. Si stabilì inoltre un forte legame con gli ambienti culturali più vivaci dell’Italia centrale e comunale. Petrarca giunse a Napoli nel 1341 per conseguire sotto la presidenza di Roberto, suo protettore, la laurea che gli permise l’incoronazione poetica a Roma. Lavorarono per la corte angioina diversi tra i più celebri artisti del territorio umbro-toscano, tra i quali Giotto, che con la sua bottega dipinse a Napoli, nella reggia di Castel Nuovo e nel convento di S. Chiara, importanti affreschi (pochi avanzi ne sono stati di recente identificati). Giovandosi dunque di apporti esterni, la monarchia divenne ad un tempo un riferimento per diversi artisti e letterati dell’Italia comunale, e si può dire che le correnti protoumanistiche si affermarono col sostegno della monarchia così come guadagnarono terreno in seno alla élite governativa (Sabatini, 1975, pp. 51-146; Kiesewetter, 2005; Leone de Castris, 1986; Id., 2006).

Più che con ogni altra componente di questo complesso universo culturale, Roberto fu personalmente in sintonia e in simbiosi con una cerchia di scolastici, di cui condivideva la cultura e le convinzioni. Insieme con essi egli praticava uno scolasticismo, per così dire, integrale, che abbracciava i due diritti e un ampio sapere religioso e filosofico culminante nella teologia «scientifica» aristotelico-tomista. Da ciò discendeva una compiuta visione del ‘politico’ (Boyer, 1995 B; Id., 2013).

Roberto e il suo ambiente aderivano risolutamente alla teocrazia pontificia, coerente con la vocazione della monarchia guelfa, e quella premessa favoriva una «dottrina anti-imperiale» (Monti, 1940, pp. 13-44). Ormai difatti la res publica apparteneva al papa; il diritto naturale si opponeva all’Impero, nato da un sopruso, ma restava cruciale la necessità di governi temporali che assicurassero la riduzione all’unità per il bene comune. Con questo obiettivo il re di Sicilia, sciolto da ogni obbligo rispetto all’impero, ne esercitava le prerogative nelle sue terre; gli bastava di conformarsi alla ragione, cioè ai principi del piano divino, per essere lex animata, «legge vivente» (Boyer, 1999). L’impero era decaduto, e l’Angiò prometteva un’amministrazione ‘unificatrice nella diversità’, altrettanto utile all’Italia intera (intr. a Roberto d’Angiò, La vision bienheureuse, p. 10*; Boyer, 2005). Come riflesso della sua ideologia non mancò, nel mondo comunale italiano, chi auspicò un regno italiano di Roberto (Frugoni, 1969). Il suo mecenatismo convinceva quell’ambiente della sua predisposizione al buon governo. D’altronde era opinione condivisa in tutta la sfera angioina che Roberto possedesse ogni conoscenza utile alla guida degli uomini, essendo illuminato dalla grazia divina: dall’inizio del regno fu paragonato a Salomone, e governava diffondendo il suo sapere lungo la gerarchia del potere secondo il modello dionisiaco (Boyer, 2016, pp. 79 s., 88). Le sue virtù, la sua venerazione verso la Chiesa e la sua conformità all’ordine del mondo convergevano infine per assicurare che le sue guerre italiane erano sante.

Queste tematiche politiche e culturali si inserivano in una sfera religiosa, nella quale il re era profondamente coinvolto (Boyer, 1994). I testi dei suoi sermoni e dei suoi trattati dimostrano quanto le sue convinzioni fossero radicate e lo rendessero risoluto, ma sempre ortodosso. Si oppose anche a Giovanni XXII, ma con cautela, non compromettendo il proprio potere ma aumentando la sua aura di re savio; sostenne dunque la resistenza minoritica, ma non si unì a spirituali e fraticelli né alla loro speranza gioachimita ed escatologica. Si preoccupò di ricevere il supporto propagandistico e religioso dei francescani in quanto comunità universale e di alta santità, e tutelò quindi la loro vocazione autentica secondo un orientamento vicino a quello di Michele da Cesena (che aspirò a preservare, grazie al rispetto della regola, la superiorità del suo ordine in seno alla chiesa). D’altronde il rapporto del re coi minoriti non fu esclusivo, e si appoggiò anche agli altri ordini mendicanti e in generale al clero nella ricerca del loro sostegno, terreno e soprannaturale (Paciocco, 1998).

In questa stessa direzione si colloca l’attenzione ai santi più vicini alla famiglia angioina. Roberto si prodigò pertanto per diffondere il culto del fratello Ludovico di Tolosa, morto nel 1297 e canonizzato il 7 aprile 1317, operando in sinergia coi francescani, coi sudditi e coi guelfi d’Italia. Si dedicò, con i domenicani, alla canonizzazione di Tommaso d’Aquino, e partecipò in Avignone al concistoro che la sancì il 14 luglio 1323, predicando davanti a Giovanni XXII (Walz, 1925, pp. 148 s., 152, 169-172).

Questi santi vicini al trono e alla dinastia contribuivano esplicitamente alla giustificazione ed esaltazione dell’uno e dell’altra, come attesta in particolare un’abbondante predicazione. In quanto santo teologo, Tommaso d’Aquino rinsaldava così un regime che si appellava al suo insegnamento, e in quanto santo regnicolo dimostrava l’armonia spirituale tra la monarchia e il suo popolo (Boyer, 2005 B). Ludovico di Tolosa dimostrava invece l’eccezionalità angioina e coronava – aggiungendosi al prozio, san Luigi IX re di Francia, e ai santi ungheresi portati ‘capitale simbolico’ familiare dalla regina Maria – l’attitudine degli Angiò alla santità. Ludovico inoltre certificava la legittimità di Roberto, in favore del quale aveva rinunciato alla corona (Francesco di Meyronnes, Ludovici episcopi sermo secundus, in Id., Sermones de sanctis, Jakob Wolff, Basilea 1498, cc. 178v-180v).

Debitore di questa costruzione spirituale, Roberto se ne mostrava degno. Si manifestava come «sacra regia maestà» in ogni occasione, e ambiva a un’imitazione di Cristo (Vitolo, 2014). Con la moglie Sancia, diede spettacolo continuo di fede e di carità. Tra l’altro il grandissimo convento, di clarisse e francescani, di S. Chiara di Napoli fu oggetto della benevola attenzione della coppia regale dal 1310-12 sino alla fine del regno. La vita di corte, immersa nella devozione, era orchestrata dai diversi mendicanti e cappellani (Voci, 1998); il che non impediva né una vita di tradizione cortese né lo sfarzo. La «bibbia angioina», ordinata probabilmente da Roberto stesso intorno al 1340 e illustrata da Cristoforo Orimina, costituisce l’esempio perfetto dell’associazione di pietà, lusso e messaggio politico, con le sue figure del re e della famiglia (Perriccioli Saggese, 2010). La monarchia proiettava un’immagine complessa di sé, capace di dominare e di radunare i popoli tanto all’esterno quanto all’interno dei suoi stati.

Per ciò che concerne le vicende politico-amministrative, la storiografia ha privilegiato, in verità, i due primi sovrani angioini; ma certamente Roberto d’Angiò ampliò, nei suoi domini, lo slancio riformista di Carlo II a cui aveva contribuito. Ostentò con una sicurezza inedita le prerogative della sovranità, articolate sulla base della dottrina giuridico-teologica che lui e i suoi letterati sviluppavano. Ciò si tradusse in maggiore efficienza di organismi amministrativi via via più specializzati; e ciò vale soprattutto per la burocrazia centrale del Regno, anche in dipendenza di una residenza più stabile in Napoli. Nella crescente separazione tra politica e ordinaria amministrazione, il ruolo dei segretari regi facilitò l’esercizio, da parte del re, di un’autorità affrancata dalla zavorra di un iter burocratico complesso.

Per rendere questa autorità ancora più incisiva, Roberto si appoggiò fortemente sulla moglie e, a lungo, sul figlio primogenito (il secondogenito Ludovico scomparve il 12 agosto 1310). Già nel 1309 Carlo, pressappoco undicenne e dunque troppo giovane per agire da solo, era duca di Calabria e vicario generale del Regno, ma in prosieguo di tempo somigliò ben presto a un secondo re: fu un successore già in azione, che garantiva la continuità ininterrotta del regime, cosa non scontata.

Naturalmente, gravi debolezze strutturali minavano il concreto esercizio di questa sovranità: la scarsità di ufficiali, il peso dei vincoli personali, la notevole ampiezza geografica dei dominî, l’influsso di altre forze. Ciò imponeva la delega di quote del potere, come a Sancia e Carlo di Calabria, e l'instaurazione di rapporti di fiducia, rispetto alla quale il ruolo della propaganda fu, come si è detto. cruciale. Inevitabilmente, all’interno degli stati angioini si concretizzò una dialettica tra il governo dall’alto e i corpi intermedi, e durante il regno di Roberto comunità e feudatari poterono realizzare, nel lungo periodo, affermazioni importanti in campo politico. Due fratelli di Roberto, Giovanni di Gravina-Durazzo (morto nel 1335) e Filippo I di Taranto (morto nel 1331), e i loro eredi diedero un esempio macroscopico di questa inevitabile tendenza con i loro appannaggi resi più cospicui dall’acquisizione di diversi beni. La Corona proseguì lungo la strada dell’associazione e del coinvolgimento concedendo privilegi a vassalli e università, mantenendo il dialogo con loro, e cercando di integrare le molteplici élites all’interno dei ranghi del personale di governo. Accanto alla nobiltà, i patriziati urbani e funzionariali progredirono, e innanzitutto quello partenopeo. Secondo la tendenza iniziata da Carlo II, le cariche furono massicciamente affidate ai sudditi, in primis ai regnicoli; ma anche ad altri italiani, secondo gli interessi della dinastia (Boyer, 2017; I grandi ufficiali, 2017, passim; L’enquête générale, 2008-2017, passim).

Nel sistema di potere del regno di Roberto trovarono impiego, in particolare, uomini d’affari provenienti dal mondo comunale, per le loro competenze e il loro contributo finanziario: prima di tutti, i banchieri fiorentini e toscani, che grazie al favore della monarchia restarono tra i primi attori dell’economia dei territori angioini (e strinsero ulteriormente, anche al di là delle convergenze politiche, l’intreccio di interessi che legava a doppio filo il sovrano angioino e i Comuni guelfi).

L’altro grande alleato al quale Roberto continuò ovviamente a prestare estrema attenzione fu la Chiesa. La permanenza del papa in Avignone, in terra angioina (dapprima con Clemente V, e poi stabilmente con Giovanni XXII, dal 1316), favorì l’intesa. Roberto soggiornò in Provenza nel 1309-10 ma soprattutto nel 1319-24, in contiguità con Giovanni XXII, e furono quelli gli anni centrali e cruciali di cooperazione nella politica pontificia, angioina e guelfa. L’approvazione della Chiesa portava vantaggi pratici e ideologici, per santificare le imprese del re, che presero talvolta la forma della crociata contro i cristiani.

Sul piano della politica ‘estera’, Roberto riportò indubbiamente la potenza della sua casata al primo piano in Italia. Nel 1310-18 esercitò per il pontifice il rettorato della Romagna, integrato nel 1312-17 dal controllo di Ferrara (ove si concretizzò la felice cooperazione tra l’Angiò e il papato, che aveva conquistato la città nel 1308 e appoggiandosi al vicariato di Roberto si oppose agli ex signori, gli Este, e a Venezia). Dal 1314 alla morte Roberto fu - con poche limitazioni - vicario in nome del Santo Padre per le terre italiane dell’Impero. Il papa gli affidò inoltre la carica di senatore di Roma nel 1313-15 e nel 1317-35. Questi titoli si accompagnarono con altre responsabilità e interventi del re o dei suoi luogotenenti, come la guida della lega guelfa toscana, la dislocazione di vari capitani angioini e dei loro contingenti militari, l’esercizio della signoria in diverse città.

È ben noto al riguardo il caso di Firenze, di cui Roberto fu signore nel 1313-21, poi nel 1325-28 Carlo di Calabria, infine Gualtieri di Brienne nel 1342-43. Combattendo di persona sulle mura nel 1318 per respingere i ghibellini, il re tenne la signoria di Genova sino al 1335. Il Piemonte angioino si espanse inglobando in particolare Asti (1312-42).

Nei Comuni che controllava, il potere angioino tendeva a rafforzare un suo controllo diretto, in modo molto deciso in Piemonte e con più misura altrove (Rao, 2006). Nel complesso, comunque, il potere angioino nel centro-nord d’Italia partecipava dell’avanzata del modello signorile, e questo orientamento convisse, in modo in parte contraddittorio, con la vocazione della monarchia di agente del bene comune in funzione ‘antitirannica’ e antighibellina. Gli Angioini, prima potenza d’Italia, erano ad ogni buon conto un baluardo contro i signori ghibellini, così come contro i re dei romani o imperatori. Roberto incarnò dunque la resistenza a Enrico VII (1310-13) e a Ludovico il Bavaro (1327-30); e di fronte ai tentativi egemonici di Giovanni di Boemia nell’Alta Italia (1330-33), persino dei ghibellini si rivolsero al monarca napoletano.

L’impegno angioino in Italia centrale e settentrionale favorì il risveglio dell’ostilità della siciliana; Federico III si alleò infatti con Enrico VII nel 1312. Come conseguenza, la lotta contro l’usurpatore siculo-aragonese ritrovò legittimità e fu nuovamente considerata prioritaria nella politica angioina. Dal 1314 Roberto riprese pertanto le campagne di guerra contro l’isola, che continuarono per tutta la sua vita, con qualche successo perché egli riuscì infine a ridurre l’avversario sulla difensiva. In continuità con gli affari italiani, si preoccupò anche di consolidare i confini della Provenza, mantenne il suo protettorato sul regno di Maiorca, e attrasse nella propria orbita il delfino Umberto II. D’altra parte ebbe cura di ripristinare i diritti della sua casata sul poco che restava della Romània angioina, a vantaggio dei rami cadetti di Taranto e di Durazzo. In quanto re di Gerusalemme si interessò alla crociata contro gli infedeli, peraltro in modo fiacco; tuttavia stabilì la presenza dei francescani in Terrasanta.

Certo le difficoltà non mancarono. Già il 29 agosto 1315 la lega guelfa toscana e i contingenti angioini patirono la spaventosa rotta di Montecatini, contro Uguccione della Faggiola signore di Pisa e Lucca. Perirono un fratello di Roberto, Pietro di Eboli, e un nipote, Carlo figlio di Filippo I di Taranto. Nel agosto 1317 i Ferraresi massacrarono il castellano angioino e restituirono la città agli Estensi; né mancarono altre sconfitte.

Soprattutto al tempo di Ludovico il Bavaro (1327-30), poi, Roberto manifestò una nuova timidezza di fronte al pericolo, assumendo un atteggiamento difensivo e prudente, a danno degli alleati. La decisione segnò una svolta, nella direzione di un parziale disimpegno del re fuori dalle sue terre. Diffidò negli ultimi anni dei suoi alleati, anche della Chiesa, su un piano diverso da quello degli attriti e dei dissensi religiosi con Giovanni XXII: sul piano cioè dei contrasti per l’egemonia in Italia. Così come era accaduto al tempo di Enrico VII (inizialmente sostenuto da Clemente V), nel 1330 la spedizione di Giovanni di Boemia fu ordita con la complicità del pontefice o del suo legato in Italia. Ciò era conseguenza del fatto che, malgrado la sua condizione di ospite (in un certo senso) degli Angiò ad Avignone, con la lontananza dall’Italia il papato prese via via una posizione più autonoma, rispetto a una monarchia napoletana ai suoi occhi deludente. Lo stesso sentimento si diffuse nella società italiana, che rimproverava Roberto della sua viltà e della sua avarizia (Barbero, 1982, pp. 409 s.). Un «divorzio» o una netta contrapposizione era impossibile, sia per il papa sia per i guelfi. Ma Roberto – lontano dalle sue basi – si opponeva ormai con difficoltà alla potenza crescente di grandi signori, come i Visconti. Tranne una parte del Piemonte, non aveva stabilito la sua autorità in nessun luogo; essa restò intermittente e frammentata in regimi signorili. Non seppe imporre veri organi regionali sopra i comuni, salvo coordinamenti militari transitori quando era necessario (Taddei, 2017).

D’altra parte, come accadde nel momento della contrapposizione a Ludovico il Bavaro, gli interessi e i problemi dello stato angioino divennero prevalenti, non diversamente da quanto accadeva negli emergenti stati nazionali (Boyer, 1999 B, pp. 127 s., 130). E davvero le terre angioine esigevano cure urgenti. Il conflitto siciliano distoglieva da ogni politica mediterranea di ampio respiro. Il Mezzogiorno continentale conosceva l’irrequietezza di una parte della nobiltà e di qualche comunità locale, irrequietezza derivante dalla loro stessa autonomia e da un malessere sociale che si esprimeva anche nel brigantaggio. Per di più, la morte di Carlo di Calabria (9 novembre 1328) lasciò decapitato una parte dell’apparato di governo e rischiò di provocare una crisi politica e morale, essendo il duca una vera e propria incarnazione vivente delle virtù del regime; Roberto dové dunque riordinare le sue terre e provvedere alla sua successione (Pécout, 2016, pp. 825-841).

Roberto non ebbe altri discendenti che le figlie del defunto Carlo: Giovanna, nata nel 1326, e Maria, nata postuma nel 1329, indicate nell’ordine come eredi. Ma la scelta stessa di una donna suscitò diffidenze: Roberto in tal modo risvegliò il malcontento ungherese e deluse le speranze dei fratelli, in primis del più anziano, Filippo. Il testamento di Carlo II prevedeva, per di più, che gli fossero assegnati la Provenz e il Piemonte a in caso di successione femminile al trono di Sicilia. Roberto fece comunque riconoscere la sua volontà dai sudditi, compresi i fratelli, nel 1330-31. S’accordò con Caroberto di Ungheria il cui figlio cadetto, Andrea, fu promesso sposo di Giovanna nel 1333. Ambedue crebbero alla corte di Napoli e si sposarono subito dopo la morte di Roberto. Era una soluzione parziale ai dissapori familiari, come avvertì il testamento del re.

Le sue ultime volontà furono dettate il 16 gennaio 1343 a Napoli, nel Castel Nuovo. Roberto manifestò un’idea altissima della legittimità del proprio lignaggio. Confermò dunque la designazione di Giovanna come erede, e ridimensionò Andrea di Caroberto d’Ungheria al rango di un principe consorte. Per giunta omise nell’occasione di riconoscere il diritto di tutela sul Regno alla Chiesa romana, alla quale esso spettava, in quanto titolare della sovranità feudale, durante la minore età della futura regina. Affidò alla moglie, Sancia, la reggenza.

Morì il 20 gennaio 1343. L’esecuzione delle sue ultime volontà fu ben presto messa alla prova; nel regno di Giovanna, la prima crisi fu causata dalle rivendicazioni per l’esclusione dal trono di Andrea d’Ungheria.

Lo straordinario ‘mito’ che fiorì dall’indomani della scomparsa di Roberto fu indotto in parte dalle difficoltà stesse che lasciò dietro di sé, ma è anche una testimonianza della sua impronta sulla storia e sull’ideologia regale. Fu sepolto (vestito col saio francescano) a S. Chiara di Napoli; le esequie si protrassero dal 21 gennaio al 3 febbraio.

Il duplice significato della sua figura si palesò col sepolcro definitivo (1343-46 circa), opera dei fiorentini Giovanni e Pacio Bertini. Malgrado le distruzioni del 1943, si alza ancora per quasi 15 metri sul fondo della chiesa di S. Chiara. Associa la figura del monarca che troneggia per l’eternità a quella del suo cadavere vestito da francescano; la pietà e il disprezzo del mondo sono le fonti della sua smisurata saggezza regale. La fiducia nella sua autorità morale fu tale che i sostenitori di Andrea di Ungheria si appellarono a lui, sostenendo che aveva sul letto di morte affidato la corona al giovane principe (Il “Pianto„, 1934, p. 35). Né la sua fama postuma si limitò a strumentalizzazioni immediate; almeno in ambiente francescano essa durò a lungo, e Bernardino da Siena parlava ancora del «famosissimo re Roberto» al pari di Carlo Magno e di s. Luigi di Francia (Quadragesimales de christiana religione, XVI, Opera omnia, III, Quaracchi 1950, p. 293).

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