GHATAK, Ritwik

Enciclopedia del Cinema (2003)

Ghatak, Ritwik (propr. Ritwik Kumar)

Sergio Di Giorgi

Regista cinematografico bengalese, nato a Dhaka (Bengala Orientale, od. Bangla Desh) il 4 novembre 1925 e morto a Calcutta il 6 febbraio 1976. La sua personalità vulcanica e genialmente eclettica è ben riflessa dal suo cinema assolutamente personale, scabro, a volte frammentario, dominato da una continua tensione sociale e politica e caratterizzato dall'adesione dichiarata a quella tradizione epica e melodrammatica così radicata nella cultura indiana, ma al tempo stesso sempre incline alla sperimentazione, tecnica ed estetica. Un cinema, inoltre, ostinatamente indipendente, anche sul piano produttivo, mai accondiscendente verso le esigenze del mercato interno o internazionale. Tutti elementi, questi, che lo posero agli antipodi del cinema, sempre nitido e accurato dal punto di vista formale e narrativo, di Satyajit Ray, il cui successo in India come all'estero contribuì a oscurare il percorso compiuto da G. per buona parte negli stessi anni. Al cinema, G. era giunto dopo varie esperienze in campo letterario e teatrale per esprimere la pena per le vicende del suo popolo. La sua opera fu infatti segnata dall'esperienza traumatica della spartizione del Bengala Occidentale e Orientale tra Unione Indiana e Pakistan, a seguito dell'indipendenza dell'India (1947), spartizione che avrebbe poi portato nel 1971, dopo una terribile guerra civile, alla nascita del Bangla Desh. Tali esperienze condussero G. a una vibrante denuncia contro quella Realpolitik internazionale che aveva sradicato milioni di persone dal loro humus sociale e culturale, costringendole alla condizione di profughi e alla miseria e disperazione più assolute. Solo dopo la sua morte precoce, la riscoperta critica della sua opera, in patria come in ambito internazionale, lo ha consacrato come una delle voci più importanti della cinematografia indiana, anche se il suo corpus filmico è discontinuo: otto lungometraggi di fiction (dei quali sei realizzati tra il 1952 e il 1962), una decina tra cortometraggi e documentari, e una lunga lista di progetti rimasti incompiuti; ma, oltre a essi, G. ha al suo attivo un'intensa attività di drammaturgo, sceneggiatore, attore, saggista, insegnante.

Avviato dal padre all'attività di esattore finanziario, ancora giovanissimo, lasciò il lavoro e la famiglia (stabilitasi nel frattempo a Calcutta) e si trasferì a Baharampur (nel Bengala Occidentale), dove conseguì la laurea in letteratura inglese e, a partire dal 1943, iniziò un'attività letteraria i cui esiti furono un centinaio di racconti e due romanzi. Le drammatiche rivolte sociali nel Paese e le ondate di profughi lo spinsero, nel 1948, a iscriversi al partito comunista indiano e ad aderire all'IPTA (Indian People's Theatre Association), organismo teatrale connotato in senso politico e militante, presso il quale G. operò come attore, regista e drammaturgo sino al 1951, quando l'IPTA si divise in diverse correnti ed egli si avvicinò così al mondo del cinema. Esordì con Nagarik (1952, Un cittadino), che racconta le vicende di una famiglia degli slums di Calcutta e in particolare l'odissea del figlio maggiore, alla ricerca di un lavoro, e la crisi dei suoi rapporti sentimentali e familiari indotta dalla povertà. Anche a causa della potente critica alle convenzioni sociali, il film (scopertamente animato da uno spirito materialista e rivoluzionario, come tutti i suoi film successivi influenzati dal cinema sovietico, e in particolare da Sergej M. Ejzenštejn) non riuscì a ottenere una distribuzione commerciale: sarebbe infatti uscito nelle sale soltanto dopo la scomparsa del regista, alla fine degli anni Settanta. Per sopravvivere, G. iniziò a lavorare come sceneggiatore presso gli studi Filmistan di Bombay, ma nel 1956 fece ritorno a Calcutta per realizzare la sua opera seconda, Ajantrik (1958, Il vagabondo), che ottenne un sia pur limitato successo di pubblico e di critica. Come non accadrà più nei suoi film successivi, Ajantrik risulta decisamente pervaso da una vena di umorismo surreale, nella descrizione del bizzarro legame tra un tassista di una piccola cittadina del Bihar e la sua vecchia e scassata Chevrolet, e nella galleria di ritratti sociali offerta dai suoi passeggeri, in un caleidoscopico intreccio di situazioni ora drammatiche, ora ironiche o decisamente comiche.

Dopo Bari theke paliye (1959, Il fuggitivo) che, ispirato a un racconto per ragazzi, racconta la fuga da casa di un adolescente in cerca di avventura (qui G. sperimentò l'uso, innovativo per il cinema indiano del tempo, del grandangolo e delle inquadrature da terra), i primi anni Sessanta scandirono in sequenza lo sviluppo della maturità stilistica e politica di G. con una trilogia dedicata alla riflessione critica sulle terribili conseguenze socioeconomiche della divisione dell'impero indiano del 1947. Essa comprende Meghe dhaka tara (1960, La stella coperta da una nuvola) e Subarna Rekha (1962, Il fiume Subarna), riconosciuti dalla critica internazionale come due autentici capolavori, oltre che Komal gandhar (1961, Mi bemolle). La protagonista femminile di Meghe dhaka tara è Neeta, unico sostegno economico di una famiglia numerosa di rifugiati. Neeta sacrifica la propria vita ma, sfruttata da tutti, in famiglia come nella società, resta schiacciata dalla fatica e dalla tubercolosi. Nel tragico finale, mentre la donna ormai morente grida il suo disperato appello alla vita, la macchina da presa di G. inquadra le montagne circostanti a rimarcare l'indifferenza eterna della natura alle umane sofferenze, un'opposizione simbolica ricorrente in gran parte del cinema indiano. Il film, caratterizzato da un montaggio frenetico e dall'uso assai poco realistico delle luci e della scenografia, esalta la cifra epica di G. nell'originale utilizzazione in funzione narrativa delle canzoni e del sonoro. Ma, soprattutto, è un possente melodramma familiare, che costituì il primo e unico successo commerciale del regista. Esito che non toccò in sorte a Komal gandhar, dove G. racconta la rivalità di due compagnie teatrali bengalesi e si concede maggiore libertà narrativa ed espressiva, mescolando e ricreando elementi del folklore e dell'arte popolare, dalla musica alla danza, al teatro. Ma fu il totale insuccesso commerciale di Subarna Rekha a precludergli per molti anni le risorse finanziarie per ulteriori progetti. Eppure, quest'ultimo è forse il suo film più complesso che, attraverso le vicende parallele dei due fratelli Ishwar e Seeta, parla ancora una volta delle speranze tradite del suo popolo e affronta in maniera esplicitamente politica i problemi più drammatici della condizione dei profughi bengalesi, pur in un impianto sempre fortemente melodrammatico (nel finale Seeta, costretta a prostituirsi, si uccide nel bordello quando il fratello viene condotto, ubriaco, nella sua stanza).Il decennio successivo vide G. impegnato nella lavorazione di due film non portati a termine e di numerosi documentari. L'unica parentesi felice, pur se breve, fu l'esperienza come insegnante (dal 1965) presso il Film and Television Institute of India di Puna. Sotto la sua guida i più brillanti allievi della scuola divennero, tra gli anni Settanta e Ottanta, alcuni tra i registi più interessanti della cinematografia indiana: tra questi Kumar Shahani, Mani Kaul e Adoor Gopalakrishnan.Dopo l'indipendenza del Bangla Desh (1971), G. ritornò nella sua terra d'origine per realizzare Titash ekti nadir naam (1973, Un fiume chiamato Titash), un film ispirato a un romanzo epico che ha per protagonista una comunità di pescatori. L'intreccio del romanzo, con la sua folta schiera di eventi e personaggi, rappresenta una materia ideale per G. che torna a una fiction tanto spettacolare nella descrizione dei paesaggi quanto intimistica nell'analisi delle psicologie umane, ricollegandosi poeticamente alle radici della sua infanzia trascorsa nel Bengala Orientale. Ma la malattia che lo avrebbe poi portato a una morte precoce lo colse durante la lavorazione del film, aggiungendo a questa sua opera un ulteriore velo di malinconia.

Diresse ancora un film, il più impietosamente e impudicamente autobiografico, Jukti, takko aar gappo (1974, Ragionare, discutere e chiacchierare), in cui lo stesso G. interpreta la figura di Neelkantha, un intellettuale alcolizzato ormai costretto al vagabondaggio, e che resta un triste ma visionario testamento di un regista 'maledetto' che seppe sfidare ogni convenzione sociale ed estetica, nell'arte come nella vita.

Bibliografia

A. Rajadhyaksha, Ritwik Ghatak: a return to the epic, Bombay 1982.

India: sulle orme di Ritwik Ghatak, Quaderno informativo della 25a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 1989 (che contiene, tra l'altro, brani tratti da The cinema and I, Calcutta 1987, raccolta postuma di saggi e articoli sul cinema dello stesso regista).

Encyclopaedia of Indian cinema, ed. A. Rajadhyaksha, P. Willemen, New Delhi 1994, ad vocem.

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