Rito

Universo del Corpo (2000)

Rito

Enrico Comba

Il termine rito definisce l'azione o il comportamento formalizzato e simbolico, fissato dalla tradizione, occasionale o periodico, che in genere costituisce parte di un culto o di una celebrazione religiosa, di cui regola in modo vincolante lo svolgimento garantendone la validità: quale che sia l'efficacia che si richiede da un'azione sacra, essa dipende dall'esecuzione ineccepibile, conforme al rito. Etimologicamente il latino ritus è connesso con il sanscrito rtà- che è concetto fondamentale della religione vedica, significando l'ordine cui devono conformarsi sia il cosmo sia la società sia l'individuo.

1. Una creazione culturale complessa

Un problema metodologico ricorrente in etnologia e antropologia consiste nella difficoltà di definire nozioni di carattere molto generale e di applicabilità universale, ma, d'altra parte, soggette ad ampia variabilità nei diversi contesti culturali. Nel caso del rito si possono facilmente identificare in varie occasioni della vita sociale comportamenti standardizzati e ripetitivi, che spesso possiedono un significato simbolico più o meno esplicito per coloro che vi partecipano e che costituiscono in genere parte di un cerimoniale, di una festa o di un culto religioso. Tuttavia, allorché ci si accinge a definire che cosa costituisce l'aspetto distintivo e specifico di un rituale, si configurano diverse possibili scelte, ciascuna delle quali implica l'attribuzione di un rilievo preminente a questo o quell'elemento: la dimensione sociale, i rapporti di autorità e di potere, il contenuto religioso, la funzione di comunicazione attraverso simboli, e così via. Ciascun autore tenderà a prediligere un certo aspetto, in quanto congruente con le proprie preferenze teoriche e ideologiche. Inoltre, non è da sottovalutare l'influenza del concetto di rito così come si è storicamente sviluppato all'interno della teologia cristiana (nelle sue varianti cattolica e protestante) e nel campo della giurisprudenza europea. Non è quindi ingiustificato domandarsi fino a che punto il concetto di rito sia applicabile a contesti sociali e culturali diversi, che cosa si intenda con questo termine e se esista una qualche componente comune a tutti i comportamenti rituali. Una difficoltà di base consiste nel fatto che la nozione di rito si applica in parte a una variegata gamma di occasioni comunitarie, quali le attività festive, cerimoniali, cultuali, con le quali non si identifica tuttavia completamente. Mentre le nozioni di festa, cerimoniale, culto sono definibili in quanto insiemi complessi e interrelati di azioni, idee, tradizioni e relazioni sociali che legano tra loro i partecipanti, il rito è piuttosto una categoria analitica che serve all'osservatore esterno per interpretare la realtà, isolando e ordinando una serie di comportamenti in una sequenza coerente e significativa. Secondo questa prospettiva, i riti costituiscono creazioni culturali complesse ed elaborate, che comportano una precisa articolazione di gesti, parole e rappresentazioni di numerose persone in un contesto collettivo. Sebbene tali comportamenti siano particolarmente frequenti nell'ambito religioso e cultuale, alcuni autori estendono il concetto di rito al di là del campo strettamente religioso, includendovi taluni fenomeni ricorrenti della vita sociale e politica (Secular ritual 1977; Kertzer 1988). Essendo composto da gesti, comportamenti, atteggiamenti stereotipati e ricorrenti, il rito è evidentemente correlato in modo immediato con la sfera corporea, che ne costituisce il suo aspetto più ovvio e un punto di partenza privilegiato (Buckland 1995). Il rito si presenta in effetti come una sorta di 'linguaggio del corpo', in cui gli uomini si scambiano messaggi, comunicano e regolano le proprie interrelazioni. Si deve tuttavia cercare di chiarire come tale comunicazione si realizza attraverso le procedure rituali che si riscontrano nelle varie società umane.

2. Ripetitività e funzione sociale

Una delle caratteristiche ricorrenti dei riti consiste nella loro periodicità e ripetitività. Già É. Durkheim (1912) aveva osservato come la ripetizione periodica dei rituali costituisse un carattere generale della vita religiosa e aveva interpretato l'esigenza di iterazione periodica del rito come conseguenza dell'efficacia morale che esso eserciterebbe sui partecipanti. La reiterata e ricorrente partecipazione alle attività rituali collettive avrebbe così lo scopo di rafforzare in ciascun individuo il senso di appartenenza al gruppo sociale, riaffermando il valore delle tradizioni, delle norme e delle pratiche sociali comunitarie. In questa linea di indagine si collocano le interpretazioni funzionalistiche del rito, sviluppate soprattutto dalla scuola britannica di antropologia sociale. Secondo questa prospettiva teorica, compito principale della ricerca antropologica dovrebbe essere quello di individuare gli effetti sociali prodotti dalla partecipazione a un rituale, sia dal punto di vista individuale sia da quello della comunità nel suo insieme. L'interesse prevalente si concentra sulle azioni rituali, considerate come una componente importante del comportamento sociale, sulla loro rilevanza nell'analisi dei rapporti sociali e sulla loro funzione sociologica. La pratica rituale contribuisce a riaffermare i sentimenti e i valori da cui dipendono l'ordine e la continuità del gruppo sociale (Radcliffe-Brown 1952). In questo modo si tende a trascurare il riferimento a sistemi di idee, a complessi simbolici, a tradizioni mitologiche e a esperienze religiose che possono essere legate alla partecipazione ai riti. L'aspetto simbolico della ripetizione rituale è invece al centro dell'interpretazione dello storico delle religioni M. Éliade (1949, 1971): egli considera il rito come un meccanismo simbolico attraverso il quale l'uomo realizza la restaurazione del tempo mitico delle origini, proiettandosi temporaneamente nell'epoca originaria della creazione del mondo. Il rito si presenta, quindi, sempre come una sorta di ripetizione della cosmogonia, instaurando ogni volta un nuovo inizio, un ripristino della condizione primordiale. I comportamenti, i gesti anche più semplici e banali della vita quotidiana, assumono un carattere paradigmatico in quanto ripetizione delle gesta degli esseri mitologici (dei, eroi o spiriti) compiute nell'epoca originaria del mito, di cui le attività ordinarie degli uomini non sono che un pallido riflesso. Sebbene siano ispirati a prospettive metodologiche e teoriche radicalmente diverse, questi contributi consentono di mettere in luce alcune caratteristiche comuni del comportamento rituale, ossia: il ruolo della ripetitività nel costruire un senso di identità sociale, il frequente riferimento al passato come meccanismo ideologico allo scopo di giustificare e rafforzare l'ordinamento sociale e le pratiche collettive. Le cerimonie rituali sono realizzate attraverso specifiche azioni corporee, quali la danza e il canto, posture e atteggiamenti rigidamente regolati, forme stereotipate di agire e di parlare. In particolare, la danza e il canto consistono in un numero limitato di movimenti determinati e di specifiche formulazioni verbali, effettuati in un modo rigorosamente prestabilito e secondo una sequenza precisa. Le pratiche rituali sono quindi 'codici ristretti' di attività corporee (Buckland 1995), in cui le innovazioni sono ridotte al minimo, le pose e i gesti devono conformarsi a un repertorio limitato, le persone svolgono ruoli predeterminati e stabiliti dalla tradizione e nei quali la loro individualità è scarsamente rilevante.

3. Transizioni e cambiamenti

La ripetitività e la standardizzazione dei comportamenti rituali sembrano accentuare soprattutto l'elemento di staticità e di ricorsività. I gesti e le azioni rituali sono codificati dalla tradizione, che stabilisce le norme in base alle quali certe attività sono prescritte e altre proibite, in quali occasioni si devono compiere determinate azioni e in che modo. La ripetizione rituale di gesti, canti e danze ne sottolinea la fissità e l'immutabilità: si fa ciò che si è sempre fatto, secondo una tradizione ancestrale, trasmessa dagli antenati, che consente ai membri di una comunità di identificarsi con le generazioni passate, di rappresentarsi la continuità e la specificità del proprio gruppo sociale e di esercitare una sorta di controllo sulle trasformazioni e sui processi di cambiamento. Tuttavia, l'abolizione del tempo e del mutamento nella pratica rituale è probabilmente più apparente che reale. La prospettiva di M. Bloch (1989), per es., secondo cui il rituale religioso costituisce un meccanismo per imporre forme stereotipate nelle attività corporee e verbali, riducendo possibili varianti alternative di agire e parlare a favore di una forma tradizionale di autorità che esercita il controllo sociale e politico sugli individui, risulta sensibilmente esagerata e inadeguata a interpretare il comportamento rituale in numerosi contesti culturali. D'altra parte, come è stato messo in luce già da A. van Gennep (1909), numerosi rituali riguardano direttamente il fenomeno della transizione e del cambiamento: mutamenti di status, di condizione sociale, accesso a nuove posizioni o funzioni, ingresso all'età adulta. Questi momenti comportano una particolare manipolazione rituale del corpo: ornamenti, abbigliamenti, pitture, tatuaggi, scarificazioni, possono segnalare i momenti cruciali, le tappe significative nella vita di un individuo. In particolare, i riti di iniziazione sono strettamente connessi con la trasformazione corporea dei neofiti: trasformazione fisica, in quanto passaggio dalla condizione infantile a quella adulta, accesso alla condizione matrimoniale, ma soprattutto trasformazione sociale, costruzione culturale di un essere umano quale la società in questione lo concepisce (Comba 1992). Le cerimonie rituali di iniziazione, agendo molto spesso sul corpo degli iniziati, segnandolo e scolpendolo con tagli, scarificazioni, circoncisioni, sembrano voler rimarcare il controllo dell'identità e dell'appartenenza degli individui al gruppo sociale, manipolando e trasformando il corpo fisico degli individui per costruire un 'corpo sociale', cioè un essere umano segnato e modellato dalla società e dalla cultura alle quali appartiene. Tale meccanismo tende perciò a sottolineare la fissità e la staticità della tradizione e dei valori che questa incarna, che riconducono al tempo delle origini, al passato mitico degli antenati o degli dei (v. culto; cultura). Tuttavia, come sottolinea S. Buckland (1995), è raro che il passato, come pure l'identità di una comunità, sia immune da contestazioni e interpretazioni discordanti. Di frequente il ricorso al passato nasconde o giustifica una nuova interpretazione, un'innovazione sociale o una modificazione nelle relazioni interindividuali. La ripetizione non è mai semplicemente 'la stessa cosa', e spesso la reiterazione contribuisce a sanzionare le novità, i mutamenti. V.W. Turner (1967, 1968) ha insistito sul fatto che il linguaggio simbolico del rito non è semplicemente un riflesso della situazione sociale, bensì ne esprime la funzione creativa e innovativa. Attraverso i simboli rituali vengono periodicamente ricreate le categorie per mezzo delle quali i membri di una cultura percepiscono la realtà, i fondamenti su cui si basano la struttura della società e le leggi che governano l'ordine naturale. In quanto forma di comunicazione, i rituali investono oggetti e termini della vita ordinaria con un significato più profondo, connesso con la cosmologia o con l'ordinamento delle relazioni sociali. La trasmissione di queste conoscenze da una generazione all'altra avviene all'interno di contesti rituali e simbolici e si configura come un processo creativo e innovativo e non semplicemente come trasmissione dell'identico. La periodicità e la ripetitività del rito si riconnettono, infine, al modo in cui, nelle diverse culture umane, il tempo viene concepito e categorizzato. I grandi riti stagionali che coinvolgono l'intera collettività sono perlopiù legati ai cicli astronomici e alle principali attività economiche, rivelando la presenza di forme di computo del tempo basate sulla ricorsività di fenomeni naturali. Essi sembrano rivolti soprattutto alla creazione e alla preservazione del senso di identità collettiva, ottenute mediante la ripetizione del passato e il richiamo alla tradizione, nonostante l'inevitabile processo di trasformazione storica. Si produce in questo modo una 'memoria culturale' (Buckland 1995), lo strumento tramite cui ciascuna società tenta di fissare la propria identità attraverso il cambiamento, assicurandosi una continuità nel tempo. I riti occasionali, di passaggio o di crisi vitale, sono invece soprattutto legati al ciclo della vita individuale e al processo di formazione culturale dell'essere umano. In questo caso le pratiche corporee sono maggiormente evidenti, in quanto riguardano la condizione specifica di particolari individui. Riti di afflizione, di guarigione, di esorcismo sono direttamente correlati con la situazione di malattia, di disagio, di sofferenza che colpisce specifici individui e ne mette in pericolo la relazione con la comunità. L'attività rituale è qui rivolta al ristabilimento non soltanto della condizione di salute o dell'equilibrio fisico-psichico del soggetto ma anche, o forse soprattutto, di relazioni interindividuali soddisfacenti. Anche in questo caso il rito può essere veicolo di modificazione, negoziazione e riadattamento collettivo della memoria culturale e dell'identità di una determinata comunità.

bibliografia

m. bloch, Ritual, history and power. Selected papers in anthropology, London, Athlone, 1989.

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d.i. kertzer, Ritual, politics, and power, New Haven, Yale University Press, 1988 (trad. it. Riti e simboli del potere, Roma-Bari, Laterza, 1989).

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v.w. turner, The forest of symbols. Aspects of Ndembu rituals, Ithaca (NY), Cornell University Press, 1967 (trad. it. Brescia, Morcelliana, 1976, 19922).

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a. van gennep, Les rites de passage, Paris, Nourry, 1909 (trad. it. Torino, Bollati Boringhieri, 19922).

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