Riso

Enciclopedia Dantesca (1970)

riso

Emilio Pasquini

Parola-chiave del mondo dantesco, nelle sue varie connotazioni semantiche (come anche ‛ ridere '), spesso delegata al rilievo della posizione in rima. Pochi gli esempi estranei al D. ‛ comico '; appena uno in Fiore XXXIV 3, in tradizionale binomio sinonimico con ‛ gioco ' (v.): pena del ninferno è riso e gioco / ver quella ch'i' soffersi (dunque, per endiadi, " gioia intensa "). Una variazione di tale coppia topica si ha in Pg XXVIII 96, dove egualmente r. vale " diletto ", " letizia ", in parallelo con ‛ gioco ' e in contrapposizione a ‛ pianto ' e ‛ affanno ': in seguito al peccato di Adamo e alla perdita del Paradiso terrestre, l'uomo, condannato a vivere ‛ in hac lacrimarum valle ', in pianto e in affanno / cambiò onesto riso e dolce gioco.

Nel significato di base, " espressione mimica di gioia o di euforia ", " manifestazione d'ilarità ", " atteggiamento sorridente del volto e delle labbra ", " sorriso ", mai in senso negativo presso D.: Vn XXI 8 due atti de la sua bocca; l'uno de li quali è lo suo dolcissimo parlare, e l'altro lo suo mirabile riso; salvo che non dico di questo ultimo come adopera ne li cuori altrui; Rime CXVI 58 [il fulmine della passione] con dolce riso è stato morso; Cv III Amor che ne la mente 57 Cose appariscon ne lo suo aspetto, / che mostran de' piacer di Paradiso, / dico ne li occhi e nel suo dolce riso.

Il verso, ripetuto in sede di commento in III VIII 8, è postillato secondo un simbolismo di marca tomistica in XV 2-3 distingue lo loco dove ciò appare, cioè ne li occhi e ne lo riso... li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni ... e lo suo riso sono le sue persuasioni, ne le quali si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento... Questo piacere [di beatitudine paradisiaca] in altra cosa di qua giù essere non può, se non nel guardare in questi occhi e in questo riso. In tale contesto, dominato dalla più celebre definizione dantesca del r. (cfr. RIDERE), il termine si configura quale dominante tematica: prima per citazione letterale dal Libro de le quattro vertù cardinali (III VIII 12 " Lo tuo riso sia sanza cachinno ", cioè sanza schiamazzare come gallina), subito dopo con riferimento esplicito alla personificata Filosofia: Ahi mirabile riso de la mia donna, di cui io parlo, che mai non si sentia se non de l'occhio, ovvero " solo si coglieva con la vista nel lieve moto delle labbra " (Busnelli-Vandelli).

Su un piano di assoluta fascinazione poetica, If V 133 Quando leggemmo il disïato riso / esser basciato da cotanto amante: dov'è pur vero che r. significa " bocca " o meglio " bocca ridente " (come in Pg XXXII 5); o altrimenti (Buti) " il desiderato allegro volto [di Ginevra]... o vogliamo intendere la bocca, che più dimostra il riso che niuna altra parte del volto ".

Non vi è dubbio tuttavia che D. abbia inteso smaterializzare, nel riverbero spirituale di una corruscazione de la dilatazione de l'anima (Cv III VIII 11; De Sanctis: " il riso, che è l'espressione, la poesia, il sentimento della bocca, qualche cosa d'incorporale che si vede errar fra le labbra e come staccato da esse e che tu puoi vedere, ma non puoi toccare "), il primo pegno d'amore fra i due protagonisti del Lancelot, per proiettare una luce di purezza sul gesto fatale degli amanti riminesi (la bocca mi basciò tutto tremante...), al centro di un dramma tutt'altro che romanzesco. Soprattutto è notevole, dal rispetto strutturale, che sia questa l'unica occorrenza di r. nella prima cantica (di contro a sette del Purgatorio e a tredici del Paradiso), per giunta pertinente a un episodio che rompe magicamente l'atmosfera tetra dell'Inferno in un'oasi di sentimento cortese e terreno preparata da un'esplicita dichiarazione di Francesca (v. 96). Il semplice rilievo statistico (cfr. del resto RIDERE) ci assicura dunque che D. annetteva a r. un risvolto di suprema incantazione spirituale: quasi scontato, in questa prospettiva, il ‛ climax ' semantico dalla seconda alla terza cantica, dopo l'eccezionale avvio nella prima.

Si parte infatti dal " sorriso " benevolo e un po' ironico con cui D. sottolinea in Belacqua i segni inconfondibili o la persistenza del suo antico vizio, in Pg IV 122 Li atti suoi pigri e le corte parole / mosser le labbra mie un poco a riso (in rima con viso, prima di una lunga serie; mentre il sintagma equivale a " mi fecero sorridere "). Ritmato invece dall'umorismo di un muto e trepido gioco di sguardi l'incontro fra Stazio e Virgilio, con D. personaggio incapace di frenare il suo candido e saputo entusiasmo (XXI 109 Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca...), per la riluttanza degli animi schietti a dominare con uno schermo di mondana ipocrisia un sentimento prorompente di gioia o di tristezza (XXI 106 ché riso e pianto son tanto seguaci / a la passion di che ciascun si spicca, / che men seguon voler ne' più veraci); onde la domanda di Stazio, pronto a captare quel dolce segno d'intesa fra discepolo e maestro: perché la tua faccia testeso / un lampeggiar di riso dimostrommi? (XXI 114; dove la stupenda metafora del ‛ lampeggiare ' richiama letteralmente il termine ‛ corruscazione ' adibito nel Convivio a definire il riso).

Tale momento d'intensa intimità si riflette a distanza, quasi specularmente, nel temperato sorriso di Stazio (cfr. Cv III VIII 11) di fronte all'ingenuo equivoco di Virgilio, in Pg XXII 26 Queste parole Stazio mover fenno / un poco a riso (vi compare lo stesso sintagma di IV 122); e, più avanti, nell'assentire concorde dei due poeti alle parole di Matelda che, pur tributando lodi, segna i giusti limiti alla lungimiranza dei grandi spiriti pagani favoleggianti di un'età dell'oro: vidi che con riso / udito avëan l'ultimo costrutto (XXVIII 146: il sintagma ‛ con r. ' surroga un gerundio ‛ sorridendo ').

Viceversa, nella chiusa della seconda cantica (XXXII 5 lo santo riso / a sé traéli con l'antica rete), si ha un presentimento della progressione paradisiaca (la ‛ iunctura ' santo riso ritorna, fra l'altro, in Pd XXIII 59): quando la bocca di Beatrice serenamente atteggiata a sorriso (il suo r., insomma, svolto in balenare di luce) diventerà uno dei motivi conduttori dell'intera ascesa, per graduale rapimento e, insieme, per poetica saldatura tra l'affabulazione sentimentale degli ultimi canti del Purgatorio (che recuperano i suggerimenti estatici della giovanile ‛ legenda sanctae Beatricis ') e le esigenze strutturali della terza cantica, ove alla costante tematica del ‛ canto ' si conserta proprio quella della ‛ luce '.

Procedendo lungo una scala omogenea di valori affini (sull'unità semantica " ardore e luce di letizia e di carità "), in Pd VII 17 raggiandomi d'un riso / tal, che nel foco faria l'uom felice, e XV 34 dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso (con analogo stilema imperniato su ‛ tal ' e la consecutiva); XXIII 48 tu hai vedute cose, che possente / se' fatto a sostener lo riso mio, e 59 cantando il santo riso / e quanto il santo aspetto facea mero; XXIX 7 col volto di riso dipinto, / si tacque; fino al supremo oblió dell'Empireo, quando il solo richiamare alla memoria la dolcezza del r. di lei annulla ogni facoltà intellettuale di D.: come sole in viso che più trema, / così lo rimembrar del dolce riso / la mente mia da me medesmo scema (XXX 26).

Così Cacciaguida, mentre si rivolge a D., è quello amor paterno, / chiuso e parvente del suo proprio riso (Pd XVII 36): cioè occulto nel suo alone luminoso, che insieme rende visibile l'intima letizia (si ricordi il chiusa chiusa di V 138 per l'anima di Giustiniano, primo accenno di un grande ‛ leit-motiv ' del Paradiso, cui consuona l'immagine dell'animal di sua seta fasciato [VIII 54], per il bozzolo di luce ove si nasconde l'anima ardente di Carlo Martello).

Più genericamente, segna la corrispondenza fra l'irraggiare dei beati e il r. degli uomini, l'uno l'altro riflesso di una felicità interiore, corruscazione de la dilettazione de l'anima (Cv III VIII 11), in Pd IX 71 Per letiziar là sù fulgor s'acquista, / sì come riso qui; ma giù s'abbuia / l'ombra di fuor, come la mente è trista (postilla il Porena: " Avendo paragonato la luce degli spiriti paradisiaci al riso terreno, Dante si affretta a porre un profondo distacco fra terra e cielo, ricordando che in terra non c'è soltanto riso "); XX 13 O dolce amor, che di riso t'ammanti, / quanto parevi ardente in que' flailli (ove in chiave celestiale di amore-carità si accordano i temi del r. convertito in luce e delle anime strumenti di canto, se flailli - come sembra - vale " flauti " e non altro arnese); XXXI 50 Vedëa visi a carità süadi, / d'altrui lume fregiati e di suo riso, i beati nella candida rosa adorni " del lume onde Iddio gl'irradiava... e del fulgore della loro propria letizia " (Andreoli).

Per ardita estensione semantica (cfr. Amore 24.), r. viene a significare tout court " spirito fulgente di letizia. ", " anima gioiosa di Paradiso ": Quell'altro fiammeggiare esce del riso / di Grazïan (Pd X 103); o altrimenti, secondo l'orbita metaforica percorsa dal verbo corrispondente, si configura come " splendore ", " luminosità " di uno dei cieli, nel passaggio da Venere a Marte, in XIV 86 Ben m'accors'io ch'io era più levato, / per l'affocato riso de la stella, / che mi parca più roggio che l'usato, cioè per il suo " sfavillio " rovente símile a fuoco.

Su questa linea di tensione contemplativa si giunge all'immagine più altamente comprensiva del tripudio luminoso e musicale delle anime nel cielo Stellato: XXVII 4 Ciò ch'io vedeva mi sembiava un riso / de l'universo (il Buti: " una festa che tutta la creatura facesse, rallegrandosi, al suo Creatore ").