Albizzi, Rinaldo degli

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Albizzi, Rinaldo degli

Isabella Lazzarini

Figlio di Maso di Luca degli Albizzi e di Bartolomea Baldesi, nacque a Firenze nel 1370. Sposatosi nel 1392 con Alessandra de’ Ricci, ne ebbe dodici figli, otto maschi e quattro femmine; morì in esilio ad Ancona il 2 febbraio del 1442.

Figura centrale del regime che governò in Firenze tra la fine del Trecento e il 1434, Rinaldo condusse una precoce carriera politica: eletto a soli ventotto anni podestà di Città di Castello nel 1398, a partire dal 1399 iniziò una lunga attività diplomatica al servizio di Firenze, minutamente testimoniata dal registro personale delle Commissioni (a cura di C. Guasti 1867-1873). Sino alla morte del padre Maso nel 1417, Rinaldo ne fu il principale collaboratore, allargando progressivamente il proprio raggio di intervento. Lo troviamo al Concilio di Pisa nel 1409, impegnato nelle trattative per la pace con Ladislao di Durazzo tra 1409 e 1410, a Venezia nel 1411; quindi fu inviato presso Gregorio XII e arrivò sino a Napoli, alla corte di Giovanna II, tra il 1413 e il 1415.

La morte del padre gli permise di assumere pienamente il controllo del gruppo di potere che governava la città. Quelli tra il 1418 e il 1429-30 furono anni cruciali per Firenze e per A. su molti e diversi fronti, in un’età cui la storiografia più recente riconosce un impressionante tasso di creatività istituzionale (Brucker 1977; Najemy 1982; Tanzini 2004).

Impegnato ai più alti livelli nell’azione diplomatica della Repubblica fiorentina, non alieno dall’intervenire in prima persona negli eventuali teatri di guerra come commissario, A. intervenne anche sulla struttura costituzionale fiorentina, impose il catasto del 1427 e polarizzò lo scontro interno all’oligarchia sulla base di un confronto, anche personale, con Giovanni, e soprattutto con Cosimo de’ Medici. Su questi diversi piani i registri delle Consulte e pratiche, le lettere delle Commissioni e le coeve – e successive – scritture di storia testimoniano la vivacità e l’intensità dell’impegno personale di A., sempre più solo a capo dell’élite di governo dopo la morte di Gino Capponi (1421) e soprattutto di Niccolò da Uzzano (1431). Dopo il fallimentare tentativo di conquistare Lucca (1426-30), il regime albizzesco non riuscì però più a tenere sotto controllo la crisi finanziaria della Repubblica: il declinante consenso politico spinse A. a estromettere dal governo e a esiliare dalla città Cosimo de’ Medici, rimasto a capo del gruppo mediceo alla morte nel 1429 del padre Giovanni. Nel 1434, una nuova Balìa filomedicea esiliò l’A. e i suoi seguaci, aprendo le porte al ritorno di Cosimo e a una nuova fase della storia fiorentina. A. si rifugiò a Milano, dove chiese aiuto a Filippo Maria Visconti a nome dei fuoriusciti antimedicei. Dopo la sconfitta di Anghiari, nel 1440, A., ormai settantenne, si ritirò ad Ancona, da cui partì nel 1441 per un viaggio in Terrasanta.

A. occupa una posizione centrale in una fase cruciale dello sviluppo oligarchico della Repubblica fiorentina: i decenni che vanno dal 1380 al 1434 videro infatti una peculiare intensificazione della dinamica politica cittadina attorno ai due poli del confronto con Milano (che divenne conflitto fra il 1389-92 e il 1399-1402, e fra il 1423 e il 1433) e della costruzione del dominio territoriale fiorentino in Toscana. Un evidente irrobustimento istituzionale accompagnò e consolidò queste dinamiche: nel 1378 vennero creati gli Otto di guardia per controllare la giustizia, nel 1384 i Dieci di Balìa ebbero competenze militari, ai Cinque conservatori del contado nel 1419 venne affidata la gestione del territorio e gli statuti della città vennero riscritti e strutturalmente innovati tra il 1409 e il 1415 (Tanzini 2012); il dominio territoriale venne inoltre fittamente articolato in una rete di uffici con poteri giurisdizionali, scelti fra i cittadini fiorentini (Zorzi, in Lo stato territoriale fiorentino, 2001). La fine del Trecento fu anche l’età in cui prese forma l’uso di ricorrere a commissioni speciali riunite per rispondere con riforme istituzionali straordinarie alle emergenze (Najemy 1982). La costruzione di un linguaggio politico innovativo radicato su un amore teorico per il passato romano e su una concreta difesa degli interessi fiorentini da parte dei grandi cancellieri fiorentini dell’età di Salutati e di Bruni (Witt 1983), per quanto probabilmente meno catalizzato dallo scontro con i Visconti di quanto si sia ritenuto (Baron 1966; Renaissance civic humanism, 2000; Fubini 2001), diede poi voce alle dinamiche interne ed esterne alla città, al tempo stesso imponendo una lettura innovativa dell’agire politico.

Un’età cruciale, dunque: la storiografia più recente, peraltro, tende a considerare il cosiddetto regime albizzesco più come l’esito dell’agire politico di un gruppo di famiglie e di individui che come una ‘cripto-signoria’ secondo i caratteri che avrebbe assunto nei decenni successivi l’egemonia medicea, in particolare nell’età di Lorenzo (Tanzini 2012, p. 93).

Per valutare dunque la natura e il ruolo di A., è necessario considerarlo all’interno dell’articolata dinamica oligarchica nel suo complesso e del campo di tensioni generato dai suoi rapporti non soltanto con il padre Maso, ma anche con una serie di altre figure di primo piano, tra cui Gino Capponi, Palla di Nofri Strozzi e soprattutto Niccolò da Uzzano (Kent 1978). Chiave di volta della questione è la costruzione della figura pubblica dell’A. nelle letture dei contemporanei: e quindi, necessariamente, nelle Istorie fiorentine del Machiavelli. Questi infatti ‘costruì’ un Rinaldo degli Albizzi funzionale alla sua interpretazione dei decenni cruciali che precedettero il 1434, ponendolo a confronto, sulla scorta di un Giovanni Cavalcanti sino ad allora per lo più ignorato dalla storiografia, con Giovanni de’ Medici, di cui riconobbe e sottolineò il ruolo cruciale (Anselmi 1979; Matucci 1991).

M. parla di Rinaldo degli Albizzi unicamente nelle Istorie fiorentine: di fatto, nel solo libro IV, salvo un’ultima cruciale apparizione nel V (V viii). M. lo presenta per la prima volta in una posizione parzialmente defilata: identifica infatti come personaggi chiave del partito albizzesco Maso e Niccolò da Uzzano, e Rinaldo viene menzionato tra i «cittadini di autorità» insieme a Bartolomeo Valori, Nerone di Nigi, Neri Capponi e Lapo Niccolini (IV ii 3); il fronte opposto è composto da Alberti, Ricci e Medici.

È solo dopo la morte di Maso che M. inizia a porre Rinaldo sotto i riflettori, dandogli un grande risalto: presentandolo come colui che «aspirava, con le virtù sua e con la memoria del padre, al primo grado della città», gli fa pronunciare un discorso intessuto di alte parole di incoraggiamento dopo la sconfitta di Zagonara, nel 1424 (IV vii 8-10). In realtà, Rinaldo al momento della rotta di Zagonara era ambasciatore a Roma da papa Martino V (Commissioni II 45): a pronunciare il discorso che M. mette in bocca ad A., fu, secondo Cavalcanti che è evidentemente la fonte del M., un altro Rinaldo, pure cavaliere, Rinaldo Gianfigliazzi (Istorie fiorentine, a cura di F.L. Polidori, 1838-1839, II 22-23).

Si tratta di una svista di M., o piuttosto di una scelta deliberata? È infatti questo solo il primo dei numerosi discorsi diretti o indiretti con cui M. fa agire Rinaldo, sovente in duetto con un interlocutore, in quel che sembra un intenzionale gioco delle parti grazie al quale si manifestano con chiarezza esemplare le ragioni e le dinamiche del confronto fra i diversi schieramenti tanto all’interno quanto all’esterno della fazione albizzesca. M. asciuga e manipola i discorsi che trae da Cavalcanti, come nel celebre episodio dell’incontro degli ottimati albizzeschi nella chiesa di S. Stefano, nel 1426, in cui A. propose la riduzione delle arti minori da quattordici a sette, richiamando all’attenzione dei suoi la crescente importanza presa in città da genti e individui di estrazione mediocre e di recente radicamento urbano (Cavalcanti, Istorie fiorentine, cit., III 2; Istorie fiorentine IV ix; Cabrini 2010, pp. 138-39). A seguito del dibattito di S. Stefano, e su consiglio di Niccolò da Uzzano, l’A. si recò da Giovanni de’ Medici, il cui appoggio era considerato cruciale: fra i due si svolge il secondo atto di questa mise en scène ideologica, in cui, a contraltare, Giovanni de’ Medici pacatamente ricorda ad A. la prudenza del padre Maso, e la sua capacità di tener conto delle esigenze di tutte le componenti, anche le più umili, della città (Istorie fiorentine IV x 1).

Un altro contesto decisivo in cui A. giuoca un ruolo centrale attraverso una performance oratoria pubblica è il consiglio convocato nel 1429 per decidere l’impresa di Lucca (Istorie fiorentine IV xix 1-4).

Di questo discorso M. aveva sotto gli occhi tanto la versione di Cavalcanti (Istorie fiorentine, cit., VI 6), quanto quella di Poggio Bracciolini (Historiae Florentini populi 6). Se il primo nomina l’A. come uno dei quattro oratori favorevoli alla guerra, riassumendo in poche righe le loro argomentazioni, Bracciolini sottolinea l’importanza della giustezza di una causa nel decidere se intraprendere un’azione o meno. M. rielabora in modo del tutto originale entrambe le fonti: nel dibattito fra favorevoli e contrari (Niccolò da Uzzano, in questo caso) Rinaldo è l’unico a parlare a favore della guerra, e per primo: Niccolò gli risponde per secondo, come in Bracciolini, ma non in Cavalcanti.

A. diviene il difensore dell’utile, rafforzando questo partito con il ricordo dei torti subiti da Guinigi per concludere che «niuna impresa mai fu fatta da il popolo fiorentino né più facile, né più utile, né più giusta» (Istorie fiorentine IV xix 4). La costruzione della contrapposizione cruciale fra utilità e giustizia viene enfatizzata dalla ripresa a contrario dei termini nella risposta di Uzzano (Richardson 1971, pp. 46-47).

In due ultime occasioni M. pone in bocca a Rinaldo un discorso di grande peso. Allorché nel 1434 prende commiato, sulla via dell’esilio, da papa Eugenio IV, A. dichiara il suo stoicismo esistenziale: «io stimerò sempre poco vivere in una città dove possino meno le leggi che gli uomini», dice Rinaldo, e conclude che gli uomini savi «cosa più gloriosa reputano essere uno onorevole ribello, che uno stiavo cittadino» (Istorie fiorentine IV xxxiii 2-6). Ma è nell’ultimo grande discorso di Rinaldo pronunciato di fronte a Filippo Maria Visconti che M. parla per bocca di A., riprendendo con forza un tema che gli sta sommamente a cuore, vale a dire che «sono solamente quelle guerre giuste che sono necessarie, e quelle armi sono pietose dove non è alcuna speranza fuori di quelle» (Istorie fiorentine V viii 8; Richardson 1971, pp. 47-48). L’intero discorso è costruito con l’andamento argomentativo del trattato: possibilità, rischi, ragioni ideali e ragioni concrete vengono dispiegate di fronte al duca con intesità retorica e logica stringente. Nell’episodio corrispondente in Cavalcanti, Rinaldo fa un discorso assai più modesto e prevedibile, supplicando il duca affinché permetta a lui e ai suoi di rientrare in Firenze (Istorie fiorentine, cit., XII 11). L’ultimo passo in cui Rinaldo compare nelle Istorie è a proposito della sua morte: l’esilio ad Ancona, il viaggio in Terrasanta, la morte durante i festeggiamenti per il matrimonio della figlia vengono sintetizzati in poche righe, e preludono a un breve ritratto del personaggio: «uomo veramente in ogni fortuna onorato: ma più ancora stato sarebbe, se la natura lo avesse in una città unita fatto nascere, perché molte sue qualità in una città divisa lo offesono, che in una unita lo arebbono premiato» (Istorie fiorentine V xxxiv 7-8).

M. – seguendo in questo già il filomediceo Cavalcanti della prima parte delle Istorie fiorentine – consolida l’immagine di Rinaldo come di un uomo altero e onesto, autoritario e di fatto velleitario rispetto a un Giovanni de’ Medici che appare più politicamente accorto e che prende il merito anche di una iniziativa importante come il catasto del 1427, a proposito della quale al contrario la storiografia successiva ha riconosciuto il ruolo cruciale dell’A. (Brucker 1977; Kent 1978). D’altro canto, l’A. offre a M. l’opportunità di esprimere, nei suoi discorsi, sia le ragioni del partito albizzesco e una visione – ex post – della politica fiorentina in buona misura antimedicea sia alcuni temi cruciali nella riflessione machiavelliana tanto sulla storia di Firenze e i suoi snodi fondamentali come il rapporto fra popolo e grandi, quanto più in generale in merito alla natura della guerra, agli equilibri di una società socialmente complessa, ai modi della politica.

Bibliografia: Fonti: P. Bracciolini, Historiae Florentini populi, in RIS, 20° vol., XX, Milano 1731, pp. 194-454; G. Cavalcanti, Istorie fiorentine, a cura di F.L. Polidori, 2 voll., Firenze 1838-1839; Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per il Comune di Firenze dal 1399 al 1433, a cura di C. Guasti, 3 voll., Firenze 1867-1873.

Per gli studi critici si vedano: A. D’Addario, Albizzi Rinaldo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2° vol., Roma 1960, ad vocem; H. Baron, The crisis of the early Italian Renaissance. Civic humanism and republican liberty in an age of classicism and tyranny, Pricenton 1966; N. Rubinstein, The government of Florence under the Medici (1434-to 1494), Oxford 1966; M.B. Becker, Florence in transition, 2 voll. Baltimore 1967-1968; A. Molho, Florentine public finances in the early Renaissance, 1400-1433, Cambridge (MA) 1971; B. Richardson, Notes on Machiavelli’s sources and his treatment of the rhetorical tradition, «Italian studies», 1971, 26, pp. 24-48; G.A. Brucker, The civic world of early Renaissance Florence, Princeton 1977; D.V. Kent, The rise of the Medici. Faction in Florence, 1426-1434, Oxford 1978; G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979; J.M. Najemy, Corporatism and consensus in Florentine electoral politics, 1280-1400, Chapel Hill 1982; R. Witt, Hercules at the crossroads: the life, works and thought of Coluccio Salutati, Durham (NC) 1983; A. Matucci, Machiavelli nella storiografia fiorentina. Per la storia di un genere letterario, Firenze 1991; Renaissance civic humanism: reappraisals and reflections, ed. J. Hankins, Cambridge 2000; R. Fubini, L’umanesimo italiano e i suoi storici. Origini rinascimentali-critica moderna, Milano 2001; Lo stato territoriale fiorentino (secoli XIVXV).

Ricerche, linguaggi, confronti, a cura di W.J. Connell, A. Zorzi, Pisa 2001 (in partic. G. Petralia, Fiscalità, politica e dominio nella Toscana fiorentina alla fine del medioevo, pp. 161-88; A. Zorzi, La formazione e il governo del dominio territoriale fiorentino: pratiche, uffici, ‘costituzione materiale’, pp. 189-224); L. Tanzini, Statuti e legislazione a Firenze dal 1355 al 1415. Lo statuto cittadino del 1409, Firenze 2004; A. Cabrini, Machiavelli’s Florentine histories, in The Cambridge companion to Machiavelli, a cura di J.M. Najemy, Cambridge 2010, pp. 128-43; I. Lazzarini, Argument and emotion in Italian diplomacy in the early fifteenth century: the case of Rinaldo degli Albizzi (Florence, 1399-1430), in The languages of political society, a cura di A. Gamberini, J.P. Genet, A. Zorzi, Roma 2011, pp. 339-64; L. Tanzini, Tuscan states: Florence and Siena, in The Italian Renaissance State, ed. A. Gamberini, I. Lazzarini, Cambridge 2012, pp. 90-111.

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