Rima

Enciclopedia Dantesca (1970)

rima

Ignazio Baldelli

1. Nel De vulg. Eloq., D. rimanda la trattazione sistematica sulla r. al quarto libro dell'opera, non più portata a termine. Tuttavia alcune cose afferma nella parte che tratta della stanza e ad altre implicitamente allude. Nei capitoli IX, XII, XIII del libro II del De vulg. Eloq., D., dopo aver affermato che la r. non è esclusiva della canzone, perché può essere rinnovata (e di solito lo è) a ogni stanza, ne afferma la fondamentale importanza per quella che è la disposizione delle parti (partium habitudo). E dedica tutto il capitolo XIII appunto al rapporto fra le r. nelle diverse parti della stanza: da questo punto di vista le r. vengono a essere l'elemento essenziale della scansione appunto della stanza. Isolati i due casi in cui si hanno o la stanza senza r., anzi, la stanza le cui (parole-) rime vengono tutte ripetute nelle stanze successive, o la stanza monorima, D. afferma la grande libertà, sia pur retta da ferme strutture artistiche, concessa al poeta nel disporre le r. della stanza; segue una minuziosa analisi delle possibili posizioni delle r. nella fronte, nella sirma, nei piedi, nelle volte (v. CANZONE; stanza). Si aggiunga che nelle canzoni di D. la diesis è sempre segnata dalla r., nel senso che l'ultima r. della fronte corrisponde alla prima della sirma, con la sola eccezione dell'unica stanza scritta della canzone Sì lungiamente m'ha tenuto Amore (Vn XXVII 3-5). In VE II XIII 1 D. aveva appunto affermato Rithimorum quoque relationi vacemus, nichil de rithimo secundum se modo tractantes; proprium enim eorum tractatum in posterum prorogamus, cum de mediocri poemate intendemus; ma in appendice a tale capitolo (huic appendamus capitulo, § 11), pur confermando di non voler parlare della r. in quanto tale, ritiene opportuno dire delle tre cose che disconvengono a chi voglia scrivere canzoni in stile tragico (aulice poetantem): 1) la troppo frequente risonanza della medesima r., a meno che, eccezionalmente, non si persegua qualche novità artistica mai tentata; 2) l'inutile r. equivoca, che sempre toglie qualcosa al significato; 3) l'asprezza delle r., se non sia mescolata a dolcezza, dato che la poesia tragica brilla per la mescolanza di r. dolci e aspre. Probabilmente l'asperitas delle r. andrà a coincidere con quelle qualità dei vocaboli che D. mette in contrasto ai vocabula pexa, e cioè l'aspirazione, l'accento acuto e circonflesso (cioè, in ultima analisi, le parole tronche), le doppie Z o X, la doppia liquida, la liquida che segue immediatamente una muta, la misura monosillabica o maggiore della trisillabica (per l'uso del termine ‛ rima ', vedi n. 17.).

2. La r. imperfetta è in D. del tutto eccezionale e propria di composizioni della prima giovinezza. Nel sonetto rinterzato Se Lippo amico (Rime XLVIII 18-19; v. SONETTO) si ha druda: conosciuda (‛ conosciuta '), nella canzone Lo doloroso amor (LXVIII 23-26) si ha morto: scorto: ricolto (la canzone ha più di un carattere compositivo eccezionale, per cui v. CANZONE; settenario): si badi che le due composizioni hanno anche altre r. ‛ imperfette ', sia pure rientranti in schemi più largamente usati (per i quali vedi oltre): il sonetto offre prometto: scritto: metto (vv. 3-5), la canzone dis[c]igli, quigli (vv. 44 e 46). Perciò nella ballata Per una ghirlandetta (LVI), parimenti giovanile, tenuto conto anche dello schema ritmico (v. BALLATA), si propone di riabilitare Fioretta mia bella [e gentile] (v. 12), in r. con i miei sospire, corretto, soprattutto proprio per ripristinare la r. perfetta, dal Barbi bella [a sentire]. Per la Commedia, il Parodi, Lingua, ha mostrato come quelle che potrebbero apparire irregolarità di accento o scempiamenti o raddoppiamenti dovuti alla r., possono essere agevolmente giustificati con regole grammaticali del tempo di D., o, in genere, con lo stato della lingua antica (per i casi più singolari, v. ONOMASTICA, e anche GRECISMI). Il caso di scane (: dimane: pane), If XXXIII 35, che è in sostanza rimasto l'unico non spiegato dal Parodi, può non essere identificabile con ‛ zanne ': il Salvioni pensa che scane sia deverbale di un " ormai smarrito * scanare (cfr. ac-canare) addentare, mordere " (" Bull. " XII, 1905, 365). È possibile livellare sempre le r. dantesche con c e g intervocaliche, v. Petrocchi, Introduzione, p. 471; Parodi, Lingua 220, 229.

2.1. Più complesso il caso della cosiddetta r. siciliana, di quella bolognese, aretina o guittoniana. Seguendo i suggerimenti del Parodi, condensati in un memorabile studio, gli editori della Commedia e delle Rime del '21 e delle successive edizioni, come del resto gli editori della Vita Nuova posteriori all'edizione critica del Barbi, hanno livellato le r. di é con i, di ó con u, di u con ó, di i con é, di è con iè, di ò con uò. Seguendo ora quanto più volte sostenuto dal Contini e da lui sistematicamente operato specialmente nei Poeti del Duecento, e in edizioni minori sue o da lui ispirate, la r. ‛ imperfetta ' siciliana viene considerata " un legittimo istituto linguistico e quindi ripristinata, secondo quanto suggerito dagli antichi codici e poi livellato dalla tradizione rinascimentale ".

La situazione dei testi oggi a disposizione è quindi assai difforme, in quanto l'edizione Petrocchi della Commedia accoglie pienamente il criterio di Contini, mentre le edizioni anche più moderne delle rime della Vita Nuova e del Convivio e delle Rime continuano a uniformarsi sull'edizione del '21 (anche quelle del Contini stesso e di Foster-Boyde). Nell'indagine che segue si tratterà del fenomeno attraverso tutta l'opera di D. necessariamente prescindendo dalla soluzione Parodi-Barbi, considerata come sostanzialmente anacronistica.

In versi come quand'i' mi penso ben, donna, che vui (Rime L 21), in r. con vie maggiormente aver cura di lui, sarà da tornare a leggere voi; e così per estensione toscana della r. siciliana, in paurusi: chiusi (LXV 10, 12), si legga paurosi; in altrui: fui: colui: vui, cui: altrui: sui: pui, si legga voi e poi e magari suoi (LXXXVII 10-24); in LIX vui: colui: pui: sui, sarà probabilmente da leggere voi: colui: poi: sui o suoi; nella Commedia, sui e lui sono serbati (e così nelle Rime, ad es. altrui: sui: lui, LXXX 22, 24-25), perché probabilmente latinismi (ma nella stessa Commedia " sempre tuoi e suoi, in rima con noi e voi, o poi e puoi ", PetrocchiI 471). E così sarà da leggere voi, noi, poi in: lui: vui (Vn XII 12 15-18); vui: altrui (XIV 12 11-12); vui: altrui (XIX 6 13-14); pui: costui (XX 5 9-12); nui: lui: altrui: pui (XXII vv. 1-7); altrui: costui: fui: vui (XXIII vv. 22-28); vui: altrui: pui (XXXI vv. 9-12); vui: lui: costui: sui (XXXVIII vv. 1-8); pui: altrui (XL 10 11-14); vui: colui: pui: sui (Rime LIX 2-7); colui: vui: cui: altrui: sui: pui (LXXXVII); vui: lui (Cv II Voi che 'ntendendo 8-11); sui: nui: altrui (III Amor che ne la mente 40-45; per sui vale quanto già detto); altrui: nui: colui: fui (IV Le dolci rime 30-35). D'altra parte, non infrequentemente anche gli editori delle Rime hanno conservato la situazione quale probabilmente reperita nella tradizione manoscritta più antica: Poscia ch'amor (LXXXIII) offre conto: conto: giunto: punto (vv. 60-67, con in più la r. equivoca di conto).

Così anche in Se Lippo amico (XLVIII) si coglie la r., non uguagliata dagli editori, prometto: scritto: metto: 'ntelletto: sonetto: cospetto (vv. 3-11), in cui i non rima soltanto con é (r. siciliana), ma anche con è, per cui si è parlato di r. aretina o guittoniana; il tutto da rinviare allo stesso ‛ istituto culturale ', che in questo punto può ben considerarsi come sviluppo della norma che si traeva dall'aspetto che la rimeria sicula assumeva dopo trascrizione toscana o mediana o settentrionale.

Per consimili ragioni, ammesso il ripristino della lezione del Riccardiano 1091 in Lo doloroso amor (LXVIII), v. 44 per pietà innanzi che tu mi distilli, al v. 45 sarà da leggere perché m'avvien che la luce di quelli; e audesse in r. con sapesse e volesse (Vn XXXI vv. 59-63), sarà da leggere audisse.

Forse anche in dormia: conoscia: ridia: venia, Vn XXIV vv. 2-8, sarà da ripristinare dormia: conoscea: ridea: venia; e così il vivia di XXXI 9 8 in r. con sia, il facia di XXXIV 8 4 in r. con mia: sentia: partia, il vedia di Cv II Voi che 'ntendendo 17, in r. con gia. Ma naturalmente sarà da risalire, quando possibile, alla tradizione manoscritta, specialmente per decidere casi più difficili, come, per es., venta (per ‛ vinta '): penta (per ‛ pinta '): spenta: rappresenta (Rime LXXI 3-7), ove potrebbe anche trattarsi di forme guittoniane; e così anche per la tonica della r. composta seguer de', XCV 14 (: verde).

Per quello che è della Commedia, si è osservato che r. siciliane appaiono più frequentemente nell'Inferno che nelle altre cantiche: (vedi desse: venisse: tremesse (If I 44-48); noi: fui: sui (IX 20-24); nome: come: lume (X 65-69); sotto: tutto: costrutto (XI 26-30); duri: sicuri: di fori (Pg XIX 71-81), guittoniana, v. Petrocchi ad l. (in, Petrocchi, Introduzione 468-471, lo scrutinio dei casi più dubbi).

Non si esemplifica nemmeno, tanto è in D. normale, la r. fra é e ó chiuse rispettivamente con è e ò aperte: tipo riposa: noiosa: osa in La dispietata mente (Rime L 42-46); in E m'incresce (LXVII 43-46) siede: vede; in Poscia ch'amor (LXXXIII 44, 50-51) vede: scede: piede; si ricorda comunque che si tratta probabilmente di riflesso di r. sicule o di estensione di situazioni siciliane; e si vedano le r. equivoche del tipo sòle: sóle, tòrre: tórre, di cui si parla oltre.

In Rime LVI si giunge a una " rima siciliana a rovescio " (Contini, Rime 38): i miei sospire: per crescer desire.

2.2. Del tutto eccezionale la r. tronca nel D. lirico, presente soltanto nella giovanile Per una ghirlandetta (farà: vedrà: verrà: canterà, Rime LVI), eccezionale anche per altri aspetti compositivi; v. BALLATA; settenario.

Più frequente, come c'era da aspettarsi, nella Commedia, ma nel Paradiso un solo caso sicuro: Noè: re: fé (If IV 56-60); può: co: Po (XX 74-78); udi': gì: parti' (XXIII 143-147); Alì: qui: così (XXVIII 32-36); sposò: levò (XXXI 143-145); Artù: più: fu (XXXII 62-66); Sïòn: orizzòn: Fetòn (Pg IV 68-72); fé: sé: è (VII 8-12); Gelboè: te: fé (XII 41-45); Elì: dì: qui (XXIII 74-78); pè: me: me (XXXIII 8-12); udì: schiarì: dì (Pd XXV 98-102).

Si aggiungano sabaòth: malachòth (Pd VII 1-3), che va giudicata forse come soltanto fatto grafico (v. Migliorini, Saggi linguistici e Petrocchi, Introduzione); e le r. dei versi provenzali in bocca di Arnaldo Daniello.

2.3. Altrettanto eccezionale è nel D. lirico la r. sdrucciola, che ricorre soltanto nella giovanile canzone Poscia ch'amor (Rime LXXXIII), in intendere: vendere (vv. 33-34). Più frequente nella Commedia: margini: argini (If XV 1-3); scendere: rendere: prendere (XXIII 32-36); malagevole: fievole: disconvenevole (XXIV 62-66); Cattolica: Maiolica; argolica (XXVIII 80-84); inconsummabile: razïonabile: durabile (Pd XXVI 125-129); girano: ammirano: tirano (XXVIII 125-129). Sono da considerarsi sdrucciole anche le r. del tipo concilio: Virgilio: essilio (If XXIII 122-126); Nasidio: Ovidio: 'nvidio (XXV 95-99); Sibilia: milia: vigilia (XXVI 110-114); testimonio: conio: demonio (XXX 113-117); istoria: gloria: vittoria (Pg X 71-75); Conio: demonio: testimonio (XIV 116-120); misericordia: essordia: concordia (XVI 17-21); Virgilio: concilio: essilio (XXI 14-18); gloria: memoria: storia (Pd XIX 14-18); meritorio: consistorio: aiutorio (XXIX 65-69).

2.4. La r. composta (o franta) invece, usata non infrequentemente dal più giovanile D. (sia nelle opere canoniche, sia, per la struttura scelta, nel Detto), sarà reperibile lungo tutta la carriera del poeta.

Già si coglie nella tenzone con Dante da Maiano, Rime XLIV (vedi, per questo caso e per il Detto, il n. 5.).

Si veda anche parmi che la tua caccia [non] seguer de', XCV 14 (: verde, v. 9: verde, v. 13), mentre per la tonica di seguer vedi quanto detto prima. In relazione a r. difficili o comunque aspre e chiocce si reperisce urli: pur lì: burli (If VII 26-30); come: chiome: Oh me (XXVIII 119-123); oncia: sconcia: non ci ha (XXX 83-87). E ancora: ventre: almen tre: entre (Pg XIX 32-36); piacerli: per li: merli (XX 2-6); oltre: sol tre: poltre (xxrv 131-135); dì, dì: annidi: ridi (Pd V 122-126). Un po' diversi i casi di vela: ne la: cela (Pg XVII 53-57); cielo: ne lo: candelo (Pd XI 11-15).

Non sono forse da considerare r. composte i casi di dire'lo (: cielo: celo: velo, Vn XXIII vv. 59-68); poco: solo: acco'lo (Pg XIV 2-6); pente'mi: scemi: stremi (XXII 44-48); costumi: fiumi: fu'mi (XXII 86-90); nomi: parlòmi: vuo'mi (XIV 74-78); leva'mi: rami: fami (XXVII 113-117); entra'mi: chiami: brami (Pd X 41-45).

Per altro, D. rifugge dallo spezzare parole in r., come invece si coglie di frequente in Monte, secondo l'esempio dei provenzali: per il caso così quelle carole, differente- / mente danzando (Pd XXIV 16), bisognerà piuttosto ricordare che ancora nel Duecento la componente -mente non si era perfettamente suffissata.

2.5. La r. ricca, assai spesso derivativa, appare nelle composizioni più giovanili, secondo schemi siciliani e siculo-toscani: ma bisognerà guardarsi dal mettere in evidenza le molte occorrenze casuali.

Nel sonetto al Maianese Savere e cortesia (XLVII), dove ricorre la r. equivoca parte: parte (vv. 5-8), sarà da considerare r. ricca vera e propria riccore: core (vv. 2-3, e anche sparte, v. 4, che rima con i già citati parte).

In Così nel mio parlar (CIII), nei due piedi della prima stanza si hanno petra: impetra (vv. 2-3, che potrebbe essere considerata r. derivativa ove impetra s'interpreti " racchiude in pietra "): arretra: faretra (vv. 6-7), e in quelli della quarta stanza si ha perverso: riverso (: disperso): verso (vv. 41-46); e si noti in quelli della sesta ferza (: terza: scherza): sferza (vv. 67-72). Si veda anche la r. equivoca nel secondo piede della quinta, micidiale e latra: perché non latra, vv. 58-59.

Il Contini, Rime, pensa che non sia casuale la r. ricca messer Cino: che pigliar vi lasciate a ogni uncino (CXIV 2-7), in riferimento, appunto, " alle apparizioni aneddotiche della bellezza femminile che seducono Cino ".

R. ricche non mancano ovviamente nella Commedia, ma in molti casi sarà un fatto puramente casuale (punto: compunto, If I 11-15, VII 32-36; parte: comparte, XIX 8-12; piglia: pispiglia, Pg XI 109-111; s'accosta: costa, Pd XX 44-46). Non casuale o non del tutto casuale quando se ne reperiscono alcune vicine, e per di più talora derivative, come per es. in Pg III, ove si hanno consecutive o quasi: campagna: compagna, vv. 2-4; rimorso: morso, vv. 7-9; fretta, ristretta, vv. 10-12; poggio: appoggio, vv. 14-18; o anche in If X 19-21 riposto: disposto e risposta: posta, vv. 71-73, e quasi consecutivamente adduce: duce, vv. 98-102; apporta: porta, vv. 104-108; punto: compunto, vv. 107-109, e ancora udito: dito, vv. 127-129. Nel c. XII si ha un caso che investe le tre parole in r. universo: converso: riverso, vv. 41-45 (per casi consimili, cfr. n. 14.) e ancora discoscesa: scesa, vv. 8-9; scarco: carco, vv. 28-30 (pensi: spensi, vv. 31-33); e similmente in picciol tempo: per tempo: m'attempo, XXVI 8-12. Derivative di rilievo particolare anche in dimmi che hai tu fatto, / cieco avaro disfatto? (Rime evi 75-76); donna: s'indonna (Pd VII 11-13); ringrazia: grazia (X 52-54); turpa: deturpa (XV 145-147); posto: proposto (XXVIII 46-48); o le serie melode: lode: ode (XIV 122-126) e s'infiamma: oriafiamma: fiamma (XXXI 125-129).

2.6. La r. equivoca " tensione dialettica di una coppia omonimica, nella quale, sotto identica forma, contrastano accezioni o specializzazioni diverse di una stessa parola ", R. Stefanini, Figure retoriche nel verso e in r., in " Italica " XLVIII, 1971, p. 375), come la re composta, domina frequentemente nelle strutture di parola-rima: si veda il sonetto già citato Non canoscendo, amico, vostro nomo (Rime XLIV); anche, sempre nella corrispondenza col Maianese, in Savere e cortesia, si ha parte e parte (XLIV 5-8) in r. equivoca. Ricorre anche altrove, più spesso naturalménte come effetto di r. difficili: ov'io la porto: ci ha porto (XC 34-38); correr sole: neve al sole (CXVI 36-37); colei che mi si crede torre: quella torre (CXVII 4-5; cfr. Cv IV Le dolci rime 50-54); lontana parte: sì gran parte (Vn IX vv. 10-13); d'ogne parte: vergogna mi parte (XXXI vv. 50-53).

Un caso limite è costituito, da questo punto di vista, dalla sestina, in cui le stesse sei parole ricorrono sette volte; e del resto già in Io son venuto si hanno i due ultimi versi legati non da r. semplice, ma da parola-rima, onde r. equivoche quali si è bella donna: m'è data per donna (C 25-26); dolce (agg.): dolce (sost.) (vv. 64-65). Va comunque osservato che nella sestina D. non persegue la r. equivoca (per la situazione nel Fiore e per l'orgia di r. equivoche nel Detto, vedi n. 4. e 5.).

Nella Commedia la r. equivoca è di solito in luoghi ove si lega con altri artifici retorici e fonosimbolici tipici.

Così: al volto: più volte vòlto (If I 34-36; cfr. XXXIII 128-132, Pg XXX 121-123); quell'ombra: quand'ombra (If II 44-48; cfr. altrimenti XXXII 59-61); volse (da ‛ volgere '): volse (da ‛ volere ', II 118-120); io etterno duro: m'è duro (III 8-12); altri porti: ti porti (III 91-93); tante volte: son giù volte (V 11-15); te pugna: intende e pugna (VI 26-30); Tristi fummo: accidioso fummo (VII 121-123); regge: regge (X 80-82); parte: parte (vv. 47-49, Pg X 8-12, Pd X 8-12); legge: legge (If XIV 17-19, XIX 83-85, Pg XXVI 83-85); nói: nòi (If XXIII 13-15); 'l casso: era casso (XXV 74-76); la porta: vi si porta (XXVI 59-63); i' entro: quinc' entro (Pg XIII 16-18); tre cerchi: ne cerchi (XVII 137-139); alte fosse: che ferro fosse (If VIII 76-78); con quel piglio: e diedimi di piglio (XXIV 20-24); Verde: verde (Pg III 131-135); in sùe: parole sue (IV 47-49); si parte: la calda parte (vv. 82-84); che porta: la porta (vv. 127-129; cfr. Pd XVI 125-127); in un punto: cotesto punto (Pg II 38-40); vòlti: vólti (VII 86-88); si volse: volse (VIII 64-66); nói: nòi (ne 83-87); spirto: vocale spirto (XXI 86-88); quella turba: si turba (XXVI 65-67); i saggi: li miei saggi (XXVII 67-69); con arte: de l'arte (vv. 130-132); sòle: lo sole (XXIX 4-6); versi: in versi (vv. 40-42); Benedicta tue: bellezze tue (vv. 85-87); porti: la porti (Pd I 112-114); vòto: vóto (III 28-30); Vinci: dolci vinci (XIV 125-129); io viva: viva (XXVI 59-61); quel punto: è punto (XXVIII 41-45).

Più avanti, l'esame di r. equivoche nel loro contesto: si veda intanto If XIV in cui a e me saetti con tutta sua forza, corrisponde Allora il duca mio parlò di forza, che si continua nel successivo tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito (vv. 59-62); e si notino nella conclusione di Pd II due r. equivoche consecutive e una derivativa: diversa lega: si lega (vv. 139-141), luce: a luce (vv. 143-145), avviva: viva (vv. 140-144). Così, la speciale r. fra equivoca e ricca che si ha nelle parole di Vanni Fucci, Pistoia in pria d'i Neri si dimagra: Tragge Marte vapor di Val di Magra (If XXIV 143-145), ben corrisponde al tono involuto della profezia. Del resto, in un'invettiva-profezia si ha uno dei pochi casi in cui si abbiano due parole in r. equivoca e la terza derivativa: tu sentirai, di qua da picciolo tempo: E se già fosse, non sazia per tempo: ché più mi graverà, com' più m'attempo (XXVI 8-12).

2.7. Rarissima la r. su una stessa parola (ma vedi al n. 4. i casi del Fiore): ammenda (Pg XX 65-69); vidi (Pd XXX 95-99); Cristo (XII 71-75; XIV 104-108; XIX 104-108; XXXII 83-87). Per Cristo, rimante sempre con sé stesso e in r. soltanto nel Paradiso, è stata fatta l'elegante ipotesi (D'Ovidio) di una specie di riparazione della r. nel sonetto a Forese tristo: Cristo: acquisto (Rime LXXVII 9-13; e magari dei tre luoghi in cui Cristo è in r. nel Fiore, addirittura in r. con ipocristo e tristo!); per il caso di ammenda, si oppone, contro la lezione per vicenda nella seconda sede, che " le due terzine 64-66 e 67-69 sono concepite secondo un disegno tra loro ben preciso, ove la triplice ripetizione poteva avere una sua funzione molto concreta, e veniva collegata alla particolarità della rima ripetuta di Cristo (quindi, e sia pure a distanza: Cristo... per ammenda) ", Petrocchi, III 338 (v. anche Vinassa de Regny, Note; sostiene per vicenda nella seconda rima Pagliaro, Ulisse 600-602). Assai raro anche il caso della stessa parola in r. due volte, senza equivoco: già il mosso di If X 88-90 ha diversa costruzione sintattica; anche il solei di XI 92-96 è in un caso indicativo, nell'altro imperativo; e vedi et non videbitis me: et vos videbitis me (Pg XXXIII 10-11; v. Vinassa de Regny, Note).

2.8. La r. interna è da D. usata in Poscià ch'amor (Rime LXXXIII) a segnare il trisillabo internamente all'endecasillabo: tale canzone era appunto stata indicata da D. in VE II XII 8 proprio come esempio di ternario che non può essere usato per se subsistens ma soltanto come parte dell'endecasillabo ad rithimum... carminis velut eco respondens. E infatti il trisillabo con la sua r. interna viene a trovarsi nella posizione Poscia ch'amor del tutto m'ha lasciato, / non per mio grato, / ché stato non avea tanto gioioso (v. anche QUINARIO, TERNARIO). Anche in Lo meo servente core (XLIX) ai vv. 11-12 la r.interna è forse intenzionale: che mi volge sovente / la mente per mirar vostra sembianza.

La r. interna è quindi adoperata da D. in una stanza isolata della sua prima giovinezza, con altri patenti arcaismi, e in Poscia ch'amor, con non pochi caratteri compositivi e tematici di singolare arcaicità. È evidente quindi che la r. interna, come elemento di struttura, è evitata da D. perché sentita come tecnicismo dei poeti della generazione precedente, e perché, in sostanza, ottiene quella nimia repercussio delle r., da evitarsi nella lirica di alto livello. Naturalmente non poche volte, anche nella Commedia, si produrrà la r. interna, con puntuali effetti rimici, di cui più oltre si esamina qualche caso.

3. Non è forse del tutto ozioso ricordare che per D. la r. è naturalmente inerente al verso, tanto da aver determinato il noto scambio semantico rima/poesia, verso. La cultura volgare in area geografica italiana sia di D., sia a lui anteriore, come anche in genere tutta la trecentesca, non conosce poesia cui la r. non sia assolutamente essenziale (e tanto più appare considerevole il caso del Cantico di s. Francesco evidentemente svoltosi, anche da questo punto di vista, in concorrenza di esempi latino-biblici).

I pochi versi irrelati dalla r. che si hanno nelle canzoni dantesche sono ovviamente da considerarsi come varianti alla r., cioè non come assenza di r., ma come r. negativa. Avendo la r. insomma una posizione d'indubbia centralità nella tecnica della poesia dantesca, di tutta la poesia, dantesca, dai sonetti alle canzoni alla Commedia, si può tracciare tutto il cammino tecnico di D. anche puntando fortemente sulla varia tipologia delle r. dantesche.

Del resto già nei commenti antichi si coglie il senso di tale centralità: si pensi a quanto riporta Benvenuto, della leggiadra leggenda secondo cui tutte le r. si presentarono al poeta in veste di fanciulle chiedendo di essere ammesse nella Commedia, e D. di tutte accolse la richiesta.

4. Ammettendo come punto di partenza il Fiore e il Detto (a essi avvicinando almeno la tenzone con Dante da Maiano) ci s'imbatte in due sistemi rimici a prima vista assai lontani tra loro.

Le r. del Fiore colpiscono per la loro strabocchevole frequenza di forme verbali, e, fra queste, delle forme verbali meno rilevate: delle 928 r. dei 232 sonetti che lo compongono, più di trecento sono costituite da desinenze verbali (fra cui più di un centinaio da participi passati); se ne trae l'impressione di una versificazione che assai poco si cura degli effetti della r., il che viene confermato da altre significative spie, come la frequenza di r. suffisali (in particolare, in -mente degli avverbi), come la ripetizione della stessa parola, talora non in r. equivoca: com'è stato detto, il nostro poeta " avendo senza dubbio tirato via in gran fretta, non senza stancarsi e annoiarsi, ha non di rado l'aria di uno dei più solenni scansafatiche che si conoscano tra i poeti " (E.G. Parodi, nella Prefazione all'ediz. di Il Fiore); anche se poi, da quegli stessi aspetti più frettolosi del suo sistema rimico, l'autore abbia tratto talora alcuni effetti considerevoli.

Numerosi sono i sonetti che hanno, su quattro, tre r. desinenziali (LVIII: -ate, -are, -uta; LIX: -uta, -ere, -ando; LXXIV: -ando, -ata -ava, LXXV: -ai, -are, -ita; XCIV: -ava, -are, -esse; XCIX: ando, -are, -ato; CXVI: -iamo, -ato, -uto; CXX: -asse, -ando, -ere; CXXXIII: -are, -aste, -ete; CXXXVI: -uto, -ato, -ata; CXL: -ata, -ato, -oe; CXLII: -esti, -assi, -ebbe; CL: -ea, -isse, -are; CLV: -ire, -are, -ata; CLXXVII: -esse, -ato, -ata; CLXXIX: -are, -ata, -ire; CXCIII: -ente, -are, -asse; CXCVI: -ate, -ata, -ire; CCVI: -ando, -ita, -aro; CCXV: -ita, -ato, -are; CCXVIIi: -ato, -ita, -ata) e si tenga pur conto che talora con la desinenziale può venire a far r. parola nella sua radice, come ad es. in LXXV 10-14 vita: schernita: servita, in CXXXVI 1-8 ripentuto: aiuto: perduto: avvenuto. Mentre in due casi si ha una stessa r. desinenziale nelle quartine e nelle terzine (in CXCI: donava: andava: dava: chiamava: appellava: appacificava: scuffiava, e in più nelle terzine piacea: volea: avea; e in CLXI: rea: Enea: Medea: sapea: avea: volea: piacea, e in più nelle quartine venire: fuggire: servire: guarentire); non manca qualche sonetto in cui tutte le r. sono desinenziali: XCVII: -asse, -esse, -ando, -uto; CCVIII: -ata, -ato, -endo, -ava; CCXXX: -are, -ea, -ai, -ata.

4.1. Una tale r. desinenziale non è soltanto spia di fretta e di noncuranza, ma s'inserisce in una certa tradizione che si direbbe propria del sonetto, specialmente del sonetto ‛ comico ', anche in quanto dello stile medio-didascalico. Se i sonetti di Iacopo da Lentini offrono infatti un ventaglio notevolmente vario di esperimenti rimici, partendo da casi in cui si hanno soltanto parole-rime, per giungere a casi in cui si hanno due r. desinenziali e fin tre; Guittone, Monte, Chiaro, anche se scrivono sonetti sulla linea di r. difficili, composte, equivoche, più frequentemente sono spinti dal giro stretto del sonetto a soluzioni desinenziali (vedi SONETTO). Ma forse più notevole, ai fini del Fiore appunto, la r. dei sonetti di Rustico Filippi di fattura tutt'altro che scadente, con una ricerca pregevole di effetti non facili, che pur tuttavia dà notevole campo alla r. desinenziale, e in particolare dell'infinito e del participio, occupando circa 40 r. sul totale di 230.

Del resto, la r. equivoca, uno degli artifici che si reperisce lungo tutta la storia del sonetto duecentesco, compare non infrequentemente nel Fiore e direi in proporzione crescente: trasse (I 1-4); maggio (III 1-8); parte (V 12-14; nello stesso sonetto la r. derivativa allena: lena, vv. 6-7; LXII 4-5 e CC 4-5 in r. anche con diparte, v. 1); grado (X 9-11); comanda (XV 3-6); assise (XL 3-7); assai (LXXXV 1-8); mestiere (LXXXVII 10-12); altrui (CVI 2-7); gente (CXXVII 2-3); punto (CXL 12-14); guarda (CXLIV 4-5); mano (CLI 4-8); faccia (CLIII 11-13); larga (CLVI 9-11); intendimento (CLXV 4-5); intenda (CLXX 2-3); scritto (CLXXI 9-11); comanda (CLXXII 4-8); ora (CLXXXV 1-8); sia (CLXXXVII 10-14); gente (CXCV 9-13); lancia (CCVII 9-11); minaccia (CCIX 2-3); finché nell'ultimo sonetto si hanno nelle quartine due parole ripetute in r. equivoca, la spietata: sì spietata (vv. 1-5), l'entrata: alcuna entrata (vv. 4-8); e nello stesso sonetto LXVIII, accanto a volere: ben volere (vv. 3-6), le r. leale: disleale (vv. 1-4) e disfidi: fidi (vv. 9-11).

Nella serie delle r. equivoche notino le coppie con i nomi simbolici dei personaggi, sembiante: Falsembiante (CIV 3-6); Tagliagola: gola (CXXX 11-13); nello stesso sonetto, Buon-Celare: celare (CCXI 1-8); Vergogna: vergogna (vv. 2-6); Paura: paura (CCXII 1-8); Vergogna: vergogna (CCXXI 1-4; e v. anche presto: Presto, II 9-11); e tralascio le numerose r. di avverbio in -mente con mente, del tipo chitamente: mente (VI 10-12). Ma talora si ha la stessa parola in r. non equivoca: salute (XLIV 2-3); sia (LXXVIII 3-6); portatura (CXXIII 3-6); prese (CXXVIII 1-8); potrei (CLXII 1-8); una (CLXX 10-14, che è in r. con ciascheduna, v. 12); nello stesso sonetto amore (CLXXIII 1-4), e donata (vv. 3-6); potesse (CLXXV 2-6); pegno (CLXXVII 11-13); dilettanza (CLXXXVII 9-13); attendo (CCII 4-5). Molto di rado nelle opere canoniche di D. si ha la stessa parola in r., con lo stesso significato, senza cioè ricorrere alla r. equivoca (e Petrarca mai: Biadene, Sonetto, p. 157): notevole che nel giovanile Non mi poriano già mai fare ammenda (Rime LI 2-8) ricorra elli in r. con lo stesso valore.

4.2. Dato il sistema rimico del Fiore, la frequente vicinanza di r. assonanzate o consonanzate fra di loro è probabilmente di non grande rilevanza; voglio dire che in un tale contesto la vicinanza di r. tipo -ata, -ato conferma nell'impressione di noncuranza della r. stessa.

Si cita appena nelle quartine: segata, fossato, gittato, portata, ammendata, andato, accomandato, pensata (CXL 1-8); ricordata, bieltate, cominciate, piagata, legata, duritate, fallate, inarrata (CXLVII 1-8); sermonato, stata, ascoltata, rassicurato, mercato, trovata, vegghiata, barattato (CXCIV 1-8); ancora in CXCVI 1-8 (-ate, -ata), in CCVIII 1-8 (-ata, -ato), e così via; nelle terzine fare, riparo, capitare, amaro, donare, caro (CXXII 9-14); investe quartine e terzine in CCXVIII (-ato, -ita, -ata).

5. È comunque certo che la r. non appare essere un elemento polarizzante del Fiore (e tralascio di considerare, da questo punto di vista, le r. imperfette dell'operetta, specialmente quella di CCXI 13 e così di XLV 4, CVIII 12, anche perché parecchie saranno da deferire allo stato testuale dell'unico manoscritto), mentre è la r. che costituisce l'essenza prima del Detto. I 480 settenari (v. SETTENARIO) chiusi a coppie dalla stessa parola ci offrono l'esempio più sistematicamente sostenuto di virtuosità tutta tesa alla r., in una continua generazione di r. equivoche e di r. composte; le relativamente frequenti r. sdrucciole e tronche aggiungono all'artificiosità estrema del sistema rimico dell'operetta. Naturalmente avrà agito sull'autore l'esempio di r. ricche, composte, equivoche di Jean de Meun; e altrettanto e forse più i non infrequenti modelli, in questo senso, della poesia siculo-toscana di poco anteriori, in particolare di Monte e di Guittone.

Si citano appena, fra le r. composte, logaggio: lo gaggio (vv. 23-24); amare: amar è (vv. 141-142); amante: ch'ha mante (vv. 263-264); o altre che spingono alla scomposizione di parole, dis-fama: dif-fama (vv. 81-82); Folle: af-folle (vv. 86-87); bella: ab-bella (vv. 173-174); parenti: ap-parenti (vv. 357-358). Ed ecco coppie con r. sdrucciola: Così sue cose livera / a chi l'amor non livera (vv. 57-58); a trarmi de la regola / d'Amor, che 'l mondo regola (vv. 127-128); se potesse aver termine, / ch'amar vorria san termine (vv. 231-232); corpo e avere e anima, / e con colui s'inanima (vv. 385-386); né manca un paio di coppie con r. tronca: a lui se non, ciò ch'ho, / di lui non faccia co (vv. 377-378); Cortese e franco e pro' / conviene che sie, e pro' (vv. 403-404). Qualcosa di simile si coglie in un sonetto in tenzone con Dante da Maiano, Rime XLIV: nomo, parla, nomo, par l'à, un omo, par là, nomo, parla; ch'amato, chi ama, porta, camato, chiama, porta (e si verta anche in Rime XLVII, arte: sparte: parte: parte e adovra: ovra), nella cui radice sono per altro da vedere ben noti precedenti siciliani e siculo-toscani (Biadene, Sonetto, pp. 136-139 e 154-159); con Foster-Boyde, II, p. 15, ricordiamo che l'identità delle r. composte era anche grafica negli antichi manoscritti dove non era distinzione di sorta fra chi ama e chiama, ch'amato e camato.

L'ipotesi che ci si trovi, per il Fiore e per il Detto, dinanzi allo stesso poeta che tenti due strade opposte in imprese per tanti aspetti simili può essere la più suggestiva; tenuto anche conto che sia l'una sia l'altra tecnica erano confluenti con realtà ben presenti nella poesia fiorentina intorno al 1280 (Baldelli, D. e i poeti fiorentini del Duecento).

6. Il primo sonetto della Vita Nuova (III 10-12) ci offre le terzine su r. desinenziali (tenendo, avea, dormendo, ardendo, pascea, piangendo) e le quartine su una r. che è una delle costanti di tutta la rimeria stilnovistica e prestilnovistica, cioè la r. su Amore (: core: ore: orrore), e sull'altra in -ente, che chiama a un suffisso avverbiale (: subitamente) e a una parola, parvente, cioè il provenzale parven, che, se è larghissimamente usata da tutta la poesia siciliana e siculo-toscana, in D. ricompare soltanto nella stanza giovanile Lo meo servente core (Rime XLIX). Il sistema rimico di questo sonetto scritto da D. nella sua prima giovinezza, sonetto - si badi bene - pieno d'impegno e di ambizioni, risponde bene alla situazione tradizionale, nelle sue diverse componenti.

La r. ‛ facile ' su amore è una costante delle r. di D. e, istruttivamente, assai più dei sonetti che delle canzoni; naturalmente il contesto rimico può essere vicino al già. studiato (compresenza di r. desinenziali), o può variare anche notevolmente. Così il secondo sonetto della Vita Nuova (VIII 4-6) ci presenta nelle quartine ancora Amore (: forgi: core: onore), con la più banale delle r. desinenziali (infinito in -are); e nelle terzine ancora la r. in -ente (che suggerisce avvenente, altro provenzalismo, che non ricorrerà più nel D. canonico) e quella in -anza, una r. cioè usitata nella poesia predantesca per la facile suggestione del suffisso largamente presente nei tecnicismi lirico-amorosi di origine transalpina. Del tutto simile il contesto rimico del sonetto Sonar bracchetti (Rime LXI), con core: Amore e usanza: dilettanza: sembianza: pesanza (unica occorrenza di tale provenzalismo nel D. canonico) nelle terzine, desinenziale in -are e suffissale in -menti (intendimenti e pensamenti, che rimano con genti e il desinenziale correnti) nelle quartine: sonetto a prima vista ben lontano da quelli della Vita Nuova in esame, ma, come osserva il Contini, " la mossa stilistica... è nettamente cavalcantiana ".

Anche in Tutti li miei penser parlan d'Amore (Vn XIII 8-9) le r. Amore: valore: dolzore: core sono avvicinate in consimile situazione a erranza: accordanza, e si badi che anche quest'ultime due parole non hanno altre attestazioni in D.: proprio dolzore, erranza, accordanza e " the easy rhymes on abstract nouns " sono indicate come elementi della tradizione poetica da Foster-Boyde, Il, p. 78. In Ciò che m'incontra (Vn XV 4-6), invece la serie more: Amore: core: tremore appare evidentemente arricchita di drammaticità cavalcantiana (si pensi appunto alla frequenza di more in r. in Cavalcanti): Foster-Boyde giungono a ricordare sonetti scritti su una parola chiave a proposito di more (v. 1), tramortendo (v. 6), Moia, moia (v. 8), morta (v. 13), morte (v. 14), insieme al fatto che tre r. della serie citata sono in realtà in -more (anche in L'amaro lagrimar, Vn XXXVII 6-8, la parola in r. morte, v. 12, è ripresa al verso successivo, la vostra donna, ch'è morta, obliare). E tale serie viene inserita in un sistema rimico ben risentito e ambizioso: gioia: noia: appoia: moia e nelle terzine vide: ancide, conforta: morta, doglia: voglia: nessuna r. desinenziale e nemmeno suffisale, esposizione in r. di parole, in qualche misura, ‛ difficili '.

In Ne li occhi porta la mia donna Amore (Vn XXI 2-4), alla serie Amore: core: smore: onore se ne aggiunge, nelle terzine, un'altra emblematica umile: gentile, e in maniera tale che il primo verso finisca con Amore e l'ultimo con gentile (si veda gentil anche nel v. 2). Del resto le liriche dolci e soavi, con r. piane, di parole consuete, hanno come massimo e sottilissimo obiettivo rimico quello appunto di porre nella sede privilegiata della r. le parole emblematiche del dolce stile di amore: r. su amore, core, gentile, vertute, se sono reperibili in Guinizzelli, diverranno sistematiche in Cavalcanti, insieme a salute, umile, valore, more (sulle parole-chiave delle liriche della Vita Nuova e delle Rime, v. P. Boyde, Dante's Stile, pp. 91-104). Un tal sistema viene ribadito nel sonetto successivo all'esaminato, Voi che portate la sembianza umile (XXII 9-10), ponendo nelle quartine le r. umile: simile: gentile: vile e dolore: colore: Amore: core: che di tale sonetto, il sonetto Onde venite voi così pensose (Rime LXX) sia " una vera e propria redazione secondaria ", si accerta anche dal dominio, in quest'ultimo, delle r. desinenziali nelle terzine (udire, scacciato, ferire, consumato, fuggire, confortato) e suffissali nelle quartine (-ose).

In Vn XXIV 7-9 (Io mi senti' svegliar dentro a lo core), con cui ci si riavvicina allo stile della lode, si ha la solita serie core: Amore: onore: segnore. I due sonetti successivi, in cui D. afferma di voler ripigliare lo stilo de la ... loda, in Vede perfettamente (XXVI 10-13), nelle terzine ricorrono le r. onore: amore e umile: gentile, mentre in Tanto gentile (XXVI 5-7) si colgono ancora core: amore, e insieme, in una volontà di tono assai smorzato (indicativa, a un tal proposito, la variante di autore credo che sia della tradizione estravagante in e par che sia: vedi De Robertis, Il libro della Vita Nuova, pp. 145-146), la notevole presenza di r. desinenziali (guardare: laudare: mostrare; vestuta: venuta), tuttavia avvicinate a r. tematiche (pare; saluta: muta); e così in Vede perfettamente a tenute: vestute si alternano salute: vertute. Ancora Amore: core: valore: smore e vertute: salute nella stanza di canzone successiva Sì lungiamente (XXVII 3-5).

Consimile situazione ‛ stilnovistica ' (r. poco vistose, frequentemente desinenziali, di solito costituite di parole terminanti con due vocali che comprendono una sola consonante, spesso anzi con due vocali) si coglie nelle r. di Rime LXIII, LXIX, LXXI.

Anche nei sonetti avvicinabili alle canzoni filosofiche, il sistema rimico è assai vicino a quello del D. stilnovista (del resto, proprio per l'aspetto tecnico il cantor Amoris e il cantor rectitudinis sono spesso tutt'uno): basti pensare a Parole mie (Rime LXXXIV), che offre in r. siete, cominciai, errai, movete, sapete, guai, unquemai, vederete, Amore, dolente, core, valore, umilemente, onore; è così anche naturalmente in Rime LXXXV e LXXXVI.

In Savere e Cortesia (Rime XLVII), forse anteriore al primo sonetto della Vita Nuova (Santangelo), la serie riccore: core: Amore: valore assume uno speciale valore inserita com'è in un contesto di r. equivoche e r. derivative (arte: sparte: parte: parte; adovra: ovra); e si noti nella serie il forte provenzalismo riccore (mai più adoperato da Dante). Si ha insomma una situazione rimica che, con punti di contatto con quella del sonetto Tutti li miei pensier parlan d'Amore (Vn XIII 8-9), è congiungibile in qualche maniera alle prime esperienze di D. (compresenza di dolzore e -anza).

Naturalmente più d'uno dei sonetti più strettamente collegabili alla Vita Nuova presenta serie di r. dello stesso tipo: nelle terzine di De gli occhi de la mia donna (Rime LXV), si ha valore: Amore, mentre nelle quartine si ha la r. desinenziale in -are; nelle quartine di Ne le man vostre (LXVI), si ha la serie more: Amore: valore: Signore e tutte le altre sono o su due vocali (-ia) o su due vocali congiunte da una sola consonante (-ace, -ita, -ara): e di questo sonetto dice Contini: " meno facile che per altre liriche riesce il presentare un'ipotesi plausibile a spiegare come questo sonetto non sia stato accolto nella Vita Nuova ".

In Guido, i' vorrei (LII), amore va a rimare con incantatore, mentre occorrono due r. su due vocali (-io e -oi) e l'altra r. delle quartine si avvicina all'altra delle terzine, -ento, -enta. Questo sonetto si raccomanda per la sua sintassi ‛ normale ', proprio anche determinata dalla mancanza di qualsivoglia r. desinenziale: le suffissali appaiono opportunamente variate (incantamento e impedimento, ma vento e talento; incantatore, ma amore). Non è trascurabile in un siffatto sonetto che la prima e l'ultima parola in r. siano rispettivamente io e noi.

Nel sonetto, Deh ragioniamo insieme un poco (LX), probabilmente non lontano nemmeno cronologicamente dal precedente, la serie in r. Amore: signore: minore: valore va insieme nelle quartine con la r. desinenziale in -are.

Che le r. desinenziali possano indicare un porsi dinanzi alla poesia, o almeno, alla r., in posizione d'incuranza o di fretta si accerta perfettamente nel modesto sonetto responsivo XCIII ove le r. desinenziali delle quartine del proponente (-are, -ato) non sollecitano una pur minima volontà di alternare parole rimanti con il tema.

7. Il sistema delle r. dei sonetti danteschi nella tenzone con Forese appare ben chiaro se lo mettiamo vicino proprio a quello dei sonetti del Fiore. Nella tenzone, accanto alla sempre notevole presenza di r. desinenziali (-ala in LXXIII, -are in LXXV e così in LXXVII), si colgono r. difficili e realistiche (vecchi: secchi, LXXIII; starne, -arne, LXXV; tristo: Cristo: malacquisto, LXXVII; per tale ultima r., v. al n. 2.7.). Proprio specialmente attraverso la r., altre sezioni del vocabolario, quello propriamente più ‛ aspro e chioccio ', venivano così promosse alla poesia: fichi secchi (LXXIII 13), petti de le starne (LXXV 2), lonza del castrone (v. 3), mal boccone (v. 7), letto tristo (LXXVII 9), malacquisto (v. 13). Certamente il tutto richiama ben vivacemente la sicurezza vivace e spregiudicata della r. di tanto Rustico Filippi.

7.1. In Com più vi fere Amor co' suoi vincastri (Rime LXII), " per la prima volta troviamo Dante alle prese con le rime rare e il linguaggio aspramente metaforico che faranno il grande Dante delle rime petrose e di certe zone della Commedia ", con un lessico " prezioso quasi esclusivamente in rima (vocaboli in -astri, agresto), precisamente nelle rime delle quartine, aspre, e dunque allusive della tesi feroce d'Amore, a cui s'opporrà, nella calma delle terzine, l'antitesi sei volte più dolce " (Contini, Rime 51): nelle terzine si coglie la r. desinenziale più banale (-are), ma anche la parola-rima punto ripetuta 3 volte equivocamente. Quest'ultimo artificio è probabilmente riflesso piuttosto dalle esperienze di Guittone e degli altri toscani, che predilegevano, come già si è ricordato, la r. equivoca.

A esemplificare la " tecnica aspra, che sottolinea lo sforzo ", che " esplicitamente ne accentua il rilievo nei punti salienti del ritmo, e in modo particolarissimo in rima - ma essa è una cosa sola col sentimento dell'amore e della vita difficile, dell'ostacolo, del superamento ", il Contini propone un esempio perentorio " nel quale Dante si trovi in contatto con uno dei suoi amici intrinseci " (Rime CXII e CXIII), Cino da Pistoia.

L'esame delle r. del sonetto di Cino al marchese Moroello Malaspina e di quelle del sonetto responsorio di D. (Rime CXII e CXIII; di Cino, oro, inchina, spina, moro, ploro, fina, destina, dimoro, conte [" note "], gioia, noia, moia, monte, fonte; di D., tesoro, latina [" chiara "], disvicina, foro, poro, medicina [voce verbale], affina, discoloro, fronte, poia, croia, ploia, conte [" abili "], ponte), porta alla conclusione che nelle r. di D. c'è " già la magnanimità lessicale della Commedia, e già piuttosto quella delle due ultime cantiche "; ed è istruttivo vedere questa " robustezza di vocabolario risalire il corso del verso, propagginarsi a ritroso rispetto alla rima ch'è il centro di difficoltà "; " se l'irradiazione muove dalla rima val quanto dire che il punto di partenza dell'ispirazione è l'ostacolo (quella che fu chiamata, più o meni propriamente, la resisistenza del mezzo); e l'ostacolo è il nemico da vincere tutt'i giorni, lo stato permanente di guerra, la coscienza dell'eros pericoloso a cui cede, e in cui trova perfezione e gloria, il poeta " (Contini, Rime). È stato del resto osservato che " nei cinque sonetti indirizzati a Cino, come nelle ‛ canzoni petrose ', c'è quasi un diluvio di ‛ nuove ' parole: 39 dei 75 sostantivi non sono presenti nei gruppi precedenti ", P. Boyde, Dante's style, p. 102.

Qualcosa di simile si potrebbe ripetere per le r. del sonetto CXI (si confrontino almeno ai ciniani " ch'è maestra ": " per la mia fenestra ": " dentro ed extra ", i danteschi de la sua palestra: invan vi si balestra: 'l piacer ch'ora n'addestra). D'altra parte, il tono discorsivo di CXIV, sempre tenzonante con Cino, si realizza anche nello smorzato di r. desinenziali, purtuttavia sorrette e mescolate con altre di effetto ben sostenuto (-ito, -ate; ma insieme la r. ricca di Cino: uncino, la rara dissolve: volve, che in tutto D. ricorre soltanto ancora in Pd II 131-135).

8. A proposito delle r. di Donne ch'avete intelletto d'amore (Vn XIX, 4-14), si è osservato (v. CANZONE) che delle 70 parole in r., 8 finiscono con due vocali (-ui, -ia, -ei), 50 con due vocali che comprendono una consonante (-ore, -ire, -ede, -ale, -ile, ecc.), 10 con una nasale più una ‛ muta ' (-ente, -ende, -ando) e soltanto 2 con una consonante forte (-etto, vv. 15 e 19); si aggiunga che in questa canzone si ha la percentuale (circa un terzo) di r. suffissali massima rispetto a tutte le altre canzoni dantesche (si avvicina a tale percentuale soltanto Poscia ch'Amor, Rime LXXXIII, in un contesto rimico, come vedremo, del tutto differente), e molte di tali r. suffissali sono fra le più comuni reperite nei sonetti (-ata in avanzata: allevata: mandata: adornata, vv. 58-63; -ato in dato: parlato, vv. 41-42; -ire in dire: finire: sentire: ardire, vv. 2-7; -ere in savere: parere: vedere, vv. 30-35; -ando in parlando: pregando, vv. 57-61, e così via). In tale evidentissima volontà di una r. poco vistosa, fin banale, acquistano risalto, appunto in r,, serie di parole chiave dello stilnovismo dantesco: amore, valore, vile, gentile, vertute, salute, piana, villana, cortese, vv. 1, 5, 10, 11, 38, 39, 60, 65, 67.

Del resto, commentando l'asperitas di Così nel mio parlar, CIII, Foster-Boyde affermano: " Nelle poesie della Vn le consonanti più comuni all'interno della rima sono: d (22), l (36), n (31), r (160), s (29), t (91), v (20); nd (20), nt (64), rt (23). Rime di 496 versi du 676 (quasi il 75 per cento), che possono essere considerate a ragione come dolci ".

Tuttavia, a paragone con la situazione dei sonetti, le r. desinenziali delle altre canzoni della Vita Nuova e del tempo della Vita Nuova tendono a ridursi fortemente, su percentuali intorno al quindici per cento (Donna pietosa, Vn XXIII 17-28; Li occhi dolenti, XXXI 8-17; E' m'incresce di me, Rime LXVII; Amor che ne la mente, Cv III) o anche minori del dieci per cento (Quantunque volte, Vn XXXIII 5-8; La dispietata mente, Rime L; Lo doloroso amor, LXVIII). Quozienti similmente bassi di r. desinenziali offrono altre canzoni posteriori al tempo della " Vita Nuova, come Amor che ne la mente, Cv III; Amor, che movi, Rime XC; Io sento sì d'Amor, XCI; Doglia mi reca, CVI; Amor, da che convien, CXVI.

8.1. La sola canzone che ha una quantità percentuale di r. desinenziali vicina a quella di Donne ch'avete è Poscia ch'Amor, Rime LXXXIII, con una trentacinquina di r. desinenziali su 133 versi; situazione che, in un certo senso, tende ad accentuarsi se si tien conto che talora tali r. sono nell'endecasillabo, nel quinario e nel ternario consecutivi, in una posizione quindi di nimia percussio (sul tipo di Sono che per gittar via loro avere / credon potere / capere, vv. 20-22). Per ragioni in fondo meramente contenutistiche questa canzone è stata dal Barbi avvicinata a Le dolci rime, Cv IV; ma specialmente dal Contini se ne sono rilevati aspetti e tecnica, tutto sommato, arcaizzanti (e vedi CANZONE; quinario; settenario). Ora, anche lo studio delle r. oppone fortemente le due canzoni, quando si tenga conto che Le dolci rime ha un quoziente assai basso di r. desinenziali (una quindicina di r. su 146 versi); e, ciò che è anche più importante, offre numerose r. aspre e difficili.

8.2. Come nei sonetti stilnovistici, così, e ancor più, nelle canzoni della Vita Nuova ricorrono, appunto nella sede privilegiata della r., le serie di parole del tipo di quelle già notate in Donne ch'avete: così in Donna pietosa, core: Amore: colore: valore (XXIII vv. 17-26); umile: gentile (vv. 71-74); in Sì lungiamente, amore: core: smore (XXVII vv. 1-8); vertute: salute (vv. 9-12); in Li occhi dolenti, core: dolore (XXXI vv. 1-4); vertute: salute (vv. 22-25); gentile: vile (vv. 30-33); in Quantunque volte, amore: more (XXXIII vv. 12-13); sottile: gentile (vv. 25-26); anche in Poscia ch'Amor, core: valore (Rime LXXXIII 5-11); gentile: sottile (vv. 62-68); salute: vertute (vv. 71-72).

Tali serie sono ben presenti anche nelle r. filosofiche, specie in quelle cronologicamente più vicine alla Vita Nuova, come in Voi che'ntendendo, core: valore (Cv II vv. 2-4); virtute: salute (vv. 21-24); gentile: vile: umile (vv. 42-46); in Amor che ne la mente, la canzone della lode della filosofia, valore: Amore (Cv III vv. 17-18); vertute: salute (vv. 28-31); gentile: vile: umile (vv. 64-69; e nella stessa stanza bieltate: umiliate, vv. 68-70; anche in Amor che movi cogliamo splendore: valore: signore: core (Rime XC 2-7); gentile: sottile (vv. 31-35); virtute: salute (vv. 43-45); e fin in Le dolci rime, amore: valore signore (Cv IV vv. 11-18); gentile: sottile: vile (vv. 13-15).

Forse non è invece un caso che nessuna di quelle serie sia in Lo doloroso amor, Rime LXVIII, che " in una cronologia ideale delle rime dolorose per Beatrice... occupa certo il posto più antico " (Contini): E' m'incresce di me, Rime LXVII, registra almeno Amore: fattore: core (vv. 31-35). Comunque, si ricorda la presenza, nelle giovanili stanze isolate, come del resto già nei sonetti più giovanili, di core: valore (Rime XLIX 1-5); Amore: valore: fiore: colore (LVII 12-16).

9. Le poche ballate dantesche (v. BALLATA) presentano r. assai vicine, per presenza di r. desinenziali e piane, a quelle delle canzoni parallele in temi e in cronologia. Così, è di un certo interesse che la r. in amore sia addirittura la r. chiave di quattro delle cinque ballate sicuramente attribuite a D.: in Per una ghirlandetta (Rime LVI), si ha fiore: signore: Amore: onore (vv. 3, 10, 17, 24; e anche gentile: umile, vv. 5-7; ma pure l'unica r. tronca di tutto il D. lirico, farà: vedrà: verrà: canterà, vv. 2-23; e per altre particolarità tecniche di questa ballata, v. BALLATA); in Ballata, i'vo (Vn XII 10-15), ecco la serie: Amore: signore: disnore: core: servidore: onore (vv. 1-44); in Deh, Violetta (Rime LVIII), Amore: more: dolore (vv. 1, 4, 14); in Voi che savete (LXXX), Amore: valore: core: onore: tremore (vv. 1-28; e anche salute: vertute, vv. 26-27); in Perché ti vedi. (LXXXVIII), Amore: core: dolore: valore (vv. 2-10). Si aggiunga dalla ballata I' mi son pargoletta (LXXXVII), la r. ancora: innamora (vv. 4-6).

Si potrà fare la facile osservazione che in liriche d'amore la r. appunto su amore è un po' d'obbligo; e in realtà in canzoni quali Io sento sì d'Amor (Rime XCI), Doglia mi reca (CVI) e Amor, da che convien (CXVI) ricorre (rispettivamente splendore: amore, vv. 15-16; signore: onore: Amore, vv. 25-29; Amore: core, vv. 46-49), non però nelle serie prima. Ma prende particolare importanza l'assoluta assenza di r. di quel tipo nelle canzoni petrose, pur tuttavia d'amore.

10. Nella storia del D. petroso hanno una singolare importanza quelle liriche, e specialmente quelle canzoni in cui si colgono, proprio nella sede privilegiata della r., punti e avvii diversi sia dal tipo stilnovista piano e soave, sia dalla r, difficile intesa soprattutto come equivoca, ripetitoria e ricca, quale si nota specialmente nella tenzone con Dante da Maiano.

A proposito di Lo doloroso amor (Rime LXVIII), nota il Contini: " I due versi E allor non trarrà sì poco vento / che non mi meni, sì ch'io cadrò freddo [vv. 21-22], per la realtà sensibile, ma poco particolareggiata delle parole-rima e per la distribuzione dell'accento e dell'energia lessicale nel verso, alludono già all'esperienza stilistica della sestina ".

La canzone presenta delle particolarità di r., di cui si è già parlato (una r. imperfetta, i due versi della stanza non collegati da r.: v. CANZONE), da giudicare, nel loro complesso, proprio rispetto alla storia della r. di D., come caratteri arcaici. Certo questa è la prima canzone in cui la presenza di r. difficili e talora aspre, proprio in connessione della crudeltà della donna che fa morire l'amante di amore, appaia non occasionale: agro: magro (vv. 15-17); scritto: afflitto (vv. 16-19); dis[c]igli: quigli (vv. 44-46: da ripristinare forse in distilli: quelli, vedi n. 2. 1.), mentre si approfitta dei versi non relati dalla r. per porre in fine verso parole che suggerirebbero una r. difficile: freddo (v. 22), trista (v. 25), degna (v. 36), mossa (v. 39), donna (v. 43; e si aggiunga la scarsezza di r. desinenziali).

10.1. Nelle petrose, il proposito della poesia difficile e insolita spingeva D. appunto a parole lontane dalla tradizione lirica, proprio nella sede polarizzante della r., con effetti naturalmente di grande tensione: si pensi alle parole in r. abete, brina, ragne, piagge, falda, smalto, 'nforca, di Io son venuto (C 44, 48, 23, 47, 20, 59 e 5). Non ci stupirà che " tele ragne " ricorra in un sonetto di Cecco; e si aggiunga che rena è registrato soltanto, non in r., in una canzone attribuita al fiorentino Guglielmo Beroardi (" più ca rena in fiumi "), che salda appare soltanto in un luogo del Notaro, e istruttivamente proprio nel discordo (" mal che non salda ", in r. con " Tristano ed Isalda "; e vedi Baldelli, D. e i poeti fiorentini). Similmente nelle parole in r. di Così nel mio parlar, di violenta concretezza e insieme presentanti r. rare come mi spezzi, lima, a scorza a scorza, mi manduca, bruca, braccio manco, rimbalza, squatra, rezzo, non latra, borro, forza, anzi terza (CIII 14, 22, 25, 32, 33, 48, 49, 54, 57, 59, 60, 67, 68; un tal lessico è esaminato in contrasto col tipo stilnovistico da P. Boyde, Dante's style, pp. 91-104).

L'estrema irrequietudine dello spirito dantesco è dunque ben lontana dal placarsi nella lirica della lode della donna, ed è inquietudine stilistica, ricerca di valori espressivi sempre più ampi, comprensivi e dilatanti; per cui, a proposito del momento petroso, si è messo l'accento sul rifarsi, al di là dello Stil nuovo, direttamente ai trovatori provenzali, in particolare ad Arnaldo Daniello. Naturalmente importanti sono, anche a questo fine, i rapporti con quei rimatori fiorentini, primo fra tutti Monte Andrea, che si erano decisamente volti al poetare ermetico, sia per suggestione di certo Guittone, sia per diretta sollecitazione di modelli provenzali: la cosa si coglie perfettamente, ad esempio, in Così nel mio parlar, in cui i versi lo core a la crudele che 'l mio squatra, questa scherana micidiale e latra (CIII 54-58), richiamano di Monte " sì 'l cor dell'omo squatra " in r. con " latra " (Contini, Poeti 448); e si ricordi il sonetto di Guittore De coralmente amar mai non dimagra, con le r. " arretra ": " petra ", " uno dei precedenti italiani delle rime petrose ", Contini, Poeti 248. Si osserva che di rado nelle petrose D. ricorre ai latinismi nell'occasione della r. difficile, come farà invece nel Paradiso: più evidenti latinismi in r. in Io son venuto e in Così nel mio parlar, sono appena Etiopia (v. 14), copia (v. 17), e rispettivamente Dido (v. 36), perverso (v. 41), atra (v. 55), latra (v. 58) (per un giudizio diverso sulla presenza dei classici nelle petrose, v. Fenzi, Le rime per la donna Pietra, pp. 241-245).

Nella sestina (Rime CI) e nella sestina doppia (CII), la tensione in r. è ottenuta attraverso la ripetizione ossessiva delle parole-rima, tutte tendenti, almeno nella sestina, al concreto: ombra, colli, erba, verde, petra, donna; e notevole, a indicare l'intenzione ‛ carnale ' della sestina, che la parola-rima donna non ricorra mai nel valore di " signora ", come invece perfino in Io son venuto al v. 25. Del resto, se i due ultimi versi della stanza Io son venuto sono legati da parola-rima, di solito equivoca, nella sestina la r. equivoca è scarsamente presente proprio nel perseguire una tonalità di r. corpose e ossessive: al v. 4, verde è usato in senso metaforico (e 'l mio disio però non cangia il verde, " la sua freschezza ", Contini; negli altri casi si va dal verde dei colli al verde della veste); al v. 19, si ha petra col valore di " pietra preziosa " (come erba al v. 20 vale " erba medicamentosa "); al v. 28, forse ombra metaforizzato.

La sestina doppia invece, proprio nel suo carattere di ricerca d'intentata novità (v. VE II XIII 12) è l'unica prova di D. (ma vedi il Detto), in cui si ricorra sistematicamente alla r. equivoca, in cui anzi si abbia un'orgia di r. equivoche luce vale " luminosità ", " illuminazione ", " giorno ", " occhi ", " voce del verbo lucore "; tempo vale " spazio di tempo ", " momento ", " realtà temporale ", " tempo atmosferico ", " vita ", " requie "; petra oltre al significato proprio, vale " durezza ", " pietra preziosa ", " donna pietra ", " tomba "; freddo può essere sia aggettivo sia sostantivo, e avere sia il valore fisico sia quello metaforico riferito ai sentimenti; donna oscilla di continuo, si direbbe quasi sistematicamente, fra il valore proprio di " femmina " e quello di " signora " (e si confronti con quanto si è osservato su donna nella sestina).

Del resto, le parole-rima costituiscono anche una fitta rete di corrispondenze non solo internamente alle singole canzoni petrose, ma fra le quattro canzoni stesse (tale rapporto fra Io son venuto e la sestina è messo in rilievo dal Contini, Rime). Così, la parola petra è la parola-rima della coppia finale di versi della prima stanza di Io son venuto, ed è una delle parole-rima sia della sestina che della sestina doppia, e ricorre ad apertura di Così nel mio parlar; donna è la parola-rima della coppia finale di versi della seconda stanza di Io son venuto, ed è una delle parole-rima sia della sestina, sia della sestina doppia e ricorre nel congedo di Così nel mio parlar, al v. 79; tempo è la parola-rima della coppia finale di versi della terza stanza di Io son venuto, ed è una delle parole-rima della sestina doppia; infine le parole-rima ombra, verde, erba della sestina sono presenti anche in Io son venuto, rispettivamente ai vv. 9, 31 e 42, sì che, in particolare, si può giungere a dire che la sestina si genera quasi da Io son venuto.

10.2. Comunque si voglia risolvere il non facile problema della cronologia delle petrose (si ricorda la decisa difesa di una data addirittura più alta del 1304, di S. Santangelo, D. e i trovatori provenzali, Catania 1959), si direbbe che, proprio anche in contrasto al sistema rimico più tipico del D. del tempo della Vita Nuona, le r. di canzoni quali Tre donne (CIV) e Doglia mi reca (CVI) offrono una varietà di soluzioni, un'utilizzazione sia della r. più piana sia di quella più difficile e talora più aspra, da far pensare a un D. che abbia già esperito la tecnica oltranzista delle r. petrose (e in genere tutto il vocabolario di Tre donne, e di Doglia mi reca, appare fortemente equilibrato: " ‛ old ' and ‛ new ' items are represented in almost equal proportions, as are abstract and concrete ", P. Boyde, Dante's style, p. 102). Così, in Tre donne l'avvio è tutto tenuto su r. e parole piane ed emblematiche della poesia d'amore (Amore segnore, core, vertute, vita), con addirittura nel primo verso una r. desinenziale (venute). Ma già nella seconda stanza c'imbattiamo in una r. veramente importante, colonna: donna: gonna (vv. 22-27). D., pur adoperando più di cento volte donna / donne nelle liriche, pone la parola in fine verso soltanto in un caso (senza contare le petrose), nella canzone E' m'incresce di me (Rime LXVII), nel verso non rimato del congedo Io ho parlato a voi, giovani donne (v. 85): ciò evidentemente nella coscienza che donna in r. portava con sé la necessità di r. insolite e difficili.

Si può affermare allora che la r. su donna è del D. delle petrose, posta com'è in r. equivoca a formare la coppia conclusiva della seconda stanza di Io son venuto (C 25-26), fino a essere presa come parola-rima nella sestina e nella sestina doppia; è anche in Così nel mio parlar (CIII 79), ma nel verso iniziale irrelato del congedo (come anche nel verso iniziale irrelato del congedo di Doglia mi reca, CXVI 148).

Ma l'esposizione in r. nelle petrose di donna, essendo sempre di parola-rima, punta tutto sulla r. equivoca: in Tre donne, invece, la r. su donna spinge alla ricerca di r. difficili o almeno assolutamente insolite alla poesia d'amore stilnovisticamente intesa; come vedremo, qualcosa di simile si ha per le serie bocca: tocca: rocca (CIV 66-69) e polpa: colpa (vv. 86-88; e la coppia finale che chiude il secondo congedo, serra: guerra, vv. 106-107). Naturalmente una tale novità di r. è da considerarsi come l'equivalente stilistico di novità di realtà umane e morali ben evidenti; novità che possono essere rilevate in altri punti e in altri nodi sensibili della canzone, come nella rapida allusione geografico-astronomica che spinge D. a utilizzare parole non liriche quali vinco, secondo gli stilemi validamente, anzi oltranzisticamente, collaudati nelle indicazioni astronomiche della grande petrosa Io son venuto; o nelle oscure allusioni politiche fortemente metaforiche. L'uno e l'altro procedimento - precisazioni astrologiche, intense di r. e parole concrete e difficili, indicazioni politiche avvolte di mistero e toni profetici - diverranno modi importanti del procedere di tutta la Commedia; così anche qualche rilievo notevole può da quelle r. essere suggerito nello stesso senso, cioè nella direzione della Commedia. Si vedano appunto le r. su donna / donne nel poema.

La r. su donna, mai presente nell'Inferno, ricorre tre volte nel Paradiso, mentre nel Purgatorio si hanno tre occorrenze in r. della forma plurale, che generano r. facile. Nel Paradiso ricorre due volte con gonna, in un caso con disonna, nell'altro con assonna (donna: disonna: gonna, Pd XXVI 68-72; donna: assonna: gonna, XXXII 137-141), quell'assonna che era già nella prima occorrenza del Paradiso (donna: s'indonna: assonna, VII 11-15); le tre volte che ricorre plurale nel Purgatorio genera quasi tutte r. desinenziali di passato remoto di III persona singol. di verbi in -are, più la particella -ne (parlonne: ventilonne: donne, Pd XIX 47-51; e ancora XXV 131-135, XXXII 23-27). E forse può essere opportuno ricordare che nel c. XXXII del Paradiso nelle due terzine che precedono quelle con r. donna: assonna: gonna, cogliamo la r. manna: Anna: Osanna (vv. 131-135), la cui prima occorrenza si reperisce in Donna pietosa, manna: Osanna (Vn XXIII 25 58-61; la r. è anche nel Padre Nostro del c. XI del Purgatorio, Osanna: manna: affanna, vv. 11-15); non a caso, in tali terzine, ci si riferisce a donne beate, Anna e Lucia.

Qualcosa di simile, sempre a proposito dell'utilizzazione di r. difficili e concrete in Tre donne (Rime CIV), si può affermare per le serie già consumato sì l'ossa e la polpa (‛ ossa e polpa ' col valore di " corpo " pare espressione abbastanza comune): colpa (vv. 86-88: acutamente il Fubini, partendo proprio da tale r. rara, ricorda che " in questa stanza entra il dramma personale di Dante ": cfr. Metrica, pp. 144-145) e bocca: tocca: rocca (vv. 66-69). In nessun'altra lirica di D. ricorrono infatti le parole polpa e rocca (bocca, fuori r., soltanto in Amor, da che convien, Rime CXVI 29); polpe tornerà, e insieme con ossa, in Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe (: colpe: volpe, If XXVII 71-75) e in quanto sofferser l'ossa santa polpe (: volpe: colpe, Pg XXXII 119-123); si aggiunga colpa: scolpa: spolpa, in Pg XXIV 80-84 (proprio nell'ultima parte di Tre donne " troviamo già versi che potrebbero essere nel poema come troviamo espressioni che compariranno nell'Inferno ", Fubini, Metrica, p. 145). E su bocca le r. della Commedia saranno piuttosto numerose.

Del resto, anche la coppia finale del secondo congedo, serra: guerra (CIV 106-107), ha rispondenza specialmente con la r. baciata serra: guerra di Io son venuto (C 61-62) che, d'altra parte, si rifaceva in questo punto a La dispietata mente, serra: guerra (L 61-62).

10.3. Se la situazione di Lo doloroso amor può essere vista come un lontano precedente al gusto per la r. difficile, si può forse dall'altra parte aggiungere, al caso più evidente di Tre donne, qualche altro esempio di utilizzazione di r. rara, posteriore all'esperienza delle canzoni petrose. Di Doglia mi reca (Rime CVI) Foster-Boyde (p. 296) indicano l'ampiezza delle componenti lessicali, che vanno dall'estremo di cane, culla, fango, pasto, all'altro di benefizio, decreto, vassallaggio. Parole in r. realistiche come Nulla: culla (vv. 77-78), torna: soggiorna (vv. 33-34), scosta: costa: posta (vv. 44-51), servo: protervo (vv. 43-48), distringe: pinge: cinge (vv. 86-93), crudi: nudi: paludi (vv. 101-103), esca: 'ncresca: esca (vv. 110-116), membro: assembro (vv. 127-132); accorge: porge (vv. 151-152), rappresentano r. mai ricorrenti in altre liriche dantesche, nemmeno in forma di altro numero o genere (cioè in -ervi, -ulle, ecc.), ma tutte in varia misura nella Commedia (le r. in -ervo ed -embro sono solo in Doglia mi reca, ma nella Commedia si hanno -erva, -erve, -ervi, -embri, -embre). Particolarmente notevole ci sembra la serie falsi animali, a voi ed altrui crudi / che vedete gir nudi / per colli e per paludi (vv. 101 ss.), sempre di Doglia mi reca con una r. istruttivamente presente nel D. lirico soltanto in Così nel mio parlar, CIII 4-8, e in Tre donne intorno al cor, CIV 92-93, rispettivamente in maggior durezza e più natura cruda: saetta che già mai la colga ignuda, e in per veder quel che bella donna chiude: bastin le parti nude. Il rilievo acquista maggior consistenza se si tiene conto che crudo in tutto il D. lirico ricorre soltanto in questi due luoghi di Così nel mio parlar e di Doglia mi reca, che nudo entra nel D. lirico proprio in Tre donne intorno al cor, oltre che nella r. citata, al v. 22 (il nudo braccio), per poi essere reperibile, oltre che nel luogo detto di Doglia mi reca, nel tardo sonetto Se vedi li occhi miei (al v. 12 questa vertù che nuda e fredda giace) e nella tarda canzone Amor, da che convien (al v. 79 vota d'amore e nuda di pietate). Dilagherà poi nella Commedia (v. Pagliaro, Ulisse 609-610), con senso simile alle occorrenze in Doglia mi reca e in Se vedi li occhi miei.

11. La terzina della Commedia è, nella sua misura, più prossima, fra tutte le esperienze dantesche precedenti, alle terzine del sonetto, sia pure tenendo conto della rarità nelle dantesche dell'alternanza ababab (v. SONETTO), anche se si possono citare alcune stanze di canzone dantesca in cui, in qualche misura, si può reperire l'alternanza propria della terzina (v. TERZINA); per di più il proposito ‛ comico ' della Commedia poteva spingere alla tecnica del sonetto più che non a quella della canzone. Orbene, è impressionante il divario, anche sul piano delle r., dell'impianto della Commedia da quello della più gran parte dei sonetti danteschi.

11.1. Il conteggio delle r. desinenziali di tutta la Commedia dà poco più di un migliaio di parole-rima desinenziali sui 14253 versi: una quantità veramente piccola, specialmente se confrontata a quella dei sonetti (e anche delle canzoni, con l'eccezione vistosa, come si è visto, delle petrose, e di qualche altra r. isolata).

Fra le r. più frequenti delle desinenziali nei sonetti danteschi (e in quelli del Fiore) sono quelle di prima coniugazione, infiniti in -are e participi in -ato, -ata, -ate, -ati.

In tutta la Commedia si hanno soltanto 36 parole-rima in -are, di cui 30 verbali (tre versi finiscono con care e tre con pare): come assai spesso per queste r. desinenziali, mentre l'Inferno e il Purgatorio offrono lo stesso rapporto, il Paradiso ha appena tre versi che rimano in -are, con una sola forma desinenziale (Dunque come costui fu sana pare?: Ma perché paia ben ciò che non pare: quando fu detto " Chiedi ", a dimandare, XIII 89-93). Già da questo primo dato appare evidente l'intenzione dantesca a non abbandonarsi alla tradizione facile della r. desinenziale, tentazione che poteva essere naturalmente tanto più forte proprio nel tono narrativo dell'opera intrapresa. Che tale intenzione venisse rafforzandosi e innalzandosi nel Paradiso, si coglie in maniera palmare, quando si pensi che l'unico -are verbale è qui accompagnato da una r. equivoca (pare aggettivo e pare verbo; " la riduzione di tali rime desinenziali specialmente nell'ultima cantica ci addita un'altra volta il raffinamento dell'arte dantesca, che rifiuta il troppo comune ed agevole ", Bianchi, Rima e verso, p. 15).

Simile è la situazione della r. -ata, con 60 occorrenze in tutta la Commedia, di cui soltanto 38 desinenziali e 22 di varia provenienza: più della metà senza nessun rapporto col participio, come fiata (cinque volte), peccata (due volte), come le forme verbali guata (due volte), dilata, aggrata, come i nomi propri Damiata e Prata; e l'altra parte costituita da participi del tutto sostantivati, come aggirata, andata, brigata, entrata (due volte), forcata, gelata, usata, Brigata. Nel Paradiso appena una r. in -ata desinenziale: trasmutata: allevata: usata, XXVII 38-42.

Naturalmente una tale evidenza macroscopica non si coglie sempre. Comunque, in tutto il poema si hanno soltanto 74 parole-rima in -ato, di cui appena 40 sicuramente di participi, e nel Paradiso di questi ultimi 9 occorrenze; una venticinquina per ognuno dei participi passati plurali -ati, -ate, e nel Paradiso rispettivamente 8 e 5 occorrenze. Relativamente poco numerose anche le r. participiali in -uto, -uta, -uti, ute e in -ito, -ita, -iti, -ite (in tutto circa 120) ma con rapporti distribuiti fra le tre cantiche.

Anche la r. desinenziale del gerundio è assai più rara nella Commedia che nei sonetti: 56 casi in -onda desinenziale e 12 in -endo desinenziale (in rapporto regolare nelle tre cantiche). Sono naturalmente in numero maggiore che nei sonetti alcune r. desinenziali di II persona in riferimento appunto alla maggior quantità di discorso diretto della Commedia, anche queste ultime nel Paradiso di solito in numero minore: delle circa 60 r. desinenziali in -ai, ricorrono nel Paradiso una diecina. Così delle circa 160 parole-rima desinenziali d'imperfetti (-ava, -eva, -ea, -iva, -avi, ecc.), una trentacinquina ricorre nel Paradiso.

Di solito anche le r. suffissali sono in numero relativamente limitato in tutto il poema: il Parodi (Lingua 216 n. 18) ricorda che " gli avverbi in -mente non si trovano in rima che 14 volte, 6 nell'Inferno, 5 nel Purgatorio, 3 nel Paradiso; e tre sole volte, If VIII 83, XIV 20, Pg XXXIII 70, due di essi rimano insieme ". Così è anche di quei suffissi la cui presenza appare notevole, come si è detto, nel primo D., per influenza, magari piuttosto indiretta, della r. provenzale e in genere transalpina. A tal proposito appare abbastanza interessante che la grande maggioranza delle poche r. in -anza e in -enza della Commedia si reperisca nel Paradiso: su 23 casi di -anza suffissali, 17 si colgono nel Paradiso; su 41 di -enza, 23 sono del Paradiso; tutte le 9 occorrenze di -enze sono del Paradiso. I due soli casi di -anza suffissale dell'Inferno, e in r. fra di loro, nominanza e orranza, sono in riferimento alla fama delle anime del Limbo, If IV, in un contesto fitto di legami semantico-formali su ‛ onore ' (orrevol gente, tu ch'onori, onranza, onrata nominanza, onorate, che si chiudono con fannomi onore [v. 93], e più d'onore [v. 100]); nel Paradiso, con altre parole meno significative, cogliamo in r. beninanza, dilettanza, disianza, fallanza, fidanza, sicure spie di un'utilizzazione (sia pure tutt'altro che vasta), per l'espressione della beatitudine divina, di forme liriche proprie della gioia o della laude d'amore.

Meno evidente la cosa per -enza, data la più forte presenza qui di parole senz'altro latine; si badi tuttavia che le cinque occorrenze del provenzalismo parvenza (vedi quanto detto di parvente) sono tutte del Paradiso (e così l'unica di parvenze).

12. La maggior presenza di latinismi nel Paradiso, già notata addirittura nel Dialogo attribuito al Machiavelli, determina alcune singolari esposizioni in rima. Si pensi alle r. con la conservazione dei nessi con l: -empio, con sei occorrenze, tutte del Paradiso (XVIII 122-126, XXVIII 53-57, nei due luoghi con le tre parole contemplo: esemplo: templo) e -iclo (periclo: , epiciclo, VIII 1-3).

Si pensi alle forme conservanti -b- intervocalica con l'immissione di latinismi fra i più forti e personali della Commedia quali labi, scriba, approba, cuba, Cherubi, iube: -abi (Fabi: Aràbi: labi, VI 47-53); la r. in -àbile, una delle poche sdrucciole del Paradiso (inconsummabile: razïonabile: durabile, XXVI 125-129); -iba (preliba: ciba: scriba, X 23-27; ciba: preliba: prescriba, XXIV 2-6); -obo (globo: approbo: probo, XXII 134-138); -uba (cuba: Iuba: tuba, VI 68-72) -ubi (ubi: dubi: Cherubi, XXVIII 95-99). Per -ube si hanno una r. nel Paradiso (tube: nube: iube, XII 8-12) e una nel Purgatorio (nube: rube: tube, XVII 11-15); per -ibo soltanto una nel Purgatorio (cibo: tritio: caribo, XXXI 128-132); per -ebe soltanto una nell'Inferno (Tebe: plebe: zebe, XXXII 11-15).

Di altrettanta rilevanza le r. che portano intatto il dittongo -au-, quasi soltanto nel Paradiso: -aude (plaude: laude: gaude, XIX 35-39); -ausa (causa: pausa: ausa, XXXII 59-63); -austo (olocausto: essausto: fausto, XIV 89-93); mentre -austro è nel Purgatorio (plaustro: clustro: Austro, XXXII 95-99). E si aggiunga, del solo Paradiso: -orio (meritorio: consistorio: aiutorio, XXIX 65-69); -ipio (principio: Scipio: concipio, XXVII 59-63); -iqua (liqua: iniqua, XV 1-3). Su 39 parole-rima in -izia, trenta sono nel Paradiso, allineando, oltre naturalmente più volte giustizia, inizia, letizia, anche latinismi insoliti come carizia (V 111), nequizia (IV 69, VI 123, XV 142), puerizia (XVI 24), primizia (XVI 22, XXV 14).

12.1. La grande apertura della lingua di D. nella Commedia verso il latino si può cogliere movendo anche da altri assunti proprio danteschi, magari utilizzati in maniera, per così dire, inversa. Più di una volta abbiamo fatto riferimento all'esclusivismo anche fonico, in nome di uno stile soave e dolce, quale viene proclamato nel De vulg. Eloq.; e nella Commedia D. continua a ben credere ai valori anche fonosimbolici dei suoni e delle parole. Sembra però notevole che nel Paradiso D. venga meno al suo esclusivismo fonico non solo, come c'era da aspettarsi, nei luoghi d'invettiva, dove si fa ricorso a immagini e figure basse e volgari, ma anche dove soccorra un forte latinismo: la sostanza latina della parola la vince insomma sul suo essere costituita di doppia liquida, di muta più liquida, ecc.

Così, -ustra è soltanto del Paradiso, nella serie illustra: lustra: frustra (IV 125-129); così -ubro in colubro: rubro: delubro (VI 77-81); lo stesso per -atria, nella serie patria: Catria: latria (XXI 107-111; e vedi quanto si dice più avanti della serie latra: Cleopatra: atra, VI 74-78); lo stesso per -irro, in Pirro: cirro: mirro (VI 44-48); lo stesso per -ebra, nella serie tenebra: latebra: crebra (XIX 65-69; si ricordi, a questo proposito, la serie infernale lebbre: febbre: ebbre, XXVII 95-99, foneticamente più popolare, in cui tuttavia alcuni codici leggono con una sola -b): nelle quali serie si richiama l'attenzione specialmente su lustra, frustra, colubro, delubro, latria, cirro, latebra, crebra, perché forse di prima estrazione dantesca.

La massiccia presenza nel Paradiso di latinismi, e di latinismi non infrequentemente nuovi e arditi, proprio nella sede privilegiata della r., si coglie assai bene anche in parole-rima distribuite fra le varie cantiche, ma nel Paradiso, in contrasto appunto con le altre due cantiche, situate con soltanto latinismi più o meno insoliti. Così, ad esempio, le r. epa / epe presentano sei occorrenze nell'Inferno e sei nel Paradiso. Nell'Inferno, almeno in un caso, il punto di partenza è una parola certo dotta, ma di lingua scientifica: la serie rispuose quel ch'avëa infiata l'epa: E te sia rea la sete onde ti crepa: che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa (If XXX 119-123) si genera assai probabilmente appunto da epa, come indica l'epa croia del v. 102, parola appunto dotta, che s'inserisce in un contesto rimico estremamente realistico e volgare (oltre a crepa e assiepa, si pensi ai vicini marcia, squarcia, rinfarcia, vv. 122-126); così nell'altro caso dell'Inferno, epe è in un contesto rimico realistico, dei dì canicular, cangiando sepe: sì pareva, venendo verso l'epe: livido e nero come gran di pepe, XXV 80-84. Nel Paradiso invece le due serie di r. espongono recepe: concepe: repe (II 35-39) recepe: concepe: tepe (XXIX 137-141), tutti latinismi estremamente letterari, alcuni forse estratti direttamente da D. (repe, tepe). E già si è notato, fra le serie latineggianti del c. VI del Paradiso, latra: Cleopatra: atra (vv. 74-78), di cui sarà bene mettere l'accento sul fatto che la forma Cleopatra è per D. latinismo, essendo per lui la normale, fuori di r., Cleopatràs; la parallela serie dell'Inferno offre isquatra, insieme con latra e atra, VI 14-18, sbilanciando nel senso opposto il contesto rimico.

12.2. Spesso nel Paradiso si hanno significative concentrazioni di r. fortemente latineggianti, come ad esempio nel c. VI. Il canto della gloria dell'aquila imperiale si fregia di r. quali (si pongono fra parentesi i non latinismi o i latinismi più comuni): Fabi: Aràbi: labi (vv. 47-51); cuba: Iuba: tuba (vv. 68-72); Pirro: cirro: mirro (vv. 44-48); colubro: rubro: delubro (vv. 77-81); (latra:) Cleopatra: atra (vv. 74-78), già indicate, e ancora regi: egregi: collegi (vv. 41-45); fatturo (: scuro: puro) vv. (83-87).

Si vedano anche i due discorsi di s. Bernardo nel c. XXXII, in cui si colgono causa: pausa: ausa (vv. 59-63); (muro: maturo:) venturo (vv. 20-24); (assili): intercisi (: visi) (vv. 23-27); püerili: sili (: sottili) (vv. 47-51); patrici (: felici: radici) (vv. 116-120); (gusto:) vetusto: venusto (vv. 122-126); (chiavi: gravi:) clavi (vv. 125-129); manna: Anna: osanna (vv. 131-135); e forse in questo contesto al v. 119 sarà piuttosto da leggere Augusta che non Agusta. Ma il contesto rimico del canto è sottilmente segnato da altre particolarità, come le r. intrecciate su -anno, -anni e su -usto, -usta, producendo in versi consecutivi in r. scanno / scanni, vv. 28-29 e gusto / gusta, vv. 122-123, mentre vi s'intrecciano la r. ricca (Agusta: aggiusta: gusta, vv. 119-123) e le parole quasi omofone (venusto: vetusto, vv. 124-126); apparirà allora naturale la r. su Cristo, vv. 83-87, sottilmente anticipata dai tre Cristo interni ai vv. 20, 24 e 27.

E così in certi canti dominati da Beatrice, o meglio, dai discorsi di Beatrice, come specialmente nel XXVIII, ove si colgono tempio: essemplo: contemplo (vv. 53-57); ubi: dubi: Cherubi (vv. 95-99); (dipigne:) igne (: cigne) (vv. 23-27); (vinto:) circumcinto (: quinto) (vv. 26-30); (quarto: sparto:) arto (vv. 29-33); Iuno (: ciascheduno: uno) (vv. 32-36); (saziarti:) arti (: parti) (vv. 62-66); cape: rape: sape (vv. 68-72); (primi:) vimi (: soblimi) (vv. 98-102); (Virtudi:) tripudi: ludi (vv. 122-126). Questo canto offre non poche altre particolarità nel suo contesto rimico: si vedano le r. intrecciate -ero, -etro in apertura, altri fitti latinismi anche oltre le parole di Beatrice (fra le altre, la già ricordata r. su ubi), ma anche roffia al v. 82; la specialissima situazione di sfavillaro (v. 90), in r., fra disfavilla e scintilla, sempre in r.; e finalmente una delle due r. sdrucciole del Paradiso col verso famoso per le sue allitterazioni, tutti tirati sono e tutti tirano, v. 129 (: girano: s'ammirano), la cui ultima giustificazione credo debba cercarsi nel motivo di ‛ tutti ' riferito alle gerarchie angeliche: tutte lor parte, v. 66; tutti hanno diletto, v. 106; l'ultimo è tutto d'Angelici ludi, v. 126; e finalmente la terzina Questi ordini di sù tutti s'ammirano, / e di giù vincon si, che verso Dio / tutti tirati sono e tutti tirano, vv. 127-129. E non sfuggirà che nelle due terzine con r. sdrucciola abbondano anche internamente gli sdruccioli: penultimi, Arcangeli, ultimi, Angelici, ordini.

Talora le serie grandi e significative di latinismi si offrono in contesti estremamente vari. Ad esempio, il c. XXX si avvia su nove versi con r. piane e non latineggianti, e poi di continuo attinge ai latinismi più forti, ma spesso in r. con forme del linguaggio più comune (cito i casi più evidenti): lude (v. 10) è in r. con chiude e 'nchiude; vice (v. 18) è in r. con Beatrice e dice; tema (v. 23) e in r. con trema e scema; preciso (v. 30) e in r. con riso e viso; mera (v. 59) con primavera (e con rivera, di origine lirica); circumscrive (v. 66) con rive e vive; rua (v. 82) con tua e sua; detruso (v. 146) con giuso; in altri casi i latinismi sono due contro uno: così concedo e tragedo (vv. 22-24) rimano con credo; deduce e duce (vv. 35-37) con luce; discetti e obietti (vv. 46-48) con aspetti; imo e opimo (vv. 109-111) con primo; redole e stole (vv. 125-129) con vole. Fino a giungere alle serie tutte intensamente latineggianti gurge: urge: turge, vv. 68-72; sazi: topazi: prefazi, vv. 74-78; letizia: milizia: giustizia, vv. 41-45 (e forse anche per D. la r. Italia, al v. 137, è un latinismo). In un contesto del genere assai notevole la presenza in r. (forte relativamente alla media della Commedia) di gallicismi o comunque di termini propri della lirica d'amore: dolzore (: fore: amore, vv. 38-42), parvenza in r. con il latinismo circunferenza e con potenza, vv. 104-108; verna (: governa: sempiterna, vv. 122-126); spegli (: svegli: immegli, vv. 83-87); e il già citato rivera, v. 61. Ma quest'aspetto non esaurisce certo il sistema rimico di questo canto, che è fra quelli di più sapiente fattura di tutto quanto il poema; sistema rimico che si corona, per così dire, della r. che ribadisce tre volte la stessa parola (e sintagmi assai vicini), sì ch'io vidi: per cu' io vidi: com'ïo il vidi (vv. 95-99). E si aggiungano: i due versi vicini terminanti rispettivamente con rivera e rive così da creare una specie di risonanza derivativa (e vidi lume in forma di rivera / fulvido di fulgore, intra due rive, vv. 61-62, dove evidente è anche l'intenzionalità di fulvido / fulgore); e qualcosa di simile si ha ai vv. 28-29, terminanti con viso / vista (Dal primo giorno ch'i vidi il suo viso / in questa vita, infimo a questa vista): né sfuggano le allitterazioni e la presenza di vidi, mentre viso si anticipa al v. 25, quasi come r. al mezzo; finalmente nei vv. 39-42 le tre parole emblematiche in r. luce, amore, letizia sono riprese all'inizio del verso successivo.

Naturalmente gli esempi prodotti indicano una linea di sviluppo, una tendenza: nella grande varietà e spregiudicatezza della r. della Commedia, in gran numero sono le r. o le serie di r. latineggianti nell'Inferno e naturalmente nel Purgatorio, come non mancano certo r. aspre nel Paradiso. Così, se l'unica r. in -ope è del Paradiso con la serie prope: Etïòpe: inòpe (XIX 107-111), la r. in -opia è dell'Inferno, con Etïopia: copia: elitropia (XXIV 89-93), ma generata, come nel caso di epa, dalla parola del linguaggio scientifico elitropia (per i latinismi danteschi vedi, fra gli altri, G. Bonfante, La lingua siciliana nella D.C., in D. e la Magna Curia, Palermo 1966): in Io son venuto al punto de la rota, soltanto Etiopia: copia, v. 10.1.

E si è già visto, a proposito delle r. con -b- intervocalica, le serie fortemente latineggianti del Purgatorio, nube (: rube): tube (XVII 11-15) e cibo: tribo: caribo (XXXI 128-132) e dell'Inferno, Tebe: plebe: zebe (XXXII 11-15), quest'ultima prodotta proprio là dove D. invoca le rime aspre e chiocce, e sia pure da interpretare rima come " verso " (ma si tenga conto che, assai significativamente, zebe sbilancia la serie rimica verso il popolare e il comico).

12.3. Pur ribadendo la differenza di misura fra Paradiso da un lato e dall'altro Inferno e Purgatorio, il latinismo in genere e in r. in particolare è, come già si è detto, una delle più cospicue proiezioni dell'apertura del D. della Commedia, rispetto appunto al D. lirico, nei confronti della poesia latina. Come già abbiamo messo in evidenza, la r. difficile delle petrose e di altri pochi luoghi del D. lirico spinge soltanto in maniera piuttosto relativa verso il latinismo; e più d'uno dei latinismi ricuperati nella lirica attraverso la r. difficile risale, assai significativamente, appunto alla tradizione lirica, quale si esprime nelle rimas caras ai Guittone o magari di Monte. Nella Commedia si avverte invece ché il latinismo è spesso di prima mano e che soprattutto l'esempio latino è sentito sullo stesso piano della precedente tradizione poetica lirica in volgare: da questo punto di vista l'emblematicità degl'incontri, e delle parole, con Arnaldo Daniello, con Bonagiunta e con Guinizzelli va giudicata alla stessa stregua di quella della presenza di Virgilio e di Stazio. Si ha insomma qui lo scioglimento del ‛ forse ' del De vulg. Eloq.: et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos,. Statium atque Lucanum, nec non alios qui usi sunt altissimas prosas (II VI 7) ... Idcirco accidit ut, quantum illos proximius imitemur, tantum rectius poetemur (IV -3).

12.4. Il sistema rimico del Paradiso, se spesso è connotato da latinismi e da r. piane e dolci, offre anche, e non infrequentemente, in r. quelle parole che D. nel De vulg. Eloq. definisce appunto come ‛ irsute ' e da evitarsi nell'alta lirica tragica (parole tronche, con consonante doppia liquida, con sorde più liquida, con z: quest'ultima s'intenda non comprensiva dei latinismi, quali quelli in -itia, dato che fra le parole che D. raccomanda per l'alta lirica troviamo letizia). Ma può essere un punto di partenza, per poi esaminare la situazione nelle altre due cantiche, l'osservazione che tali r. aspre si addensino in certe parti sintomatiche del Paradiso, come, per esempio, nelle invettive.

L'alta qualità delle r. del c. VI del Paradiso, rara e ricercata, è ottenuta anche attraverso l'esposizione in r. di una serie di nomi di luogo, e talora appunto nella forma più latina, e talora nella forma attuale. Un consimile contesto rimico ci par di cogliere, assai istruttivamente, nell'invettiva dell'aquila nel c. XIX, che alla storia imperiale detta da Giustiniano perfettamente richiama.

L'avvio del canto è su una serie di r. con latinismi o addirittura latine (al solito, si citano i casi più patenti): frui (: cui: lui), vv. 2-6; conserte (: aperte), vv. 1-3 (malvage: brage:) image, vv. 17-21; (fame: reame:) velame, vv. 26-30; plaude: laude: gaude, vv, 35-39; contesto (: sesto: manifesto), vv. 38-42; discerna: sempiterna (: interna), vv. 56-60; tenèbra: latebra: crebra, vv. 65-69, con qualche elemento di evidente tradizione lirica: (mio: pio:) disio, vv. 11-15; (mente: possente:) parvente, vv. 53-57. Ma appena le parole dell'aquila prendono il tono dell'invettiva, ecco in r. parole realistiche, e z. aspre: condanna: scranna: spanna, vv. 77-81; o almeno r. caratterizzate dalla doppia: miglia: assottiglia: maraviglia, vv. 80-84; fosse: grosse: mosse, vv. 83-87; figli: cigli: consigli, vv. 92-96.

Poi, in relazione al giudizio universale, un'isola di r. alte e latineggianti (che convergono su uno dei casi di Cristo [vv. 104-108], ripetuto le tre volte): prope: Etïòpe: inòpe, vv. 107-111; collegi: regi: dispregi, vv. 110-114; finalmente, quando gli spiriti " conglutinati in forma d'aguglia... abominano e infamano tutti li re cristiani che regnavano ne l'anno di Cristo MCCC ", le r. costituite di parole comico-realistiche (cotenna, garza, bozze) di nomi di luogo e con consonanti doppie innervano tutta l'invettiva: a cominciare con una delle difficili penna: Senna: cotenna (vv. 116-120), coincidente appunto con Senna: Ravenna: penna di VI 59-63 (r. che si riscontra, in tutto D., soltanto in questi due luoghi), e poi Boemme: Ierusalemme: emme, vv. 125-129 (che ricorre soltanto altre due volte in D., in Pg XXIII 29-33, anche qui su lerusatemme: emme, e Pd XVIII 113-117, sempre con emme); egregia: Norvegia: Vinegia, vv. 137-141 (r. che ricorre soltanto un'altra volta in D., Pg VIII 128-132); Rascia: lascia: fascia, vv. 140-144; Famagosta: scosta, vv. 146-148; Navarra: arra: garra, vv. 143-147: anche quest'ultima è r. rarissima, e aspra, stante la doppia liquida, ricorrente in tutto D. una sola altra volta, in If XV 92-96, sempre con garra: arra (: marra).

13. In realtà il gusto per i nomi propri in r. è fortissimo in tutta la Commedia, proprio nella volontà di privilegiare il nome di persona o di luogo per quello che ha in sé di riferimento assoluto (osservazioni sul nome in r., già in Parodi, Lingua 215-217): si pensi alla giustificazione dei nomi dei genitori di s. Domenico (e per quello che è della parola comune, si ricordi l'etimologia di avieo in Cv IV VI 3 ss.). D'altra parte, un'operazione del genere risulta particolarmente fruttuosa quando il rapporto fra nome e realtà si realizza non solo e non tanto su piano logico etimologico, quanto su piano fonosimbolico o simbolico grammaticale. La forte presenza di nomi propri nella Commedia, in r. e nel verso, è uno degli elementi che più ovviamente contrappone il realismo del poema al tono della Vita Nuova: nella Commedia i nomi propri sono nove volte più frequenti che nella Vita Nuova (P. Boyde, Dante's Style, pp. 94-104).

Si possono indicare alcuni interessanti precedenti di una simile utilizzazione del nome proprio, anche se poi siano nei risultati appena comparabili. Intanto, certi versi di Rustico Filippi, zeppi di nomi e cognomi di livello e suoni contrastanti: " Fra gli altri partiremo li casati: / Donati ed Adimar, sian del Capaccia; / Di Donaton, Tosinghi e Giandonati ", sono i propositi matrimoniali di Cione del Papa per i suoi congiunti (che forse hanno suggerito a D., nei sonetti tensonanti cen Forese, il lamento della madre di Nella per aver mal maritato la figlia); e proprio sulla r. si concentra lo sberleffo generato dal suffisso " Capraccia ", che si contrappone a " Giandonati "; e si noti quel " Donaton " fra " Donati " e " Giandonati " (v. Baldelli, Poeti fiorentini, pp. 17-18). Qualcosa di simile si avrà in famose serie onomastiche dantesche, da quella di Capocchio, a quella romagnola di Guido del Duca, a quella fiorentina di Cacciaguida: gli antichi grandi e i moderni spregevoli, da una parte io vidi li Ughi e vidi i Catellini (Pd XVI 88), dall'altra una Cianghella, un Lapo Saltarello (XV 128).

Ecco qualcuno fra i personaggi della Commedia dai nomi o dai soprannomi che possono irradiare r. difficile: Voi cittadini mi chiamaste Ciacco, If VI 52 (: sacco: fiacco), tenendo ben conto che tale r., in tutta l'opera di D., ritorna soltanto nel c. XXVIII (sacco: attacco: dilacco, vv. 26-30) nella figura di Maometto, canto e figura di famosa concentrazione di r. aspre e difficili; Vanni Fucci (: mucci: crucci, If XXIV 125-129), ricordando che una tal r. torna soltanto nel Paradiso nell'elenco delle famiglie fiorentine fatto da Cacciaguida, Barucci: Calfucci: Arrigucci, Pd XVI 104-108.

Non infrequentemente, a un'esposizione del nome del personaggio in r., risponde subito l'esposizione in r. di un nome di persona o di luogo che ha uno stretto rapporto col precedente: Venedico se' tu Caccianemico (If XVIII 50), e poi subito nelle parole di Venedico, I' fui colui che la Ghisolabella (v. 55), e snello stesso canto e se' Alessio Interminei da Lucca (: zucca: stucca, vv. 122-126: una tal r. difficile ritornerà una sola altra volta, e di nuovo in relazione con Lucca, quel da Lucca: Gentucca: pilucca, Pg XXIV 35-39); io Catalano e questi Loderingo, che genera ch'ancor si pare intorno dal Gardingo, If XXIII 104-108; Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino, / e questi è l'arcivescovo Ruggieri, XXXIII 13-14, e nello stesso canto Malebranche: Michel Zanche, vv. 142-144.

Veramente tante sono le anime che si presentano, o sono presentate con il nome in fine del verso: Siete voi qui, ser Brunetto?, If XV 30; Io son Manfredi, Pg III 112; Io fui di Montefeltro, io son Bonconte, V 88; I' sono Oreste, XIII 32; O Mantoano, io son Sordello, VI 74; Sù, Currado!, VIII 65; I' son Lucia, IX 55; e fu' chiamato Marco, XVI 46; ma riconoscerai ch'i' son Piccarda, Pd III 49 (: riguarda: tarda; Piccarda era già stata messa in r., accompagnata dalle stesse due parole, nel discorso di D. a Forese di Pg XXIV 8-12, il che non sarà una mera coincidenza); Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice (Pg XXX 73 e cfr. XXXII 85; Beatrice in r. anche in Rime LXVIII 15); i' sono il suo fedel Bernardo, Pd XXXI 102; ed esso Alberto / è di Cologna, e io Thomas d'Aquino, Pd X 98-99 (e, sempre nelle parole di s. Tommaso, Riccardo e Sigieri, in r. ai vv. 131 e 136); come presentazione di altri anche " ....Questi ", e mostrò col dito, " è Bonagiunta.... ", Pg XXIV 19.

13.1. Altrettanto si può dire della messa in rilievo di nomi di luogo attraverso l'esposizione in r., irradiante r. difficile. In Luogo è in inferno detto Malebolge, / tutto di pietra di color ferrigno, / come la cerchia che dintorno il volge, If XVIII 1, il nome di luogo in r. è per di più nel primo verso del canto (la r. rara in -olge ritorna soltanto, e sempre su bolge, in soffolge: bolge: volge, If XXIX 5-9). In può: co: Po, XX 74-78, dal nome di luogo si genera la r. tronca, in un contesto metrico assai singolare; si vedano gli accenti di fino a Governol, dove cade in Po: il tutto in un canto evidentemente ‛ elegiaco '.

Né è senza significato che il discorso di Ulisse, accentuando singolarmente il senso del viaggio come quête (v. D.S. Avalle, L'ultimo viaggio di Ulisse, in " Studi d. " XLIII [1966] 35-67), sia fittamente segnato di nomi di luogo in r.: Gaeta, Spagna, l'isola d'i Sardi, Sibilia, Setta, producendo r. rara Sibilia (torna soltanto in Pd XXVI 74-78), e anche Sardi (se infatti la r. in -ardi è rappresentata cinque volte, cinque volte ricorre la stessa parola tardi, su un totale di quindici parole).

Per motivi diversi, ma sempre di congruenza al contesto anche fantastico, i morti di morte violenta spesso puntano sulla realtà geografica del luogo della loro uccisione, anche proprio con la sistematica esposizione in r. dei nomi di quei luoghi. Per Bonconte da Montefeltro si ha, dopo Campaldino, addirittura una terzina con nomi geografici nelle r. di tutti i suoi versi: " Oh! ", rispuos'elli, " a piè del Casentino traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano, / che sovra l'Ermo nasce in Apennino, Pg V 94-97, e nello stesso canto Antenori, Mira, Orïaco di Iacopo del Cassero, ai vv. 75-80, e il disfecemi Maremma di Pia al v. 134 (unica r. in tutto D. in -emma). Così si ha in r. Benevento e Verde nel discorso di Manfredi, III 128 e 131.

13.2. Anche la poesia astronomica della Commedia è assai spesso segnata dal rilievo del nome proprio in rima. La grande poesia astronomica di D. aveva avuto la sua prima manifestazione in Io son venuto al punto de la rota, Rime C, in un contesto di r. appunto difficili; già qui la definizione astronomica e astrologica veniva, per così dire, ad assumere significati pregnanti e figurali in relazione alla vita come itinerario, momenti astrologicamente definiti, d'importanza appunto simbolica (Baldelli, Ritmo e lingua di " Io son venuto "). Nella Commedia le scansioni temporali si fanno sempre più intense e ricche di significati, sia a indicare il procedere del pellegrino, sia ad alludere ai tempi del compiersi delle profezie, sia in similitudini astrologiche piene delle più diverse implicazioni: e spesso il rilievo si ottiene anche attraverso appunto la tensione della r. difficile, suggerita talora con l'esposizione in r. del nome della costellazione.

La r. in -ibra, rarissima e di per sé latineggiante e dotta, è solo in due luoghi di D. ed è provocata da Libra, per di più in due avvii di canto, in Pg XXVII 1-3, vibra: Libra e in Pd XXIX 2-6, Libra: inlibra: dilibra, in quest'ultimo caso in r. ricca (anzi, pseudoderivativa) e con altro nome in r. al primo verso, Latona. Sempre nell'avvio del canto, in Pg XXV 1-3 si ha storpio: Scorpio, r. unica in tutto D., che, per di più, abbraccia altra r. rara, merigge: s'affigge: trafigge, vv. 2-6 (che ricorre soltanto in Pg XXXIII 104-108, con due parole uguali, merigge: s'affigge: vestigge); nelle stesse tre terzine di avvio del c. XXV, si trovano intrecciate le r. in assonanza -aia, -ala, vv. 5-12. In Pg XIX 1-3, sempre nell'avvio del canto, si ha dïurno: Saturno, r. unica anche questa (cui segue immediatamente la parimenti r. unica in -alba, alba: balba: scialba, vv. 5-9). E si veda in Pg VIII 134 Montone in r., in un contesto che richiama appunto Io son venuto.

13.3. Il primo canto in cui quasi sistematicamente il nome proprio viene posto alla fine del verso, e proprio in maniera quasi emblematica, si ha nel primo dei barattieri. Già nell'avvio Quale ne l'arzanà de' Viniziani (XXI 7); e poi la prima esplosione nel discorso del diavol nero e dei demon, tutta su nomi propri in r., Malebranche, Santa Zita, Bonturo, Santo Volto, con un effetto d'intenso sarcasmo realistico. Nella seconda parte del canto, è la volta dei nomi dei diavoli in r., da Malacoda, v. 76 (e si noti anche Caprona, v. 95) a Scarmiglione, v. 105, per giungere a Calcabrina, Graffiacane, Cagnazzo, Draghignazzo, con la doppia z, uno dei caratteri che fanno la parola ‛ irsuta ' a norma del De vulg. Eloquentia.

Nei canti dell'ottava e nona bolgia dell'Inferno la r. rara, ‛ aspra e chioccia ' domina più violentemente e largamente e soprattutto più genialmente che altrove: nel troppo spesso citato c. VII l'accumulo di r. aspre e chiocce non sempre è dominato con pari maestria di soluzioni stilistiche e metaforiche. Nei canti prima detti, in particolare la massiccia presenza dei nomi propri in r., irradianti r. rare e aspre, va vista allora nel sistema appunto delle altre r. chiocce, quasi la punta di quel sistema, contestualmente con i temi e la materia trattati.

Così il c. XXVIII si avvia proprio sulle stragi della fortunata terra / di Puglia, vv. 8-9, attraverso specialmente le r. su Ruberto Guiscardo, il vecchio Alardo (: bugiardo / ciascun Pugliese) e su Tagliacozzo (: mozzo: sozzo), per poi metter capo a r. e immagini fra le più ignobili (vedine un parziale esame al n. 16.); poi, in r. Mäometto e Alì; e dopo la metà del canto Pier da Medicina, Fano, Angiolello e finalmente Cattolica: Maiolica: argolica, sommando, caso unico nella Commedia, la rara r. tronca e la ancor più rara r. sdrucciola in un unico canto. Nel c. XXIX, la tremenda e stupenda orgia di r. rare e chiocce, che fu presa per esemplare del cattivo D. dal Bembo, verso la fine del canto si riaccende in un'altra fiammata sui nomi di Stricca (: ricca: appicca, vv. 125-129) e di Capocchio (: occhio: adocchio, vv. 134-138), l'una ritornante una sola volta (Pg XXI 107-111), l'altra assolutamente isolata. Per l'analisi delle parole in r. del c. XXX, v. Contini, Sul XXX dell'Inferno.

Il c. XXXII offre, nella prima presentazione del lago gelato. Osterlicchi: Tambernicchi: cricchi, vv. 26-30; e poi fra fitte r. aspre e chiocce cominciano a spesseggiare in r. i nomi dei traditori suscitanti spesso corpose immagini di rara violenza: Sassol Macheroni; Camiscion de' Pazzi: mille visi cagnazzi: gelati guazzi, vv. 68-72 (e fa r. difficile, per di più tronca, Artù, al v. 62, unica di tutta la Commedia) e poi Bocca (: e tratti glien' avea più d'una ciocca, vv. 104-106); quel da Duera (: di cui segò Fiorenza la gorgiera, vv. 116-120); quel di Beccheria (: ch'aprì Faenza quando si dormia, vv. 119-123); Tebaldello, vv. 122-126.

Non infrequentemente insomma la r. rara del nome di persona o del nome di luogo è responsabile, o la maggior responsabile, d'immagini e metafore fra le più brucianti della Commedia: si pensi a E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio che genera là dove soglion fan d'i denti succhio, If XXVII 46-48 (r. unica in tutto D.); e ancora quelle genti ch'io dico, e al Galluzzo, donde la terzina che averle dentro e sostener lo puzzo / del villan d'Aguglion, di quel da Signa, / che già per barattare ha l'occhio aguzzo, Pd XVI 53-57: si noti che la r. -uzzo è solo in questo luogo di D., e quasi altrettanto rara (ricorrendo soltanto un'altra volta, in If XXV 140-144) e altrettanto aspra la r. su Gomorra che genera perché 'l torello a sua lussuria corra, Pg XXVI 38-42, intrecciata con la r. su Pasife, unica anche questa in Dante. Così il nome e la città di origine di Bonagiunta generano alcune fra le più azzardate e stupende immagini della magrezza dei golosi, da ch'è sì munta / nostra sembianza via per la dïeta, e quella faccia / di là da lui più che l'altre trapunta, e ancora (su Lucca) ov'el sentia la piaga / de la giustizia che sì li pilucca, Pg XXIV 17-18, 20-21, 38-39. E Arno in r. in due casi ottiene di suggerire due forme parasintetiche, di gusto ben dantesco, nelle parole di Mastro Adamo, ond'io nel volto mi discarno, If XXX 69, e in quelle di Guido del Duca Se ben lo 'ntendimento tuo accarno, Pg XIV 22; e così Sorga, nella descrizione geografica che fa Carlo Martello, produce e quel corno d'Ausonia che s'imborga, Pd VIII 61, r. unica in D., a cui del resto segue subito un'altra r. unica su Ridolfo, v. 72.

Naturalmente aspetti del genere in D. sono tendenze, linee di sviluppo, mai costanti: basti pensare al c. XI del Purgatorio, ove la figura di Omberto Aldobrandesco è costruita su una serie di io che giunge a porsi due volte in inizio di verso, vv. 58 e 67 (nel corpo del verso, al v. 52 e due volte al v. 56), per cui l'attrazione per i nomi propri si genera proprio al polo opposto della r.: Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre e Io sono Omberto. In tutto il resto del canto liberamente poi si giuoca fra nomi al mezzo e in fondo al verso (notevole specialmente Oderisi: Parisi, vv. 79-81).

D'altra parte, non a caso in uno dei luoghi di più stanca versificazione del poema, il lungo elenco delle anime del Limbo, si espongono in r., fra i tanti, i nomi offrenti r. più facili; e così nell'elenco di personaggi classici in Pg XXII 97-114, nell'elenco di francescani in Pd XII 127-141; e sull'avvio di If XXX, il Contini, a comprovare l'andatura prosaica dell'elocuzione, indica " la tediata andatura di glossema, proprio in occasione di ciò che suole accendere l'invenzione di Dante, un nome raro ".

R. rare e aspre delle canzoni petrose, equivalente della violenza dell'amore; r. rare, aspre e chiocce nei canti specialmente della VIII e IX bolgia, equivalenti dell'ignobilità di quei temi e di quei personaggi; finalmente r. rare e intellettualmente infiltrate di latinismi in tanta parte del Paradiso, equivalenti di quei temi latinamente teologici e metafisici: " Di 204 parole che (se il nostro conto è giusto) sono attestate una sola volta nella Divina Commedia, ben 173 ricorrono in rima " (G. Rohlfs, La lingua di D. nelle rime della D.C., p. 134).

La parola esposta in r. assume insomma un privilegio, un'evidenza posizionale sì che spesso giunge a valori emblematici, arricchiti non infrequentemente da un aperto fonosimbolismo. Si sarà più volte osservato che di questo " impetuoso prorompere, come nella gioia della liberazione, quando i ceppi paiono più stretti e più saldi, ci sono specchio fedele gli ultimi versi delle sue terzine, che riescono di solito i più concettosi, i più plastici ": Parodi, Lingua 217 (vedine sottili analisi in Fubini, Metrica, pp. 194-197); e il Beccaria nota che l'iterazione di vocali si nota " specialmente in fin di verso, in posizione cioè più rilevata " (Allitterazioni dantesche, p. 245). E spesso le r. appaiono legate fra di loro da sottili e complesse rispondenze; sembra a D. essere infatti la bellezza essenzialmente rispondenza: Quella cosa dice l'uomo essere bella, cui le parti debitamente si rispondono, per che de la loro armonia resulta piacimento. Onde pare l'uomo essere bello, quando le sue membra debitamente si rispondono; e dicemo bello lo canto, quando le voci di quello, secondo debito de l'arte, sono intra sé rispondenti. Dunque quello sermone è più bello, ne lo quale più debitamente si rispondono [le parole], Cv I V 12-14.

14. L'anafora, a cui così potentemente D. ricorre specialmente nella Commedia (e per necessità espositive e logiche nella prosa, v. ANAFORA), investe in alcuni casi la r., assumendo allora un rilievo di particolare importanza. E si può cominciare citando un caso di epanalessi (Boyde, Dante's style, p. 219): Vede perfettamente onne salute / chi la mia donna tra le donne vede, Vn XXVI 10 1-2, con appunto, oltre al bel chiasmo (Lisio, L'arte del periodo, p. 143), la dislocazione della stessa parola in quelli che possiamo definire i due poli del verso, la prima sede (specialmente se segnata da accento di prima sillaba, v. ENDECASILLABO) e l'ultima in r. (e si vedano altri casi, che non investono la r., in cui l'avvio è su donna / donne, Vn XIV vv. 1-2, XIX vv. 1-2); un pari respiro su due versi si ha in Quell'uno e due e tre che sempre vive / e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno, Pd XIV 28-29. Si vedano Rime LXXXIII 43-44, e Servo non di Signor, ma di vil servo, CVI 43; perdoniamo a ciascuno, e tu perdona, Pg XI 17; ancora, parlare in r., Vn XLI v. 11, che si riflette nei parla del verso precedente e seguente; e Pd XX 94-100, ove si ha un'orgia di anfore e allitterazioni, violenza, viva, vince, divina, volontate, vince, vuole, vinta, e vinta vince, vita; e infine Morti li morti e i vivi parean vivi / non vide mei di me chi vide il vero, Pg XII 67-68.

Rilevante la risposta di Catalano, con l'anafora della parola tronca in r.: E 'l frate: " Io udi' già dire a Bologna / del diavol vizi assai, tra' quali udi' / ch'elli è bugiardo e padre di menzogna (: gì: parti', If XXIII 142-146), col primo verso irto e faticoso di accenti, in un contesto evidentemente comico.

Con effetto consimile, l'arte (divina) in r., If XI 100, si riflette nel corpo dei vv. 103 e 105, come arte (umana), sì da avere parte, v. 98; arte, v. 100; carte, v. 102; arte, v. 103; arte, v. 105; così la r. sforza: s'ammorza: torza, Pd IV 74-78, si riflette come r. al mezzo in segue la forza; e così queste fero, v. 80. Più sottile il legame fra parola iniziale e parola in r. nell'avvio di Pd XIX Imagini, chi bene intender cupe / quel ch'i' or vidi - e ritegna l'image, vv. 1-2, con un ‛ exemplum fictum ' che porta ancora all'ini'io della terza e della quarta terzina Imagini, mentre la seconda comincia con il parzialmente assonanzato e parimenti sdrucciolo quindici. E si tenga conto, a comprender meglio la singolarità di un tale avvio (l'avvio appunto del canto in cui s. Tommaso risolve i dubbi di D. su Salmone), della qualità tutta latina delle r. cupe, image: plage: compage, vv. 1-6.

Il contesto rimico del canto si precisa poi meglio attraverso le numerose r. equivoche, la costa: costa, vv. 37-39; sanza pare: non pare, vv. 89-91; falsa parte: si parte, vv. 119-121; la significativa r. derivativa e prima e poscia tanto sodisfece: da quel valor che l'uno e l'altro fece, vv. 41-45, e specialmente l'altra che, in maniera del tutto eccezionale, occupa i tre versi in r. dal suo lucente, che non si disuna: per sua bontate il suo raggiare aduna: etternalmente rimanendosi una, vv. 56-60; del resto, sempre in uno stesso canto, Pd XVIII, si trovano in r. per due volte parole quasi omofone redire: ridire, vv. 11-13 e facella: favella, vv. 70-72, insieme alla derivativa gemme: ingemme, vv. 115-117; e la non insolita equivoca volto: vòlto, vv. 65-67.

Occupa ugualmente i tre versi la r. derivativa in che qual vuol grazia e a te non ricorre: La tua benignità non pur soccorre: liberamente al dimandar precorre, Pd XXXIII 14-18, appunto nella preghiera alla Vergine, uno dei luoghi di più raffinata tecnica del poema; e per quanto è delle r. nella stessa preghiera si notino la derivativa aduna: ad una ad una, vv. 20-24, le due r. consecutive fattore, fattura, vv. 5 e 6; le quasi omofone disleghi: dispieghi, vv. 31-33, le ricche creatura: natura: fattura, vv. 2-6; umani: mani, vv. 37-39; e ancora, nello stesso canto, foglie levi: ti levi, vv. 65-67; distilla: disigilla, vv. 62-64; foto: fioco, vv. 119-121; effige: s'affige, vv. 131-133; convenne: venne, vv. 137-141.

La triplice invocazione di s. Pietro si varia e si evidenzia dal suo spezzarsi e porsi in r. il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca, mentre il, luogo mio va appunto a porsi in r. con dicend'io (appunto Pietro) e Figliuol di Dio (XXVII 20-24).

Complessi rapporti di allitterazione e r. possono essere visti nella terzina farà venirli a parlamento seco; poi farà sì, ch'al 'vento di Focara / non sarà lor mestier voto né preco, If XXVIII 88-90, ove l'anafora di farà è probabilmente in qualche rapporto con la parola in r. Focara (e forse perciò è preferibile farà anche al v. 90, mentre il testo Petrocchi, porta sarà). Comunque, proprio in relazione a echi interni nel verso è necessaria la più grande prudenza di analisi: si vedano infatti le troppe r. interne ritenute significative da Bianchi, Rima e verso, pp. 355-356,, la più gran parte delle quali è appunto desinenziale (forse rilevante Già era dritta in sù la fiamma e queta / per non dir più, e già da noi sen gia, XXVII 1-2).

15. L'effetto della r. è particolarmente evidente nei casi in cui il verso si conclude anche sintatticamente; l'enjambement ottiene talora di attenuare l'evidenza della r., prolungando il ritmo e la frase (come esempio di sequenza di versi coincidenti con la struttura sintattica si veda la prima stanza di Donne ch'avete intelletto d'amore), più spesso lo stacco fra verso e verso " si fa più sensibile e rilentò quando sembra contrastare col senso del discorso ", e " la pausa diventa elemento essenziale della poesia " (Fubini, Metrica, p. 41; v. anche Scaglione, Periodic Sintax)..

Fra gli esempi addotti dagli studiosi del verso di D. (fra gli altri, Lisio, L'arte del periodo, pp. 93-100; Scaglione, Periodicità sintattica) si ricorda, perché offrente due enjambements consecutivi, Quivi perdei la vista e la parola / nel nome di Maria fini' , e quivi caddi, e rimase la mia carne sola, Pg V 100-103; lo stesso si ha in volsesi in su i vermigli e in su i gialli / fioretti verso me, non altrimenti / che vergine che li occhi onesti avvalli (Pg XXVIII 55-57); ma val la pena di rilevare che, nell'uno come nell'altro caso citato, le altre r. corrispondenti coincidono con la pausa grammaticale, rispettivamente gola: sola, vivi: privi e balli: avvalli, contenti: intendimenti. Tuttavia in Pg V 100 Petrocchi, ad locum, accettando il parere del Barbi, interpunge dopo parola; ma in questa maniera si perde anche il chiasmo, una delle costanti retoriche della Commedia in siffatte situazioni. E anche in particolari del genere si può cogliere il procedere per blocchi compositivi che tante volte si avverte nella Commedia: ci contentiamo di ricordare la singolare concentrazione di enjambements nelle parole di Bonconte: oltre i citati, a piè del Casentino / traversa un'acqua, vv. 94-95; e quel d'inferno / gridava, vv. 104-105; coperse / di nebbia, vv. 116-117; tanto veloce / si ruinò, vv. 122-123; in su la foce / trovò l'Archian rubesto; e quel sospinse / ne l'Arno, vv. 124-126 (e altri meno intensi); anzi, si ha qui uno dei non frequenti casi di enjambement di due su tre parole in r.: veloce / si ruinò; foce / trovò, e si noti il parallelismo dei due passati remoti di uguale accentuazione all'inizio del verso (un consimile parallelismo in ad amforismi / sen giva, involto / s'affaticava, Pd X 14-5 e 8-9; Baldelli, Il canto XI). Mi pare importante, sempre ai fini della r. attenuata, notare che la maggior parte delle r. composte della Commedia sono in forte enjambement, così da riassorbire l'irregolarità dell'accento: pur lì / si rivolgea, If VII 28-29; ne la / via, Pg XVII 55-56; Almen tre / voci, XIX 34-35; per li / luoghi, XX 4-5; Dì, dì sicuramente, Pd V 122-123; ne lo / punto, XI 13-14.

E d'altra parte c'è da osservare che tali r. composte appaiono talora in contesti di estrema artificiosità. Ecco l'avvio del canto XX del Purgatorio, i cui primi quattro versi offrono quattro coppie di parole uguali: Contra miglior voler voler mal pugna; / onde contra 'l piacer mio, per piacerli; e infine Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li, il tutto, per di più, con due chiasmi. In Pg XIX 34-35 Io mossi li occhi, e 'l buon maestro: " Almen tre / voci t'ho messe! ", dicea, " Surgi e vieni / ... " da una parte si ha la quasi distruzione dell'endecasillabo per mezzo del dialogo a cavallo dei due versi, dialogo che viene a sua volta spezzato dal fortemente pausato dicea, e dall'altra parte l'allitterazione, la consonanza e la parziale assonanza di mosse e messe.

L'aver messo in r. mentre: ventre in Io son venuto al punto de la rota, Rime C 54-57, fa indubbiamente parte del sistema rimico di rottura proprio delle petrose; purtuttava la posizione in enjambement ne attenua l'evidenza (il gran ventre delle arpie riporterà D. alla stessa r. nella stessa posizione, e sarai mentre / che, If XIII 14-19). Lo stesso si può dire per avante / che, in If XVI 97 e Pg VII 32: specialmente in questo secondo caso una tale situazione va vista nel suo contesto compositivo, il discorso di Virgilio a Stazio sul Limbo, di sei terzine, di cui cinque fitte di enjambements; e la terzina in cui si ha avante / che è intenzionalmente costruita parallelamente alla seguente, con anche la r. successiva in -ante in forte enjambement: Quivi sto io coi pargoli... avante / che, v. 32; quivi sta io con quei che le tre sante / virtù... e sanza vizio / conobber, vv. 34-36. Come spesso in D., i toni discorsivi si sostengono e s'innalzano a momenti di alta oratoria attraverso anafore (quivi sto io), chiasmi e così via.

Ma, fra gli altri, ecco un altro caso di costruzione parallela su enjambements della stessa r.: con quel piglio / dolce, If XXIV 20; dopo alcun / consiglio eletto seco, v. 22, e anche qui dobbiamo rifarci al contesto: si tratta delle terzine che direttamente ben rispondono alla similitudine del villanello (interpretata nella sua ambigua costruzione come premessa alle trasformazioni dei ladri, vedi n. 16.), con anche piglio ripetuto equivocamente (con quel piglio, diedemi di piglio), mentre la struttura sintattica si pone in forte contrasto con la struttura metrica dei versi: Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima ben la suina, e diedemi di piglio. E. ancora, ad esempio, nel discorso di Ulisse, cento milia / perigli, picciola vigilia / d'i nostri sensi, XXVI 112-115.

Comunque, come già si è detto, più frequentemente D. fa corrispondere a una r. in forte enjambement le altre due in posizione conclusiva del verso: vi vedano la cima / cadere, If XIII 44-45; e per la mesta / selva, vv. 106-107; se l'arrabbiate / ombre, XXX 79-80; più di sette / volte, VIII 97-98; nel secondo / giron, XI 41-42; ‛ Ave / Maria ' cantando, Pd III 121-122.

16. Si deve al Biadene, Sonetto, una prima ricerca, internamente al sonetto, su r. diverse con intenzionale assonanza o consonanza, fin a giungere quasi a una nuova r. (nel sonetto di Guittone Lo nome al vero fatt'ha parentado, le cui quartine sono rette dalla r. -ado, -ato). Sia pure senza rifarsi allo studio del Biadene, D. Bianchi, Rima e verso, pp. 364-368, prende in esame un gran numero di casi di consonanze e assonanze fra le r. nell'Inferno, giungendo di solito a risultati non ricevibili, specialmente in quanto ricerca effetti particolari sulla vicinanza o sull'alternanza delle sole vocali toniche della r. (" La vocale ‛ a ' in I, 91-7 imprime commozione alla voce alta implorante ", p. 366, e così via). Sempre indipendentemente, T. Wlassics esamina spesso acutamente alcune fra " le numerose rime imperfette che legano fonicamente altrettanti terzetti contigui, producendo un effetto di momentaneo disorientamento acustico " (Interpretazioni di prosodia dantesca, p. 29); fra i casi indicati; i più persuasivi sembrano essere Pg VI 1-9 (dolente, impara, gente, prende, mente, intende, pressa, difende); Pd XXVIII 4-9; Pg XVI 91-94; If VIII 97-102, XIV 106-114 (-ata, -etto, -otta), VIII 95-105, IX 64-72 e 82-87, XII 71-78 (-ille, -elle), Pg XXV 52-63, XVIII 7-18, II 106-117. Ma talora tali assonanze sono viste senza tener conto di altri valori contestuali; talora sono presi in considerazione casi in cui non v'è assonanza né perfetta consonanza (-ali, -ello, in If XVII 127-130; -ella, -ale, in XII 22-25).

Nella terzina dantesca (v. TERZINA) da una parte la rilevante presenza della r. stabilisce un tessuto continuo, ricco di possibilità di attenuazione o di accentuazione, mentre d'altra parte è evitata la nimia repercussio delle r. stesse. Proprio a tal proposito abbastanza istruttiva può essere l'analisi sistematica dei casi in cui si abbia la nimia repercussio delle r. ottenuta avvicinando r. assonanzate o consonanzate, o anche assonanzate e parzialmente consonanzate.

Per di più, non infrequentemente i suoni delle r. risalgono lungo i versi, per cui si ha un effetto a mezza strada fra la r. interna (più spesso si ha naturalmente assonanza o consonanza interna) e l'allitterazione vera e propria.

Si pensi a casi come " ... vermiglie come se di foco uscite / fossero ". Ed ei mi disse: " Il foco etterno / ch'entro l'affoca oca le dimostra rosse, / come tu vedi in questo basso inferno ". / Noi pur giugnemmo dentro a t'alte fosse / che vallan quella terra sconsolata: / le mura mi parean che ferro fósse, If VIII 72-78, in cui si noti per di più la r. equivoca fòsse: fósse. E che la nimia repercussio possa essere in un canto del genere chiaramente ricercata, si accerta dalle r. consecutive dei vv. 94-105 in -ette (maladette: sette: stette), -atto (tratto: disfatto: ratto), -ato (negato: menato: dato); poco più oltre, al c. IX, vv. 38-45, le terzine delle Furie si troveranno congiunte dalle r. consecutive in -inte (tinte: cinte: avvinte) e in -ine (crine: meschine: Erine).

Ancor più notevole il caso del c. XIII, in cui l'ultimo discorso di Pier della Vigna dal v. 93 al v. 108 è legato da tre r. assonanzate e parzialmente consonanzate: -elta (disvelta: scelta: spelta), -estra (balestra: silvestra: fenestra), -esta (rivesta: mesta: molesta); a questo punto, forse non del tutto casuali saranno le due r. consecutive -esto, -ista che si colgono ai vv. 140-147, nel discorso dell'ultimo suicida. E si veda l'apparizione del primo diavol nero della bolgia dei barattieri legata dalle assonanze parzialmente consonanzate in -ero (nero: fero: leggero) e -erbo (acerbo: superbo: nerbo), in cui cinque di tali sei parole in r. sono definitorie appunto di quel demonio, If XXI 29-36.

La lunga similitudine che avvia il c. XXIV dell'Inferno è singolarmente legata da una serie di ben quattro r. in assonanza fra di loro: -anno (anno: vanno), -anca (bianca: manca: anca), -agna (campagna: lagna: ringavagna), -accia (faccia: faccia: caccia); e anche in questo caso, come nel citato c. VIII, si ha una r. equivoca (non sa che si faccia: aver cangiata faccia), che ben aggiunge all'effetto della nimia repercussio di assonanze. Ma non è tutto: nei primi versi della similitudine si ha un'altra r. equivoca che 'l solei crin sotto l'Aquario tempra: ma poco dura a la sua penna tempra; e più innanzi le r. equivoche con quel piglio: diedimi di piglio, vv. 20-24 (per cui v. quanto detto al numero precedente) e inver' la porta: lo sito... porta, vv. 37-39; e si aggiunga la rara r. sdrucciola malgevole: fievole: disconvenevole, vv. 62-66. Forse la funzionalità della similitudine al canto, così discussa e diversamente interpretata, andrà vista alla luce di tali elementi singolarmente ambigui, coerenti alle trasformazioni della bolgia dei ladri.

Notevoli appaiono, anche da questo punto. di vista, le r. del XXVIII dell'Inferno. Si è già detto della serie di r. aspre, caratteristica del sistema rimico del canto; per di più, solo questo canto di tutta la Commedia offre insieme una delle rare r. tronche (Ali: qui: così, vv. 32-36), una delle rare r. sdrucciole (Cattolica: Maiolica: argolica, vv. 80-84) e una delle eccezionali r. composte (come: chiome: Oh me, vv. 119-123). In un contesto del genere, la nimia repercussio, sia pure sotto forma di assonanza, s'incontra almeno due volte, con r. aspre e chiocce, e in punti di particolare rilevanza per il tono generale del canto. Ai vv. 20-27 s'intrecciano -ulla (nulla: lulla: trulla) e -ugia (pertugia: minugia: trangugia), ove, per di più, si crea una specie di assonanza risalente all'interno dei versi, al v. 22 -ulla verso mezzul, al v. 23 la stessa r. verso un, segnato da una forte pausa: Già veggia, per mezzul perdere o lulla, / com'io vidi un, così non si pertugia (una consimile situazione si ha in Io vidi un, fatto a guisa di lëuto, XXX 49, per cui vedi oltre). Più avanti, un'assonanza di pari valore lega la terzina del Mosca (rilevata dal Wlassics, Interpretazioni di prosodia dantesca, p. 65): -ozza (strozza: mozza: sozza), -osca (fosca: Mosca: tosca, vv. 101-108; del resto, parole consimili in r. si colgono all'inizio del canto, Tagliacozzo: mozzo: sozzo, vv. 17-21). Ai valori semantici e fonosimbolici delle parole, alle immagini, alla realtà significata, alla struttura sintattica (si pensi, per i vv. 22-24, al salto sintattico determinato da così non si pertugia, riferentesi a veggia, al di sopra di com'io vidi un), alla scansione dei versi (si veda il forte accento sulla 9ª sillaba del v. 103 E un ch'avea l'una e l'altra man mozza, v. ENDECASILLABO), si aggiunge non trascurabilmente una tale nimia repercussio, significante proprio sul piano del ‛ comico ', anzi dell'‛ elegiaco '.

Probabilmente è significante anche l'intreccio di r. in -erno (verno: dietro: sempiterno) e in -eppo (greppo: Gioseppo: leppo), If XXX 92-99, che congiunge la moglie di Putifarre e Sinone, e ce ne persuadiamo osservando, nello stesso canto, altri aspetti di nimia repercussio di consimile valore. Si vedano le consonanze interne S'io fossi pur di tanto ancor leggero / ch'i' potessi in cent'anni andare un'oncia, / io sarei messo già per lo sentiero, vv. 82-84 (si ricordi che con oncia rima sconcia e non ci ha); si veda la frequente ripetizione di una stessa parola, in un caso congiunta da una r. interna: col pugno li percosse l'epa croia. / Quella sonò come fosse un tamburo; / e mastro Adamo li percosse il volto, vv. 101-104; e a ver, intenzionalmente, ed equivocamente, ripetuto tre volte (per di più, in un caso fosti sì ver e nel seguente del ver fosti) nei tre vv. 112-114, ribatte falso - falsasti - fallo dei vv. 115-116; proprio come nel c. XXVIII, al v. 23, che ci ha offerto consimili modelli, si ha una specie di assonanza diffondentesi all'interno del verso in Io vidi un, fatto a guisa di lëuto, / pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia, / tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto, vv. 49-51 (a proposito di r., per così dire, risalenti, abbastanza interessante Pg VII 103-108: E quel nasello che stretto a consiglio / par con colui ch'ha sì benigno aspetto: petto: letto).

Un caso un po' diverso si ha quando r. simili non compaiono intrecciate, ma consecutive come in un caso sempre di quest'ultimo gruppo di canti dell'Inferno: XXXI 83-93, r. in -estro e -erto: e al trar d'un balestro / trovammo l'altro assai più fero e maggio. A cigner lui qual che fosse 'l maestro, / non so io dir; ma el tenea soccinto / dinanzi l'altro e dietro il braccio destro / d'una catena che 'l tenea avvinto / dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto / si ravvolgëa infino al giro quinto. / " Questo superbo volle esser esperto / di sua potenza contro 'l sommo Giove ", / disse 'l mio duca, " ond'elli ha colal merto... ". E questo canto offre due altri casi di assonanze intrecciate, in -orno (dintorno: giorno: corno) e in -oco (poco: fioco: loco), vv. 8-15; in -occa (bocca: sciocca: tocca) e in -oga (disfoga: soga: doga), vv. 68-75: di qualche suggestione appare il fatto che si tratta, nel primo caso, delle terzine che dicono del suono del corno di Nembrotte, nel secondo, delle terzine che commentano il grido dello stesso gigante e l'invitano a ‛ tenersi col corno '. (Il canto offre, oltre che un congruo numero di r. aspre e chiocce, proprio in chiusura la r. tronca ci sposò: si levò, vv. 143-145).

Nel canto che segue, dove D. appunto invoca, in evidente preterizione, la sua incapacità a versi aspri e chiocci, si coglie la consonanza intrecciata di -anzi, -ezzo, notevole dato che le parole con doppia z sono espressamente indicate nel De vulg. Eloq. come aspre; per di più nel v. 74 s'introduce gravezza (consonanza interna rilevata dal Wlassics, Interpretazioni, p. 38, in nota) sì che la terzina 70-72 presenta le r. cagnazzi: riprezzo: guazzi e la seguente suona E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo / al quale ogna gravezza si rauna, / e io tremava ne l'eterno rezzo (del resto le r. intrecciate su -ozza, -ezzo chiudono l'orgia di r. chiocce del c. VII). Subito prima, nel discorso di Camicion de' Pazzi, si ha la r. equivoca ombra: ombra, vv. 59-61, e la r. tronca Artù: più: fu, vv. 62-66; così che in questa parte dell'Antenora pare si concentrino quei tria che D. escludeva dalla poesia tragica: la nimia repercussio, che qui è repercussio di r. aspre e chiocce, la r. equivoca, e la r. con parole tronche: si noti che delle sei r. tronche che ricorrono nell'Inferno, tre sono fra i canti XXVIII e XXXII; si aggiunga la r. sdrucciola, XXVIII 80-84. Del resto, anche le altre r. sdrucciole sono di solito in contesti particolari, come scendere: rendere: prendere, XXIII 32 36, canto con r. quali -oppia, -effa, -etro, con rotture quali ai vv. 12-15, 21-23 (v. TERZINA), mentre nel canto seguente si coglie malagevole: fievole: disconvenevole, XXIV 62-66, in un pari momento di difficoltà del viaggio, il precipitarsi e il salire per la parete della bolgia, a causa del guasto ponte (si vedano le due r. sdrucciole del Paradiso, in canti assai prossimi, XXVI e XXVIII). E margini: argini, If XV 1-3, sono a costituire legame col canto precedente, li margini fan via, XIV 141, quasi una situazione da stanze ‛ capfinidas ' (v. STANZA; e, per i collegamenti dei canti dei violenti, v. Baldelli, Il canto XIII).

Una quasi r. aretina pare congiungere Giuda Scariotto a Bruto e a Cassio: è Giuda Scarïotto, / che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena. / De li altri due c'hanno il capo di sotto, / quel che pende dal nero ceffo è Bruto: / vedi come si storce, e non fa motto!; / e l'altro è Cassio, che par sì membruto, XXXIV 62-66.

Abbastanza notevole una lunga parte della spiegazione data da Stazio sulla generazione umana, che presenta almeno due assonanze, congiunte con parziale consonanza, rilevate dal Wlassics, Interpretazioni, p. 44. Anzi, fra i vv. 53 e 63 appunto di Pg XXV si hanno prima -ente e -ende intrecciate, e poi a -ende s'intreccia -ante, cui segue -etto, intrecciato a -eto (differente: riva: sente: imprende: semente: distende: generante: intende: fante: punto: errante: disgiunto: intelletto: assunto: petto: feto: perfetto: lieto: spira: repleto).

Congiunti anche i versi d'inizio del c. III del Paradiso dalle r. in assonanza e parziale consonanza in -etto (petto: aspetto) e in -erto (scoverto: certo: erto), cui corrisponde per di più internamente al v. 4 corretto e al v. 8 stretto; e così congiunto da ben tre r. in assonanza, -iclo, -ido, -iglio (9 versi su 12), appare il lungo periodo di presentazione di Venere, distendentesi in 4 terzine, all'inizio del c. vin del Paradiso.

In Pd VI 97-102, con l'incrocio delle r., si ottiene di avvicinare anche fonosimbolicamente i falli, i mali, i gigli gialli (Omai puoi giudicar di quei cotali / ch'io accusai di sopra e di lor falli, / che son cagion di tutti vostri mali. / L'uno al pubblico segno i gigli gialli / oppone, e l'altro appropria quello a parte, / sì ch'è forte a veder qual più si falli), con in più la r. equivoca su falli. Così, nelle parole di Cacciaguida, Pd XVII 54-63, se la r. avvicina lo strale e il sale all'altrui scale, l'assonanza che vi s'intreccia li congiunge fonosimbolicamente al duro calle, alle spalle e a questa valle (del resto le due terzine si congiungono anche attraverso Tu lascerai... Tu proverai, cui nella terza ribatte tu cadrai, concludendosi la quarta con non tu).

Il vincolo sottile e artificiato dell'assonanza (-uia, -ulla) può ben essere un elemento di più che si aggiunge alle complesse metafore della domanda di D. a Folchetto, opportuna anticipazione allo ‛ stile ' del dire di Folchetto stesso: " Dio vede tutto, e tuo veder s'inluia ", / diss'io, " beato spirto, si che nulla / voglia di sé a te puot'esser fuia. / Dunque la voce tua, che il ciel trastulla / sempre col canto di quei fuochi pii / che di sei ali facen la coculla... ", IX 73-78. A proposito del quale ‛ stile ' di Folchetto, metteremo in evidenza, nel contesto del nostro discorso, ben tre r. equivoche: Sole: far suole, vv. 85-87; per palma: l'una e l'altra palma, vv. 121-123; di colui è pianta: è la 'nvidia tanto pianta, vv. 127-129 (del resto, già nell'inizio di questo canto una r. equivoca, eran fermi: certificato fermi, cui segue una r. derivativa compenso: penso, vv. 19-21).

In relazione alla nota allitterazione su consonanti sibilanti o costrittive labio-dentali a proposito di ‛ fuoco ', ‛ fiamma ', ‛ sibilo ', frequentemente il punto di partenza è la r., da cui poi l'allitterazione risale lungo i versi: basti pensare all'avvio del discorso della fiamma di Ulisse, If XXVI 89-93 (fosse) parlasse: (disse) sottrasse: (presso) nomasse; e al parallelo avvio delle parole di Guido da Montefeltro, If XXVII 59-63 e 121-129. L'aquila che discende come folgore e l'incendio che pare ardere lei e D. in Pg IX 28-36 sono segnati dalle r. intrecciate in -esse (discendesse: ardesse: rompesse) e in -orse (cosse: riscosse: fosse), mentre il v. 30, cioè quello fra : discendesse e : ardesse, suona e me rapisse suso infimo al foto. E si veda anche il riferimento al fuoco di If XVI 10-18, con r. in -ese.

Pare avere qualche rapporto con la melodia dell'incoronazione di Maria l'intreccio di r. tira: lira: s'inzaffira; Zaffiro: giro: disiro, Pd XXIII 98-105, e si noti la posizione consecutiva delle derivative zaffiro, s'inzaffira; e subito dopo ancora una r. derivativa, coronata fiamma: s'infiamma, vv. 119-123.

R. e parole interne stabiliscono un fine e complesso arabesco, stringendo sottilmente il canto delle anime: ‛ Te lucis ante ' sì devotamente / le uscìo di bocca e con sì dolci note, / che fece me a me uscir di mente; / e l'altre poi dolcemente e devote / seguitar lei, Pg VIII 13-17, per cui -mente congiunge i due avverbi, uno in r., devotamente, e uno interno al verso, dolcemente; e così è in r. l'aggettivo che risponde a devotamente, mentre l'aggettivo corrispondente di dolcemente si pone, come quest'ultimo, internamente al verso; il chiasmo dei significati (devota-, dolci dolce-, devote), s'incrocia con la disposizione allineata dei segnacasi e dei suffissi grammaticali (-mente, agg., mente, agg.).

Significa qualcosa nella rappresentazione della pigrizia di Belacqua la r. aspra -occhia, ginocchia: adocchia: serocchia, IV 107-111 (si ricordi che D. cerca di evitare un tal suffisso preferendo ‛ sorella ' a ' serocchia ' e ‛ rana ' a ‛ ranocchia ', Baldelli, D. e i poeti fiorentini), seguita dall'assonante -ostia (coscia: angoscia: poscia, vv. 113-117), con un'evidente ricerca del comico anche nella semantica corporea dei termini (ginocchia, ad-occhia, coscia; più oltre, alzò la testa); e si aggiungano pur su e tu sù nei consecutivi vv. 113 e 114 costituenti una specie di r. interna.

Così pare notevole, nelle parole di Omberto Aldobrandesco, che la r. -osta (conosco: Tosco: vosco, XI 56-60) abbia un riflesso interno nel v. 59 Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre, in tal modo legato appunto al gran Tosco (e del resto, sempre nel discorso di Omberto Aldobrandesco, la r. passo: sasso: basso appare produttiva di consonanze: troverete il passo / possibile a salir persona viva. / E s'io non fossi impedito dal sasso).

Giunge quasi alla parola-rima (una:) impruna: imbruna, mentre la vocale accentata di una tal r. risale lungo il secondo e il terzo verso: Maggiore aperta molte volte impruna / con una forcatella di sue spine / l'uom de la villa quando l'uva imbruna, Pg IV 19-21.

16.1. Se la nimia repercussio della r. aspra o rara più vistosamente ci colpisce, e specialmente quando si abbia r. rara e aspra insieme, la nimia repercussio della r. dolce (in sostanza, nel caso più ovvio, di r. di due vocali o di due vocali che comprendono una consonante che non sia z) è legame meno evidenziato, e forse spesso più irrilevante.

Si vedano, ad esempio, consecutive r. in -ene, -ente, -ende nel discorso di Virgilio di Pg XV 64-81 e così le r. in -ero ed -eo in Pg XVII 25-33, che legano l'apparizione di un crucifisso dispettoso e fero; del resto, la scena successiva del pianto di Lavinia appare tutta scandita da r. in -u (-ulla, -utto, -uso). Ma talora anche la nimia repercussio di r. dolci appare certamente e sottilmente significante, come nel caso delle r. intrecciate in -ace (pace: verace: tace) e in -ave (soave: Ave: chiave), proprio nel senso di accumulo di r. dolci, nell'Annunciazione di Pg X 34-42 (e si potrebbe giungere a dire che Ave risale e risuona lungo le terzine: verace, quivi, soave, sembiava, iv'era, volse, avea, favella). Forse, nello stesso canto, aggiungono qualcosa alla scena gloriosa di Traiano le tre r. intrecciate o consecutive in -or(ia) (istoria: gloria: vittoria), in -or(e) (valore: imperadore: dolore), in -or(o) (oro: costoro: accoro), vv. 71-84 (e al v. 75 si ha Gregorio).

Nient'altro che un legame in più sarà la simiglianza delle r. intrecciate nell'avvio delle parole di Cacciaguida (uno: digiuno: bruno; volume: lume: piume, Pd XV 47-54).

Congiunzione, sempre operata sul piano di assonanze intrecciate a consonanze parziali, forse significativa si ha anche nel contesto di certe similitudini, come in quella indiretta che avvia il c. XX del Paradiso, discende: s'accende: risplende; parvente: mente: tacente (citata in Wlassics, Interpretazioni, p. 46, in nota); in quella con cui s'inizia il VI del Purgatorio, dolente: gente: mente; prende: intende: difende; nella similitudine del montanaro, quella turba: si turba; ammuta: partita: s'attuta, XXVI 65-72; in quella dei pellegrini, mani: antelucani: lontani; grati: lati: levati; leva'mi: rami: farri; mortali: cotali: iguali, XXVII 107-120.

Forse irrilevanti -esse e -ese, If XIX 119-126; -ali -ani, Pg II 25-33; emo, -embo, -eno, VII 65-78; -uno, -uto, XV 56-63; -erse, -ersi, XVIII 134-144; -eno, -enno, XXII 20-27 (che forse aggiungono al ‛ senno ' di Stazio, vedi le parole seno: senno: pieno, Wlassics, Interpretazioni, p. 35); -etto, -erto, Pd III 1-6; -agia, -asa, Pg XIX 140-145; -enne, -ette, Pg XXIV 56-63 (forse a stringere il discorso di Bonagiunta).

E talvolta si può essere perfino d'accordo col D. teorizzatore della poesia tragica sull'inopportunità della nimia repercussio: si veda, ad esempio, in Pd V 119-126, -ii, disii: pii: dii, intrecciato a -idi, con in più una r. composta, Dì, dì: annidi: ridi.

17. Le parole ‛ rima ', ‛ rimatore ', ‛ rimare ' sono usate da D. in maniera notevolmente diversa dalla Vita Nuova alle altre opere. Nel cap. XXV della Vita Nuova tali parole indicano la poesia in volgare, contrapposta a quella latina, anche se poi in sostanza si giunge a identificare la r. in volgare e la poesia in latino: dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione, XXV 4; questi dicitori per rima non siano altro che poeto volgari, § 7; degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante, § 8. Del resto, al tempo della Vita Nuova la ‛ rima ', come poesia in volgare, è ritenuta propria soltanto della materia amorosa; posizione rapidamente superata sia nel fatto, sia nella teoria (De vulg. Eloq. e Convivio), fino a che nella Commedia si pone in bocca a Virgilio l'espressione, alludente alla sua Eneide, ciò c'ha veduto pur con la mia rima, If XIII 48.

E nel Convivio il termine sarà acutamente discusso nei suoi due valori fondamentali: l'uno più propriamente tecnico, l'altro equivalente senz'altro di poesia: Per che sapere si conviene che ‛ rima ' si può doppiamente considerare, cioè largamente e strettamente: stretta-[mente], s'intende pur per quella concordanza che ne l'ultima e penultima sillaba far si suole; quando largamente, s'intende per tutto quel parlare che 'n numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade, IV II 12.

Col valore più tecnico, due volte in Convivio: a indicare come il volgare potrebbe raggiungere stabilitade (in quanto ciascuna cosa studia naturalmente a la sua conservazione), si afferma che più stabilitade non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime, I XIII 6; a distinguere dalla prosa la poesia, si definisce quest'ultima per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[tim]o e lo numero regolato, X 12.

Assai vicino al generico senso di poesia, ma anche forse con una traccia del valore più tecnico, l'espressione per rima che ricorre più volte nella Vita Nuova: dire parole per rima, Vn III 9 (e così in XII 7); feci per lei certe cosette per rima, V 4; scrivere per rima, XXIV 6.

Spesso è sinonimo senz'altro di ‛ poesia ' e al plurale di ‛ versi ' o di , ‛ liriche ', ed è talora adoperato con aggettivi che hanno un ben preciso riferimento tecnico. Dolci rime sono definite le liriche del tempo dello Stil nuovo (Rime LXXXV 1; Cv IV Le dolci rime 1, ripreso in I 9 e II 3), le quali, proprio in confronto con la poesia dei rimatori precedenti, sono indicate come le nove rime in Pg XXIV 50 (e nella stessa cantica il generico rime d'amor, XXVI 99, dei poeti in volgare); e D. allude alla poesia d'amore della giovinezza in un sonetto responsorio a Cino, affermando appunto di essersene allontanato, in questo modo: Io mi credea del tutto esser partito / da queste nostre rime, messer Cino, / ché si conviene omai altro cammino / a la mia nave più lungi dal lito, Rime CXIV. Alle dolci rime succederanno le ‛ rime aspre e sottili '(con rima aspr'e sottile, Cv IV Le dolci rime 14; e però dice aspra quanto al suono de lo dittato, che a tanta materia non conviene essere leno; e dice sottile quanto a la sentenza de le parole, che sottilmente argomentando e disputando procedono, IV II 12; e rima più sottile, nello stesso senso, in Poscia ch'Amor, Rime LXXXIII 68) fino a giungere alle rime aspre e chiocce, If XXXII 1, della parte più bassa dell'Inferno.

Senza qualificazioni, indica " lirica " in ne la soprascritta rima, Vn XXI 1 e in non era degna rima di volgare alcuna palesemente po[e]tare, Cv II XII 8; al plurale, indica senz'altro " liriche ", " versi ", se le mie rime avran difetto, Cv III Amor che ne la mente 14 (e così in III II 1, IV 4, due volte); non spargo / rime, Pg XXIX 98; al singolare, col valore più generale di " poesia ", in e 'l peso che m'affonda / è tal che non potrebbe adeguar rima, Rime CIII 21.

In intra le foglie / che tenevan bordone a le sue rime, Pg XXVIII 18, pare si alluda metaforicamente al canto, alle note acute e varianti degli ‛ augelletti ', mentre le foglie ne costituiscono il sottofondo.

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