GIUSTIZIA, RIFORME DELLA

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

GIUSTIZIA, RIFORME DELLA.

Claudia Cesari
Guido Corso
Giorgio Costantino

– Processo penale. Le riforme più recenti e le chiavi di lettura delle novelle. Sicurezza pubblica, logiche emergenziali e protezione della vittima. Efficienza, deflazione, decarcerizzazione. L’affinamento delle tutele a beneficio dell’imputato. Bibliografia. Processo amministrativo. La giurisdizione amministrativa. La competenza per territorio. Le azioni ammissibili. Tutela cautelare. L’istruttoria. Contratti pubblici. Un bilancio. Bibliografia. Processo civile. Premessa: le riforme 1990-2004. Le riforme 2005-2007. Le riforme 2008-2013. Le riforme 2014-2015. Altre iniziative 2014-2015. Bibliografia

Processo penale di Claudia Cesari. – Le riforme più recenti e le chiavi di lettura delle novelle. – Il sistema del processo penale in Italia è stato teatro, negli ultimi anni, di numerosi interventi legislativi, all’insegna dei più vari scopi. Solo a voler considerare il periodo dal 2008 in poi, si sono susseguiti circa 30 provvedimenti legislativi, che hanno toccato quasi tutti i libri del codice di procedura penale e hanno modificato non poco la fisionomia complessiva del sistema. Appare anche arduo individuare delle chiavi di lettura idonee ad accomunarne gli obiettivi strategici in un quadro armonico, dal momento che molti di essi rispondono a urgenze momentanee, autentiche o pretese, alle quali di volta in volta il legislatore di turno ha cercato di ovviare, non di rado in maniera frettolosa e con esiti che mancano talora, per forza di cose, di coerenza, completezza e solidità di impianto. In ogni caso, a voler sintetizzare gli andamenti di questo travagliato periodo e considerando solo gli interventi di maggior rilievo ed estensione, si possono individuare alcuni obiettivi strategici che il legislatore ha perseguito.

Un segmento delle riforme è mirato alla protezione della sicurezza pubblica, ossia all’incremento dell’efficienza del processo intesa come capacità dell’ingranaggio processuale di perseguire i reati e assicurare la punizione dei responsabili in tempi rapidi e con modalità efficaci. A questa stessa logica si può collegare un altro profilo, ossia lo sforzo di assicurare in misura più marcata la protezione delle vittime di reato, soprattutto se vittime fragili (si pensi ai minorenni) o persone offese di determinate categorie di illeciti, considerate di elevato allarme sociale e quindi bisognose di attenzione particolare a opera del legislatore penalistico (come lo stalking e i reati contro le donne in generale).

A questo si è aggiunta la preoccupazione crescente per alcuni guasti endemici del sistema penale, che esigevano da tempo interventi strutturali. È il caso dei tempi del processo, da un lato, e del sovraffollamento carcerario, dall’altro. Sotto il primo aspetto, il legislatore ha avvertito l’esigenza di potenziare l’efficienza del sistema processuale penale intesa come capacità deflattiva, ossia di accrescerne l’attitudine a smaltire i procedimenti pendenti con la maggiore rapidità e il minor impiego di risorse possibili. Sotto il secondo, si è voluto metter mano, oltre che al sistema penitenziario, a quello delle misure cautelari, per ridurre il ricorso alla custodia carceraria come strumento provvisorio di limitazione di libertà personale e decrementare la popolazione detenuta, oramai in condizioni di vita intollerabili.

Allo stesso tempo, è maturata la consapevolezza che alcuni settori del sistema processuale registravano un certo tasso di obsolescenza, dal punto di vista delle garanzie dell’imputato, che in alcuni ambiti esigevano un aggiornamento e l’adeguamento agli standard internazionali. Di qui, alcune novelle molto recenti, che non solo sono intervenute su profili di grande portata pratica nella società contemporanea (si pensi al diritto all’interprete), ma hanno spazzato via dal sistema anche istituti di consolidata tradizione, come la contumacia.

Va detto che le rammentate chiavi di lettura sono talora intrecciate nel sostrato dei vari interventi normativi e coesistono nel paniere degli obiettivi cui mirano. Inoltre, sullo sfondo di molte di esse si staglia l’impatto delle fonti europee e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che è stato sovente decisivo per spingere il legislatore a riformare interi settori del sistema.

Sicurezza pubblica, logiche emergenziali e protezione della vittima. – A partire dal 2008, il legislatore si è preoccupato di inviare un messaggio di efficienza punitiva, prima, e di capacità di protezione dei soggetti deboli, poi, mediante una serie di interventi di riforma che hanno inciso su numerosi settori del sistema processualpenalistico, con un’attività legislativa che ha proceduto spesso per sedimentazione e che non brilla quindi per nitore. A voler compendiare in un unico insieme questi provvedimenti, si possono elencare il d.l. 23 maggio 2008 nr. 92, convertito dalla l. 24 luglio 2008 nr. 125, il d.l. 23 febbr. 2009 nr. 11, convertito dalla l. 23 apr. 2009 nr. 38, la l. 15 luglio 2009 nr. 94, il d.l. 14 ag. 2013 nr. 93, convertito dalla l. 15 ott. 2013 nr. 119 (per i quali, non a caso, sono state normalmente impiegate le definizioni di pacchetto sicurezza o decreto sicurezza), la l. 1° ott. 2012 nr. 172, il d. legisl. 4 mar zo 2014 nr. 24. Si tratta, peraltro, di provvedimenti dalla trama complessa, che hanno agito su più livelli.

Per un verso, ci si è preoccupati di garantire al sistema maggior efficienza punitiva e una certa visibilità dell’intervento processuale, potenziando i riti speciali che comportano l’elisione dell’udienza preliminare e l’attivazione immediata del dibattimento, su impulso del pubblico ministero. Così, l’iniziativa del pubblico ministero per innescare il giudizio direttissimo, nei casi di arresto in flagranza e di confessione dell’indagato, e quella per chiedere il giudizio immediato nei casi di evidenza della prova della colpevolezza, sono state trasformate da facoltative in obbligatorie (artt. 449 e 453 c.p.p.), allo scopo di sottrarre ai magistrati d’accusa la gestione discrezionale di tali forme di azione penale, obbligandoli a procedere nei tempi più rapidi che tali riti consentono. Il giudizio immediato, poi, è stato arricchito di un complicato giudizio immediato cd. custodiale, ossia un rito che impone al pubblico ministero di portare al dibattimento in via diretta (senza udienza preliminare) chi sia stato sottoposto a misura cautelare, entro 180 giorni dall’applicazione della misura medesima (art. 453, 1° co. bis, c.p.p.).

Per altro verso – e soprattutto negli interventi più recenti – il focus legislativo si è spostato su una logica di protezione delle vittime, specialmente se soggetti deboli per definizione (donne, minori) e in relazione a categorie di reato considerate più allarmanti (la violenza di genere, la pedofilia), rispetto alle quali si doveva anche prestare ossequio a obblighi sovranazionali di adeguamento delle norme interne. È in questa prospettiva che si collocano le innovazioni in tema di libertà personale, per es., là dove hanno inserito nel ventaglio delle misure cautelari la nuova fattispecie del «divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa» (art. 282 ter c.p.p.), che, in aggiunta al preesistente «allontanamento dalla casa familiare» (art. 282 bis c.p.p.), viene a comporre un microsistema di protezione delle vittime di violenze intrafamiliari e atti persecutori, tale da consentire l’imposizione all’imputato di tenersi a distanza dalla vittima e persino dai suoi prossimi congiunti o conviventi, se necessario. In esso si inserisce anche la misura dell’«allontanamento d’urgenza dalla casa familiare» (art. 384 bis c.p.p.), che consente alla polizia giudiziaria, nei casi di arresto in flagranza di alcuni delitti specificamente indicati e quando vi sia pericolo per la vita o l’integrità fisica della vittima, di allontanare immediatamente l’arrestato dall’abitazione familiare, previa autorizzazione del pubblico ministero.

Lo sforzo di protezione della persona offesa ha implicato anche il suo maggiore coinvolgimento nelle dinamiche del rito, per es. tramite obblighi di informativa ad hoc, che la mettano al corrente di vicende del procedimento che possano avere ripercussioni dirette sulla sua sicurezza o sulle sorti del rito, come nel caso di revoca delle misure cautelari disposte a carico dell’indagato o di richiesta di archiviazione, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona (artt. 299, 2° co. bis, e 408, 3° co. bis, c.p.p.), ovvero nel caso di avviso di conclusione delle indagini nei procedimenti per reati di maltrattamenti contro familiari e atti persecutori. Ci si è anche premurati di tutelare i soggetti vulnerabili dai guasti che lo stesso meccanismo processuale potrebbe produrre, innescando perverse dinamiche di cd. vittimizzazione secondaria. Emblematica, da tale punto di vista, l’introduzione della partecipazione obbligatoria di un esperto (psicologo o psichiatra infantile) alle sommarie informazioni, raccolte in corso di indagine, a opera della polizia, del pubblico ministero e del difensore, da persone minorenni nei procedimenti per reati di abuso o a sfondo sessuale (artt. 351, 1° co. ter, 362, 1° co. bis, 391 bis, 5° co. bis, c.p.p.). Rientra in questa prospettiva, infine, il progressivo ampliamento delle norme di tutela del testimone ‘fragile’, che prevedono che possa essere sentito anticipatamente in incidente probatorio (a evitare lo stress del dibattimento pubblico; artt. 392, 1° co. bis, e 398, 5° co. bis e 5° ter, c.p.p.) e successivamente, in giudizio, possa essere esaminato in forma protetta, anche facendo uso di un vetro specchio con impianto citofonico, a evitare il contatto visivo con l’imputato (art. 498 c.p.p.). Si tratta di previsioni che oggi riguardano una serie di reati più ampia (che include maltrattamenti in famiglia e stalking) e si applicano non più solo a minorenni, ma anche a maggiorenni infermi di mente vittime di reato e persino a persone offese maggiorenni in condizioni di particolare vulnerabilità.

Efficienza, deflazione, decarcerizzazione. – Il legislatore ha provveduto di recente con determinazione all’arricchimento dello strumentario per assicurare un recupero di efficienza del sistema processuale, innanzitutto dal punto di vista della durata media dei procedimenti penali. La durata eccessiva delle vicende processuali in Italia è problema endemico ed esige interventi incisivi di potenziamento delle strategie di deflazione, intese come riduzione dei dibattimenti o addirittura dei processi penali, ossia delle fasi che ‘bruciano’ più risorse all’interno del sistema, in termini sia di tempo sia di capitale umano e finanziario.

È in questa logica che rientra, innanzitutto, la l. 28 apr. 2014 nr. 67, che ha introdotto nel c.p.p. gli artt. 464 bis-464 novies, dedicati alla «sospensione del procedimento con messa alla prova», primo caso di probation processuale dell’ordinamento italiano. L’istituto – ispirato a esperienze consolidate in altri Paesi, ma sperimentate nel nostro solo sul terreno della giustizia minorile – si fonda su una sorta di ‘scambio’ tra il reo e l’ordinamento: il primo può svolgere un programma riabilitativo sotto la supervisione dei servizi sociali, e il secondo, in caso di valutazione positiva di questo percorso, lo ripaga chiudendo il processo e astenendosi dall’applicare una sanzione. L’imputato, così, beneficia della rapida chiusura della vicenda giudiziaria con esito favorevole; lo Stato e la collettività ottengono che egli non contesti l’addebito, rinunci al processo (con il conseguente risparmio di spese e tempo) e al contempo ripari le conseguenze del reato con una serie di prestazioni significative sul piano della soddisfazione della vittima e della prevenzione di ulteriori illeciti. Il meccanismo che consente questa operazione ha uno schema di base abbastanza semplice: prevede che, in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, il procedimento venga sospeso per un periodo determinato e l’imputato sia affidato ai servizi sociali per lo svolgimento di un progetto di prova, consistente in una serie di attività di varia natura seguite dalle agenzie del welfare; alla scadenza, l’autorità giudiziaria ne verifica gli esiti, che implicano la chiusura in termini favorevoli per l’imputato in caso di successo o, nel caso opposto, la ripresa del processo penale fino al suo sbocco naturale.

La dinamica varata dalla novella del 2014 riproduce questo impianto. L’imputato può chiedere al giudice procedente la sospensione del processo con messa alla prova in uno stadio non avanzato del procedimento (fino alla chiusura dell’udienza preliminare o, nei riti in cui essa manca, fino all’apertura del dibattimento), purché si proceda per un reato non grave (punibile con non più di quattro anni di reclusione al massimo) e l’imputato non abbia una qualifica soggettiva che ne attesti la particolare pericolosità (come delinquente abituale o professionale). A tale scopo, deve prima rivolgersi ai servizi sociali per concordare un programma di prova contenente impegni e prescrizioni di natura riabilitativa e responsabilizzante, a partire dallo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità (obbligatorio per chi voglia sottoporsi a questa misura), sino al risarcimento del danno, ad attività di volontariato o alla mediazione con la persona offesa. Se il giudice reputa idoneo il programma e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati, sospende il processo per non più di uno o due anni, a seconda della gravità del reato. Alla scadenza, se riterrà che il comportamento dell’imputato consenta una valutazione positiva, lo proscioglierà dichiarando il reato estinto. In caso contrario, il processo riprende dallo stesso punto in cui era rimasto sospeso e prosegue il suo corso.

La funzione deflattiva è anche alla base dell’introduzione nel sistema della non punibilità per particolare tenuità del fatto, varata dal d. legisl. 16 marzo 2015 nr. 28 e anche questa ripresa dall’esperienza della giustizia minorile. La disciplina di nuovo conio permette di disporre l’archiviazione, o, successivamente, di prosciogliere l’imputato anche prima della fase dibattimentale, con una rapida udienza in Camera di consiglio, quando il fatto commesso sia di lievissima entità materiale e costituisca per l’autore una condotta non abituale. L’istituto è applicabile per reati comunque non gravi (punibili con pena pecuniaria o con pena massima di non più di cinque anni di reclusione) e postula un’offesa che possa considerarsi tenue, per le modalità della condotta non allarmanti, perché il danno o il pericolo cagionati dal reato sono esigui e perché il responsabile non commette reati per abitudine di vita. Peraltro, in presenza di tali condizioni, la disciplina consente una selezione degli affari penali innovativa e dirompente: pur in presenza di un illecito penale accertato e della verifica della responsabilità dell’imputato o indagato per l’addebito, il procedimento viene chiuso e la pena non applicata, con un enorme risparmio di risorse per il sistema, che così può chiudere le bagatelle penali in via breve e concentrare tempo e risorse sui casi di maggiore portata.

Da questi istituti il legislatore si aspetta molto, innanzitutto in termini di economia processuale, giacché la messa alla prova riduce i carichi del sistema giudiziario dislocandoli sul diverso binario del trattamento risocializzante affidato ai servizi sociali, mentre la tenuità del fatto dovrebbe addirittura operare come filtro ‘in entrata’, evitando tout court che si celebrino processi per fatti di modesto rilievo concreto. Ma anche dal punto di vista culturale e ideale si tratta di discipline profondamente innovative, se si considera che sono portatrici di una diversa idea di reazione istituzionale agli illeciti. Esse evocano infatti l’esigenza di proporzionalità tra risposta giudiziaria e punitiva e fatto concreto, sicché la pena e lo stesso processo dovrebbero essere considerati strumenti da utilizzare con parsimonia, solo per fatti di una certa gravità. Inoltre, soprattutto con la messa alla prova trovano finalmente cittadinanza nel sistema soluzioni tipiche della restorative justice (giustizia riparativa), che nel rito penale valorizza il ruolo della vittima e secondo cui il sistema può e deve soddisfare non tanto l’esigenza di punizione dei reati, quanto quella di riparazione dell’offesa arrecata a chi li ha subiti.

Considerato, invece, che la messa alla prova e la non punibilità per particolare tenuità del fatto si applicano per reati bagatellari, per i quali l’applicazione di una sanzione detentiva sarebbe stata comunque improbabile, non sembra che possano avere grande impatto in termini di decarcerizzazione, ossia di riduzione del ricorso a misure detentive e decompressione del sistema penitenziario. Hanno puntato più direttamente a questo obiettivo altri provvedimenti di riforma in ambito processuale (oltre a quelli di cifra schiettamente penitenziaria), come il d.l. 26 giugno 2014 nr. 92, convertito dalla l. 11 ag. 2014 nr. 117, il d.l. 1° luglio 2013 nr. 78, convertito dalla l. 9 ag. 2013 nr. 94, e il d.l. 23 dic. 2013 nr. 146 convertito dalla l. 21 febbr. 2014 nr. 10, e, da ultima, la l. 16 apr. 2015 nr. 47. Con essi è stata apportata al codice di rito una serie di correttivi, accomunati dallo scopo di diminuire il ricorso a misure cautelari di natura detentiva, nella consapevolezza che una porzione significativa della popolazione carceraria in Italia è costituita da detenuti in attesa di giudizio. Di qui, in primis, la modifica dell’art. 280 c.p.p., con cui la soglia di gravità dei reati, per cui è consentito il ricorso alla custodia cautelare in carcere, è stata innalzata dalla reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni agli attuali cinque. Vanno lette nella medesima prospettiva le recentissime modifiche, tutte nel segno dell’irrigidimento dei parametri valutativi e del rigore decisorio, alla disciplina delle misure cautelari (l. 16 apr. 2015 nr. 47). I presupposti, innanzitutto, sono stati ridisegnati in senso restrittivo, giacché le esigenze cautelari che giustificano le misure sono ora tutte calibra te su rischi non soltanto concreti, ma anche «attuali». Inoltre, il vaglio delle condizioni applicative e il relativo impegno motivazionale sono stati resi più stringenti, con il divieto di desumere le esigenze cautelari dalla sola gravi tà del reato per cui si procede e l’obbligo per il giudice che applichi la misura di dar conto dell’«autonoma valutazione» dei presupposti che la giustificano. Anzi, il legislatore procede con decisione lungo la strada del rafforzamento della custodia cautelare come extrema ratio, anche indicando senza equivoci gli arresti domiciliari – magari con il supporto del braccialetto elettronico – come alternativa da preferirsi. È a questo scopo che, per es., si prevede che la custodia sia applicabile solo quando le altre misure risulti no inadeguate, anche se applicate cumulativamente. Ed è sempre con questo obiettivo che è stato rimaneggiato l’art. 275 bis c.p.p., dapprima prevedendo come regola, salvo che il giudice lo ritenga non necessario, il ricorso al braccialetto elettronico per l’imputato che venga posto agli arresti domiciliari (e vi consenta), in alternativa alla custodia in carcere, e poi imponendo al giudice che applichi invece la custodia di indicare specificamente perché reputa che gli arresti domiciliari con il controllo elettronico siano inidonei nel caso concreto.

All’area culturale del recupero di efficienza del processo possono, infine, essere ricondotte le novelle che hanno aggiornato il sistema, mettendolo al passo con l’evoluzione tecnico-scientifica nel settore degli strumenti di indagine e di prova e così adeguando l’ordinamento anche a una richiesta di modernizzazione imposta a livello europeo. Si pensi, per tutte, alla l. 30 giugno 2009 nr. 85, che ha introdotto nel sistema la disciplina del prelievo coattivo di campioni biologici su persone viventi (artt. 224 bis e 359 bis c.p.p.), destinata a regolare i prelievi di campioni sui quali effettuare le analisi del DNA, di sempre maggiore rilievo nella conduzione delle inchieste penali moderne. Analogamente, la l. 18 marzo 2008 nr. 48 ha messo mano tra l’altro alla disciplina dei sequestri (artt. 254-256 c.p.p.), che annovera ora regole specifiche sull’acquisizione e custodia di dati, informazioni e programmi informatici, oltre che una specifica ipotesi di «sequestro di dati informatici presso fornitori di servizi informatici, telematici e di telecomunicazioni».

L’affinamento delle tutele a beneficio dell’imputato. – Alcune iniziative di riforma di quest’ultimo periodo sono, infine, legate a una prospettiva diversa, quella del perfezionamento dei diritti processuali e dell’apparato garantistico a beneficio dell’imputato. Si tratta di interventi accomunati dall’obiettivo di alzare la soglia delle garanzie processuali del protagonista del processo penale, normalmente dando seguito a sollecitazioni di matrice europea. È questo il caso, per es., delle modifiche apportate dal d. legisl. 4 marzo 2014 nr. 32, che ha potenziato il diritto dell’imputato alloglotta all’assistenza di un interprete e alla traduzione degli atti fondamentali del processo. Tra l’altro, si è sancito che l’accertamento sulla conoscenza della lingua italiana spetta all’autorità giudiziaria (escludendo così presunzioni discutibili), che il diritto all’interprete va riferito anche alle comunicazioni con il difensore (e non più solo limitato ai rapporti con l’autorità) e che una serie di atti puntualmente indicati (tra cui le sentenze e le ordinanze applicative di misure cautelari) vanno obbligatoriamente tradotti per iscritto. Ed è sempre in quest’ottica che il d. legisl. 1° luglio 2014 nr. 101 ha rafforzato il diritto dell’imputato in vinculis alla difesa effettiva, con specifico riferimento al diritto di essere informato su facoltà, poteri e garanzie che l’ordinamento appresta a suo vantaggio: dunque, è ora previsto l’obbligo per la polizia, dopo l’arresto, il fermo o in fase di esecuzione delle misure cautelari custodiali, di fornire all’indagato comunicazione scritta dei suoi diritti processuali, in forma chiara e precisa, cosicché ne possa comprendere il senso e avvalersene efficacemente.

Ma a spiccare nel ventaglio di riforme di questo tipo è l’abrogazione dell’istituto della contumacia, dovuta alla l. 67/2014, che ha ridisegnato l’assetto degli artt. 420 bis-420 quinquies codice di procedura penale. Le norme, riferibili all’udienza preliminare, ma applicabili anche in dibattimento, costituiscono la risposta del legislatore ai risalenti problemi creati dalla disciplina della contumacia, esposta alle censure della Corte europea dei diritti dell’uomo per il suo tollerare, di fatto, che il processo potesse svolgersi non solo senza la partecipazione dell’imputato, ma con un imputato di cui si presumeva, a date condizioni, che sapesse del procedimento in corso nei suoi confronti e avesse scelto di non prendervi parte. In altri termini, l’ordinamento accettava di fatto il rischio che il processo si svolgesse interamente con un accusato ignaro della sua stessa esistenza e, nel caso fosse condannato in absentia, con rimedi a posteriori che apparivano insufficienti. Di qui, oggi, il superamento del processo contumaciale, a vantaggio di un meccanismo che, ex ante, privilegia la verifica della conoscenza effettiva del processo da parte dell’imputato e, ex post, assicura uno strumentario più efficace nel caso in cui ne sia rimasto incolpevolmente ignaro. In base alle nuove norme, quando non sia dimostrato concretamente che l’imputato è a conoscenza del procedimento in corso, o perché ha personalmente ricevuto l’avviso di udienza o perché vi siano fatti che ne implicano la consapevolezza della pendenza a suo carico (come l’arresto o la nomina di un difensore), il processo viene sospeso. In seguito, a cadenza annuale, il giudice dispone nuove ricerche per verificare se la notifica dell’avviso di udienza possa essere effettuata; ove tali ricerche abbiano esito positivo e comunque quando l’imputato nomini un difensore o sia provato altrimenti che è a conoscenza del procedimento pendente contro di lui, ovvero quando è possibile proscioglierlo immediatamente, il giudice revoca la sospensione e riavvia il rito. Se, poi, tale disciplina erroneamente non viene applicata, ovvero quando l’imputato provi di avere incolpevolmente ignorato il processo, gli viene riconosciuto il diritto effettivo a un nuovo giudizio, qualunque sia il grado del procedimento in cui è rilevato l’errore e persino dopo il passaggio in giudicato, in modo che il segmento cruciale del processo possa svolgersi con la partecipazione del suo protagonista, tornando a essere equo e idoneo a produrre un esito credibile.

Bibliografia: Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso, V. Grevi, M. Bargis, Padova 2000, 20147; Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di G. Conso, V. Grevi, G. Illuminati, Padova 2005, 20142; Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, a cura di O. Mazza, F. Viganò, Torino 2008; Il ‘pacchetto sicurezza’ 2009, a cura di O. Mazza, F. Viganò, Torino 2009; Le nuove norme sulla giustizia penale, a cura di C. Conti, A. Marandola, G. Varraso, Padova 2014.

Processo amministrativo di Guido Corso. – La novità più importante del decennio scorso, in tema di giustizia amministrativa, è rappresentata dal codice del processo amministrativo (c.p.a.), approvato dal d. legisl. 2 luglio 2010 nr. 104. Il nuovo testo sostituisce tutti gli atti normativi che avevano disciplinato sino allora la materia: dal testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato (r.d. 26 giugno 1924 nr. 1054) alla legge istitutiva dei tribunali amministrativi regionali (TAR, l. 6 dic. 1971 nr. 1034, cd. l. TAR), alla l. 21 luglio 2000 nr. 205 (che aveva attribuito ai TAR la competenza sulle questioni relative all’eventuale risarcimento del danno cagionato da lesione di interessi legittimi). L’impianto preesistente viene confermato con alcune importanti modifiche.

La giurisdizione amministrativa. – Il criterio di riparto della giurisdizione amministrativa rispetto alla giurisdizione ordinaria rimane inalterato. Il giudice amministrativo è chiamato a risolvere le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi (art. 7 c.p.a.). I casi di giurisdizione esclusiva sono per la prima volta indicati in un’unica disposizione (art. 138 c.p.a.) che contiene un elenco di ventisei materie (alcune delle quali sono suddivise in submaterie). Le controversie, come si legge nell’art. 7 c.p.a., riguardano comunque l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo (provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio del potere amministrativo). La formula è mutuata dalle sentenze 6 luglio 2004 nr. 204 e 11 maggio 2006 nr. 191 della Corte costituzionale che ha individuato nell’esercizio o nel mancato esercizio del potere amministrativo il presupposto indefettibile perché una materia possa essere sottratta alla giurisdizione del giudice ordinario ed essere assegnata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nei casi in cui si faccia questione anche di diritti soggettivi (art. 103 Cost.).

La Corte costituzionale ha escluso che laddove l’amministrazione agisca solo con comportamenti di fatto (e leda in questo modo diritti soggettivi) il contenzioso possa essere attribuito alla giurisdizione del giudice amministrativo: proprio perché qui non viene in rilievo un potere amministrativo. Diverso è il caso se il comportamento è riconducibile a un potere amministrativo (per es., l’occupazione di un immobile autorizzata da un decreto di occupazione d’urgenza).

Il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo può essere rilevato in primo grado anche d’ufficio dal giudice. Se tuttavia la sentenza si pronuncia nel merito e l’appellante non deduce uno specifico motivo contro il capo di sentenza che, anche implicitamente, ha statuito sulla giurisdizione, quest’ultima si consolida in capo al giudice amministrativo (art. 9 c.p.a.). È questa una novità rispetto alla disciplina preesistente, secondo la quale il Consiglio di Stato era tenuto a rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo (artt. 30, 1° co., c.p.a., e 28, ultimo co., l. TAR) anche quando il tribunale amministrativo si fosse ritenuto munito di giurisdizione e la parte soccombente non avesse impugnato questo capo di sentenza.La competenza per territorio. – L’incompetenza per territorio del TAR adito non era rilevabile d’ufficio nel sistema precedente. La parte che voleva farla valere era tenuta a sollevare regolamento di competenza che veniva deciso dal Consiglio di Stato (art. 31 l. TAR). In assenza di tale iniziativa la competenza si consolidava in capo al TAR territorialmente incompetente.

Oggi la competenza per territorio è inderogabile (anche in ordine alle misure cautelari: così l’art. 1, 1° co., d. legisl. 14 sett. 2014 nr. 160 che ha modificato l’art. 13, 4° co., c.p.a.). Il giudice deve quindi rilevare d’ufficio l’incompetenza per territorio, anche se nessuna delle parti la eccepisce.

Le azioni ammissibili. – Anche prima che il codice entrasse in vigore all’azione di annullamento era stata aggiunta l’azione di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi (art. 7, 3° co., l. TAR nel testo di cui all’art. 7, l. 21 luglio nr. 205).

Il codice disciplina una serie di azioni. Azione di annullamento (art. 29 c.p.a.), azione di condanna (art. 30 c.p.a.), azione avverso il silenzio (art. 31, 1°-3° co., c.p.a.), azione di adempimento (art. 34 c.p.a.), azione di nullità (art. 31, 4° co., c.p.a.).

Con l’azione di annullamento, che conserva la sua struttura classica risalente alla legge istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato, il ricorrente chiede al giudice che l’atto impugnato venga eliminato perché viziato da violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere.

L’azione di condanna ha due forme. Nei casi di giurisdizione esclusiva può essere esercitata a tutela di diritti soggettivi entro il termine di prescrizione di questi ultimi. Nell’ambito della giurisdizione (o competenza) generale di legittimità, la condanna dell’amministrazione può essere chiesta per il risarcimento del danno ingiusto derivante dal-l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria (art. 30, 2° co., c.p.a.). Questa seconda specie di azione può essere proposta autonomamente, entro 120 giorni dal giorno in cui il fatto si è verificato o dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo (art. 30, 3° co., c.p.a.). Può essere esercitata anche contestualmente all’azione di annullamento (del ricorrente che chiede non solo l’annullamento dell’atto impugnato, ma anche il risarcimento del danno che l’atto gli ha cagionato) ovvero nel corso del giudizio instaurato con un’azione di annullamento o anche al termine del giudizio che abbia avuto esito favorevole (sempreché la domanda di risarcimento sia proposta entro 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza: art. 30, 5° co., c.p.a.).

Anche se la parte non è tenuta a far precedere l’azione di annullamento all’azione di condanna o ad abbinare l’azione di condanna all’azione di annullamento, il risarcimento può essere escluso per i danni che la parte avrebbe potuto «evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti» (art. 30, 4° co., c.p.a.). Non può, per es., pretendere il risarcimento dei danni commisurato al valore della casa illegittimamente demolita dal comune se ha omesso di impugnare e chiedere la sospensione dell’ordine di demolizione. L’eventuale accoglimento della domanda cautelare avrebbe impedito il danno che il proprietario vorrebbe risarcito a demolizione avvenuta.

L’azione contro il silenzio è esperibile quando è scaduto infruttuosamente il termine per la conclusione del procedimento e sino a un anno dalla scadenza di questo termine (ma la domanda di provvedimento può essere riproposta con l’effetto di far decorrere un nuovo termine per la conclusione del procedimento, scaduto il quale l’azione in precedenza omessa può essere esercitata: art. 31, 1°-2° co., c.p.a.).

La parte chiede l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere (un’azione di accertamento, non quindi un’azione di condanna ad adempiere). Il giudice può andare oltre questa enunciazione e pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa solo se si tratta di attività vin-colata o quando non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione (art. 31, 3° co., c.p.a.).

Il TAR può stabilire, cioè, che il ricorrente ha titolo a ottenere il provvedimento richiesto (e con il contenuto richiesto) solo se il potere è vincolato ab origine o lo è diventato successivamente quando il procedimento sia pervenuto a un punto tale che non restano all’amministrazione altre scelte all’infuori dell’accoglimento della domanda (di solito per le risultanze dell’istruttoria che condizionano l’esito del procedimento: art. 3, l. 7 ag. 1990 nr. 241). Entro questi limiti è ammessa anche l’azione di adempimento, volta al rilascio del provvedimento richiesto: ammessa sia nel caso che venga esercitata l’azione contro il silenzio sia che venga impugnato il diniego di provvedimento (e comunque contestualmente a una di queste due azioni).

Anche l’azione di nullità è un’azione di accertamento e può essere proposta entro 180 giorni dalla notifica, comunicazione e presa conoscenza dell’atto. Le nullità sono quelle previste dall’art. 21 septies l. 241/1990 (carenza degli elementi essenziali, difetto assoluto di attribuzione) o violazione o elusione del giudicato. Presupposto perché l’azione possa essere esercitata è che il giudice amministrativo sia munito di giurisdizione. Esulano perciò da questo ambito gli atti nulli che si imbattono in diritti soggettivi. Poiché, per definizione, essi non riescono a degradare i diritti sui quali pretendono di incidere, la giurisdizione in questi casi spetta al giudice ordinario.

Un regime a sé hanno gli atti nulli per violazione o elusione del giudicato. Essi sono attribuiti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e non opera nei loro riguardi il termine di decadenza di 180 giorni (ma il termine di prescrizione decennale dal passaggio in giudicato della sentenza, art. 114, 1° co., c.p.a.).

La nullità dell’atto può essere sempre eccepita dalla parte resistente o rilevata d’ufficio dal giudice (art. 31, 4°co., c.p.a.). È possibile che il ricorrente faccia valere come titolo della sua pretesa un atto amministrativo di cui l’amministrazione resistente eccepisca la nullità.

Tutela cautelare. – Rispetto alla scarna disciplina stabilito dalla l. TAR, che prevedeva come sola misura cautelare la sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, il c.p.a.., riprendendo la formulazione della l. 205/2000, consente al giudice di adottare le misure che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione del ricorso (art. 55, 1° co., c.p.a.): a impedire cioè che i tempi del processo giochino in danno del ricorrente che ha ragione.

Si tratta di misure atipiche la cui necessità si avverte soprattutto quando il provvedimento impugnato è un provvedimento negativo, che rigetta la domanda (di autorizzazione, di concessione ecc.) del privato. In questo caso non avrebbe molto senso la sospensione dell’esecuzione (ossia di un’attività amministrativa che per definizione manca) e ha un senso, invece, l’ordine rivolto all’amministrazione di riesaminare la domanda alla luce dei motivi di ricorso.

L’effettività della tutela cautelare è rafforzata dalla possibilità che l’ordinanza collegiale venga anticipata da una misura monocratica del solo presidente quando la gravità e l’urgenza sono tali da non consentire neppure la dilazione fino alla data della Camera di consiglio (art. 56 c.p.a.). In casi di eccezionale gravità e urgenza, incompatibile anche con i tempi per la notifica del ricorso, è ammessa una tutela cautelare ancor prima che il ricorso venga notificato (art. 61 c.p.a.). La tutela cautelare ante causam è stata introdotta in conformità a un principio enunciato dalla Corte di giustizia della Comunità europea in relazione a vertenze di rilievo comunitario (ordinanza sez. IV, 29 apr. 2004, causa C-202/03).

Entrambe le misure cautelari monocratiche sono destinate a essere assorbite, ed eventualmente sconfessate, dall’ordinanza collegiale. La misura cautelare ante causam deve essere seguita dalla notifica del ricorso entro un termine non superiore a 15 giorni. Se il termine non viene rispettato, il provvedimento presidenziale perde i suoi effetti.

Nella Camera di consiglio il collegio può accogliere o respingere la domanda, ma dispone anche di altre due possibilità. Se le esigenze del ricorrente possono essere soddisfatte con una sollecita definizione del giudizio di merito, il TAR fissa con ordinanza la data della discussione (art. 55, 10° co., c.p.a.), purché non occorrano atti istruttori, ma può anche, sentite le parti costituite, definire in Camera di consiglio il giudizio con sentenza in forma semplificata (art. 60 c.p.a.). Nel primo caso l’esigenza cautelare è soddisfatta con l’anticipazione del giudizio di merito, nel secondo i due giudizi (cautelare e di merito) vengono accorpati.

Contro la mancata esecuzione della misura cautelare (per es., la mancata adozione dei comportamenti materiali imposti dall’ordinanza del TAR, quali il rilascio dell’immobile occupato sulla base di un decreto di occupazione d’urgenza sospeso dal collegio) l’interessato può rivolgersi al TAR chiedendo le opportune misure attuative, che verranno adottate nell’esercizio degli stessi poteri di cui il giudice amministrativo dispone nel giudizio di ottemperanza (art. 59 c.p.a.).

L’istruttoria. – Tendenzialmente, gli artt. 63-69 c.p.a. estendono al processo amministrativo la disciplina del codice di procedura civile.

Tutti i mezzi di prova sono ammessi, compresa la prova testimoniale, con l’eccezione dell’interrogatorio formale e del giuramento. Le parti hanno un onere della prova (rectius, di fornire elementi di prova: art. 66 c.p.a.) limitatamente agli elementi che sono nella loro disponibilità.

Il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte delle parti nonché i fatti non specificamente contestati dalle parti costituite, ma anche le informazioni e i documenti che egli abbia acquisito d’ufficio e che sono nella disponibilità della pubblica amministrazione. Sempre d’ufficio può ordinare una verificazione (artt. 63, 2° co., e 66 c.p.a.) o, se indispensabile, disporre una consulenza tecnica (artt. 63, 4° co., e 67 c.p.a.). Può anche decidere, e questo avviene nella maggior parte dei casi, senza necessità di mezzi istruttori.

Contratti pubblici. – Il contenzioso in materia è sottoposto a regole speciali, riconducibili in buona parte alla direttiva comunitaria 2007/66/CE dell’11 sett. 2007. Il c.p.a. disciplina anche aspetti sostanziali della contrattazione pubblica: come il divieto di procedere alla stipula se non sono trascorsi 35 giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione definitiva agli altri concorrenti, in modo da consentire a questi ultimi di proporre ricorso prima che il contratto sia stato stipulato e che sia dato inizio alla prestazione contrattuale. Tutti i termini processuali sono dimezzati: ivi compreso il termine per ricorrere, che è stabilito in trenta giorni.

Il codice del processo amministrativo ha affrontato e risolto il controverso problema dei rapporti tra aggiudicazione (ossia l’individuazione della controparte) e stipulazione del contratto. Il giudice, se accoglie il ricorso, annulla l’aggiudicazione e dichiara l’inefficacia del contratto eventualmente stipulato, con possibilità di far salve le prestazioni eseguite; ovvero mantiene in vita il contratto, infliggendo all’amministrazione una sanzione pecuniaria (o una riduzione della durata del contratto). La scelta non è libera perché dipende da una serie di fattori: la gravità del vizio, la possibilità o meno che i residui obblighi possano essere rispettati dal ricorrente, la disponibilità di questo a subentrare nel contratto, il motivo dell’annullamento che può comportare la necessità di rinnovare la gara, il preminente interesse alla sollecita realizzazione dell’opera e così via.

La disciplina del contenzioso sui contratti pubblici è ispirata all’esigenza di contemperare la tutela della concorrenza con l’obiettivo di non intralciare eccessivamente la realizzazione dell’opera pubblica.

Un bilancio. – Anche se è entrato in vigore da pochi anni, il codice del processo amministrativo si presta a un bilancio perché in larga parte riassume il contributo della giurisprudenza e della dottrina, sfociato in precedenti, anche se parziali, atti normativi.

In generale va preso atto dell’arricchimento dei mezzi di tutela offerta al privato dal processo amministrativo, soprattutto con l’azione per il risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi; della sdrammatizzazione delle questioni di giurisdizione, grazie al progressivo ampliamento dei casi di giurisdizione esclusiva, che ha eliminato molte ragioni di incertezza nella scelta del giudice; dell’arricchimento della tutela cautelare.

Nonostante una parte della dottrina continui a invocare la soppressione del giudice amministrativo e il ritorno all’unico giudice ordinario (il che richiederebbe una modifica della Costituzione: artt. 103, 113 e 125) ovvero chieda di strutturare il processo amministrativo come il processo civile, è innegabile che il giudice amministrativo, a mezzo di un processo più elementare, si è dimostrato comparativamente più efficiente del giudice ordinario, pur sotto il profilo dei tempi più celeri della giustizia.

A onta degli attacchi dottrinali cui è periodicamente soggetto, l’interesse legittimo ha rappresentato storicamente uno strumento per l’estensione della tutela giurisdizionale del cittadino e non una causa di riduzione di questa tutela. Il processo amministrativo è la sede in cui l’interesse legittimo fa valere le sue ragioni sebbene la sua protezione sia affidata anche al procedimento amministrativo, che è l’anticamera del processo.

Bibliografia: A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino 1998, 201411; Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, Torino 2003, 20146; E. Follieri, Le azioni di annullamento e di adempimento nel codice del processo amministrativo, «Diritto e processo amministrativo», 2011, pp. 457; B. Sassani, Riflessioni sull’azione di nullità, «Diritto processuale amministrativo», 2011, pp. 269-283; Il processo amministrativo. Commentario al d. legisl.104/2010, a cura di A. Quaranta, V. Lo Pilato, Milano 2011; Codice del processo amministrativo (d. legisl. 2 luglio 2010, n. 104), a cura di R. Garofoli, G. Ferrari, 3 voll., Roma 2012; L. Perfetti, Il cumulo di azioni nel processo amministrativo, «Diritto processuale amministrativo», 2014, pp. 1261; M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio-inadempimento, «Diritto processuale amministrativo», 2014, pp. 709 segg.; Il nuovo diritto processuale amministrativo, a cura di G.P. Cirillo, Padova 2014.

Processo civile di Giorgio Costantino. – Premessa: le riforme 1990-2004. – La disciplina del processo affidata a norme generali e astratte contenute in disposizioni statuali è un fenomeno relativamente recente. Le regole processuali costituiscono il punto di arrivo dell’evoluzione successiva al superamento dell’ordo judiciarius. In diritto comune, la disciplina processuale era il frutto dell’elaborazione, stratificata nel tempo, da parte degli stessi giudici, delle prassi operative; era considerata una materia pratica, estranea alla formazione del giurista, la cui conoscenza era acquisita con la frequentazione delle corti. La cristallizzazione delle disposizioni regolatrici del processo riflette l’esigenza del potere dello Stato di controllare l’operato dei giudici.

La procedura è ancora considerata un aspetto eminentemente pratico. Sennonché la decisione si colloca comunque alla fine di un percorso predeterminato, il processo. Il mistero del giudizio, talvolta evocato nell’ambito delle discussioni generali sul ruolo e sulla funzione della tutela giurisdizionale, assume rilevanza soltanto quando si è disegnato il percorso che conduce, appunto, al giudizio e si sono individuati i criteri di valutazione. L’attenzione del legislatore è, quindi, prevalentemente orientata sulla disciplina processuale.

Un sistema complesso quale la giustizia civile richiede continui aggiustamenti. Gli interventi legislativi, invece, sono stati sovente dettati più dalla volontà di ostentare una generica attenzione ai problemi che dall’effettiva consapevolezza della natura e della portata delle misure correttive necessarie. È frequente la definizione di ‘legge manifesto’, cui spesso fa seguito la pericolosa tendenza alla fuga dal processo in luogo della difesa nel processo.

L’esame delle riforme della giustizia civile del decennio 2005-15 implica che si accenni almeno agli immediati precedenti.

La riforma del 1990 (l. 26 nov. 1990 nr. 353), frutto di un intenso ed esteso dibattito, ha vissuto in un lungo limbo ed è entrata in vigore, unitamente alla legge istitutiva del giudice di pace (l. 21 nov. 1991 nr. 374), il 21 apr. 1995, ma è stata contestualmente modificata da decreti legge reiterati nel corso della primavera, dell’estate e dell’autunno di quell’anno: d.l. 21 apr. 1995 nr. 121, d.l. 21 giugno 1995 nr. 238, d.l. 9 ag. 1995 nr. 347, e d.l. 18 ott. 1995 nr. 432, convertito dalla l. 20 dic. 1995 nr. 534.

A quella riforma della disciplina processuale ha fatto seguito la riforma dell’ordinamento giudiziario con la istituzione del giudice unico: la l. 16 luglio 1997 nr. 254, attuata con il d. legisl. 20 marzo 1998 nr. 51, e la l. 5 maggio 1999 nr. 155, attuata con il d. legisl. 3 dic. 1999 nr. 491. Con i primi provvedimenti sono state soppresse le preture. Il tribunale, infatti, era diventato, di regola, un organo monocratico; non avrebbe avuto, quindi, senso la compresenza di due uffici di primo grado con la medesima composizione; la collegialità innanzi al tribunale fu prevista quale deroga alla regola generale dagli artt. 48 r.d. 30 dic. 1941 nr. 12, e 50 bis c.p.c. nel testo nell’occasione novellato. I secondi hanno istituito i cd. tribunali metropolitani nelle città di Milano, Napoli, Palermo, Roma e Torino.

Per cancellare il «marchio d’infamia» determinato dalle condanne dell’Italia per la durata irragionevole dei processi innanzi alla Corte di Strasburgo, venne emanata la l. 24 marzo 2001 nr. 89. Ma il rimedio interno per il risarcimento dei danni conseguenti alla durata irragionevole del processo in violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) si è rivelato una soluzione peggiore del male. L’art. 55, 1° co., lett. c-f), d.l. 22 giugno 2012 nr. 83, convertito dalla l. 7 ag. 2012 nr. 134, ne ha modificato il contenuto.

Il processo commerciale o societario era stato introdotto dal d. legisl. 17 genn. 2003 nr. 5, e fu presentato come uno strumento risolutivo dei conflitti economici, come una anticipazione «di una riforma organica di tutto il processo civile» e come «una sperimentazione generalizzabile in un futuro prossimo» (così il Comunicato nr. 88 del Consiglio dei ministri del 10 genn. 2003). È stato abrogato dalla l. 18 giugno 2009 nr. 69.

Le riforme 2005-2007. – Tra il 2005 e il 2006 le riforme si sono fatte ancora più intense. Nel d.l. 14 marzo 2005 nr. 35, convertito dalla l. 14 maggio 2005 nr. 80, sono state inserite tutte le proposte in materia di giustizia esaminate nel corso della legislatura, che si avviava alla conclusione. Per correggere, integrare, modificare, ampliare quell’intervento legislativo, fino alla fine della legislatura, nell’aprile del 2006, si sono susseguiti freneticamente numerosi altri provvedimenti legislativi: la l. 28 dic. 2005 nr. 263, il d.l. 30 dic. 2005 nr. 271, non convertito in legge, il d.l. 30 dic. 2005 nr. 273, convertito dalla l. 23 febbr. 2006 nr. 51, e la l. 28 febbr. 2006 nr. 52.

Con la l. 25 luglio 2005 nr. 150, all’esito di un vivace dibattito, è stata approvata la riforma dell’ordinamento giudiziario, poi attuata con diversi decreti legislativi. Questi sono stati, in parte, modificati dalla l. 24 ott. 2006 nr. 269, e dalla l. 30 luglio 2007 nr. 111.

Con il d. legisl. 2 febbr. 2006 nr. 40 sono stati riformati l’arbitrato e il procedimento innanzi alla Corte di cassazione: i quesiti di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c. furono previsti con lo scopo di «meglio finalizzare l’attività della Corte alla decisione delle questioni di diritto e di evitare che il ricorso si limiti ad una mera ripetizione degli argomenti soste nuti nelle precedenti fasi» (così la Relazione allo schema di d. legisl.). Sono stati soppressi dalla l. 18 giugno 2009 nr. 69.

Analoghe ragioni efficientiste sono state invocate per l’estensione del rito del lavoro alla infortunistica stradale; l’art. 180 c.p.c. era stato introdotto, nel 1995, contro la riforma attuata con la l. 26 nov. 1990 nr. 353, ed è stato eliminato a far tempo dal 1° marzo 2006.

Le riforme 2008-2013. – Nel gennaio 2007 è stato avviato un altro processo riformatore, conclusosi nella successiva legislatura e con un diverso governo, con la l. 18 giugno 2009 nr. 69, presentata come un provvedimento risolutivo. Essa conteneva anche importanti deleghe: grazie a esse, con il d. legisl. 2 luglio 2010 nr. 104, è stato emanato il codice del processo amministrativo; il d. legisl. 1° sett. 2011 nr. 150 contiene la «riduzione e la semplificazione dei procedimenti civili di cognizione». È stato anche emanato il d. legisl. 4 marzo 2010 nr. 28, che ha previsto la mediazione obbligatoria; questa previsione è stata, però, dichiarata costituzionalmente illegittima per eccesso di delega da Corte costituzionale 6 dic. 2012, nr. 272; è stata reintrodotta, con significative modifiche, dal d.l. 21 giugno 2013nr. 69, convertito dalla l. 9 ag. 2013 nr. 98. È stata estesa e ancora riformata dal d.l. 12 sett. 2014 nr. 132 convertito dalla l. 10 nov. 2014 nr. 162.

Con specifico riferimento alle controversie di lavoro, è stata emanata la l. 4 nov. 2010 nr. 183, con l’obiettivo di limitare i poteri del giudice e diffondere l’arbitrato. Sulla stessa linea è l’art. 8 d.l. 13 ag. 2011 nr. 138, convertito dalla l. 14 sett. 2011 nr. 148. La l. 28 giugno 2012 nr. 92 ha previsto un nuovo autonomo procedimento in materia di licenziamenti individuali, ma l’art. 11 d. legisl. 4 marzo 2015 nr. 23 ne esclude espressamente l’applicabilità ai licenziamenti intimati ad alcune categorie di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015.

La tutela collettiva risarcitoria è disciplinata dall’art. 140 bis del codice del consumo (v. consumatore, tutela del: Azione di classe), nel testo modificato dall’art. 49, 1° co., l. 23 luglio 2009 nr. 99; è in vigore dal 1° genn. 2010, e si applica «agli illeciti compiuti successivamente alla data di entrata in vigore». Sono state esercitate circa cinquanta azioni collettive risarcitorie e si sono per lo più concluse con pronunce di inammissibilità. L’art. 6 d.l. 24 genn. 2012 nr. 1, convertito dalla l. 24 marzo 2012 nr. 27, ha modificato l’art. 140 bis del codice del consumo di cui al d. legisl. 6 sett. 2005 nr. 206. In luogo della singolare previsione per la quale i diritti al risarcimento dei danni devono essere «identici», si è stabilito che devono essere «omogenei». Oggi, la tutela collettiva risarcitoria segue altre strade.

La riforma delle procedure concorsuali (v. fallimento e procedure concorsuali) è stata realizzata con il d.l. 14 marzo 2005 nr. 35, convertito dalla l. 14 maggio 2005 nr. 80, seguito dal d. legisl. 9 genn. 2006 nr. 5. Sono sopravvenuti il d.l. 30 dic. 2005 nr. 273, convertito dalla l. 23 febbr. 2006 nr. 51, e il decreto cd. correttivo: il d. legisl. 12 sett. 2007 nr. 169. Poi si sono succeduti il d.l. 29 nov. 2008 nr. 185, convertito dalla l. 28 genn. 2009 nr. 2, il d.l. 31 maggio 2010 nr. 78, convertito dalla l. 30 luglio 2010 nr. 122, il d.l. 22 giugno 2012 nr. 83, convertito dalla l. 7 ag. 2012 nr. 134, che ha introdotto il concordato con riserva. Hanno fatto seguito il d.l. 18 ott. 2012 nr. 179, convertito dalla l. 17 dic. 2012 nr. 221, il d.l. 21 giugno 2013 nr. 69, convertito dalla l. 9 ag. 2013 nr. 98, e il d.l. 23 dic. 2013 nr. 145, convertito dalla l. 21 febbr. 2014 nr. 4.

Pochi mesi dopo la sua introduzione, la disciplina della crisi da sovraindebitamento (v. fallimento e procedure concorsuali: Sovraindebitamento) è stata profondamente e radicalmente modificata: la l. 27 genn. 2012 nr. 3, infatti, era in concorrenza con il d.l. 22 dic. 2011 nr. 212, convertito dalla l. 17 febbr. 2012 nr. 10. L’art. 18 d.l. 18 ott. 2012 nr. 179, convertito dalla l. 17 dic. 2012 nr. 221, ha rinnovato la materia.

La frenesia legislativa in materia di giustizia civile si è rafforzata con l’aggravarsi della crisi economica.

Con il d.l. 24 genn. 2012 nr. 1, convertito dalla l. 24 marzo 2012 nr. 27, sono state istituite le «sezioni specializzate in materia di impresa». L’istituzione di questi uffici, operativi dal 20 sett. 2012, è stata disposta «senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato né incrementi di dotazioni organiche», indipendentemente da ogni valutazione sul tessuto economico e sui flussi di contenzioso, ma anche, banalmente, dal numero dei tribunali del distretto o della regione.

L’art. 1, 1°-5° co., d.l. 13 ag. 2011 nr. 138, convertito dalla l. 14 sett. 2011 nr. 148, ha avviato la revisione delle circoscrizioni giudiziarie: i d. legisl. 7 sett. 2012 nr. 155 e nr. 156 hanno soppresso 31 tribunali, 220 sezioni distaccate di tribunale e 667 uffici del giudice di pace.

Nell’introdurre nuove disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali, l’art. 3, l. 10 dic. 2012 nr. 219, ha modificato l’art. 38 disp. att. c.c., introducendo nuovi criteri di riparto della competenza tra il tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni; al fine di eliminare ogni discriminazione tra figli, anche adottivi, l’art. 2 della stessa legge ha delegato il governo ad adottare uno o più decreti legislativi. Il d. legisl. 28 dic. 2013 nr. 154 va ben oltre la delega e introduce ulteriori significative novità sostanziali e processuali.

L’art. 54, d.l. 22 giugno 2012 nr. 83, convertito dalla l. 7 ag. 2012 nr. 134, ha riformato la disciplina dell’appello.

Grazie all’art. 16 bis, d.l. 18 ott. 2012 nr. 179, convertito dalla l. 17 dic. 2012 nr. 221, il processo civile telematico è passato, dalla fase sperimentale e limitata ad alcuni uffici giudiziari, a diventare la regola generale. L’art. 44, d.l. 24 giugno 2014 nr. 90, convertito dalla l. 11 ag. 2014 nr. 114, ne ha differito l’immediata entrata in vigore – originariamente prevista per il 30 giugno 2014 – con riferimento ai procedimenti iniziati prima di tale data, fissando per essi il termine del 31 dic. 2014.

Altre, non secondarie, modifiche della disciplina processuale sono contenute nel d.l. 21 giugno 2013 nr. 69, convertito dalla l. 9 ag. 2013 nr. 98.

Le riforme 2014-2015. – Il 30 giugno 2014 il governo ha annunciato i dodici punti per la riforma della giustizia, di cui i primi tre relativi al processo civile: «1) Giustizia civile -Riduzione dei tempi. Un anno in primo grado; 2) Giustizia civile - Dimezzamento dell’arretrato; 3) Proposte di interventi in materia di processo civile per la famiglia e le imprese».

Sono stati, quindi, emanati il d.l. 24 giugno 2014 nr. 90, convertito dalla l. 11 ag. 1990 nr. 114, intitolato «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari»; il d.l. 12 sett. 2014 nr. 132, convertito dalla l. 10 nov. 2014 nr. 162, intitolato «Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile».

Disposizioni di rilevanza processuale sono contenute anche nella legge di stabilità per il 2015 (la l. 23 dic. 2014 nr. 190) nonché nel d.l. 31 dic. 2014 nr. 292, intitolato «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative».

Il disegno di legge delega sul terzo dei dodici punti di riforma annunciati è stato presentato alla Camera l’11 marzo 2015: disegno di l. nr. 2953/C/XVII. Le proposte riprendono, in parte, quelle elaborate dalla commissione nominata dal ministro Paola Severino e presieduta da Romano Vaccarella e consegnate il 1° dicembre 2013.

Contro l’eccessiva produzione legislativa si sono espressi, con appelli rimasti inascoltati, il Consiglio nazionale forense e l’Associazione italiana tra gli studiosi del processo civile.

La pendolarizzazione del quadro normativo rende imprevedibili gli esiti delle controversie.

Essa orienta la prevalente attenzione e le energie degli interpreti e degli operatori alla comprensione dei nuovi testi normativi e alla soluzione delle inevitabili questioni di coordinamento: l’esigenza di una continua e ripetuta analisi delle mutevoli regole che governano il processo civile italiano prevale sull’impegno per far funzionare la giustizia.

Il primo effetto delle continue riforme consiste in un rilancio dell’editoria giuridica e del turismo processuale.

Convivono disposizioni processuali del 1940-42, 1950, 1973, 1984, 1990, 1995, 1998, 2001, 2005, 2006, 2008, 2009, 2010, 2011, 2012, 2013, 2014. Lo stesso codice è l’insieme di tessere di un mosaico, le figure del quale l’interprete è chiamato a individuare. Una delle più impegnative, seppur fastidiose, attività, infatti, consiste nel tentare di risolvere le numerose questioni di coordinamento tra disposizioni ispirate a diverse rationes, nel tentativo di costruire un sistema, che non è un dato immanente.

Diversi sono stati i tentativi di porre mano a una riforma complessiva, riscrivendo interamente il codice di rito: il progetto Liebman (Incontro sulla riforma del processo civile. Il progetto Liebman sul processo di cognizione. Milano,20-21 maggio 1978, 1979), il progetto Tarzia («Giurisprudenza italiana», 1988, parte IV, pp. 257-70); il progetto Vaccarella, oggetto del disegno di l. C/XIV/4573; il progetto Proto Pisani («Il foro italiano», 2009, parte V, pp. 1-104); il progetto Vaccarella, consegnato al ministro Severino il 1° dic. 2013.

Questi progetti, tuttavia, hanno per oggetto soltanto la normativa codicistica. Nessuno di essi propone di inserire nel futuro codice, come si è fatto altrove, tutta la normativa sulla tutela giurisdizionale civile. In questa direzione era la Relazione presentata nella IX legislatura, alla Commissione giustizia del Senato, dal senatore Nicolò Lipari («Giustizia civile», 1985, II, pp. 530-70).

La frenesia legislativa rinforza le spinte verso le interpretazioni assolutamente creative, che prescindono dai testi normativi, spesso difficili da comprendere e da coordinare. Il che appesantisce il dibattito e ostacola il confronto, i quali implicano, invece, una comune base di riferimento.

Altre iniziative 2014-2015. – Sennonché, contestualmente al rinnovato impegno di riforma della disciplina processuale, il ministero della Giustizia ha avviato altre iniziative. Nell’ottobre 2014 è stato presentato il censimento degli affari civili e della produttività degli uffici giudiziari; il 17 novembre 2014 sono stati presentati gli indici di produttività degli uffici giudiziari. Il 14 gennaio 2015 è stato presentato il programma Strasburgo per lo smaltimento dell’arretrato. Queste iniziative segnano una nuova tendenza.

In molti uffici giudiziari, all’elaborazione di modelli concordati di case management hanno fatto seguito iniziati ve dirette a predeterminare le soluzioni applicative relative a specifiche questioni e a singoli aspetti. I protocolli d’udienza, le linee guida, gli accordi tra i dirigenti degli uffici e i consigli dell’ordine indicano le local rules, come avviene nei sistemi di common law, dove, per ogni ufficio giudiziario, possono essere consultate le prassi applicative.

Al cospetto della smania del legislatore, dell’evanescenza o dell’opacità della disciplina positiva, la risposta degli operatori che hanno a cuore i valori fondamentali dello stato di diritto è stata quella di incidere sulla circolazione delle informazioni in funzione della realizzazione di prassi comuni e condivise.

Le più recenti iniziative governative offrono una spinta e un sostegno in questa direzione.

Un ulteriore significativo contributo potrebbe essere offerto dalla attuazione del processo civile telematico. L’ambizione alla base del progetto al suo esordio, infatti, era quella di rendere ogni ufficio giudiziario una casa di vetro, assolutamente trasparente per gli operatori e per gli utenti.

Un nuovo ordo judiciarius, pur ostacolato dal continuo moto riformatore, attende di essere costruito.

Bibliografia: G. Costantino, Scritti sulla riforma della giustizia civile (1982 - 1995), Torino 1996; Le recenti riforme del processo civile, commentario diretto da S. Chiarloni, 2 voll., Bologna 2007; C. Mandrioli, A. Carratta, Come cambia il processo civile, Torino 2009; G. Costantino, Riflessioni sulla giustizia (in)civile, Torino 2011; C. Consolo, Un d.l. processuale in bianco e nerofumo sullo equivoco della “degiurisdizionalizzazione”, «Il Corriere giuridico», 2014, pp. 1173-83; Degiurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione dell’arretrato, a cura di D. Dalfino, Torino 2015; Il processo civile. Sistema e problematiche. Le riforme del quinquennio 2010-2014, a cura di C. Punzi, Torino 2015.

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