Ricerca archeologica. Lo scavo dei siti preistorici

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

Ricerca archeologica. Lo scavo dei siti preistorici

Giovanni Leonardi

Nel 1848 la Reale Accademia Danese delle Scienze affidò a una commissione, composta da J.A. Worsaae (archeologo), da J. Steenstrup (biologo) e da J. Forchhammer (geologo), lo studio dei kjøkkenmøddings (chiocciolai) già individuati da tempo lungo le coste scandinave, ma di cui non erano chiare l'origine e la funzione. L'indagine congiunta di questi tre studiosi di discipline diverse, col comune scopo di fornire una ricostruzione storica delle attività umane inserite nel proprio contesto paleoambientale, può essere considerata la più precoce ricerca multidisciplinare da cui ha avuto origine lo scavo scientifico moderno. È quel momento storico, a cavallo tra Illuminismo e Positivismo, che più di ogni altra epoca, dopo il Rinascimento, ha visto l'importanza dell'integrazione tra saperi diversi. Nello specifico, le premesse furono locali e internazionali: già dal 1819 Ch.J. Thomsen, ordinando i materiali archeologici danesi, aveva proposto la suddivisione dei manufatti nelle famose Tre Età (della Pietra, del Bronzo e del Ferro), sottolineando l'importanza della cronologia relativa quale base ineludibile per lo studio dell'evoluzione culturale dell'uomo (l'evoluzionismo di J.-B. Lamarck circolava già negli ambienti intellettuali più avanzati). Su un altro versante, indipendentemente dalla visione "catastrofista" di G. Cuvier o da quella "gradualista" di sir Charles Lyell, la geologia aveva già acquisito la legge della sovrapposizione degli strati, fornendo agli archeologi della "nuova scienza", la paletnologia, lo strumento materiale per ricavare dalla fisicità del terreno elementi di cronologia relativa. Worsaae attraverso lo scavo stratigrafico verificò empiricamente le ipotesi di evoluzione culturale di Thomsen, procedendo ulteriormente: lo scavo, analizzando la sequenza di contesti diversi, oltre alla raccolta di manufatti, deve fornire i dati per ricostruire le caratteristiche ambientali e le modalità di vita dell'uomo preistorico, compreso l'aspetto economico. In tale contesto gli ambienti francese e inglese erano più attenti ad un altro filone di ricerca: l'antichità dell'uomo. Nel 1837 J. Boucher de Perthes nei dintorni di Abbeville seguiva i lavori di canalizzazione della Somme, recuperando strumenti del Paleolitico in associazione con ossa di animali estinti. Attraverso i controlli stratigrafici dei depositi alluvionali e gli scavi in grotte e ripari in Francia e in Inghilterra, si intendeva dimostrare l'origine "antediluviana" dell'uomo, superando la concezione creazionista e la cronologia biblica ricavate dalla Genesi. È evidente il contrasto ideologico che sorse, date le chiare implicazioni di ordine religioso; questo in qualche modo "costrinse" la ricerca preistorica a concentrarsi, in termini sostanzialmente monotematici, sulla dimostrazione scientifica della grande antichità dell'uomo attraverso lo scavo stratigrafico. Le ricerche si susseguirono rapidamente: di poco successivi furono i rinvenimenti di resti dell'uomo fossile (cranio di Neandertal, mandibola di La Naulette, sepolture Cro-Magnon), sempre in associazione con i resti di animali estinti, e furono ancora la paleontologia e la geologia che supportarono la credibilità dei dati ricavati tramite lo scavo archeologico. Tanto è vero che sarà lo stesso Lyell, che può essere considerato il padre della geologia stratigrafica moderna, a "ratificare" definitivamente nel 1863, con la sua opera Geological Evidences of the Antiquity of Man, la veridicità scientifica delle proposte dei paletnologi. Questo però comportò, nell'ambito dell'archeologia preistorica, una preponderanza di sistematizzazione di taglio naturalistico, formalizzata soprattutto per il Paleolitico, principale obiettivo delle succitate ricerche, da E. Lartet prima (1863) e da L.-G. de Mortillet successivamente (1867), ambedue geologi prima che archeologi. Dall'aspetto paleontologico della geologia, oltre al concetto di stratigrafia, venne mutuato anche quello di "fossile-guida" per i manufatti sufficientemente ripetitivi (tipi), individuati quindi come buoni indicatori di facies tipiche per la formalizzazione di sequenze di cronologia relativa. Sull'altro versante, il metodo multidisciplinare, sperimentato così precocemente in Danimarca, influenzò invece direttamente l'archeologia svizzera quando, a seguito della siccità dell'inverno 1853-54, F. Keller scoprì e successivamente scavò l'insediamento palafitticolo di Obermeilen. Alle indagini nei depositi in grotta e sui terrazzamenti fluviali di Francia e Inghilterra si giustappongono, in queste ricerche pionieristiche, quelle dei depositi in torbiera, in ambiente umido. Dalla Svizzera l'insegnamento danese passò quindi ai preistorici italiani: da B. Gastaldi a P. Strobel e a L. Pigorini, che scrisse nel 1886: "A noi (...) giunsero di seconda mano gli ammaestramenti dei Danesi e degli Svedesi, perché prima che da ogni altra parte ci vennero dalla Svizzera. Ma il Keller, il Morlot, il Desor, il Rutimeyer, che molti di noi abbiamo avuti per maestri, non fecero che diffondere nell'Europa centrale la luce portata (...) dalle indagini del Thomsen, del Nilsson, dello Steenstrup e del Worsaae". In Italia, a parte le iniziali e sporadiche esperienze di L. Ceselli (1846) e di G. Scarabelli (1850), allo studio del Paleolitico con ricerche in grotta o su terrazzamenti fluviali si preferirono gli scavi di abitato e di necropoli tra Neolitico ed età dei metalli. La ricerca principe, quella che può essere considerata trainante, non solo sul piano dei risultati di ricostruzione storica, ma anche su quello metodologico, fu lo scavo stratigrafico delle terramare e delle palafitte dell'età del Bronzo. Le planimetrie, ma soprattutto le sezioni stratigrafiche particolarmente dettagliate e precise, pubblicate in particolare sul Bullettino di Paletnologia Italiana, sono lo specchio della scientificità dell'approccio, che dimostra come anche da parte degli studiosi di formazione umanistica, quali G. Chierici, L. Pigorini, A. Prosdocimi, fosse avvenuta una rapida assunzione delle nozioni naturalistiche e in particolare geologiche. Oltre all'ovvio studio dei manufatti, al quale spesso si aggiungevano però anche analisi chimiche, mineralogiche e metallografiche, si eseguiva direttamente o si richiedeva agli specialisti la determinazione dei semi e delle essenze arboree, nonostante all'epoca non venissero ancora studiati i pollini; era inoltre pressoché costante lo studio delle faune. Non si eseguiva cioè uno scavo solo alla ricerca di oggetti, ma di situazioni. Negli scritti di Strobel, Chierici e Pigorini, per citare solo alcuni dei principali protagonisti di questo momento entusiasmante della "nuova scienza", risaltano tra l'altro ripetute deduzioni e ipotesi ricostruttive, ricavate da valutazioni sedimentologiche e più ampiamente contestuali, in termini (ante litteram) di analisi dei processi formativi della stratificazione archeologica: la storia dell'uomo antico si ricostruisce attraverso la materialità delle tracce lasciate nella terra. Questa fase formativa, già scientificamente matura e autonoma, sostanzialmente si conclude tra fine Ottocento e inizi Novecento: le crisi economiche, da un lato, e le posizioni irrazionalistiche dell'Idealismo, dall'altro, bloccano tutti gli aspetti "positivi" della ricerca ottocentesca. Benché il problema sia di ben più ampia portata, per quanto concerne lo scavo preistorico un dato è emblematico: sparirono di fatto dalle riviste specializzate italiane planimetrie e sezioni stratigrafiche: lo scavo preistorico o non venne eseguito o ritornò a corrispondere ad una raccolta di oggetti interessanti; fu un periodo sicuramente di regresso, sia scientifico che tecnico. Usando un campione sufficientemente rappresentativo, P. Pétrequin ha riscontrato la stessa situazione negli scavi delle palafitte alpine, punto di partenza storico della ricerca degli abitati preistorici, annotando come tra il 1910 e il 1960 "l'ambito della ricerca si restringe al solo studio dei manufatti (periodo delle collezioni)", fatto che porta "verso la sola specializzazione tipologica e cronologica". Il fenomeno cioè non è solo italiano, ma internazionale. Tornando alla situazione italiana della prima metà del Novecento, si registrano solo rare eccezioni, come lo scavo della palafitta di Ledro nel Trentino, scavata nel 1937 da A. Nicolussi (assistente di scavo) e da R. Battaglia (antropologo), o, sul piano più generale, l'improvviso interesse per gli scavi in grotta attorno agli anni Trenta. Significativamente questo tipo di ricerche iniziò nella Liguria occidentale sotto lo stimolo degli studiosi francesi. Ripresero le indagini nelle cavità scoperte e in parte già scavate nell'Ottocento: D. Costantini, A. Mochi e L. Cardini scavarono nel 1928 i depositi della famosa Grotta dei Balzi Rossi, scavi che Cardini avrebbe ripreso dieci anni più tardi assieme a A.C. Blanc. In questo periodo è sempre presente Cardini, scienziato di grande valore ma di scarsa fortuna accademica, che può essere considerato non solo l'esecutore dei migliori scavi stratigrafici in grotta, ma anche il maestro di quanti operarono tra le due guerre e nel primo dopoguerra: fu ancora Cardini con Blanc che scavò i depositi paleolitici delle grotte del Circeo, tra cui la più nota è Grotta Guattari, e sarà con L. Bernabò Brea nel 1940 per la ripresa degli scavi nella Grotta delle Arene Candide nei pressi di Finale Ligure. Questo scavo, che sarà alla base degli studi del Neolitico dell'Italia settentrionale, è esemplare non solo per il rigore con cui è stata seguita la complessa stratificazione, ma anche per il tipo di documentazione e di campionamento dei sedimenti e degli ecofatti, che hanno permesso in epoca recente di "rivisitare" criticamente tutta la sequenza stratigrafica. La pubblicazione di L. Bernabò Brea nel 1946 può essere assunta, pur nella sua eccezionalità, quale emblema dell'esigenza di rinnovamento sentito in tutti i campi dalla società civile, e anche nella comunità scientifica preistorica, dopo il lungo periodo buio della dittatura e della guerra. Nel dopoguerra il riavvio è stato lento, ma progressivamente la ricerca nei siti preistorici ha acquisito una sorta di protocollo abbastanza standardizzato nelle modalità di scavo, nella documentazione e nella raccolta dei reperti mobili e dei campioni. Sostanzialmente sono state abbattute le differenziazioni nazionali, data la maggiore circolazione di idee: era ormai condiviso, ad esempio, lo scavo stratigrafico con l'uso del "testimone" quale segmento di controllo, riguardo all'interpretazione della sequenza diacronica relativa degli strati, metodo ampiamente utilizzato soprattutto per gli scavi dei tell da K.M. Kenyon e da M. Wheeler. Ma ben più rilevante è stata la ripresa in Gran Bretagna, a distanza di un secolo, di quello che si potrebbe definire lo scavo ecologico di tipo scandinavo: con potenzialità scientifiche ormai ben maggiori, J.G.D. Clark nello scavo del sito mesolitico in torbiera di Star Carr (1949-51), oltre alla raccolta attenta dei manufatti, ha posto l'interesse su tutti i materiali organici in grado di fornire informazioni sul clima, sulla cronologia, sul periodo di frequentazione del sito, sul tipo di dieta, potenziando a questo fine gli studi specialistici di laboratorio. In ambito francese l'interesse per la seriazione tipocronologica del Paleolitico, che comportava lo scavo in grotta per trincee limitate, viene superato dalla visione "etnografica" di A. Leroi-Gourhan: la globalità di approccio nello scavo dell'abitato maddaleniano di Pincevent corrisponde ad un altro esempio emblematico della nuova proposta scientifica. Di poco successivo nel tempo è il rinnovamento concettuale riguardo all'interpretazione del "record archeologico", derivante dalla New Archaeology. L'approccio di L.R. Binford e M.B. Schiffer, pur con esperienze diverse sia di partenza che di obiettivi di ricerca, rappresenta il frutto della fortunata commistione formativa, propria esclusivamente della scuola americana, tra archeologia, antropologia ed etnografia. Il nuovo indirizzo di ricerca proposto, l'etnoarcheologia, che può svilupparsi anche solo all'interno degli stessi Stati Uniti, dagli Eschimesi dell'Alaska agli Indiani d'America del Sud-Ovest, diventa un paradigma, quale strumento analogico e tentativamente normativo, nel controllo diretto di come può formarsi il "record archeologico", intendendo lo strato come esito della "registrazione" di eventi. Binford sviluppa le sue proposte metodologiche soprattutto riguardo ai gruppi umani a base economica di caccia e raccolta (comparabili nella sua ottica neoevoluzionistica con quelli del Paleolitico e del Mesolitico). Schiffer con la sua scuola approfondisce invece gli aspetti più "recenti", riferibili ai gruppi umani già stanziali (comparabili con quelli del Neolitico e dell'età dei metalli). A parte la diversità di approccio, viene posto l'accento sulla necessità di comprendere i processi formativi, antropici e naturali, che hanno generato le stratificazioni archeologiche e quelli che nel tempo li hanno trasformati, proponendo il nuovo concetto di "processi postdeposizionali". Tali proposizioni hanno corrisposto ad un grande stimolo, sul piano teoretico, riguardo a quali domande porsi nello scavo pre-protostorico, ma sono state del tutto carenti riguardo alla metodologia e alle tecniche di scavo da applicare per poter assumere criticamente le informazioni necessarie, privilegiando, specialmente nel caso di M.B. Schiffer, lo scavo per tagli artificiali, associato ad analisi quantitative, rispetto allo scavo stratigrafico. Sotto questo aspetto le metodologie di scavo europee erano già mature per integrare le nuove proposte con i metodi sviluppati da tempo. L'esigenza non solo di individuare la segmentazione delle sequenze stratigrafiche, ma piuttosto di interpretare la genesi delle stratificazioni, portava all'analisi degli strati sia da un punto di vista sedimentologico che pedologico. In Italia lo studio del Paleolitico e del Mesolitico, con scavi prevalentemente in grotta e in ripari, era ancora spesso condotto dagli istituti universitari di geologia o dai musei di scienze naturali, a cui potevano far capo specializzazioni diverse, funzionali ad uno studio paleoambientale e paleoeconomico, oltre che tipo-cronologico e culturale dei manufatti. Negli scavi di preistoria più recente o protostorici, condotti da archeologi di formazione umanistica, se nei primi tempi veniva richiesta solo la consulenza episodica degli specialisti, successivamente, con l'affermarsi della geoarcheologia quale disciplina specializzata per le indagini archeologiche, il rapporto è divenuto costante. Uno dei limiti storici della preistoria e protostoria italiane è la parcellizzazione e la limitatezza delle aree scavate: se si escludono gli scavi ottocenteschi di G. Scarabelli (abitato di Monte Castellaccio d'Imola), di L. Pigorini - L. Scotti (terramara di Castellazzo di Fontanellato) e quello di A. Nicolussi e R. Battaglia (palafitta di Ledro) nel Novecento, tutti e tre siti abitativi dell'età del Bronzo scavati per lo più integralmente, mancano scavi estensivi che permettano una ricostruzione storica adeguata. L'attenzione è stata maggiormente rivolta o ai campionamenti in grotta, con intento prevalentemente cronologico, o agli aspetti funerari, data la ricchezza di manufatti e di informazioni che si possono ricavare da tali depositi. In epoca più vicina a noi si nota una limitata inversione di tendenza con alcuni scavi pilota, già conclusi o ancora in corso, come quelli dell'accampamento all'aperto del Paleolitico inferiore di Isernia La Pineta (C. Peretto), Castel di Guido (A.M. Radmilli), Notarchirico (M. Piperno), del sito del Paleolitico medio e superiore di Riparo Tagliente (A. Broglio, A. Guerreschi ed équipe della scuola di Ferrara), del campo di caccia mesolitico di Colbricon (B. Bagolini), della terramara di Santa Rosa di Poviglio (M. Bernabò Brea, M. Cremaschi), dell'abitato difeso dell'età del Bronzo con frequentazione micenea di Broglio di Trebisacce (R. Peroni, A. Vanzetti). Tra gli anni Settanta e Ottanta inoltre è avvertita in tutta Europa l'esigenza di ridefinire sul piano epistemologico e di formalizzare ulteriormente sul piano operativo i concetti di base della stratigrafia archeologica, spinti non tanto dalla ricerca preistorica in sé, quanto, soprattutto, dall'intensificarsi degli scavi d'emergenza. In questo caso è l'archeologia tout court, in particolare l'archeologia urbana, quindi decisamente trasversale sul piano cronologico, a stimolare anche quella preistorica. In tale contesto ha avuto una grande influenza la proposta di E.C. Harris riguardo all'organizzazione diagrammatica della cronologia relativa delle stratificazioni archeologiche. La costruzione della cosiddetta "matrice di Harris" (matrix) corrisponde ad un ottimo metodo di controllo della consequenzialità, ricavata sullo scavo, delle relazioni tra unità stratigrafiche (US) sulla base della legge della sovrapposizione; nulla però ha aggiunto ai metodi di interpretazione ed è stato da più parti rilevato come sia poco compatibile con le relazioni stratigrafiche indotte dai processi trasformativi postdeposizionali, primi tra tutti gli "orizzonti di suolo", così comuni nei depositi di interesse preistorico. Per tale ragione, a integrazione della matrice di Harris, è stata proposta recentemente (Leonardi 1992) l'unità pedostratigrafica (UP), per segnalare i processi di pedogenesi, e l'unità di trasformazione chimica (UC), all'interno di nuove proposte metodologiche di lettura stratigrafica, tenendo conto soprattutto dei processi formativi anche in chiave geoarcheologica (Leonardi 1992). Da un lato si è sviluppata l'indagine microstratigrafica di campo e di laboratorio, dall'altro si è sviluppata inoltre una serie di analisi chimico-fisiche dei sedimenti, tra cui spiccano quelle micromorfologiche tramite sezioni sottili. Sul piano teoretico, un gruppo di studio internazionale, che si è espresso attraverso la rivista Stratigraphica Archaeologica e composto in particolare da H. Gache, Ö. Tunca e F.G. Fedele, corrisponde al più recente tentativo di formalizzare concetti e terminologie della stratificazione archeologica, vista principalmente nell'ottica dell'esperienza di scavo dei siti preistorici. È significativo che nel dibattito che ne è seguito si sia inserita nel 1992 la geoarcheologa J.K. Stein, con uno scavo, esemplare sul piano metodologico, di uno shell midden sulle coste nord-occidentali degli Stati Uniti. La sua équipe era formata da quindici specialisti: la strada aperta da J.A. Worsaae nel 1848, con la sua équipe interdisciplinare di tre persone nello scavo dei kjøkkenmøddings scandinavi, ha finalmente dato i suoi frutti. Dal punto di vista teorico, non si dovrebbero prevedere per lo scavo di siti di età classica e medievale metodologie e tecniche diverse da quelle da applicare allo scavo dei siti pre-protostorici, se non per quel recente e rilevante settore d'indagine che corrisponde alla stratigrafia degli elevati; per il resto le stratificazioni in grotta, seppure note principalmente per le frequentazioni paleolitiche, sono spesso connotate anche da utilizzazioni diverse in epoca storica. Siti abitativi, funerari e cultuali all'aperto mutano sul piano strutturale, culturale, "stilistico", ma presentano sostanzialmente gli stessi problemi riguardo all'approccio di scavo; allo stesso uomo di Similaun, dell'età del Rame, possono essere avvicinati altri uomini di epoca storica recuperati dai ghiacciai. Anche per quanto concerne gli abitati "in ambiente umido", abitati su bonifica e palafitte, si tratta di scelte insediative comuni ad ogni epoca. Di fatto però le differenze ci sono, soprattutto sul piano storico, a partire da un dato sostanziale: la presenza o assenza di fonti scritte contemporanee alle stratificazioni archeologiche prese in esame. Sul piano del metodo, infatti, per l'archeologia classica lo scavo ha costituito nel passato per lo più un mezzo per convalidare le fonti storico-letterarie (lo stesso H. Schliemann rientra in questa tipologia di ricerca) o per incrementare le conoscenze relative alla storia dell'arte (lo scavo come recupero di manufatti prestigiosi). L'archeologia preistorica invece, non avendo fonti scritte di riferimento, è stata "costretta" a sviluppare in modo particolare gli aspetti metodologici e tecnici dello scavo per decodificare l'unica fonte storica accessibile: le tracce materiali lasciate dall'uomo e dal contesto ambientale nel terreno, fonti che per loro natura sono frammentarie, disarticolate, palinsestiche, quindi di difficile lettura e potenzialmente ambigue. A questo proposito, infatti, una delle maggiori sfide nella ricerca pre-protostorica è quella di riuscire a proporre modelli ricostruttivi degli aspetti sociali solo attraverso i dati di scavo. Il condizionamento derivante dalle caratteristiche del dato archeologico risulta chiaro nelle diverse comunità scientifiche europee, dove le metodologie dello scavo preistorico sono sempre state condivise e sviluppate anche dalle archeologie storiche sviluppatesi nei Paesi in cui non è stata presente o prevalente la monumentalità costruttiva dell'Impero romano; strutture in materie deperibili, anche in aggregazioni di dimensione urbana, richiedono un altro tipo di approccio, non solo tecnico ma anche metodologico. Quello che ha caratterizzato da sempre lo scavo preistorico è la scala di osservazione. È tuttora condivisibile l'affermazione di A. Leroi-Gourhan del 1972: "Alla macro-stratigrafia e alla macro- topografia, adatte alla messa in luce dei grandi monumenti, corrispondono una micro-stratigrafia e una micro-topografia che si applicano alla ricerca dei modesti eventi di cui è stata fatta la vita degli uomini scomparsi". A questo va aggiunto che più le tracce lasciate dall'uomo sono labili e più lo scavo è sistematicamente e definitivamente distruttivo. Per questo insieme di fattori lo scavo preistorico si avvale di tecniche anche molto diversificate per aumentare la potenzialità di acquisizione di dati: la lettura stratigrafica è particolarmente attenta, partendo di norma da sezioni portanti che permettano una lettura critica della stratificazione prima dell'approfondimento totale. Una tecnica sperimentata da decenni, e ancora in uso, corrisponde all'impostazione di una griglia a quadrati sulla superficie di scavo, con siglature di norma alfanumeriche. Tale geometrizzazione artificiale dello spazio non risulta in contrasto con il metodo dell'open area, in quanto consente di delimitare spazi regolari in situazioni per lo più abitative, sia in grotta che all'aperto, in cui non vi siano evidenti delimitazioni strutturali. Il quadrato diviene l'unità spaziale di rilevamento e soprattutto di prelievo totale dei materiali (per successive analisi riguardo alla conformazione dei resti strutturali, alla distribuzione dei manufatti e degli ecofatti) e di prelievo campionario dei sedimenti, dei resti organici, della malacofauna, ecc. (per analisi fisico-chimiche, palinologiche, ecc.). Nel tempo si è venuta sempre più riducendo l'estensione del quadrato, che inizialmente aveva 1 m di lato, mentre ora si tende a portarlo a 0,33 o più spesso a 0,25 m di lato, per aumentare la potenzialità informativa di dettaglio dell'unità di base. Tale tecnica risulta necessaria soprattutto nello scavo di quei siti in cui la dispersione degli inclusi non è integrata da significativi cambi di matrice a causa di processi postdeposizionali: l'esempio più tipico può essere visto nei siti paleolitici o mesolitici di alta quota. Questo procedimento spesso si associa allo scavo per tagli geometrici artificiali (plana), allo scopo di sezionare a microlivelli strati omogenei di più o meno ampio spessore, quale procedura integrativa dello scavo stratigrafico. Ciò permette tra l'altro una documentazione e un asporto più rigorosi di manufatti ed ecofatti, attraverso una registrazione spaziale tridimensionale che consenta sia ricostruzioni grafiche del deposito, sia rielaborazioni dei dati a vario ordine di complessità, anche grazie al mezzo informatico. Il metodo di scavo si è sempre più sviluppato verso l'attenzione al dettaglio dell'articolazione stratigrafica, tanto che si parla di scavo microstratigrafico, applicato sia sul campo che in laboratorio. Questa procedura, che consiste nell'individuazione, documentazione e scavo dell'unità minima di osservazione, si rende necessaria per soddisfare l'esigenza di una maggiore comprensione dei processi formativi della stratificazione archeologica nell'integrazione tra le conoscenze di tipo culturale e quelle geologico-sedimentarie e pedologiche. Il metodo microstratigrafico può essere applicato in particolare in situazioni complesse, dove i processi postdeposizionali hanno fortemente interagito con quelli deposizionali o nei casi in cui l'articolazione del deposito risulti l'esito di una serie di microazioni. In questo senso ha dato ottimi risultati nello scavo di depositi derivanti da attività artigianali, o per decodificare le tracce delle ritualità funerarie e cultuali, ma ovviamente può essere (anzi andrebbe) applicato in tutte le operazioni di scavo che non siano limitate da esigenze di urgenza. Lo scavo microstratigrafico, su un altro piano, può essere considerato meso- o macrostratigrafico rispetto all'analisi micromorfologica operata in laboratorio al microscopio binoculare o elettronico (SEM) dal geoarcheologo. Questa tecnica corrisponde allo studio dei sedimenti attraverso sezioni sottili di campioni indisturbati e orientati prelevati sul campo in punti nodali della stratigrafia. Lo scopo è quello di indagare gli aspetti genetici del singolo strato sia per l'aspetto formativo che per le eventuali trasformazioni postdeposizionali, attraverso analisi micropedologiche e mineralogiche. Le tecniche micromorfologiche sono state applicate, con successo, prevalentemente in orizzonti pleistocenici e olocenici, sia all'aperto che in grotta, fornendo informazioni rilevanti rispetto ai mutamenti paleoclimatici e all'impatto antropico sull'ambiente, specialmente per quanto concerne lo sviluppo dell'agricoltura antica, mentre non è ancora sviluppato un settore di ricerca che analizzi le stratigrafie totalmente antropiche. In questo modo, dato che tali indagini si possono operare solo per campioni, seppure significativi, l'analisi micromorfologica può essere solo integrativa del normale metodo di scavo stratigrafico e microstratigrafico. Tra gli obiettivi principali dello scavo preistorico vi è anche lo studio del rapporto interattivo tra specificità del sito, attività umane e territorio nelle sue variazioni temporali, latitudinali e climatiche, data l'iniziale totale dipendenza dell'uomo dall'ambiente, che si trasforma invece a partire dal Neolitico in potenzialità di profonde modificazioni del bioma. Comprendere questo rapporto conflittuale, progressivo e discontinuo è di estrema rilevanza nella ricerca preistorica; di conseguenza, l'altro aspetto fondamentale dello scavo pre-protostorico (ma l'affermazione andrebbe generalizzata) è il superamento della figura dell'archeologo, inteso in senso tradizionale come "direttore assoluto" dello scavo. Si rende piuttosto sempre più necessario un rapporto organico tra l'archeologo e gli altri specialisti che concorrono non solo agli studi specifici settoriali nella fase di rielaborazione dei dati, successiva all'attività di campo, ma alla stessa programmazione e conduzione dello scavo. In quest'ottica diventa prioritaria la figura del geoarcheologo, di formazione naturalistica, che sembra la più adatta a condividere la responsabilità dello scavo e a coordinare assieme all'archeologo, di formazione umanistica, le diverse specializzazioni che si sono sviluppate negli ultimi anni. Inizialmente queste venivano definite "scienze sussidiarie dell'archeologia", attualmente vengono concepite più correttamente quali settori disciplinari diversificati che vengono a comporre il settore disciplinare archeologico: oltre alla geoarcheologia, che già sta sfaccettandosi al suo interno e dove sussiste già una diversità a livello formativo tra sedimentologi e pedologi, l'archeobotanica o paletnobotanica, l'archeozoologia, la paleoantropologia e il vasto comparto definito genericamente archeometria, che comprende gli aspetti petrografici, mineralogici e chimici. Le domande che si pongono a monte dello scavo e le esigenze analitiche differenti da disciplina a disciplina rendono lo scavo preistorico particolarmente circostanziato e doverosamente lento, secondo i tempi dettati dalla distruzione controllata del deposito, contestuale all'acquisizione del massimo numero di dati iconografici, descrittivi e materiali. Del resto il dibattito scientifico sulla diversa interpretazione (nel rapporto tra cronologia e funzione) della struttura abitativa n.1 di Pincevent tra lo scopritore A. Leroi-Gourhan, il "newarchaeologist" L.R. Binford, e successivamente Ch. Carr sulla base degli stessi dati, mostra come le fonti preistoriche siano di difficile decodificazione e sottolinea contestualmente come sia fondamentale l'analiticità della documentazione. Essa è la sola che rimane a sostituire quanto lo scavo ha distrutto, al fine di fornire la possibilità anche agli studiosi futuri di recuperare sistematicamente i vecchi dati, per sfruttarli con maggior cognizione critica, supportati da nuove potenzialità analitico-scientifiche; ciò nella prospettiva di passare sempre più ampiamente dalla plausibilità deduttiva e/o statistica all'inferenza, per rendere progressivamente più vicina alla realtà la ricostruzione della storia dell'uomo.

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