RETICOLO di diffrazione

Enciclopedia Italiana (1936)

RETICOLO di diffrazione

Bruno Pontecorvo

Quando si guarda una linea luminosa attraverso una lastrina di vetro, su cui con una punta finissima di diamante siano tracciati a brevissima distanza l'una dall'altra delle linee equidistanti, si osservano dei fenomeni di diffrazione (v. interferenza e diffrazione), che furono notati per la prima volta da J. Fraunhofer. La lastrina così rigata prende il nome di reticolo.

Su una linea normale alla direzione delle strie si vede apparire una serie di spettri che presentano il rosso al di fuori e il violetto al di dentro (fig.1) e sono disposti simmetricamente rispetto all'immagine centrale della linea luminosa; se la sorgente è monocromatica si osserva invece una serie di frange alternativamente brillanti e oscure.

Il mezzo più semplice per osservare gli spettri di diffrazione prodotti da un reticolo è di puntare un canocchiale sopra una fenditura luminosa lontana, e di interporre il reticolo davanti all'obiettivo. Come si è detto, si vede allora nel mezzo l'immagine bianca della fenditura; dalle parti appaiono due spazî oscuri che terminano con due spettri V1 R1, con il violetto all'interno e il rosso all'esterno. Seguono poi due altri spazî oscuri più ristretti e due serie di spettri V2 R2 e V3 R3 che si sovrappongono in parte e così via. Gli spettri V1 R1, si dicono spettri del i° ordine, quelli V2 R2 spettri del 2° ordine, ecc.

Il reticolo ha un'importanza fondamentale nella tecnica spettroscopica; in molti casi il reticolo permette di risolvere problemi, che sarebbero irresolubili con uno spettrografo a prismi (v. appresso). Col reticolo inoltre si può determinare facilmente e con notevole precisione la lunghezza d'onda di una radiazione (v. appresso).

La tecnica usata nella realizzazione dei reticoli ha compiuto passi giganteschi da quando Fraunhofer, all'inizio del sec. XIX, iniziò le sue esperienze.

Il metodo che adesso è generalmente adottato consiste nel tracciare per mezzo di un diamante tratti equidistanti sopra una lamina di vetro: il numero delle divisioni per millimetro che si possono ottenere (numero, che, come vedremo, è importante rendere grandissimo) dipende dalla qualità della macchina a dividere impiegata. I reticoli usati in spettrografia contengono raramente più di 500 tratti per millimetro. Nel 1880 A. Rowland riuscì a ottenere dei reticoli con 1700 tratti per millimetro; la lunghezza della parte striata non sorpassa generalmente i 10 centimetri; tuttavia A. A. Michelson ha costruito dei reticoli di 30 cm. di lunghezza, con 500 tratti per millimetro, ossia con un totale di 150.000 trattil I reticoli di vetro agiscono per trasmissione e vengono detti reticoli diottrici; in essi le divisioni si devono considerare opache, per modo che le fenditure trasparenti sono rappresentate dai tratti compresi tra due divisioni successive. I reticoli ottenuti tracciando direttamente le divisioni sono molto cari; tuttavia si possono trovare delle copie degli originali a prezzi più accessibili; le copie si ottengono generalmente con riproduzione fotografica per contatto, usando una speciale tecnica. In spettrografia generalmente si preferisce impiegare i reticoli a riflessione (reticoli catottrici), ottenuti tracciando con regolarità delle divisioni sopra una superficie metallica piana ben liscia; le divisioni rappresentano i tratti non riflettenti del reticolo; i reticoli catottrici presentano il vantaggio di poter essere impiegati per le radiazioni infrarosse e ultraviolette, che sono assorbite nel vetro di un reticolo diottrico.

Un reticolo catottrico si può ottenere argentando una copia di reticolo diottrico con gli ordinarî metodi dell'argentatura.

Per ottenere gli spettri a mezzo dei reticoli a riflessione piani bisogna impiegare una lente convergente, nel piano focale della quale si producono le righe spettrali. Vedremo più oltre che un importante vantaggio presentano i reticoli concavi, dovuti a Rowland, perché con essi si proiettano gli spettri senza l'aiuto di lenti, che assorbono sempre più o meno alcune specie di raggi.

La teoria dei reticoli piani, diottrici e catottrici, conferma pienamente i risultati sperimentali. Anche senza esporre il calcolo della distribuzione dell'intensità luminosa nelle varie direzioni possiamo renderci conto del funzionamento di un reticolo in maniera elementare.

A questo scopo immaginiamo dapprima un'onda L che si propaghi con incidenza normale attraverso una sola fenditura A B (fig. 2), praticata in un setto opaco. Secondo il principio di Huyghens i varî punti ACB della fenditura si comportano come altrettanti centri di vibrazione, per modo che l'onda non proseguirà soltanto nella direzione AH, BK di incidenza, ma si troverà della luce lateralmente, a sinistra e a destra della fenditura; si tratta di studiare i fenomeni di diffrazione alla Fraunhofer (vedi interferenza e diffrazione) che si producono nel passaggio della luce attraverso la fenditura, di studiare cioè la distribuzione dell'intensità luminosa nei varî punti del piano focale di una lente convergente posta dietro la fenditura.

I punti A B C diventano sorgenti di onde, vibranti in concordanza di fase, per modo che, nella direzione parallela a quella dei raggi incidenti, tali onde arrivano nel fuoco della lente in concordanza di fase e sommandosi dànno luogo a un punto luminoso. Consideriamo ora quello che accade, p. es., nella direzione AM, BN tale che, abbassata la perpendicolare AD sopra BN, sia BD = λ, se con λ si indica la lunghezza d'onda della luce considerata. In questo caso nei varî punti sulla AD le vibrazioni non sono in concordanza di fase; in particolare il punto di mezzo E di AD invierà perturbazioni che arriveranno (nel piano focale della lente) in opposizione di fase con quelle inviate da A; e a ciascun punto del tratto AC si può far corrispondere un punto del tratto CB, quello che dista da C quanto il primo dista da A, tale che le perturbazioni inviate dai due punti giungono in AD in opposizione di fase. Si può concludere che i raggi che si propagano nella direzione considerata, concentrati nel piano focale della lente, interferiscono a due a due, distruggendosi a vicenda; nel punto del piano focale che corrisponde a questa direzione, si nota quindi oscurità. Per contro nel punto del piano focale corrispondente alla direzione AP, BQ, per la quale i raggi esterni hanno una differenza di cammino BF = 3/2 λ, vi sarà luce; se infatti si immagina divisa la larghezza della fenditura in tre parti uguali si vede, col ragionamento precedente, che gli effetti di due di queste si distruggono a vicenda, e restano attive le perturbazioni inviate dall'altra parte; l'illuminazione è evidentemente minore di quella che corrisponde al fascio centrale non diffratto. Illuminazioni sempre decrescenti si dovranno avere anche in corrispondenza delle direzioni per cui la differenza di cammino tra i raggi estremi è

il fenomeno è evidentemente simmetrico rispetto al fascio diretto. Se nel fuoco della lente che fornisce l'onda piana si pone una sorgente lineare parallela alla fenditura si ottiene nel piano focale della seconda lente un sistema di frange alternativamente brillanti e oscure.

Ciò premesso, consideriamo, anziché una sola fenditura, un reticolo piano, cioè un sistema di più fenditure uguali, parallele, equidistanti l'una dall'altra, praticate in uno schermo opaco (fig. 4), e immaginiamo di raccogliere i raggi diffratti nel piano focale di una lente; ogni fenditura, se agisse da sola, irradierebbe nelle diverse direzioni luce di diversa intensità, con una legge rappresentata nella fig. 3. Tutte le fenditure poi, essendo illuminate dalla stessa sorgente, agiscono come sorgenti in concordanza di fase.

Nella fig. 4, AB, CD, EF... rappresentino i tratti opachi del reticolo e BC, DE, FG, i tratti trasparenti; sia a la larghezza delle fenditure, b quella degli intervalli opachi e m = a + b la loro somma costante lungo tutto il reticolo.

Anzitutto è evidente, per quanto precede, che si avrà luce nel punto del piano focale della lente, che corrisponde alla direzione LX di incidenza, cioè nel fuoco della lente.

Tracciamo ora, dagli estremi a sinistra dei tratti opachi, le AA′, CC′, EE′.... che facciano con LX un angolo β tale che, conducendo le normali Aa, Cc, Ee... alle parallele AA′, CC′, EE′,....., i segmenti Ca, Ec, Ge, siano tutti uguali a una lunghezza d'onda, tale che si abbia cioè: Ca = Ec − Ge... = λ − m sen β.

Si capisce subito che in queste condizioni a ciascun punto della prima fenditura corrisponde un punto della seconda tale che la differenza di cammino dei raggi nella direzione considerata sia di una lunghezza d'onda; analogamente le perturbazioni inviate dai punti della seconda fenditura, rispetto a quelle inviate dai punti della terza fenditura, saranno punto per punto in anticipo di una lunghezza d'onda e così via. Nel punto del piano focale della lente che corrisponde alla direzione considerata i raggi diffratti si trovano quindi in concordanza di fase, e, interferendo, producono un massimo di intensità luminosa.

In generale vi sarà un massimo di luce in tutte le direzioni oblique per cui l'angolo di diffrazione β obbedisca alla relazione:

essendo k un numero intero.

Facendo nella relazione (1) k − o, si ha l'immagine centrale o di ordine zero; a k − 1 corrispondono le immagini del 1° ordine, a k − 2 quelle del 20 ordine, ecc.; adoperando come sorgente una sottile fenditura parallela ai tratti del reticolo, illuminata con luce monocromatica e posta nel fuoco della lente collimatrice, sul piano focale dell'obiettivo si disegna una serie di righe sottili e brillanti sopra uno sfondo oscuro. L'immagine del 2° ordine verrebbe a mancare, se la larghezza dei tratti opachi fosse uguale a quella di quelli trasparenti; infatti per k z è Ca = 2 λ, e, essendo per ipotesi AB = BC, i raggi inviati dagli estremi B e C della fenditura avrebbero una differenza di cammino di una lunghezza d'onda; immaginando allora la fenditura BC divisa in due parti, come nel caso di una sola fenditura, i raggi inviati dai punti della prima parte interferirebbero a due a due con quelli inviati dai punti della seconda parte, distruggendosi a vicenda.

Occorre ora spiegare l'esistenza degli spazî oscuri che separano le righe brillanti, nel caso di luce monocromatica; per questo consideriamo un angolo di diffrazione β che non obbedisca alla (1), tale cioè che le distanze Ca, Ec, Ge.. siano eguali a kλ più una frazione qualunque di λ, p. es., 1/100; allora i raggi che partono dalle suecessive fenditure hanno, punto per punto, le seguenti differenze di cammino da quelli che partono dalla prima fenditura:

I raggi che partono dalla 51° fenditura nella direzione considerata sono quindi, punto per punto, in completa discordanza con quelli che partono dalla prima fenditura, perchè i loro cammini differiscono di un numero dispari di semilunghezze d'onda; analogamente gli effetti inviati dalle prime 50 fenditure saranno annullati da quelli inviati dalle 50 successive, e così per ogni successivo centinaio di fenditure, l'effetto delle prime 50 è distrutto dalle altre 50. Alla fine del reticolo vi potrà essere un certo numero di fenditure attive minore di 50, il cui effetto è tanto meno sensibile, quanto più numerose sono le righe del reticolo. Si può concludere che nel piano focale dell'obiettivo vi è luce soltanto nei punti che corrispondono a angoli di diffrazione β pei quali è verificata la (1).

Applicazioni spettroscopiche. - Segue da (1) che la posizione del massimo di ordine zero è indipendente dalla lunghezza d'onda; la posizione dei massimi successivi invece dipende dalla lunghezza d'onda. Quindi, se adoperiamo una luce contenente radiazioni di diversa lunghezza d'onda, i massimi di ordine zero di tutte queste radiazioni coincideranno, mentre saranno distinti i massimi degli ordini successivi; nel piano focale dell'obiettivo avremo un'immagine centrale, non dispersa, della fenditura, accompagnata da ambo le parti da una successione di spettri; lo spettro del 1° ordine è costituito dai massimi del 1° ordine corrispondenti alle diverse radiazioni e così via.

Gli spettri dei reticoli hanno il violetto rivolto verso l'immagine centrale e il rosso dalla parte opposta; a differenza del prisma (v. prisma) il reticolo devia quindi più il rosso che il violetto.

Gli spettri dei diversi ordini dati dal reticolo si sovrappongono in parte, tranne lo spettro del 1° ordine; per es., si vede facilmente da (1) che la riga λ = 6000 Å dello spettro del secondo ordine coincide colla riga λ = 4000 Å, dello spettro di terzo ordine.

Da (1) segue che la larghezza totale dei diversi spettri cresce al crescere del numero d'ordine dello spettro ed è inoltre tanto maggiore, quanto più grande è il numero di tratti per centimetro del reticolo. La luminosità decresce al crescere del numero d'ordine dello spettro; questa circostanza unita all'altra della sovrapposizione degli spettri, fa sì che difficilmente si possano usare spettri di diffrazione al di là del 1° o del 2° ordine.

Si osservi che la (1), per piccoli angoli di deviazione, può scriversi:

di qui risulta che la deviazione è proporzionale alla lunghezza d'onda. Ciò si esprime dicendo che lo spettro del reticolo è "normale".

Con un reticolo, la lunghezza d'onda di una riga può venir misurata direttamente; se indichiamo con n il numero noto di tratti per centimetro, la (1) si può scrivere, limitando l'osservazione a spettri del 1° ordine:

Ciò premesso, si fissi il reticolo (fig. 5) sulla piattaforma dello spettrometro di Babinet (v. spettroscopia) in modo che le strie risultino verticali e la luce che esce dal collimatore lo investa normalmente. Osservando col canocchiale la stretta fenditura del collimatore, parallela alle strie, bastena collimare con la riga in esame, nei due spettri del 1° ordine, a destra e a sinistra: l'angolo delle due posizioni del canocchiale, che viene letto sul cerchio graduato, è doppio dell'angolo β; noto così quest'ultimo, la (2) ci fornisce senz'altro il valore di λ per la riga considerata.

La teoria dei reticoli piani catottrici non è sostanzialmente dissimile da quella dei reticoli diottrici, che abbiamo esposta; Rowland pensò di tracciare i reticoli anziché sopra una superficie speculare piana, sopra una superficie speculare sferica concava, in modo da ottenere un apparecchio che riunisce le proprietà del reticolo e dello specchio sferico; un apparecchio, cioè, capace di fornire le immagini di diffrazione della fenditura, corrispondenti agli spettri dei diversi ordini, perfettamente a fuoco in determinati punti dello spazio, e senza aiuto di lenti. La teoria del reticolo concavo, che non è qui il caso di esporre, mostra che quando (fig. 6) la sorgente S si trova sulla circonferenza tangente al reticolo e di diametro uguale al raggio di curvatura del reticolo, le varie immagini di diffrazione sono a fuoco in punti P1, P2.... della circonferenza stessa; si trova poi che lo spettro è "normale" quando si forma nella regione della circonferenza diametralmente opposta al reticolo: conviene quindi portare in questa regione le parti dello spettro che si vogliono studiare, il che si ottiene facilmente con opportuni accorgimenti.

L'impiego dei reticoli in spettroscopia presenta, rispetto all'impiego dei prismi, un notevole vantaggio per quel che concerne la dispersione e il potere risolutivo (v. appresso) e uno svantaggio per quel che riguarda la luminosità.

Potere risolutivo dei reticoli e gradinata di Michelson. - La teoria completa del reticolo mostra che la riga di diffrazione data da ogni luce monocromatica non è infinitamente sottile, ma ha una certa larghezza, sfumando da ambo le parti verso un minimo. In altri termini la intensità luminosa, che ha un massimo in corrispondenza a ogni direzione per cui è verificata la (1), non scompare improvvisamente ai due lati di questa direzione, ma conserva un valore sensibile lateralmente.

Ne segue che, se la sorgente di luce emette due radiazioni di lunghezza d'onda poco diverse, l'osservatore potrà distinguerle soltanto se l'intervallo che separa i loro massimi è maggiore o almeno uguale alla loro larghezza; la probabilità di mostrare distinte due lunghezze d'onda più o meno vicine è una caratteristica del reticolo impiegato; siano λ e Δλ le lunghezze d'onda più vicine che il reticolo riesce ancora a far vedere distinte; per definizione si assume per potere risolutivo del reticolo la grandezza λ/Δλ. Si potrebbe mostrare facilmente che il potere risolutivo è uguale al prodotto del numero totale N di tratti del reticolo per l'ordine k dello spettro: λ/Δλ = kN. Per la doppia riga D del sodio, si ha, all'incirca, λ/Δλ = 1000. Per separarla nelle sue componenti occorre quindi un reticolo di almeno 1000 tratti, se si osserva nello spettro del primo ordine, di 500 tratti, se si osserva nel secondo ordine, e così via.

Da quanto è stato detto si comprende quanto grande sarebbe l'utilità di osservare gli spettri in ordine elevato a mezzo di un reticolo con un gran numero di tratti; tuttavia nei reticoli che abbiamo descritto non è possibile utilizzare spettri di ordine elevato, per le ragioni già dette; occorre quindi rendere assai grande il numero di tratti, il che si riesce a fare lottando contro difficoltà costruttive.

Nel reticolo a gradinata di Michelson il problema è risolto in modo diverso, perché in esso sono pochi i tratti mentre l'ordine dello spettro che si utilizza è reso grandissimo col far sì che tra i raggi provenienti da due tratti consecutivi vi sia una grande differenza di cammino ottico; in tal modo si raccoglie in spettri di ordine elevatissimo (p. es. k = 20000, 2000 ...) gran parte della luce, che nei reticoli ordinarî viene raccolta negli spettri di ordine minore (k − o, 1, 2 ...).

L'artifizio è il seguente: un certo numero di lastre di vetro a facce rigorosamente piane e parallele, di ugual spessore, sono sovrapposte a gradinata come in fig. 7.

Inviando attraverso le lastre un fascio di raggi paralleli, la gradinata agisce come un reticolo di tanti tratti quanti sono i gradini; tuttavia la differenza di cammino ottico esistente tra due raggi emergenti nella stessa direzione da tratti consecutivi è grandissima, perché uno di essi ha percorso nel vetro (indice di rifrazione > 1) uno spazio che l'altro ha percorso nell'aria (indice ~ 1). Lo spettro centrale, p. es., invece di avere il numero d'ordine zero, come nel caso del reticolo ordinario, ha il numero d'ordine

se ε è la larghezza del gradino e n l'indice di rifrazione del vetro.

L'uso della gradinata deve essere limitato alla struttura fine delle singole righe spettrali, perché, essendo gli spettri dei diversi ordini molto più vicini fra loro che nel caso del reticolo, la sovrapposizione degli spettri stessi renderebbe difficile l'interpretazione dei risultati; quindi, se si vuole studiare una determinata riga con la gradinata, occorre prima separarla dalle altre con un prisma. È questa la ragione per la quale la gradinata si adopera in combinazione con uno spettroscopio, ponendola fra il prisma e il collimatore.