RETI NEURALI E ROBOTICA

XXI Secolo (2010)

Reti neurali e robotica

Domenico Parisi

Una rivoluzione a metà

Nella seconda metà del 19° sec. si è verificata una rivoluzione nello studio della mente. È nata la psicologia, che si è proposta come una ‘scienza’ basata su dati empirici raccolti nelle condizioni controllate del laboratorio sperimentale e su teorie da cui fosse possibile derivare specifiche predizioni da mettere a confronto con le osservazioni empiriche. Questa rivoluzione ha prodotto una notevole quantità di nuove conoscenze e proposte teoriche, e oggi certamente sappiamo sulla mente molto più di quello che sapevamo appena un secolo fa.

Tuttavia, si è trattato di una rivoluzione a metà. Infatti, se la psicologia applica allo studio della mente il metodo della scienza, cioè il metodo degli esperimenti di laboratorio e della raccolta di dati empirici oggettivi e quantitativi, il vocabolario teorico con il quale descrive e spiega i dati empirici è rimasto sostanzialmente quello della filosofia. Non è molto diverso rispetto a quello con cui da millenni i filosofi parlano della mente, oppure rispetto a quello con cui nella vita di tutti i giorni le persone descrivono e spiegano il comportamento proprio e altrui. I termini di questo vocabolario (sensazione, percezione, attenzione, memoria, rappresentazione, significato, concetto, pensiero, ragionamento, coscienza, intenzione, decisione, regola, norma ecc.) hanno significati diversi e non univoci. Con un lessico teorico come questo risulta difficile costruire una soddisfacente scienza della mente, considerando che la scienza ha bisogno non soltanto di dati empirici oggettivi e quantitativi, ma anche di concetti interpretativi chiari, univoci e definibili in termini di operazioni e di entità osservabili e misurabili.

La psicologia, così come si è sviluppata nel corso del 20° sec., è una scienza a metà non soltanto perché si preoccupa dei dati empirici interpretandoli con un linguaggio che non è scientifico, ma anche a causa di altri problemi. Il primo riguarda l’uso del metodo sperimentale. Come già accennato, la psicologia come scienza è nata a seguito dell’adozione del metodo degli esperimenti di laboratorio da parte degli psicologi. Tuttavia, solo una piccola parte dei fenomeni che interessano questi ultimi si può studiare in laboratorio, per cui la psicologia sperimentale rappresenta soltanto una piccola parte della psicologia. Per il resto, essa deve accontentarsi di dati empirici molto più problematici, meno chiari e meno oggettivi, come sono, per es., quelli della psicologia clinica e di buona parte della psicologia sociale. Inoltre, i fenomeni del comportamento e della mente dipendono molto dal contesto in cui avvengono, e portarli in laboratorio significa tirarli fuori da tale contesto e studiarli in condizioni artificiali. Questo succede per qualunque esperimento di laboratorio, ma non crea alcun problema quando gli esperimenti si effettuano nell’ambito delle scienze della natura, come la fisica, la chimica e la biologia. In queste scienze i fe­nomeni sono meno dipendenti dal contesto in cui avvengono, per cui ci sono in genere pochi dubbi che le conclusioni a cui si giunge in laboratorio valgano anche per la realtà che esiste fuori di esso. Per la psicologia non è così. Proprio per la forte dipendenza dei fenomeni del comportamento e della mente dal contesto in cui avvengono, non vi sono sempre garanzie che quello che emerge in laboratorio si possa applicare anche alla vita reale. Il comportamento di tutti gli animali, e in particolare quello degli esseri umani, per es., ha la caratteristica di essere autonomo, cioè di essere determinato soprattutto da cause interne all’organismo. Invece i comportamenti studiati in laboratorio sono influenzati da cause esterne, ossia dagli stimoli decisi dallo sperimentatore, e i ‘soggetti’ degli esperimenti si chiamano così perché non devono e non possono fare altro che obbedire alle istruzioni date, rinunciando alla loro autonomia. Questo inevitabilmente limita l’utilità degli esperimenti di laboratorio in psicologia.

Il secondo problema della psicologia è che essa rappresenta solo una delle discipline necessarie per capire che cosa sia e come funzioni la mente. Quest’ultima, infatti, ha basi fisiche – il sistema nervoso, il resto del corpo, il DNA (DeoxyriboNucleic Acid) contenuto nelle cellule – di cui la psicologia non si occupa, essendo oggetto di studio di altre discipline, come le neuroscienze, l’anatomia e la fisiologia, la biologia cellulare e molecolare, la genetica, la biologia evoluzionistica. Ma è estremamente difficile capire che cosa sia la mente se non si tiene conto proprio delle sue basi fisiche. D’altra parte la mente, in particolare quella degli esseri umani, è quello che è perché interagisce con un ambiente sociale e culturale, ambiente di cui non si occupa la psicologia ma altre discipline ancora quali la sociologia, l’antropologia, l’economia, la storia.

Queste considerazioni pongono la questione generale delle divisioni disciplinari che limitano la capacità conoscitiva della scienza perché, se quest’ultima è divisa in discipline, la realtà non lo è. La realtà è, infatti, un insieme di fenomeni diversi ma collegati tra loro, e spesso la spiegazione dei fenomeni studiati da una disciplina va cercata in quelli studiati da un’altra. Se è vero che si tratta di un problema che riguarda tutta la scienza, le divisioni disciplinari risultano più dannose nelle scienze che studiano gli esseri umani piuttosto che in quelle che studiano la natura. Queste ultime, infatti, condividono uno stesso metodo, gli esperimenti di laboratorio, e uno stesso modo di concepire la natura, intesa come un ambito dominato solo da cause fisiche che producono effetti fisici e tutto ha carattere intrinsecamente e fino in fondo quantitativo. Tale condivisione facilita il dialogo e la collaborazione e rende meno rilevanti le divisioni disciplinari, mentre le scienze che studiano gli esseri umani – la psicologia, la sociologia, l’antropologia, l’economia, la storia – sembrano non avere nulla in comune, non uno stesso metodo di ricerca, non una visione comune di quello che studiano, non tradizioni concettuali e teoriche condivise.

Le reti neurali

Se alla fine del 20° sec. la scienza della mente si presentava con i limiti sopra descritti, negli ultimi decenni le cose sono andate cambiando e sono emerse nuove direzioni di ricerca che fanno intravedere una nuova scienza della mente per il 21° secolo. Il principale cambiamento è costituito dai progressi sempre più rapidi delle neuroscienze e delle scienze biologiche in genere. Uno dei problemi che la psicologia si trova a dovere affrontare è che oggi sappiamo molto di più sul sistema nervoso rispetto a quanto sapevamo anche soltanto pochi decenni fa. Le neuroscienze compiono continui progressi a tutti i livelli, dalla struttura cellulare e molecolare del sistema nervoso, alle basi genetiche del suo sviluppo e del suo funzionamento, dai dati ottenibili con le nuove tecniche delle neuroimmagini a quelli riguardanti gli effetti degli psicofarmaci e le conseguenze di diversi tipi di lesioni e di malfunzionamenti del sistema nervoso. Oggi, grazie alle neuroscienze, appare evidente che una scienza della mente deve essere nello stesso tempo una scienza del cervello.

Tuttavia i cambiamenti sono anche teorici e metodologici. Negli ultimi decenni si sono andati sempre più affermando nuovi strumenti teorici per lo studio del comportamento e della vita mentale che si chiamano reti neurali artificiali o, come diremo più brevemente, reti neurali. Una rete neurale è un modello semplificato del sistema nervoso, essendo formata da unità che corrispondono alle cellule nervose (neuroni) collegate tra loro da connessioni unidirezionali che corrispondono alle sinapsi tra i neuroni. In ogni determinato istante ciascuna unità della rete ha un livello quantitativo di attivazione corrispondente al ritmo con cui un neurone ‘spara’ gli impulsi nervosi che viaggiano lungo l’assone del neurone stesso e vanno a influenzare il livello di attivazione dei neuroni collegati. Una rete neurale elementare è formata da unità di input che corrispondono ai neuroni sensoriali, da unità di output che corrispondono ai neuroni motori, e da unità interne che corrispondono agli altri neuroni presenti nel sistema nervoso. Le unità di input sono collegate alle unità interne, e queste a loro volta sono collegate con quelle di output. Il livello di attivazione delle unità di input è determinato dagli oggetti, eventi o stati presenti nell’ambiente fuori dell’organismo. L’attivazione si propaga dalle unità di input a quelle interne e da queste alle unità di output, e il livello di attivazione delle unità di output codifica un movimento di qualche parte del corpo dell’organismo. In questo modo, quando riceve uno stimolo dall’ambiente esterno, la rete neurale risponde producendo un movimento che risulta appropriato a tale stimolo.

Il fatto che i movimenti prodotti dalla rete in risposta agli stimoli siano appropriati dipende dal peso quantitativo che hanno le diverse connessioni della rete, peso che corrisponde al numero di siti sinaptici presenti sulla membrana esterna del neurone postsinaptico sui quali agiscono i neurotrasmettitori rilasciati dal neurone presinaptico. Questi pesi possono essere positivi o negativi: i pesi positivi stanno a indicare collegamenti sinaptici eccitatori e quelli negativi collegamenti sinaptici inibitori. L’individuazione dei pesi sinaptici corretti, cioè quelli che fanno sì che la rete neurale risponda a uno stimolo con il movimento appropriato, è il risultato di un processo di apprendimento nel corso del quale i pesi iniziali, che sono assegnati a caso e quindi danno luogo a un comportamento anch’esso casuale, si modificano progressivamente in funzione dell’esperienza fino ad assumere quei valori quantitativi che consentono alla rete neurale di rispondere nel modo corretto agli stimoli.

Perché l’uso delle reti neurali come modelli del comportamento rappresenta un’importante novità ai fini dello sviluppo di una più solida scienza della mente? Le ragioni sono due. In primo luogo, le reti neurali sono un esempio di un nuovo modo di esprimere i modelli nella scienza che è stato reso possibile dall’invenzione del computer e che oggi è affermato in tutte le discipline scientifiche. In passato i modelli teorici della scienza potevano essere espressi solo in due modi, o usando i simboli della matematica, sotto forma di equazioni, oppure usando le parole del linguaggio comune, magari con qualche ridefinizione dei termini e con l’aiuto di schemi grafici. Oggi è possibile esprimere i modelli della scienza in un terzo modo, cioè sotto forma di simulazioni al computer. I modelli non sono più espressi usando simboli, siano essi i simboli della matematica oppure le comuni parole, ma costruendo qualcosa, un artefatto, e non si limitano più a spiegare la realtà, ma riproducono la realtà nell’artefatto. Se l’artefatto si comporta come la realtà, se riproduce i suoi fenomeni, allora possiamo ritenere che le idee e le ipotesi che abbiamo usato per costruirlo colgano quello che sta dietro alla realtà e la spieghino. In concreto, gli artefatti sono simulazioni al computer o artefatti fisici controllati da un computer (robot).

Esprimere i modelli teorici costruendo artefatti rappresenta un’importante novità per tutta la scienza, ma soprattutto per quelle scienze in cui le teorie non possono essere espresse in forma matematica, ossia come equazioni e sistemi di equazioni. Le teorie matematiche hanno il grande vantaggio di essere chiare, esplicite, univoche, e da esse sono derivabili in modo incontrovertibile numerose predizioni empiriche di carattere quantitativo. Le teorie espresse in modo puramente verbale hanno invece il difetto di essere poco chiare, poco dettagliate, poco univoche, e da esse non sono derivabili con certezza specifiche predizioni empiriche. La nuova possibilità che oggi esiste di formulare le teorie come simulazioni al computer risolve questo problema. Da un lato, le teorie-simulazioni hanno gli stessi vantaggi delle teorie matematiche, ossia sono chiare, esplicite, dettagliate e capaci di generare un grande numero di predizioni quantitative non controverse, visto che i risultati di una simulazione non sono che predizioni derivate dalla teoria incorporata nella simulazione. Dall’altro, diversamente dalle teorie matematiche, le teorie-simulazioni possono essere applicate a ogni sorta di fenomeni e in ogni tipo di disciplina, considerato che tutto può essere simulato. E, ulteriore vantaggio, una teoria-simulazione funziona anche come laboratorio sperimentale virtuale nel quale il ricercatore, come nel laboratorio reale, può variare le condizioni che controllano i fenomeni simulati e osservare le conseguenze di queste variazioni, generando così altre predizioni da confrontare con i dati empirici esistenti o tali da spingere a cercare nuovi dati empirici.

Le reti neurali sono modelli teorici del comportamento simulati al computer e offrono tutti i vantaggi delle teorie-simulazioni. In effetti, esse fanno intravedere la possibilità che venga completata la rivoluzione iniziata dalla psicologia nella seconda metà del 19° secolo. Come si è detto, quella della psicologia è stata una rivoluzione a metà in quanto essa ha adottato il metodo della scienza, ma continuando a usare il linguaggio concettuale della filosofia. La nuova scienza della mente che usa le reti neurali come strumenti teorici ha oggi la possibilità o di abbandonare del tutto questo linguaggio o, eventualmente, di ridefinirlo con precisione nei termini delle operazioni specificate nel programma che è eseguito nel computer. I modelli di spiegazione del comportamento sono espressi sotto forma di reti neurali, e quando la rete neurale ‘gira’ nel computer, deve produrre i comportamenti che il modello vuole spiegare. Il nuovo vocabolario concettuale della psicologia diventa quindi quello delle reti neurali.

Tuttavia, esiste anche una seconda ragione per cui le reti neurali rappresentano un’importante novità dal punto di vista della scienza della mente. Esse non sono soltanto modelli del comportamento espressi come simulazioni, ma modelli del comportamento esplicitamente ispirati alla struttura fisica e al modo con cui funziona il cervello. Negli anni Settanta e Ottanta del 20° sec., il metodo di esprimere le teorie costruendo simulazioni al computer era già stato applicato allo studio del comportamento, e in particolare a quello dell’intelligenza, ma senza prendere in considerazione il cervello. Questi tentativi sono stati definiti intelligenza artificiale e si basano su una pretesa analogia tra il computer e la mente umana: la mente umana è (come) un computer, ovvero un semplice sistema di manipolazione di simboli, dove quello che è importante sono i simboli e le regole per manipolarli, non la fisicità del computer. Questa analogia permetteva di ignorare la macchina fisica che è alla base della mente, il cervello, dato che il computer come macchina fisica è fatto e funziona diversamente dal cervello. L’intelligenza artificiale non ha prodotto molti risultati ai fini della nostra conoscenza della mente e oggi è stata praticamente abbandonata, tranne che per le sue applicazioni in campo tecnologico.

La novità delle reti neurali rispetto ai sistemi dell’intelligenza artificiale è che sono modelli computazionali in grado di riprodurre il modo in cui è fatto e funziona il cervello come sistema fisico, anche se, essendo modelli, semplificano rispetto al cervello reale. Il fatto che si tratti di modelli computazionali, cioè modelli che ‘girano’ in un computer, non deve ingannare facendo pensare che, come nell’intelligenza artificiale, le reti neurali concepiscano la mente come un computer. Le reti neurali sono modelli della mente simulati al computer ma non si basano sul presupposto che la mente sia come un computer e che quindi per capire la mente sia possibile ignorare il cervello.

Questo determina rilevanti conseguenze per il futuro sviluppo della scienza della mente. Le reti neurali sono importanti come strumenti di studio del comportamento e della vita mentale perché eliminano alla radice ogni separazione tra la psicologia e le neuroscienze. Essendo modelli teorici del comportamento, come tutti i modelli teorici della scienza debbono generare specifiche predizioni da confrontare con i dati e le osservazioni empiriche. Le predizioni generate dalle reti neurali non riguardano tuttavia soltanto il comportamento, cioè i dati empirici degli psicologi, ma anche i dati riguardanti la struttura e il funzionamento del cervello su cui sono competenti i neuroscienziati. Una rete neurale deve mirare a riprodurre non solo i comportamenti, le abilità e gli altri aspetti e fenomeni della vita mentale, ma anche i dati in nostro possesso sull’architettura del sistema nervoso e sul suo modo di funzionare, i dati delle neuroimmagini e quelli sulla crescita del sistema nervoso nel corso dello sviluppo, i dati sul suo funzionamento normale e quelli sul suo funzionamento patologico a seguito di danni di vario tipo. Questo non solo rende più forte la scienza della mente in quanto amplia notevolmente la base di dati empirici con i quali questa scienza può mettere alla prova le sue teorie, ma salda una volta per tutte la psicologia con le neuroscienze.

Inoltre, le reti neurali hanno conseguenze anche per le neuroscienze. Queste ultime sono scienze eminentemente empiriche, non teoriche, che accumulano una ricca e articolata base di dati e di conoscenze, specie oggi con il grande sviluppo delle tecnologie di osservazione e di misurazione dell’attività cerebrale e con l’estendersi della conoscenza del sistema nervoso a livello cellulare, molecolare e genetico. Incontrano però grandi difficoltà nel mettere ordine in questi dati mediante modelli in grado di collegare i meccanismi e i processi più generali che spiegano i comportamenti prodotti dal cervello. Le reti neurali sono dunque strumenti teorici per la psicologia ma anche per le neuroscienze, e questo sarà sempre più vero quanto più esse cesseranno di essere modelli troppo semplificati del cervello e quanto più i modelli simulativi diventeranno uno strumento di lavoro per tutta la biologia.

La vita artificiale

Le reti neurali sono state concepite negli anni Cinquanta e Sessanta del 20° sec., ma hanno cominciato a essere usate sistematicamente nella ricerca soltanto quando i computer sono diventati facilmente accessibili a chiunque, cioè negli anni Ottanta. Da allora sono stati registrati importanti sviluppi della ricerca che hanno accresciuto il potenziale delle reti neurali per la costruzione di una nuova scienza della mente. Il primo di questi sviluppi è stato, come detto, la vita artificiale, ovvero il tentativo di costruire sistemi artificiali in grado di riprodurre le caratteristiche dei sistemi viventi: interagire con l’ambiente, riprodursi, evolvere a livello della popolazione, svilupparsi e apprendere a livello dei singoli individui, coordinarsi e collaborare tra loro dando luogo a sistemi più grandi. La vita artificiale prende in considerazione ogni forma di sistema vivente, dalle molecole biologiche alle cellule, dagli individui ai gruppi e alle società di individui, ed è rilevante per la scienza della mente in quanto quest’ultima, tra l’altro, studia il comportamento degli organismi viventi, in particolare degli animali e, nel caso degli esseri umani, la loro vita mentale. In effetti le reti neurali possono essere considerate parte della vita artificiale, in quanto rappresentano modelli del comportamento del quale evidenziano le basi fisiche e biologiche. Tuttavia, concepirle esplicitamente come parte della vita artificiale cambia per molti aspetti il modo di fare ricerca con le reti neurali e gli stessi fenomeni che possono essere spiegati usando le reti neurali. I cambiamenti più importanti sono tre.

Il primo è che le reti neurali cessano di essere sistemi nervosi artificiali isolati dal resto del corpo per diventare parte di un corpo avente determinate caratteristiche fisiche, un corpo che include altre strutture oltre al sistema nervoso e che viene anch’esso simulato. Questa linea di ricerca è quella che attualmente viene sviluppata nell’ambito della robotica, della quale parleremo nel prossimo paragrafo.

Il secondo cambiamento è che le reti neurali diventano ecologiche, cioè reti neurali che, come gli organismi viventi, vivono in un ambiente e interagiscono con esso. Una simulazione che usa le reti neurali ecologiche riproduce nel computer non soltanto il cervello e il corpo di un organismo, ma anche l’ambiente in cui vive tale organismo. La rete neurale interagisce con l’ambiente nel senso che gli stimoli che giungono alle sue unità di input sono determinati da ciò che esiste in esso – oggetti, altri organismi ecc.– e i movimenti con cui essa risponde a questi stimoli modificano tale contesto o quanto meno le relazioni fisiche tra quest’ultimo e il corpo dell’organismo. Questa interazione a due vie tra la rete neurale e l’ambiente risulta essenziale per capire la natura del comportamento e, come vedremo nel prossimo paragrafo, ha importanti conseguenze per la concezione stessa che abbiamo della mente. Nelle reti neurali ‘classiche’, cioè non ecologiche, è il ricercatore che decide quali sono gli stimoli che giungono alle unità di input della rete e l’output della rete non ha conseguenze nella scelta di questi stimoli. Nelle reti neurali ecologiche, invece, è l’ambiente in cui sta la rete che di volta in volta manda degli stimoli alla rete, e quest’ultima, modificando l’ambiente, influenza i suoi stessi stimoli.

Il terzo cambiamento è che le reti neurali cessano di essere il sistema nervoso di un organismo isolato, ma viene simulata un’intera popolazione di organismi, uno diverso dall’altro, che nascono, vivono, si riproducono e muoiono, formando generazioni che si succedono l’una all’altra. Questo cambiamento inserisce la scienza della mente nella biologia evoluzionistica e nella genetica. Ogni organismo è dotato di un genotipo che codifica le sue caratteristiche fondamentali, a cominciare dal suo sistema nervoso, cioè dalla rete neurale: numero delle unità che costituiscono la rete, architettura delle connessioni, eventualmente i pesi delle connessioni stesse. Ogni individuo eredita un genotipo diverso. Poiché il genotipo ereditato dai genitori subisce delle modifiche casuali che corrispondono alle mutazioni genetiche e, nelle popolazioni che si riproducono sessualmente, è una ricombinazione casuale di parti del genotipo della madre e di parti del genotipo del padre, la variabilità tra gli individui viene mantenuta nella popolazione. Gli individui non si riproducono tutti con la stessa frequenza ma hanno maggiori possibilità di riprodursi quelli in possesso di un comportamento più adatto all’ambiente, che cioè permette loro di vivere più a lungo e di trovare più facilmente un partner per l’accoppiamento. I modelli della vita artificiale simulano l’evoluzione biologica utilizzando quelli che vengono chiamati algoritmi genetici. I due meccanismi della riproduzione selettiva degli individui più adatti e dell’aggiunta costante di nuova variabilità dovuta alle mutazioni genetiche e alla ricombinazione sessuale producono nel succedersi delle generazioni quei cambiamenti studiati dalla biologia evoluzionistica.

La vita artificiale ha una particolare importanza per la scienza della mente perché con i suoi modelli è possibile simulare tutte e tre i modi in cui può cambiare nel tempo il comportamento degli organismi: l’evoluzione biologica, lo sviluppo e l’apprendimento. L’evoluzione biologica viene simulata attraverso i cambiamenti che avvengono in una popolazione di organismi nel corso delle generazioni come risultato della riproduzione selettiva e dell’aggiunta costante di nuova variabilità. Per simulare lo sviluppo si considerano i cambiamenti che avvengono nel corso della vita dell’individuo ma sono codificati nel suo genotipo, il quale costituisce così un programma di sviluppo per l’individuo, inclusa la senescenza. L’apprendimento viene invece simulato prendendo in considerazione i cambiamenti che avvengono anch’essi nel corso della vita dell’individuo, ma sono soprattutto in funzione delle esperienze che questi fa nel particolare ambiente in cui vive. Ovviamente vi sono molte interazioni tra i tre processi di cambiamento e, anche se essi possono riguardare ogni aspetto della rete neurale dell’organismo, dalla natura degli input sensoriali e degli output motori al numero delle unità che formano la rete e all’architettura delle loro connessioni fino ai pesi delle connessioni stesse, ciascuno si riferisce preferenzialmente a un tipo di cambiamento piuttosto che a un altro. In ogni caso tale tema risulta centrale nella vita artificiale, che ha una visione ‘genetica’ dei fenomeni che studia, nel senso che cerca di capire i fenomeni riproducendone la genesi, cioè l’origine e il modo in cui sono diventati quello che sono.

La robotica

Come abbiamo già accennato, la nuova scienza della mente dà molta importanza al corpo nel determinare il comportamento. Corpo significa sistema nervoso ma anche tutto il resto, cioè forma esterna e dimensioni, disposizione e natura degli organi sensoriali e motori, organi e sistemi interni. Uno degli obiettivi della nuova scienza del comportamento è mostrare che quest’ultimo e la stessa vita mentale degli organismi non possono essere spiegati se non si tiene conto di tutti questi aspetti del corpo.

La disciplina che più direttamente si incarica di studiare il ruolo del corpo nel comportamento è la robotica, che negli ultimi decenni si è molto sviluppata con obiettivi non solo tecnologici, cioè di costruzione di artefatti praticamente utili, ma anche scientifici, al fine cioè di contribuire allo sviluppo della scienza della mente. Un robot è un artefatto, qualcosa di costruito dall’uomo, che ha la forma fisica di un organismo vivente e si comporta come tale. Può quindi essere visto anche come un modo di esprimere le teorie del comportamento. La teoria viene usata per costruire il robot, i suoi comportamenti sono le predizioni empiriche derivate dalla teoria, e se il robot si comporta come un determinato organismo vivente questo significa che la teoria usata per costruirlo è una buona teoria del comportamento di quell’organismo vivente. Visti in questo modo, i robot sono simili alle simulazioni al computer, e in effetti sono simulazioni incorporate in un artefatto fisico. Del resto i robot possono essere sia macchine vere e proprie che interagiscono con l’ambiente reale sia software nel computer che interagiscono con un ambiente simulato. In entrambi i casi la robotica è importante perché spinge la scienza della mente a prendere sul serio la fisicità del corpo degli organismi e a riconoscerne l’importanza nel determinare il loro comportamento. Nella vita artificiale una rete neurale è sempre inserita in un corpo che sta in un ambiente, ma la robotica è un invito a considerare con più realismo l’aspetto della fisicità.

La robotica evidenzia inoltre l’importanza dei movimenti dell’organismo nel determinare la conoscenza che questo ha del suo ambiente. La psicologia ha ereditato dalla tradizione filosofica una visione essenzialmente passiva della conoscenza, cioè l’idea che la conoscenza della realtà derivi dai dati sensoriali che dal contesto esterno giungono al cervello dell’organismo, senza che i movimenti dell’organismo abbiano alcun ruolo nel dare forma a questa conoscenza. Invece uno degli sviluppi più importanti della scienza della mente più recente ribalta questa teoria, suggerendo che la conoscenza della realtà è funzione non tanto degli stimoli che giungono al cervello dell’organismo quanto delle azioni con cui l’organismo risponde a questi stimoli. Se l’organismo deve rispondere a due stimoli differenti con la stessa azione, la rappresentazione neurale dei due stimoli tenderà a essere la stessa, mentre se a due stimoli simili deve rispondere con due azioni differenti, la rappresentazione dei due stimoli sarà diversa. In altre parole, i pesi delle connessioni della rete neurale sono fatti in modo da minimizzare le differenze tra stimoli che richiedono la stessa risposta e da amplificare le differenze tra stimoli che richiedono risposte diverse. Questo non deve sorprendere se si guarda al comportamento degli organismi da un punto di vista biologico, ossia dal punto di vista del loro adattamento all’ambiente. Quello che garantisce all’organismo la possibilità di sopravvivere e riprodursi sono le azioni con cui l’organismo risponde agli stimoli, non gli stimoli in sé stessi. È per questo che l’organizzazione della conoscenza nel cervello dell’organismo riflette le azioni di quest’ultimo, non gli stimoli che giungono ai suoi recettori sensoriali. Questa visione attiva della conoscenza appare naturale se si studia la mente costruendo robot, considerando che questi sono prima di tutto artefatti fisici capaci di movimenti. Se i movimenti del robot sono controllati da una rete neurale, un esame di quest’ultima mostra chiaramente che la conoscenza che il robot ha della realtà è organizzata in funzione dei suoi movimenti, non degli stimoli che giungono ai suoi sensori.

La visione attiva della conoscenza e l’importanza dei movimenti nella sua rappresentazione neurale rappresentano oggi il risultato di uno dei filoni di ricerca più importanti nelle neuroscienze, quello che ha portato alla scoperta dei neuroni canonici e dei neuroni specchio. Queste ricerche hanno mostrato che gli stessi neuroni che si attivano quando un organismo compie un’azione in risposta a un certo oggetto si attivano anche quando l’organismo percepisce l’oggetto senza compiere l’azione (neuroni canonici). E che gli stessi neuroni che si attivano quando l’organismo compie una certa azione in risposta a un certo oggetto si attivano quando l’organismo percepisce un altro individuo compiere quella stessa azione nei riguardi di quell’oggetto (neuroni specchio). La scoperta dei neuroni canonici e dei neuroni specchio costituisce la base di una teoria attiva della comprensione, analoga alla teoria attiva della conoscenza che abbiamo appena visto. Capire un oggetto, capire il suo significato, vuol dire attivare lo schema dell’azione che normalmente compiremmo in risposta alla percezione di tale oggetto. Capire le azioni degli altri nei riguardi di un oggetto significa attivare lo schema dell’azione che noi compiremmo nei riguardi di quell’oggetto. Questa teoria attiva della comprensione si estende anche alla comprensione del significato delle parole: comprendiamo il significato di una parola perché nel nostro cervello si attiva lo schema dell’azione che compiremmo in risposta all’oggetto designato dalla parola, nel caso dei nomi, o l’azione direttamente designata dalla parola, nel caso dei verbi.

La visione attiva della comprensione va anche al di là della comprensione in senso strettamente cognitivo e può essere estesa alla comprensione emotiva. Le emozioni fondamentali possono essere ricondotte a due movimenti del corpo, uno di avvicinamento per le emozioni di carattere positivo (piacere, desiderio) e uno di allontanamento per evitare le emozioni di carattere negativo (disgusto, paura). Sono questi due diversi movimenti che vengono attivati nel cervello in risposta, rispettivamente, a stimoli che ci piacciono e che desideriamo e a stimoli che non ci piacciono o di cui abbiamo paura. In questo modo può essere catturata la componente strettamente motoria delle emozioni, mentre la loro componente ‘sentita’ e ‘soggettiva’ richiede modelli neurali più complessi che simulino altri aspetti del cervello, a livello molecolare e non solo a livello cellulare, e simulino le interazioni tra il cervello e gli altri organi e sistemi interni del corpo.

La robotica rappresenta oggi uno dei settori di ricerca più importanti nello studio della mente. Essa si integra con la ricerca sulle reti neurali, in quanto il comportamento dei robot è sotto il controllo di una rete neurale, e con la ricerca sulla vita artificiale, poiché i robot per definizione sono artefatti che interagiscono con un ambiente e la robotica evoluzionista studia l’evoluzione di popolazioni di robot in base ai due meccanismi della riproduzione selettiva e dell’aggiunta costante di nuova variabilità. Ma le prospettive offerte dalla robotica per lo sviluppo della scienza della mente sono oggi ancora sostanzialmente potenziali e non ancora realizzate, anche se i progressi risultano costanti. Le ragioni di questo stato di cose non vanno cercate soltanto nelle intrinseche difficoltà di costruire robot in grado di esibire i complessi comportamenti che caratterizzano una specie come Homo sapiens, ma anche nella storia della robotica e nelle condizioni della ricerca scientifica attuali.

La robotica si è sviluppata nel corso del 20° sec. soprattutto come disciplina tecnologica, avente l’obiettivo di costruire artefatti utili e di risolvere problemi pratici. E, d’altro canto, i notevoli investimenti necessari per tale ricerca fanno sì che questa dimensione tecnologica e applicativa rimanga sempre importante. Vedere la robotica come uno strumento della scienza della mente spinge invece ad andare verso altre direzioni che spesso non coincidono con quelle che la intendono essenzialmente come tecnologia rivolta ad applicazioni utili. Un breve elenco di queste direzioni di ricerca renderà chiari quali sono i problemi.

Il merito maggiore della robotica dal punto di vista della scienza della mente risiede nel fatto che rende esplicito il ruolo del corpo nella determinazione del comportamento. Tuttavia, fino a oggi il corpo per la robotica è stato quasi sempre soltanto l’involucro esterno, in particolare la sua forma, le sue dimensioni e la disposizione e la natura degli organi sensoriali e motori. Lo studio del comportamento degli organismi richiede invece che l’artefatto che lo deve riprodurre possegga anche organi e sistemi interni, e che il sistema nervoso del robot, cioè la sua rete neurale, interagisca non solo con l’ambiente esterno ma anche con questi sistemi e organi interni, ossia che risulti nella condizione di ricevere input dall’interno del corpo e di generare output in grado di cambiare lo stato del corpo. Soltanto attraverso queste interazioni, e soltanto scendendo dal livello cellulare a quello molecolare di simulazione del cervello, è possibile riprodurre il livello strategico del comportamento che governa il livello tattico, dove il livello strategico è quello in cui motivazioni diverse (fame, sete, necessità di evitare i predatori, riproduzione, bisogno di riposo, bisogno di dormire, motivazioni sociali ecc.) competono per il controllo del comportamento; la motivazione che scaturisce da questa competizione determina le specifiche azioni e gli specifici movimenti con cui l’organismo cerca di soddisfarla a livello tattico. La riproduzione del livello strategico del comportamento e, più in generale, una robotica che possiamo chiamare interna sono essenziali per dotare i robot di reale autonomia e per spiegare aspetti importanti del comportamento e della vita emotiva degli organismi. Può però tradursi nella costruzione di robot che non hanno, almeno oggi, applicazioni pratiche o addirittura hanno caratteristiche che i robot con applicazioni pratiche non debbono avere (robot che decidono in base alle loro motivazioni e non a quelle dell’utente, robot con stati emotivi che disturbano il loro comportamento, con vere e proprie patologie psicologiche, robot che aggrediscono altri robot, robot che dormono ecc).

Un’altra direzione di sviluppo è quella della robotica mentale. La rete neurale che governa il comportamento di un robot riceve i suoi input da fuori, cioè dall’ambiente esterno e, nel caso della robotica interna, dall’interno del corpo, e i suoi output hanno effetti fuori della rete neurale, nell’ambiente esterno o nel resto del corpo. Tuttavia, negli organismi più sofisticati, e in particolare negli esseri umani, il sistema nervoso è in grado di autogenerare i suoi stessi input e di rispondere a ogni tipo di input non producendo modificazioni al suo esterno, ma semplicemente autogenerando al suo interno altri input. Questo è ciò che si chiama vita mentale, cioè le immagini mentali, i ricordi, i pensieri, i ragionamenti, le previsioni esplicite, i piani espliciti di azione.

La vita mentale è fatta di esperienze private, cioè accessibili al singolo individuo, e lo stesso vale anche per le interazioni tra sistema nervoso e interno del corpo di cui abbiamo parlato riferendoci alla robotica interna. In tutti e due i casi, l’origine fisico-chimica degli input che giungono al sistema nervoso e la catena di cause ed effetti fisico-chimici che ha come risultato la produzione degli input sono tali che per ragioni puramente fisiche gli input possono riguardare soltanto il sistema nervoso di un singolo organismo. Si tratta della vita psicologica privata.

Quando invece l’origine fisico-chimica di un input è collocata nell’ambiente esterno ed è anche esterna la catena delle cause e degli effetti che si traduce nell’arrivo di un input al sistema nervoso dell’organismo, un analogo input può arrivare anche al sistema nervoso di altri organismi che siano sufficientemente vicini nello spazio al primo organismo. Questa è la vita psicologica pubblica, anche se il riconoscimento da parte degli stessi organismi della distinzione tra privato e pubblico richiede che essi riconoscano l’esistenza di altri organismi e con questi ultimi si sappiano identificare (a questo proposito, si consideri il tema dei neuroni specchio, di cui abbiamo parlato precedentemente).

Una terza direzione futura di cui avrà bisogno la scienza della mente è quella della robotica sociale verso la quale si cominciano oggi a muovere i primi passi costruendo gruppi di robot che si coordinano tra loro e insieme hanno prestazioni che non sarebbero possibili per robot che agiscono da soli. Ma si tratta di una robotica sociale molto elementare che riproduce la socialità di animali semplici come gli insetti. E ciò non solo perché i comportamenti dei singoli robot sono molto semplificati, ma anche per un fatto più generale e più importante, e cioè che i robot che compongono un gruppo hanno lo stesso patrimonio genetico e quindi sono disposti ad aiutarsi tra loro, senza competere e senza danneggiarsi, come appunto avviene in insetti sociali come le formiche. La socialità di altri organismi, e in particolare quella degli esseri umani, è invece più complessa, non solo perché i comportamenti degli individui sono più articolati, ma perché gli esseri umani vivono ‘in compagnia di estranei’, ossia di altri individui che non hanno i loro stessi geni. La teoria dell’evoluzione biologica, e in particolare la teoria della selezione di parentela, spiega che nei due casi bisogna aspettarsi comportamenti diversi e una socialità diversa. Quando la socialità è tra individui geneticamente apparentati, ossia che hanno gli stessi geni, ci si possono aspettare comportamenti altruistici in quanto avvantaggiando con il nostro comportamento un altro individuo che ha i nostri stessi geni si avvantaggia la copia dei nostri geni posseduta dall’altro individuo, e così i geni altruistici hanno comunque la possibilità di continuare a esistere nelle generazioni future. Invece quando la socialità è tra individui che non hanno gli stessi geni, come avviene tra gli esseri umani al di fuori della famiglia, vi è competizione tra geni diversi e ci si devono aspettare comportamenti egoistici e comportamenti che danneggiano gli altri, con tutti i problemi di organizzazione del gruppo e i relativi meccanismi di scoraggiamento dei comportamenti che danneggiano gli altri e che rendono così complesse le società umane. Anche in questo caso una robotica avente obiettivi applicativi non è interessata a costruire gruppi di robot che si comportino egoisticamente gli uni con gli altri e che quindi compromettano le prestazioni coordinate e collettive che ci si aspettano da loro, mentre lo studio di gruppi di organismi in cui esistono sia altruismo sia egoismo è chiaramente importante per una robotica sociale avente obiettivi scientifici.

Un’altra direzione che dovrà svilupparsi in futuro è quella della robotica linguistica, cioè la costruzione di robot che posseggano un sistema di comunicazione con caratteristiche simili a quelle del linguaggio umano. Lo studio dei sistemi di comunicazione tra robot è un settore di ricerca oggi piuttosto attivo, che si occupa però di sistemi di comunicazione molto semplici, più simili a quelli degli animali che al linguaggio umano. Il linguaggio è forse il comportamento più sofisticato posseduto dagli esseri umani e ha molte caratteristiche che lo rendono diverso dai sistemi di comunicazione animali: i segnali linguistici hanno una relazione arbitraria con i loro significati ed esiste un’intera gerarchia con segnali più grandi composti da altri più piccoli ricombinabili tra loro in modo da produrre e capire segnali mai incontrati prima. Il linguaggio è un sistema di comunicazione che viene appreso per via culturale, cioè dagli altri, anche se sulla base di caratteristiche genetiche che sono proprie della specie umana. Inoltre, un’altra caratteristica molto importante che distingue il linguaggio umano dai sistemi di comunicazione animali è che esso viene usato per comunicare con sé stessi, ovvero per pensare, e non solo per comunicare con gli altri. In questo modo il linguaggio rende molto sofisticata e complessa la vita mentale di cui abbiamo parlato precedentemente in quanto molti degli input autogenerati dal sistema nervoso sono segnali linguistici e molte risposte a ogni tipo di input sono l’autogenerazione di segnali linguistici.

Un’ulteriore caratteristica degli esseri umani rinvenibile negli altri animali solo in forme embrionali, è che molti dei loro comportamenti sono appresi dagli altri, con una trasmissione definita culturale per distinguerla da quella per via genetica. La robotica culturale è un’altra direzione di ricerca che oggi si sta cominciando a esplorare e che dovrà essere sviluppata in futuro. La trasmissione culturale richiede che un robot sia in grado di osservare il comportamento di un altro robot e di imitarlo, oppure che un robot si prenda il compito di insegnare nuovi comportamenti a un altro robot, eventualmente usando il linguaggio. Le ricerche in questo campo sono già iniziate e hanno dato qualche risultato interessante, anche utilizzando l’idea dei neuroni specchio, i quali consentono a un robot di capire il comportamento di un altro robot riproducendolo a livello neurale. Ma la robotica culturale dovrà affrontare anche fenomeni che si situano a livello sociale. Gruppi di robot che tendono a imitarsi l’uno con l’altro sviluppano comportamenti simili, e differenti dai comportamenti di altri gruppi di robot, creando così vere e proprie ‘culture’. D’altra parte, le culture non rimangono sempre le stesse nel tempo ma sono soggette a cambiamenti nel corso delle generazioni che hanno qualche somiglianza con quelli che avvengono a livello genetico e che sono spiegati dalla teoria dell’evoluzione biologica di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. In entrambi i casi assistiamo alla riproduzione selettiva di comportamenti in quanto nella riproduzione culturale alcuni ‘maestri’ hanno più ‘allievi’ di altri ‘maestri’, così come nella riproduzione biologica alcuni individui hanno più figli di altri individui, e in entrambi i casi la riproduzione è accompagnata dall’aggiunta di nuove varianti di comportamenti, in quanto l’‘allievo’ non si comporta mai esattamente come il ‘maestro’ e ci possono essere nuove varianti che arrivano da altre culture.

Resta ancora da parlare di quelle direzioni di ricerca che si possono chiamare robotica tecnologica e robotica demografica. La prima mira a costruire robot che, come gli esseri umani, modificano l’ambiente in cui vivono, costruendo artefatti di ogni tipo, invece di limitarsi ad adattarsi all’ambiente così come lo trovano, come fanno per lo più gli altri animali. La capacità di costruire artefatti e di modificare l’ambiente ha un ruolo fondamentale nel definire lo specifico pattern adattivo degli esseri umani ed è nello stesso tempo una conseguenza delle loro capacità cognitive e sociali (si consideri che molti artefatti vengono costruiti da organizzazioni di esseri umani, non da singoli individui) e una pressione selettiva esercitata per lo sviluppo di queste capacità. La capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni, per es., appare cruciale per la costruzione di artefatti e per immaginare le conseguenze del loro uso, e la robotica tecnologica è collegata anche a quella culturale dato che la capacità di costruire artefatti viene spesso appresa culturalmente, osservando un altro individuo costruire un artefatto.

La robotica demografica cerca invece di riprodurre nei robot caratteristiche demografiche degli organismi, quali l’età, la diversità dei tratti nelle diverse fasi della vita, la distinzione di genere, gli atteggiamenti parentali e non. La robotica attuale per lo più costruisce robot privi di caratteristiche demografiche, ma è evidente che queste ultime hanno un ruolo importante nel determinare i comportamenti degli organismi e la loro organizzazione sociale, e per questa ragione la robotica demografica dovrà costituire un’altra delle direzioni verso cui indirizzare gli sviluppi futuri.

Tutti gli aspetti fin qui affrontati tendono a collegare la ricerca sul comportamento e sulla mente a quella sulle loro basi fisiche e biologiche, e quindi a saldare la disciplina della psicologia con le neuroscienze e le scienze biologiche in genere. Tuttavia, come abbiamo già accennato, la comprensione della mente, specialmente nel caso degli esseri umani, richiede che la ricerca sul comportamento venga estesa alla dimensione sociale e culturale e che la psicologia si saldi anche con le scienze sociali. La via che viene attualmente seguita e che appare la più promettente per lo sviluppo della scienza della mente nel 21° sec. è quella di usare i modelli computazionali, cioè le simulazioni al computer, anche per studiare la dimensione sociale e culturale del comportamento.

Il fatto di estendere anche alle scienze sociali i modelli computazionali e simulativi potrebbe dare a queste ultime la possibilità di esprimere le teorie in modo da renderne esplicite tutte le premesse e le loro conseguenze (predizioni), senza giudizi di valore. Il secondo significativo risultato consisterebbe nella possibilità di utilizzare un medesimo strumento teorico per tutte quelle scienze che studiano il comportamento e la mente, con il risultato di un diverso dialogo tra esse, fino a oggi mancato.

L’importante è che nel frattempo, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, la psicologia si vada saldando con le scienze biologiche e in genere con le scienze che studiano la natura, così da superare un’idea degli esseri umani come eccezione rispetto al resto della realtà, idea che è stata accolta, nei fatti pur se non nelle parole, anche dalla scienza.

Certo le difficoltà di adottare una prospettiva unificata di studio degli esseri umani che comprenda sia le scienze dell’uomo sia le scienze della natura sono anche di carattere tecnico. La novità con cui si apre il 21° sec., che consiste nell’applicare uno stesso strumento teorico, le simulazioni al computer, allo studio degli esseri umani sia per i loro aspetti fisici e biologici, sia per quelli comportamentali e mentali e sia per quelli sociali e culturali, è affascinante ma non facile da realizzare. Come abbiamo visto parlando della robotica, nelle simulazioni si riesce a tenere conto delle basi fisiche e biologiche del comportamento, ma a costo di studiare comportamenti semplici e soprattutto comportamenti individuali, non sociali. Invece, nelle scienze sociali, con quelli che oggi si chiamano modelli ad agenti si riesce a simulare il funzionamento di insiemi di individui, il coordinarsi di questi individui, il collaborare e il competere tra di loro, l’emergere di organizzazioni di individui, ma al costo di minimizzare o ignorare del tutto la fisicità del loro corpo e del loro sistema nervoso. Il futuro di una scienza unificata della mente dipende dalla capacità di superare progressivamente questi limiti.

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