AMBROSIANA, REPUBBLICA

Enciclopedia Italiana (1929)

AMBROSIANA, REPUBBLICA

Ettore Verga

. Morto il 13 agosto 1447 senza eredi maschi, Filippo Maria Visconti, parecchi pretendenti alla successione si affacciarono. Innanzi tutto Francesco Sforza, marito, dal 1441 di una sua figlia naturale, Bianca Maria; poi, il duca di Savoia, suocero del defunto; la Casa d'Orléans, per il possesso d'Asti portata in dote da Valentina Visconti; Alfonso d'Aragona, re di Napoli, e altri minori. E tutti avevano aderenti entro e fuori la corte; senza contare i partigiani, specialmente in Lodi e Piacenza, di un eventuale dominio della repubblica di Venezia. Ma a Milano un altro partito più forte doveva essersi da tempo formato, se in un giorno solo riuscì ad avere il sopravvento: quello dell'indipendenza. Divulgatasi appena la notizia, inattesa, della morte del duca, il 14 agosto pochi cittadini, Giorgio Lampugnani, Antonio Trivulzio, Innocenzo Cotta, Teodoro Bossi, ecc., giurisperiti, o, comunque, persone di elevata cultura, poterono sollevare la moltitudine incerta, invadere il palazzo del comune, instaurare un governo provvisorio, che, quattro giorni dopo, fu convertito in un definitivo governo repubblicano, con 24 capitani e difensori della libertà, scelti fra cospicue famiglie. Il nuovo regime si inserì nei vecchi ordinamenti amministrativi, e, all'infuori delle persone, poco ci fu da mutare; le uniche preoccupazioni del governo furono di cancellare le tracce più appariscenti del passato dominio, di spingere la plebe a diroccare il castello di porta Giovia, di conquistarsi il favore del popolo, anche con mezzi assurdi, come quello di bruciare pubblicamente tutti i libri delle imposte, lasciando intendere che d'imposte si sarebbe fatto senza. L'amor della patria e della libertà avrebbe indotto i cittadini a dare spontaneamente alla repubblica i mezzi per vivere! Non eran passate due settimane, che si dovette imporre una taglia forzosa di 200.000 ducati, presso a poco quello che percepiva la camera ducale dalla città e dalla provincia o ducato, comminando la confisca dei beni ai renitenti; e per far denaro si vendettero i beni del duca, si organizzò persino una grande lotteria.

Frattanto, eccettuate Como, Novara, Alessandria, cui particolari interessi legavano a Milano, tutte le citta dello stato visconteo rifiutarono di aderire alla repubblica, e se ne resero indipendenti. Andate a vuoto le pratiche per concludere con Venezia la pace, rimaste interrotte per la morte del duca, bisognò pensare alla guerra; e si offerse il comando generale a Francesco Sforza, quantunque già serpeggiasse qualche non infondato sospetto sulle future intenzioni di lui: sospetto ribadito quando, offertaglisi Pavia, che a nessun patto avrebbe voluto star con Milano, egli, sia pure col consenso, chiesto con eloquenti ragioni, del governo repubblicano, ne assunse in proprio nome la sovranità. Di qui una condotta verso il conte piena d'incertezze, di ambiguità che, al pari dei provvedimenti interni slegati, dettati da impulsi momentanei, rifletteva l'imperizia, l'incomprensione della realtà, l'incapacità di quei governanti a fronteggiare situazioni difficili e complicate. La stessa fondazione di una università degli studî (14 marzo 1448), essendo preclusa per la ribellione quella di Pavia, risultò intempestiva ed ingenua, dati i tempi calamitosi e torbidi. La nomina di Carlo Gonzaga, che con 1200 cavalli e 500 fanti aveva disertato il campo dello Sforza, a capitan generale delle milizie cittadine, direttamente dipendente dal governo, fu una palese prova di diffidenza verso il generale della repubblica, le cui gesta vittoriose insospettivano più che non rallegrassero. Dopo l'acquisto da lui fatto di Piacenza che s'era data a Venezia (dicembre 1477), e quello di Tortona, i governanti avviavano pratiche segrete con la Serenissima, per liberarsi a un tempo del nemico e del pericoloso generale. Mentre il conte opportunamente pensava a impadronirsi di Brescia, lo obbligarono a desistere da tal proposito e ad assalir Caravaggio: egli ubbidì, vinse brillantemente (14 settembre 1448), ma l'impresa essenziale non era quella. Insistette; ma le sue ragioni erano confutate, i suoi ordini ostacolati, sì da lasciargli l'impressione che da un momento all'altro gli si togliesse il comando. A Milano, sobillatori grandi e piccoli seminavano antipatie contro di lui. S'invitavano i suoi generali a disertare, com'egli seppe da lettere intercettate; si scriveva a persone di Brescia, da lui, nonostante l'opposizione del governo, assediata, che si tenesse duro, essendo vicina la pace con Venezia. Quest'ultima, invece, prevedendo la caduta di Brescia, pensava ad accordarsi col conte, né durò fatica a convincerlo; le male arti della repubblica furono a lui un ottimo pretesto per accettare le buone condizioni offertegli dai Veneziani: liberazione di Brescia, sgombero dei Veneziani da Lodi, aiuto a riconquistar lo stato di Filippo Maria, esclusa Crema e la Ghiara d'Adda, 13.000 fiorini di stipendio al mese.

A tal notizia Milano è costernata: i capi gettan l'uno sull'altro la colpa dell'accaduto; si mandano oratori al conte, il quale, calmo, dichiara che sarà un padre per i Milanesi se vorranno riconoscerlo, ché altrimenti farà valere i suoi diritti con la forza. Gli oratori, Lampugnani, Cusani e Cotta, al ritorno, sono aggrediti da soldati sforzeschi e derubati: il conte, mite e generoso in questa come in tante altre occasioni, fa impiccare gli aggressori e rimanda a Milano la roba. Rinnovato il governo e il consiglio con altri uomini, di parte popolare, prevale il partito della resistenza: si manda, a chieder aiuto a Federigo d'Austria, Enea Silvio Piccolomini, che l'imperatore stesso aveva inviato a Milano quando gli si era chiesto di prender sotto la sua protezione la nuova repubblica; ma tutto senza risultato. Mentre lo Sforza passa di trionfo in trionfo, si nomina capitano generale Carlo Gonzaga, che, ambizioso per suo conto, riempie il consiglio di popolani e allontana dal governo il Lampugnani, uno dei migliori uomini, provocando in lui, pur sincero fautore della repubblica, e nei suoi aderenti, una reazione che mette capo a una trama, ordita con Teodoro Bossi ed altri, per dar la città al conte qualora offra patti soddisfacenti. Scoperta la trama, il Gonzaga non ha il coraggio di colpire direttamente i congiurati: li fa nominare ambasciatori all'imperatore, e dà loro buona scorta di soldati, i quali, appena usciti sulla strada di Como, li accerchiano e li trascinano a Monza, dove il Lampugnani è decapitato, mentre il Bossi, fra le torture, rivela i complici che vengon poi uccisi a Milano. Fiaccato così il partito dei nobili, la plebe, capeggiata da un Ossona e da un Appiani che han formato una specie di comitato di salute pubblica, divien padrona del campo, arrogandosi poteri dittatoriali, mentre lo Sforza, già padrone di parecchie città, assedia la metropoli. Per ovviare al disordine, tre cittadini, Guarnerio Castiglioni, Pietro Pusterla e Galeotto Toscano, si mettono a capo del governo e fanno arrestare i due agitatori: ma il popolo si solleva, li mette in libertà, invade il palazzo, uccide il Toscano, e instaura un nuovo governo più intemperante del precedente (luglio 1449). Si saccheggiano case e granai, col pretesto dei pubblici bisogni; si pone una taglia sul capo dello Sforza, si commina la morte a chi lo nomini, salvo che per ischerno. Il Gonzaga, vedendo che con simile gente non v'è nulla da fare, né per la repubblica, né per sé, si concilia con lo Sforza e ritorna ai suoi ordini. Privata la repubblica del capo, il governo in mano a inetti e facinorosi, si pensò da alcuni a ritentar la conciliazione con Venezia; e questa volta si riuscì, giacché Venezia, turbata dai trionfi del conte, temeva che, una volta padrone di Milano, non volesse ritorglierle quanto già le aveva tolto Gian Galeazzo Visconti. Secondo il trattato concluso tra la repubblica e la Serenissima (29 settembre 1449), Milano avrebbe avuto il territorio tra l'Adda e il Ticino, tranne Pavia, che, con tutto il resto dello stato di Filippo Maria, veniva assegnata al conte; a Venezia, Bergamo, Brescia, Treviglio e Caravaggio. Lo Sforza, naturalmente, ricusò il trattato e continuò la guerra contro Milano e contro Venezia, deciso per altro a non assaltar la capitale, ma a prenderla per fame senza spargimento di sangue. E infatti, mentre egli guerreggiava sempre con esito favorevole, la città ridotta all'estremo (come narra il Corio, si moriva per le strade), invano confidante in soccorsi di Venezia, precipitava a rovina. Fidi amici del conte - fra i quali Gaspare Vimercati, disgustato dagli eccessi della repubblica, che pure aveva servito valorosamente come governatore di Crema - andavano prudentemente preparando il terreno per il suo avvento. Il 23 febbraio del 1450, nella chiesa di S. Maria della Scala era, come di consueto, radunato il gran consiglio formato da uomini inetti, scelti a bella posta dai Capitani per averli favorevoli, e convocato in quel giorno non perché vi fossero provvedimenti urgenti da deliberare, ma per dar a credere al popolo che si avesse a cuore il suo bene; sulla strada, Pietro Cotta e Cristoforo Pagnani, fra capannelli di curiosi, andavan mormorando sulla inettitudine dei capitani e del consiglio, sui Veneziani che non mandavan soccorsi, sperando che Milano stretta dalla fame si desse a loro. Si formò una folla di malcontenti, che divenne minacciosa quando si vide comparire il capitano di giustizia, seguito da birri a cavallo, muniti di capestri. Capitano e birri son messi in fuga: la moltitudine, col Vimercati e col Cotta alla testa, assalta il palazzo, se ne impadronisce dopo aspro combattimento; l'ambasciatore di Venezia, che le si presenta con modi altezzosi, è ucciso; tumultuariamente si forma un nuovo governo. Il giorno dopo grande riunione di cittadini nella chiesa della Scala, senza che si sappia precisamente quel che si voglia: alcuni son per la repubblica, i più per la scelta di un principe, o il re di Francia, o l'Aragonese, o il duca di Savoia, o il papa, o l'imperatore; d'accordo tutti nel gridar "morte ai Veneziani". A un tratto, calmo e sereno, si alza a parlare Gaspare Vimercati, il quale, con un magnifico discorso, espone gli svantaggi di qualsiasi soluzione che non sia quella di darsi a Francesco Sforza. La folla, commossa e convinta, acclama lo Sforza duca di Milano e incarica il Vimercati di recargli la notizia. Preceduto da soldati carichi di pane e allegramente saccheggiati dalla moltitudine affamata uscita per andargli incontro, Francesco Sforza entra finalmente il 27 febbraio in Milano, fra un delirio di acclamazioni. Così ebbe fine questo movimento repubblicano le cui cause sfuggono allo storico, non esistendo alcun documento che ne spieghi la preparazione, se preparazione ci fu. L'opinione del Sickel che esso sia stato un effetto dei rinnovati studî umanistici, non sembra del tutto priva di fondamento, se si considera la qualità dei promotori, tutte persone dedite allo studio, e il fatto che quel governo ebbe a segretario uno dei più eminenti umanisti del tempo, Pier Candido Decembrio, il quale, pur essendo stato apprezzatissimo segretario del defunto duca, si dichiarò fin da principio pronto a servir la repubblica, e molto con sue lettere si adoperò per conciliarle l'opinione dei principi italiani. A infervorare i capi della rivoluzione dovette anche contribuire l'ammirazione per la repubblica di Venezia, la quale allora sembrava a molti cosa divina. Comunque, l'effimero stato, severamente giudicato, se non pur deriso, dagli altri governi, nonostante gli sforzi del Decembrio, non avrebbe potuto durare, quand'anche i capi fossero stati più capaci e più avveduti, e non si fossero lasciati prender la mano dai torbidi elementi popolari. Esso era anacronistico e isolato in un'Italia dove già da tanto tempo si era potentemente affermato il principio monarchico.

Bibl.: P. C. Decembrio, Vita Fr. Sfortiae, in Rer. ital. script., XX; F. Simonetta, Hist. de rebus gestis Fr. Sfortiae, ibid., XXI; B. Corio, Storia di Milano, III, Milano 1857; N. Machiavelli, Ist. fior., ed. Carli, Firenze 1927, VI; P. Verri, Storia di Milano, Milano 1798, II; C. De Rosmini, Storia di Milano, Milano 1820; T. Sickel, Beiträge und Berichtigungen zur geschichte der Erwerbung Mailands durch F. Sforza, in Archiv für Kunde Österreichischen Geschichtsquellen, Vienna 1855; id., Die Ambrosianische Republik und das Haus Savoyen, Vienna 1856; F. Peluso, Storia della Repubblica milanese dall'anno 1447 al 1450, Milano 1871; A. Butti, I fattori della Repubblica ambrosiana, Vercelli 1891.

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