RENATA di Valois-Orleans

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 86 (2016)

RENATA di Valois-Orleans

Eleonora Belligni

RENATA (Renée) di Valois-Orléans (Renata di Francia). – Nacque a Blois il 25 ottobre 1510, secondogenita di re Luigi XII di Francia e di Anna, duchessa ereditiera di Bretagna.

I Valois-Orléans erano un ramo collaterale della famiglia Valois che, a sua volta, apparteneva alla dinastia capetingia. Luigi II, duca d’Orléans, salito al trono di Francia come Luigi XII, fu l’unico re del ramo Valois-Orléans: dai suoi tre matrimoni, con Giovanna di Valois, Anna di Bretagna e Maria Tudor, non riuscì a ottenere l’agognato erede maschio. Sopravvissero all’infanzia solo due delle figlie di Anna, le principesse Claudia e Renata di Francia, entrambe di complessione fragile, di salute precaria e di scarsa avvenenza. Nel 1514, pochi mesi dopo la morte della madre, fu stabilito che la primogenita Claudia portasse in dote il feudo materno al giovane cugino Francesco I, dell’altro ramo collaterale, quello dei Valois-Angoulême, che il suocero aveva già designato come proprio successore al trono di Francia.

Renata venne pesantemente penalizzata dalla ridefinizione dell’eredità dei genitori, seguita alle nozze tra la sorella e il futuro re. Nel suo contratto matrimoniale con Luigi XII, per mantenere la Bretagna indipendente dalla Corona francese, Anna aveva disposto che ne fosse l’erede il «second enfant masle, ou fille a defaut de masle, venant de leur dit mariage» (Morice, 1746, col. 813). Restavano larghi margini di ambiguità su una possibile divisione dei domini paterni e materni in parti eguali tra le due sorelle e, di conseguenza, sulla proprietà del grande e potente ducato. Tale ambiguità, in effetti, fece sì che gli accordi matrimoniali accompagnassero l’infanzia e l’adolescenza di Renata. A soli due anni fu promessa a Gastone di Foix, poi proposta a Carlo d’Asburgo e ancora al fratello di lui, Ferdinando, al duca di Noyon, sub condicione (la morte della fidanzata); poi al duca di Savoia, al figlio maggiore di Gioacchino di Brandeburgo, al connestabile di Borbone, al re di Portogallo, a Enrico VIII, a Enrico d’Albret. Tutti costoro avrebbero certamente rivendicato la Bretagna a tempo debito. Perciò le trattative erano state lunghe e faticose, mentre Francesco I cercava per la giovane cognata un candidato imbelle e privo di potere.

Il 28 maggio 1528, Renata si congiunse in matrimonio con Ercole II d’Este: l’ultima e a lei più sgradita delle tante opportunità. La figlia del sovrano Luigi XII di Francia si doveva accontentare di un piccolo principe italiano; questo prendeva in moglie, in nome di un’alleanza precaria, un’orfana di re «tres gasteé de son corps» (Brantôme, 1875, p. 108) le cui quotazioni matrimoniali erano andate calando drasticamente di anno in anno. La giovane rinunciava ai diritti sui possedimenti dei genitori, compensati da una dote che comprendeva la contea di Gisors, il ducato di Chartres e il dominio di Montargis, più 250 mila scudi d’oro. Solo 50 mila vennero pagati sul momento (e subito chiesti indietro, sotto forma di prestito): il resto sarebbe stato elargito in una rendita annuale di 10 mila scudi. Sulla base di quella che venne da più parti considerata una clamorosa truffa, nel 1568 gli avvocati di Renata avrebbero intentato una causa contro la corte di Francia.

Le conseguenze di questa infelice «mésalliance» vanno analizzate in direzioni all’epoca inaspettate, che coinvolsero il passaggio delle idee eterodosse tra Francia e Italia e la storia della Riforma in Europa. La vicenda affonda le sue radici nel periodo dell’infanzia e della prima giovinezza di Renata. La Francia degli anni Dieci e Venti – i primi del Regno di Francesco I, del contrasto con Carlo V e delle guerre d’Italia – fu testimone di un’eccezionale stagione culturale e del movimento religioso noto come Protoriforma. Il piccolo mondo di donne sapienti e mecenatismo femminile che costituiva l’entourage di Anna di Bretagna e della sua gentildonna di camera, Michelle da Saubonne, poi Madame de Soubise – governante di Renata –, venne assorbito dalla corte di Luisa di Savoia e della figlia Margherita, la madre e la sorella del nuovo re.

Mentre Soubise veniva cacciata da corte per motivi misteriosi, Renata fu accolta dalle parenti e crebbe con giovani nobili e colte come le sorelle Anna e Maria Bolena, Anna Malet de Graville, Isabella d’Albret.

Fuori dalla «scuola di corte» si muoveva un universo di dotti e prelati riformatori, che avevano recepito il messaggio libertario di Martino Lutero e il suo sforzo intellettuale per restituire al popolo le Scritture, ma paventavano la frattura della cristianità. Fu soprattutto Margherita, sorella di Francesco I, a sostenere le idee del grande umanista Jacques Lefevre D’Etaples, lo sperimentalismo religioso dei fratelli Guillaume e Denis Briçonnet e del loro ‘gruppo di Meaux’, creando legami di individui e risorse che sarebbero sfociati in un reticolo eterodosso e clandestino, noto oggi come la rete navarrese.

Renata cercò di riprodurre a Ferrara il suo modello, che proponeva la leadership femminile di un gruppo eterodosso, il patronage nei confronti di letterati, umanisti e novatores, e soprattutto di individui dalle credenze religiose molto diverse.

Presentatasi nella città ducale con un nutrito drappello di servitori, gentiluomini e dame francesi – più di 150 persone, anche se nel giro di un decennio gli ufficiali residenti si ridussero del 20% circa – la sposa straniera tentò di ricreare nella pianura padana un habitat a lei congeniale, che la aiutasse a sopravvivere alla nostalgia della corte francese. La struttura stessa della maison, come rivelano i registri di corte, continuò a ricalcare quella della corte dei Valois (la chambre, la chapelle e sei uffici: paneterie, échansonnerie, cuisine, fruiterie, escuyrie, fourrière), nonostante i ripetuti tentativi del duca Ercole di ridimensionarla. L’entourage della duchessa rivelò fin dai primi anni marcate tendenze eterodosse, sotto la spinta dell’antica governante madame de Soubise, voluta da Renata di nuovo al proprio fianco.

Intanto, in terra d’Emilia e in Romagna la diffusione di dottrine eterodosse aveva iniziato a manifestarsi in concomitanza dell’arrivo della sua corte. Dopo poco tempo, si insediarono a Ferrara altri francesi protoriformati, molti dei quali emigrati nei primi mesi del 1535, in seguito all’affaire de placards, che sancì un profondo mutamento nelle prospettive delle comunità eterodosse d’Oltralpe e di coloro che, come i franco-ferraresi, avevano forti legami con quel mondo.

Negli anni Trenta l’esistenza di Renata fu scandita da continue gravidanze: nel giro di pochi anni nacquero Anna (1531), che avrebbe sposato Francesco, duca di Guisa e dopo la morte di questi, il duca di Nemours, Giacomo di Savoia; Alfonso (1533), duca di Ferrara dal 1559; Lucrezia (1535), che avrebbe sposato il duca di Urbino Francesco Maria II della Rovere; Eleonora (1537), che avrebbe preso i voti; Luigi (1538), futuro vescovo di Ferrara e poi arcivescovo di Auch. Nonostante una salute precaria e terribili emicranie, la duchessa volle tenere vicine le figlie femmine, che vennero allevate nella sua cerchia e secondo i suoi principi religiosi. Le bimbe entrarono a far parte di un gruppo femminile eterodosso, di grande reputazione e libertà intellettuale: donne come Olimpia Morata, Françoise de Boussiron, Anne de Beauregard; come Anna, Charlotte e Renée Parthenay-L’Archevêque, figlie di madame de Soubise; come Renée de Thunes, Marie Teronneau e la sorella Marguerite, con le cinque figlie, come la nana Agnes e la sua servitrice Lucrezia, anche lei nana. Delle tre figlie, fu Anna d’Este a manifestare un precoce talento per le humanae litterae.

La corte estense continuava a esercitare quella supremazia culturale che l’aveva contraddistinta nella stagione del primo Rinascimento: le nuove idee (anche quelle religiose) trovavano un terreno fecondo e un duca relativamente compiacente. Era ancora la Ferrara degli umanisti e dei grandi intellettuali, di poligrafi, filologi e trattatisti come Celio Calcagnini, Fulvio Pellegrino Morato, Antonio Brucioli, Lilio Gregorio Giraldi, Giovan Battista Giraldi Cinzio, Ortensio Lando, Bartolomeo Ricci, Charles Fontaine, Bartolomeo Ferrini; di geografi come Jacob Ziegler; di antichisti eccellenti come Francesco Porto e Ludovico Castelvetro; di medici enciclopedici come Johannes Senft (Sinapius), Johannes Fichard e Antonio Musa Brasavola; di musici d’avanguardia, come Adrian Willaert e la famiglia della Viola. Per costoro, il problema religioso era il sintomo di una sensibilità collettiva che andava crescendo di giorno in giorno. Era il tempo della sperimentazione e della tolleranza, in una città le cui propensioni ereticali erano già note a Gian Pietro Carafa, futuro capo dell’Inquisizione; in cui gli ebrei prosperavano con buona pace del duca e i gesti dimostrativi di repressione erano rari. Renata fece a gara con il duca consorte per aggiudicarsi le più belle menti, che entrarono (in diversa misura) a far parte del suo entourage eterodosso.

Il passaggio di Giovanni Calvino a Ferrara risale alla primavera del 1536, all’epoca dell’uscita a Basilea dell’Institutio christianae religionis. La visita è attestata dai primi biografi del riformatore, come Théodore de Bèze e Nicolas Collodon, e ne restano tracce nelle lettere che egli ricevette dai coniugi Sinapi, Giovanni e Françoise de Boussiron. Non si conoscono l’obiettivo di Calvino, che si celò sotto il nome di Charles d’Espeville, né l’identità del suo compagno, che è stato identificato con Louis du Tillet, né la sua meta quando lasciò Ferrara. È certo che egli penetrò nella vita della comunità, ergendosi a guida spirituale per gli anni a venire. Il suo arrivo coincise all’incirca con la cacciata di madame de Soubise da parte del duca Ercole II e con il primo processo intentato contro il gruppo di Renata.

Il venerdì santo del 1536 il cantore Jehannet Bouchefort, in esilio a Ferrara dal 1535, si rifiutò di adorare la croce con indignata ostentazione. Giunto a conoscenza della notizia, l’inquisitore ferrarese, Pietro Martire da Brescia, chiese l’arresto del musico e degli altri empi francesi presenti alla corte di Madama, i cui nomi saltarono fuori dalle prime indagini del 29-30 aprile, dando il via a una battaglia giurisdizionale piuttosto complicata. Un frate francescano francese, seguito da un confratello italiano, aveva denunziato esplicitamente all’inquisitore i malcostumi religiosi della corte di Renata, dove perfino le donne disputavano di dottrina. Vennero scoperti e identificati come eterodossi lo stesso Jehannet, sfuggito ai placards; il poeta Clément Marot, «luterano» perseguitato dalle autorità francesi; Jean Cornillau; Guiges de Guiffrey, signore di Boutières; un predicatore cremonese, identificato come Agostino Foliati da Cremona; il profumiere di Renata, Niccolò «speziale» e un agostiniano eremitano poco noto. Mentre il duca sosteneva l’Inquisizione locale e teneva prigionieri i cortigiani francesi, questi richiedevano di essere estradati a Roma; Renata, dal canto suo, si rivolgeva al re e ai grandi ufficiali e prelati francesi per ottenerne l’immunità attraverso il papa. Paolo III reagì con il breve del 10 maggio 1536, indirizzato all’inquisitore di Ferrara, che esautorava dai suoi compiti, imponendo di fatto l’estradizione dei portatori della «noviter detecta pestis» (Fontana, 1889-1899, I, p. 503).

Alcuni, come Soubise e Marot, partirono per sempre, ma agli esili seguì l’arrivo di altri eterodossi. Leon Jamet, Ambroise de Charcigny, lo stesso Bouchefort, restarono invece accanto alla duchessa o a lavorare per lei in Francia fino agli anni Cinquanta. Ben lungi dal disperdersi o dal farsi intimorire, nel ventennio successivo, con il trasferimento nel paesino di Consandolo, la comunità di Renata entrò a far parte di una rete intricata di rapporti con il fronte eterodosso europeo. Mentre l’Italia assisteva alla rapida ascesa del partito inquisitoriale, quello dei cosiddetti intransigenti, e della sua anima politica, Gian Pietro Carafa, la cerchia venne in contatto con realtà diverse: i calvinisti italiani, esuli o clandestini; gli spirituali, seguaci di Juan de Valdés; le sette più radicali, dagli anabattisti, agli antitrinitari, ai cosiddetti georgiani, seguaci del creativo eretico Giorgio Siculo, fino agli atei libertini. I più la consideravano una comunità calvinista. Calvino stesso finì con il ritenere l’entourage di Renata un’enclave sua propria, sebbene non completamente affidabile: alla fine degli anni Quaranta si celebrava la Cena alla maniera «sacramentaria», secondo il modello di Huldreich Zwingli e poi di Johann Heinrich Bullinger. Eppure rimaneva forte l’esempio irenico di Margherita e dei suoi protetti che, come Gerard Roussel, ancora si rifiutavano di consumare la frattura con la Chiesa cattolica in nome del nicodemismo. Nonostante il diretto interessamento di Ginevra, insomma, il calvinismo di Consandolo risultò più anomalo e corrotto di quello di altre comunità italiane.

Nel settembre del 1554 un nuovo procedimento repressivo da parte del duca colpì la corte di Renata. Dopo numerosi avvertimenti da parte dell’Inquisizione romana, dal 1551 Ercole II aveva invocato l’aiuto del gesuita Jean Pellettier e di Dominique du Gabre, vescovo di Lodève; a questi si erano affiancati nel 1554 l’inquisitore locale Girolamo Papino, e Mathieu Ory, priore dei domenicani di Parigi. Il duca e il re di Francia volevano evitare lo scoppio di uno scandalo internazionale che pareva imminente. Renata fu incarcerata in tre stanze della corte e cento libri della sua biblioteca eterodossa le vennero sequestrati: dopo pochi giorni, ella si persuase a partecipare alla messa, come pegno formale di conversione e pentimento.

A ciò seguì una serie di condanne, come quella di Ambrogio Cavalli da Milano, elemosiniere della duchessa, e l’esilio di alcuni suoi seguaci, come Francesco Porto. Fu all’epoca di questa seconda repressione che si scoprì la complessità della trama di rapporti (centinaia di persone) che Renata aveva saputo tessere. Fino agli anni Settanta del Cinquecento l’onda lunga di quella esperienza si fece ancora avvertire nei processi inquisitoriali, attraverso testimonianze di rilievo, che la definirono «subventrix haereticorum» (Firpo - Marcatto, 1981-1995, VI, Appendice II, p. 288, deposizione di Gabriel Martinet di Borgogna). In realtà, i grandi processi della seconda metà del secolo – a Giovanni Morone, a Pietro Carnesecchi, a Vittore Soranzo, a Nascimbene Nascimbeni, a Endimio Calandra e Antonio Gadaldino – e le dichiarazioni di Giovambattista Scotti e di Pietro Manelfi, di Tommaso Palvio d’Apri condannano la corte della duchessa e le sue conoscenze, ma non entrano nel merito. Fanno eccezione i due ben noti costituti di Ambrogio Cavalli (11 e 12 ottobre 1555), che aveva fatto parte della comunità di Renata.

I processi resero noto che, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, nel gruppo di Renata si erano manifestate posizioni dottrinali molto variegate. Alcuni, come Francesco Porto e i Pons, erano stati attratti nell’orbita di Calvino. Altri, invece, avevano conservato negli anni l’avversione al dogmatismo: Cavalli nominava tra questi l’elemosiniere François Richardot, Ambrogio Cavalli, Dionigi Brombila (Brambilla) e Franceschino da Lucca. Molti celebri predicatori, talvolta clandestinamente, erano passati a Ferrara: alcuni, come Giulio Della Rovere, Bernardino Ochino, Andrea Ghetti da Volterra, Bartolomeo della Pergola, avevano predicato quaresime e avventi; altri, come Agostino Fogliata, Tommaso Palvio d’Apri e il vecchio Girolamo da Siena, si erano fermati a Consandolo più a lungo. Sulla scia di questi celebri sermoni, che il duca non aveva avuto ragione o occasione di boicottare, erano approdati alla spicciolata gli spirituali italiani. Molti dei più fedeli seguaci di Juan de Valdés erano stati distaccati testimoni di ciò che accadeva a Ferrara: tra loro Bernardino Ochino e Vittoria Colonna al suo seguito, Galeazzo Caracciolo, Caterina Cybo attraverso la mediazione di Andrea Ghetti da Volterra. Isabella Brisegna, suo figlio Pietro Manrique, sua nuora Elisabetta Confalonieri e la giovane Barbara Castiglione si erano invece fermati a Consandolo, partecipando ai riti eucaristici. Molti altri protagonisti del panorama eterodosso europeo avevano avuto soldi, favori o un alloggio a Ferrara nel nome di Renata: tra questi, Marcantonio Dovizi, Ludovico Manna, Ludovico Domenichi, Baldassarre Altieri, Bartolomeo Panciatichi, Francesco Annovazzi, Pietro Bresciani, Bonifacio e Filippo Valentini, alcuni tra i più famigerati georgiani e forse Giorgio Siculo in persona, e ancora Girolamo Borri, i fratelli Donzellino, Vincenzo Fedele, i Gadaldino, Pietro Lauro, Ludovico e Giambattista Pallavicino.

Di fronte a un’evidenza schiacciante, e cioè che Renata sovvenzionava eretici di ogni banda, gli interventi furono blandi, lasciati di fatto alla buona volontà di Ercole II, che, passata la buriana, tornò a chiudere un occhio sulle abitudini e le frequentazioni della moglie. Pur inefficaci, essi contribuirono però alla decisione della nobildonna di ritornare in Francia con i reduci del proprio entourage. Morto il marito il 3 ottobre 1559, ai primi acerbi contrasti con il figlio Alfonso II, il nuovo duca, Renata lasciò per sempre Ferrara. Fu ricevuta il 7 novembre del 1560 dai parenti francesi a Orléans con grande calore: Caterina de’ Medici sembrava ritenere, all’epoca, che la figlia di Luigi XII potesse rafforzare un’«unione di principi» nel Consiglio reale, per permetterle di districarsi tra le trame analoghe dei nobili ugonotti e cattolici.

In realtà, nel giro di poco, la situazione della politica interna mutò drasticamente nella direzione della guerra civile. L’anziana dama chiarì ben presto che la sua parentela con i leader di entrambe le fazioni, i Guisa e i Borbone, non le permetteva di schierarsi. O, meglio, la obbligava a schierarsi con tutti, che si trattasse della famiglia reale, della figlia Anna, duchessa di Guisa, e della sua famiglia, della cugina Jeanne d’Albret o dei propri vicini di feudo, i Coligny, degli eterodossi che ancora bussavano alla sua porta. Furono anche gli anni dell’aut-aut di Calvino, che le inviò il pastore François Morel (già mandatole a Ferrara per sostenerla nella fede nell’agosto del 1554), caldeggiando l’abbandono di ogni atteggiamento tollerante e politique e del nicodemismo. La duchessa decise così di ritirarsi nel lontano feudo di Montargis, dividendosi tra dichiarazioni di neutralità, tentativi di mediazione e la protezione incondizionata degli ugonotti profughi che le chiedevano asilo, tra cui Agrippa d’Aubigné, in fuga con il suo tutore.

La sua ultima comparsa a corte fu in occasione del matrimonio di Enrico di Navarra e della principessa Margherita di Valois, nell’agosto del 1572. Durante il massacro del giorno di S. Bartolomeo, la sua residenza venne protetta dalle guardie del duca di Nemours, che la figlia Anna aveva sposato alla morte di Francesco di Guisa. La duchessa lasciò Parigi sotto scorta reale e con il beneplacito dei Guisa, trincerandosi nel silenzio.

Morì a Montargis il 12 giugno 1575 e, per sua volontà, vi fu seppellita nella nuda terra, in una cassa di legno, senza monumenti funebri né cerimonie.

Il testamento ufficiale rivela un sentimento evangelico, un profondo attaccamento alla teologia della croce e alla Scrittura, una fiducia gioiosa nella risurrezione; ma nulla di più dogmatico, o più chiaro. Alla fine, la duchessa rinunciò a elaborare una puntuale dichiarazione di fede riformata. Della premessa al suo testamento restano cinque versioni: due vergate forse da Pierre Toussaint, ministro riformato di Orléans; due, probabilmente, da Francesco Porto e una autografa. Esse testimoniano i dubbi e i ripensamenti che animarono la stesura e rivelano la consulenza teologica di persone diverse.

Fonti e Bibl.: Una rassegna accurata delle fonti manoscritte su Renata è contenuta nell’appendice Sources manuscrites a O. Turias, Renée de France, duchesse de Ferrare, témoin de son temps (1510-1575), tesi di dottorato, Université de Tour, 17 settembre 2004, pp. 825-837. H. Morice, Preuves de l’histoire de Bretagne, III, Paris 1746, coll. 813-815; J. Bonnet, Renée de France, sa jeunesse, in Bibliothèque de la Société de l’histoire du protestantisme français, XV (1866), pp. 61-77; P. de Bourdeille, Seigneur de Brantôme, Oeuvres complètes, a cura di L. Lalanne, VIII, Paris 1875, p. 108; B. Fontana, Renata di Francia, duchessa di Ferrara, sui documenti dell’archivio Estense, del Mediceo, del Gonzaga e dell’archivio secreto Vaticano, I-III, Roma 1889-1899. J. Bonnet, La cour de Ferrare en 1538, in Revue chrétienne, XXXIII (1886), pp. 591-600; Id., Marguerite d’Angouléme, reine de Navarre, et Renée de France (1535-1536), ibid., XXVII (1888), pp. 113-123; E. Rodocanachi, Une protectrice de la Réforme. Renée de France, Duchesse de Ferrara, Paris 1896; C. Jenkins Blaisdell Webb, Royalty and Reform: the Predicament of Renée de France, 1510-1575, tesi di Ph.D., Tufts University, Medford (Mass.), 1970; Ead., Renée de France between Reform and Counter-Reform, in Archiv für Reformationsgeschichte, LXII (1972), pp. 196-226; Ead., Politics and heresy in Ferrara, 1534-1559, in Sixteenth century journal, VI (1975), 1, pp. 67-93; M. Firpo - D. Marcatto, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, Roma 1981-1995, ad ind.; C. Jenkins Blaisdell, Calvin’s letters to women: the courting of ladies in high places, in Sixteenth century journal, 1982, vol. 13, n. 3, pp. 67-84; G. Braun, Le mariage de Renée de France avec Hercule d’Este: une inutile mésalliance. 28 juin 1528, in Histoire, économie, société, VI (1988), 2, pp. 145-168; A. Prosperi, L’eresia in città e a corte, in La corte di Ferrara e il suo mecenatismo 1441-1598, a cura di M. Pade et al., Copenhagen-Modena 1990, pp. 267-281; U. Rozzo, Gli anni ferraresi e la morte sul rogo dell’eremitano Ambrogio da Milano (1547- 1555), in Alla corte degli Estensi, a cura di M. Bertozzi, Ferrara 1994, pp. 299-322; R. Gorris, Alla corte del principe. Traduzione, romanzo, alchimia, scienza e politica tra Italia e Francia nel Rinascimento, Ferrara 1996; Id., «D’un château l’autre»: la corte di R. di Francia a Ferrara (1528-1560), in Il palazzo di R. di Francia, a cura di L. Olivato, Ferrara 1997, pp. 139-173; C. Franceschini, La corte di R. di Francia (1528-1560), in Storia di Ferrara, VI, Il Rinascimento: situazioni e personaggi, a cura di A. Prosperi, Ferrara 2000, pp. 185-214; M. Firpo - D. Marcatto, I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi (1555-1567), Città del Vaticano 1998-2000, ad ind.; E. Taddei, Zwischen Katholizismus und Calvinismus: Herzogin R. d’Este. Eine Eklektikerin der Reformationszeit, Hamburg 2004; C. Franceschini, «Literarum studia nobis communia»: Olimpia Morata e la corte di R. di Francia, in Schifanoia, 28-29 (2005), pp. 207-232; E. Belligni, R. di Francia. Un’eresia di corte, Torino 2011.

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