Relazioni industriali

Enciclopedia del Novecento (1989)

Relazioni industriali

Gian Primo Cella
Tiziano Treu

sommario: 1. Le relazioni industriali: questioni teoriche e di definizione. 2. Il modello pluralista. 3. Il modello statalista. 4. Il modello partecipativo o di pluralismo organizzato. 5. Trasformazioni sociali e crisi dei modelli di relazioni industriali. 6. Le relazioni industriali in Italia: particolarità, convergenze, prospettive. □ Bibliografia.

1. Le relazioni industriali: questioni teoriche e di definizione

L'espressione ‛relazioni industriali' rivela una particolare origine, storica e culturale: l'esperienza di regolazione del conflitto industriale nella tradizione anglosassone. L'espressione si è diffusa in tutte le società industrializzate ed è ormai affermata anche nell'esperienza e nelle teorizzazioni italiane. Tuttavia l'origine storica e culturale ha lasciato caratteri ben identificati a tale espressione, ponendo limiti abbastanza netti a quello che essa rappresenta o definisce. Dei due termini è il sostantivo, ‛relazioni', a qualificare in modo esplicito o implicito l'espressione complessiva e a condurre alla nascita di un concetto.

'Relazioni' costituisce un termine consono alla natura della società civile piuttosto che alla società politica, un termine che individua un rapporto non semplicemente occasionale fra soggetti, bensì dotato di un minimo di continuità, e implica una qualche forma di scambio (volontario) e non semplicemente un rapporto di potere. Nel corso di questo secolo tali relazioni si sono avvicinate anche sensibilmente al sistema politico; quest'ultimo è intervenuto più di una volta al fine di promuoverle o, più spesso, di ridurne l'autonomia. In taluni ambienti hanno registrato fratture, o soluzioni di continuità, più o meno temporanee. Hanno attraversato fasi, o cicli, di elevata conflittualità, fasi nelle quali l'elemento dello scambio è più difficilmente identificabile e sono diffusi conflitti ‛a somma zero'.

Tuttavia i caratteri originari continuano a influenzare il concetto di relazioni industriali, aiutando a misurare la distanza dalle origini di situazioni, o meglio di modelli, nei quali il concetto è usato in modo improprio. Un uso che è difficile evitare e che non sarà evitato neppure in questo articolo là dove, ad esempio, si parlerà dei modelli statalisti di relazioni industriali. A identificare le origini dell'espressione nella tradizione anglosassone sta anche l'aggettivo ‛industriale'; esso identifica le relazioni che avvengono nei settori industriali, ma segnala inoltre l'uso inglese di definire con il termine industry tutti i settori di attività (compresi quelli del terziario). Non ci si deve sorprendere quindi di sentir parlare di relazioni industriali nella pubblica amministrazione.

La definizione di relazioni industriali può essere, in sintesi, la seguente: l'attività di produzione, più o meno sistematica e più o meno stabile, di norme più o meno formalizzate relative all'impiego del lavoro dipendente e alle controversie che da tale impiego derivano, effettuata in prevalenza a partire da rapporti fra soggetti collettivi più o meno organizzati (sindacati dei lavoratori, associazioni imprenditoriali, ma anche imprese singole).

Anche l'impresa è un soggetto collettivo per il profilo che qui interessa, come da tempo è comunemente riconosciuto dai gius-sindacalisti e come più di recente è ammesso anche dai teorici dell'impresa, i quali sottolineano che gli obiettivi dell'impresa moderna sono frutto degli apporti e della competizione delle diverse sottounità organizzative (v. Cyert e March, 1963; v. Marris, 1964).

In forma ancora più semplice, le relazioni industriali identificano, nella realtà economica, sociale e anche politica, le istituzioni, la rete di relazioni fra i soggetti, i comportamenti degli attori coinvolti, in connessione con il rapporto di lavoro dipendente. Come tali costituiscono l'oggetto di studio di un ampio arco di discipline: dall'economia alla politologia, alla sociologia, al diritto, fino alla psicologia industriale e del lavoro.

Si discute se esse siano solo un oggetto di studio oppure se in qualche misura diano origine a una pratica interdisciplinare, a un punto di incontro multidisciplinare o addirittura a una disciplina autonoma. Si può rispondere che le relazioni industriali costituiscono un oggetto di ricerca per la cui analisi si esercita spesso uno sforzo interdisciplinare e quasi sempre multidisciplinare; in condizioni particolari, tali analisi possono condurre all'affermazione di una disciplina con notevoli caratteri di autonomia. Condizioni del genere si riscontrano entro assetti consolidati di relazioni industriali, nella dominanza del modello pluralista (v. sotto) e dei suoi derivati come modi di governare le relazioni fra i gruppi organizzati e i rapporti fra questi e il sistema politico, nella istituzionalizzazione dei centri di ricerca e di insegnamento e del loro coinvolgimento nelle concrete politiche delle relazioni industriali.

Proprio a confermare la particolare origine storica e culturale delle relazioni industriali, tali condizioni si sono verificate solo negli ambienti legati alla tradizione anglosassone. Ambienti che, pur entro differenze storiche notevoli (si pensi alle eterogenee vicende dei movimenti sindacali in Gran Bretagna e negli Stati Uniti), sono caratterizzati da una lunga continuità nelle relazioni industriali (mai totalmente chiuse da eventi traumatici o da interventi di totale espropriazione da parte del sistema politico), dal prevalere della organizzazione pluralistica dei rapporti sociali e dei conflitti fra gruppi di interesse, da una solida istituzionalizzazione della ricerca e dell'insegnamento derivante proprio da questa continuità e da queste caratteristiche delle relazioni fra i gruppi.

Queste condizioni favorevoli alla costituzione di una disciplina autonoma per le relazioni industriali non si sono verificate nell'esperienza italiana. Le caratteristiche originarie del nostro decollo industriale hanno impedito una affermazione graduale ma continua delle relazioni industriali. Il periodo fascista, con la rottura di un modello di relazioni industriali ancora debole e scarsamente istituzionalizzato, ha impedito il consolidarsi di una tradizione. La debolezza dell'organizzazione pluralistica della società ha esposto le relazioni industriali, nella pratica e nella teoria, al predominio della politica. Da tutto ciò è derivata una scarsa istituzionalizzazione degli studi e anche una notevole dipendenza della ricerca dagli alti e bassi delle vicende delle relazioni industriali. I progressi degli studi nel corso degli ultimi due decenni, in corrispondenza del consolidarsi degli assetti concreti del sistema di relazioni industriali, sono stati notevoli (v. Pirzio Ammassari, 1972; v. Treu, 1984), ma non tali da ribaltare completamente tali caratteri.

Sulla base delle definizioni fornite, lo schema di analisi entro il quale è possibile ricomprendere le vicende delle relazioni industriali può essere rappresentato con un modello input-output. Il richiamo evidente, per la teoria del sistema politico, è a Easton (v., 1960) e per la teoria delle relazioni industriali a Fox e Flanders (v., 1969), due fra i maggiori rappresentanti della cosiddetta Scuola di Oxford. Nella voce input il modello comprende i conflitti, le rivendicazioni, le domande di ogni genere connesse al rapporto di lavoro dipendente: quelli che è possibile definire come fattori di turbamento dell'ordine industriale (senza dare a questo termine nessun significato di valore). Nella voce output il modello comprende le norme, le regole più o meno formalizzate che governano gli stessi rapporti. Fra le due voci operano gli strumenti e le procedure predisposti dai sistemi di relazioni industriali per la trattazione e la composizione delle controversie. Fra questi strumenti e procedure il posto fondamentale è assunto dalla contrattazione collettiva: ‟Storicamente la contrattazione collettiva è stata il metodo principale costruito dalle società industriali per la creazione di sistemi normativi validi e adatti a mantenere in limiti socialmente tollerabili le controversie nei rapporti di lavoro. Questo essa lo ha fatto perché le regole che essa crea, in quanto espresse in accordi collettivi e in intese non scritte, sono sostenute da un grado sufficientemente elevato di consenso fra coloro i cui interessi sono maggiormente toccati dalla loro applicazione" (v. Fox e Flanders, 1969; tr. it., p. 44).

La regolazione prevista da questo modello è molto diversa da quella attuata semplicemente attraverso il funzionamento del mercato. Nella fase di entrata possono esistere le stesse poste del modello precedente, ma la fase di uscita prevede solo regole non formalizzate e non necessariamente consensuali. Inoltre, la fase di entrata è in diretto collegamento con la fase di uscita, non operando filtri di mediazione o di negoziazione animati dall'operare contemporaneo di soggetti collettivi organizzati.

L'efficacia di un sistema di relazioni industriali si vede soprattutto dalla sua capacità di riduzione del conflitto e delle tensioni, entro uno spazio temporale dato più o meno lungo. In altre parole, il conflitto in uscita dovrebbe essere minore di quello in entrata. Ma tale efficacia si vede anche dalla capacità di estendere la regolazione contrattuale a settori produttivi o a luoghi non coperti. Da questo punto di vista l'estensione della regolazione di mercato è di per sé segno di ridotta efficacia dei sistemi di relazioni industriali. Il rapporto fra i due tipi di regolazione è misurabile, ad esempio, dall'estensione di un certo tipo di ‛slittamento salariale', vale a dire da aumenti salariali concessi dalle imprese al di fuori della contrattazione.

La contrattazione collettiva è il principale strumento di azione per il sindacato di tipo industriale, il soggetto collettivo che è sorto e si è andato rafforzando proprio in collegamento alla diffusione di questo strumento. Ma, come è evidente dal modello proposto, esiste un'altra faccia della contrattazione: quella che rappresenta il processo di regolamentazione congiunta (sindacati-padronato) del rapporto di lavoro dipendente. In tal senso il processo contrattuale non si esaurisce con la stipulazione del contratto, ma continua nelle fasi di applicazione degli istituti negoziali.

Le analisi più recenti (v. Clegg, 1976; v. Reynaud, 1982) sono portate a proporre un concetto aperto e non esclusivamente formale di contrattazione. Da questo punto di vista la contrattazione collettiva comprende l'insieme di rapporti negoziali (più o meno formali) che intercorrono fra sindacati e imprese in ordine alla regolamentazione del rapporto di lavoro. Lo Stato può attuare un intervento diretto quando agisce come datore di lavoro, nella pubblica amministrazione e in tutto il terziario pubblico, o indiretto quando assume compiti più o meno formali di mediazione fra le parti. Il ruolo diretto si esplica anche quando lo Stato opera, come vedremo più avanti, in processi di negoziazione trilaterale esplicita.

Una definizione estesa della contrattazione collettiva rende più indeterminata la zona di confine fra essa e le altre forme di azione e regolamentazione. Nei sistemi avanzati la distinzione classica fra i metodi di azione dei sindacati, proposta alla fine del secolo scorso dai coniugi Webb (regolamentazione unilaterale, contrattazione collettiva, iniziativa legislativa su pressione sindacale), se non perde la sua validità, si presenta tuttavia più sfumata. Il primo metodo tende a scomparire con la fine dei sindacati di mestiere, mentre i confini fra il secondo e il terzo, nell'intensificarsi dei rapporti più o meno negoziali fra sindacati e Stato, si fanno sempre più incerti. Così pure sfumano i confini della contrattazione con un quarto tipo di strumento che si è andato diffondendo in non poche esperienze europee soprattutto nel secondo dopoguerra: le cosiddette forme di partecipazione nell'impresa o di democrazia industriale. Tali forme entrano a far parte tipicamente dei sistemi di relazioni industriali, tendendo a escludere la contrattazione solo su istituti particolari e nei casi estremi. È quanto accade nell'esperienza tedesca, dove la presenza di istituti cogestionali e di organismi non direttamente sindacali per la regolamentazione del rapporto di lavoro esclude una contrattazione aziendale in senso proprio, anche se non necessariamente in senso informale. Quando nella contrattazione si riduce il peso degli obiettivi conflittuali e strettamente rivendicativi, e tendono a emergere obiettivi che richiedono una collaborazione continua fra le parti, allora i contorni fra contrattazione collaborativa e forme di partecipazione tendono a diventare meno netti.

Ogni sistema di relazioni industriali si fonda su una struttura di relazioni fra le parti. Nei sistemi avanzati la struttura più importante è quella contrattuale, che può essere definita come la rete relativamente stabile dei rapporti di interdipendenza che intercorrono, in senso orizzontale, fra i diversi soggetti della contrattazione collettiva (occupanti diversi ruoli socioeconomici) e, in senso verticale, all'interno dei soggetti stessi (cioè fra i livelli delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, padronato e sindacati). La rete di rapporti fra le parti ha la rilevanza maggiore, ma contano anche i rapporti entro le parti. Ogni atto negoziale costituisce una ricerca di equilibrio o composizione fra gli interessi delle parti, ma a loro volta questi interessi sono frutto di composizioni o scelte di rappresentanza entro i soggetti collettivi. Questo è evidente per i sindacati, ma in qualche modo anche per le organizzazioni imprenditoriali e per le singole imprese.

Due dimensioni sono particolarmente importanti per ogni struttura contrattuale: il grado di autonomia e il grado di centralizzazione. La prima dimensione identifica l'indipendenza della struttura da fonti di controllo e di regolazione esterne al sistema delle relazioni industriali. Come casi estremi si possono avere strutture fortemente eteronome, controllate da un soggetto esterno (normalmente lo Stato), e strutture autonome, senza controlli esterni, ove le eventuali funzioni di controllo e di regolazione sono assolte entro le relazioni contrattuali fra le parti. Il grado di centralizzazione identifica il livello negoziale prevalente o dominante ed è correlato positivamente con il grado di centralizzazione delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi. Ai casi estremi possono darsi strutture fortemente decentrate, nelle quali il livello dominante è quello di impresa, e strutture nelle quali il livello prevalente, spesso con poteri di controllo sui livelli inferiori, si riferisce all'intero lavoro dipendente.

Come in ogni sistema di composizione e di rappresentanza degli interessi, anche nelle relazioni industriali operano principi e criteri di regolazione delle domande e delle rivendicazioni analoghi a quelli operanti nelle diverse forme di allocazione delle risorse e di regolazione dei rapporti fra economia e società (v. Polanyi, 1977). I principi classici sono riferibili alla tradizione, al mercato, alla politica. È possibile una convivenza fra questi principi, anche se nelle diverse fasi uno di essi assume la prevalenza sugli altri. Nei sistemi di relazioni industriali in senso proprio, fondati sulla contrattazione collettiva, poco è lo spazio legato alla tradizione: essa continua a giocare un certo ruolo solo dove persistono sindacati di mestiere e dove si sono consolidate lunghe tradizioni di autoregolamentazione (pensiamo al ruolo del custom and practice nell'esperienza britannica). La contrattazione collettiva di tipo pluralista si fonda in ultima istanza su criteri di mercato, anche se non più del mercato individualista, della concorrenza atomistica. I criteri politici avanzano nelle relazioni industriali con l'estensione dell'intervento dello Stato, sia che esso svolga compiti promozionali o compiti regolatori, e anche espropriatori della autonomia delle relazioni contrattuali. Nei primi due casi (promozione, regolazione) l'intervento politico può procedere, come in alcune esperienze europee, con ampie deleghe dell'autorità pubblica a forme di collaborazione fra le grandi organizzazioni degli interessi. Sulla base di queste esperienze c'è chi ha notato il sorgere di un quarto criterio di regolazione, un ‟criterio associativo e collaborativo" che identifica il contributo dei ‟governi privati" alla regolazione dell'ordine sociale (v. Streeck e Schmitter, 1985).

A questo punto sono noti gli elementi essenziali per tracciare la tipologia dei diversi modelli di relazioni industriali (o, se si preferisce, la tipologia delle diverse forme che può assumere il modello delle relazioni industriali), che verranno descritti nelle pagine successive. Si sa anzitutto a che cosa si contrappone il modello delle relazioni industriali in senso proprio: al modello di regolazione fondato esclusivamente sulla logica dell'individualismo di mercato. E questa contrapposizione identifica anche il momento genetico a partire dal quale si può correttamente parlare di relazioni industriali.

Gli elementi sui quali si fonda la tipologia attengono, da una parte, al ruolo della contrattazione collettiva e alle dimensioni principali della sua struttura (grado di autonomia e grado di centralizzazione), dall'altra ai criteri di regolazione prevalenti entro (e sul) sistema di relazioni industriali. Un primo tipo è identificabile nel m o d e l l o p l u r a l i s t a, il modello che segna fortemente i caratteri originari delle relazioni industriali in senso proprio. In questo modello lo strumento di regolazione tipico è la contrattazione collettiva, la cui struttura presenta gradi notevoli di autonomia e scarsa centralizzazione. I criteri di regolazione dominanti sono ritrovabili nel mercato, anche se possono continuare a operare, in luoghi e settori particolari, criteri legati alla tradizione.

Un secondo tipo, sotto molti aspetti speculare rispetto al modello pluralista e al quale in molte esperienze storicamente si oppone, è il m o d e l l o s t a t a l i s t a, per il quale si usa in senso improprio la dizione relazioni industriali. In questo modello la contrattazione collettiva è sostituita dall'intervento legislativo, oppure opera entro strutture totalmente eteronome e con forte centralizzazione (almeno per quanto attiene alla contrattazione formale e ufficiale). I criteri politici di regolazione - in versione autoritaria - sono dominanti, ed essi filtrano anche le possibili esigenze del mercato.

Il terzo tipo è configurabile nel m o d e l l o p a r t e c i p a t i v o o d e l p l u r a l i s m o f o r t e m e n t e o r g a n i z z a t o, un modello che nasce storicamente dalla reazione alla crisi del modello pluralista puro nelle società industriali europee con assetti socialdemocratici. La contrattazione collettiva continua a svolgere un ruolo decisivo nella regolazione, pur affiancandosi a forme di partecipazione nelle imprese e nella gestione delle politiche economiche e sociali; essa può mantenere una struttura autonoma ma è almeno fortemente controllata al suo interno dai livelli centrali di negoziazione, conducendo nel complesso a una forte centralizzazione della struttura stessa. I criteri politici si affiancano a quelli di mercato, con effetti di moderazione o di composizione dei contrasti di interesse. Possono diffondersi criteri di regolazione di carattere ‛associativo-collaborativo'.

La tipologia non esaurisce tutti i tipi possibili di relazioni industriali; essa tuttavia identifica i modelli fondamentali per la riflessione sulle esperienze europee e nordamericane. Ai diversi modelli di relazioni industriali corrispondono 0vviamente diversi tipi di sindacalismo: nel modello pluralista operano il business unionism (tipico dell'esperienza nordamericana) e il competitive unionism (tipico dell'esperienza britannica) o combinazioni più o meno stabili fra i due tipi. Nel modello statalista operano le diverse forme di sindacalismo assistito dallo Stato, ritrovabili nei regimi autoritari di sinistra e di destra. Nel modello partecipativo è identificabile un tipico sindacalismo collaborativo, di maggiore o minore ispirazione socialdemocratica (ad esempio le esperienze sindacali in Austria, Germania e Paesi Scandinavi nel secondo dopoguerra). Su questi tipi di sindacalismo ci si soffermerà nel corso dell'esposizione dei diversi modelli, a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo. Due ulteriori capitoli sono dedicati all'analisi delle ragioni di crisi e di trasformazione dei modelli di relazioni industriali e ad alcune osservazioni essenziali, anche ai fini comparativi, sul caso italiano.

2. Il modello pluralista

Come è stato già osservato, le relazioni industriali in senso proprio nascono e si affermano entro il modello pluralista; entrano in crisi e in una fase di profonda trasformazione in coincidenza con le difficoltà del modello pluralista stesso. Da questo è dunque necessario partire per comprendere i caratteri e le dinamiche delle relazioni industriali contemporanee.

Gli assetti pluralistici si affermano nelle società industriali accompagnandosi ad altre trasformazioni che riguardano la sfera economica e quella politica: dalla fine del mercato fondato sulla concorrenza individuale, al sorgere dei grandi partiti di massa nella fase di allargamento del suffragio, all'inizio di un ruolo dello Stato non semplicemente di spettatore (più o meno benevolo) dei conflitti e delle tensioni che attraversano la società civile.

È difficile identificare un momento storico comune di affermazione di questi assetti, se si tiene conto delle differenze fra le società industriali nelle fasi di sviluppo economico e dei diversi caratteri che in esse assume il sistema politico, anche in corrispondenza delle eterogenee strutture sociali fondate su classi e ceti. Negli ambienti della tradizione anglosassone gli assetti pluralistici tendono ad affermarsi nel periodo a cavallo della prima guerra mondiale. In tutte le società industriali gli assetti pluralistici puri subiscono comunque una forte scossa con la grande crisi degli anni trenta, e si trasformano più o meno radicalmente proprio in ragione dei diversi stili nazionali di fuoriuscita dalla crisi (v. Fauvel-Rouif, 1966).

Nei lunghi anni di sviluppo economico successivi alla seconda guerra mondiale gli assetti pluralistici puri convivono con assetti di pluralismo fortemente organizzato (quelli che verranno esaminati più avanti nell'ambito del modello partecipativo). La performance di questi ultimi nei confronti dei primi segnali di crisi nel corso degli anni settanta si rivela indubbiamente migliore. Ma l'approfondirsi della crisi economica (una crisi a cui i modelli pluralistici non erano più abituati) sottopone entrambi i modelli a forti tensioni facendo balenare in tutti i paesi industriali possibilità di ritorno agli assetti di regolazione dell'ordine economico, sociale e politico tipici della fase dell'individualismo liberale.

La comprensione del modello pluralista è facilitata da una sua contrapposizione al modello che storicamente (e teoricamente) lo precede, quello fondato sull'individualismo di mercato (v. Crouch, 1977). Tale modello conosce la sua più tipica applicazione nelle società industriali di mercato della seconda metà del XIX secolo e del primo decennio del XX, prima della svolta traumatica e irreversibile della grande guerra. Esso ritrova però le sue origini profonde nella filosofia politica borghese del XVII secolo e, per usare le parole di Macpherson (v., 1962), conosce di fatto solo due tipi di uguaglianza: l'uguale insicurezza e l'uguale subordinazione al mercato.

Entro questo modello si attua una netta separazione fra economia e società, fra economia e politica, fra economia ed etica. La logica del laissez faire conosce i suoi trionfi. L'interesse supremo da salvaguardare diventa il libero funzionamento del meccanismo di mercato, anche di quel mercato particolare (particolare non solo perché richiede sempre la presenza del venditore nel momento dell'uso della merce venduta, ma anche per la sua influenza decisiva sulle condizioni complessive di vita dei cittadini) che è il mercato del lavoro. Il modello economico a cui ci si ispira, e che forse per un breve periodo ha trovato effettiva attuazione, è quello della concorrenza atomistica. L'individualismo tiene sotto scacco le prime forme di organizzazione collettiva degli interessi. Una ideologia ‛monista' prevale su ogni possibile visione pluralista in tutti quei luoghi della società (l'impresa capitalistica innanzitutto) dove opera una effettiva competizione, e contrapposizione, degli interessi (v. Baglioni, 1974): monista in quanto ammette come unico principio di regolazione il mercato individualista.

Per sostenere il funzionamento del mercato individualista e per rendere concreta la visione monista, la società dell'individualismo liberale deve però fornirsi di strumenti legislativi di limitazione, di esclusione o di repressione del lavoro organizzato e delle sue manifestazioni conflittuali (come lo sciopero) che fortemente contrastano con il modello politico del liberalismo. È una società fondata sui diritti civili (sostanzialmente diritti di proprietà), su limitati diritti politici (limitati dalla restrizione del suffragio e dagli ostacoli all'organizzazione collettiva), ma dove mancano i diritti sociali (quelli che fonderanno il moderno Welfare State e che identificano i diritti di protezione e di promozione, di appartenenza a una società in sviluppo) (v. Marshall, 1950). La ‛cittadinanza industriale' ha fondamenti precari e riguarda solo i lavoratori che possiedono individualmente ampie capacità di mercato (gli operai professionali, gli appartenenti alle tradizioni di mestiere).

Entro il modello dell'individualismo di mercato l'organizzazione collettiva dei lavoratori è limitata ai piccoli sindacati di mestiere che lottano su due fronti conflittuali: da un lato nei confronti del padrone capitalista, ma dall'altro anche rispetto alla marea pressante dei lavoratori comuni, senza tradizione, senza qualifica, senza organizzazione (proprio per la minaccia che essi rappresentano al potere di mercato degli operai di mestiere). Quando è superata la fase della repressione delle coalizioni, lo strumento di azione (e di regolazione del rapporto di lavoro) tipico di questi sindacati è l'autoregolamentazione: il negoziato è limitato alla fissazione delle tariffe salariali. La contrattazione collettiva in senso proprio non ha concrete possibilità economiche, politiche, istituzionali e neanche forse risponde alle esigenze della minoranza di lavoratori industriali sindacalmente organizzati.

Il modello pluralista costituisce una svolta radicale (forse non ancora adeguatamente compresa dalla storiografia economica e politica) rispetto al modello dell'individualismo di mercato. Con esso si riduce la separazione fra economia e società, e i criteri e le forme di organizzazione collettiva iniziano a operare entro il mercato economico. In termini solo apparentemente paradossali, c'è chi ha definito la fase storica alla quale corrisponde il modello pluralista come la fase del ‟collettivismo liberale", una fase che condivide ancora molti aspetti con l'individualismo di mercato, ma nella quale l'esistenza di autonome organizzazioni collettive del lavoro dipendente segna una cruciale differenza con il passato (v. Crouch, 1977; e prima ancora v. Kahn-Freund, 1932). Il mercato continua a fornire i criteri di regolazione dei conflitti (e il regolatore principe nelle relazioni industriali è costituito dalla disoccupazione), ma il suo funzionamento è fortemente influenzato dalle organizzazioni degli interessi (sindacati dei lavoratori, in primo luogo, ma anche associazioni imprenditoriali) e dall'inizio dell'intervento pubblico di regolazione dell'economia e delle tensioni sociali.

Con il pluralismo si chiude una fase di separazione rigida fra economia e politica; a superare questa fase contribuiscono in modo decisivo le esperienze di collaborazione fra Stato e organizzazioni collettive, che si svolgono nel corso della prima guerra mondiale per gli obiettivi connessi alla produzione bellica (in Gran Bretagna, ad esempio, ma anche in paesi come l'Italia, più indietro sul cammino del pluralismo).

Con il pluralismo si diffonde una visione dei rapporti sociali ed economici ben differente dal ‛monismo' dell'individualismo liberale. Si riconosce la legittimità della competizione, se non della contrapposizione degli interessi (in primo luogo nell'impresa capitalistica); di conseguenza gli Stati devono progressivamente abolire, proprio in omaggio alla concezione dei countervailing powers, le limitazioni ai diritti di organizzazione e di manifestazione dei conflitti. I diritti politici si estendono con progressione inarrestabile (una volta esteso il suffragio a un gruppo diventa impossibile negarlo a un altro) e attraverso questa estensione nascono i partiti di massa, in prevalenza partiti socialisti nelle esperienze europee.

L'estensione dei diritti politici impone progressivamente il riconoscimento dei diritti sociali; all'inizio i diritti di protezione, che meno intaccano il funzionamento del mercato (come la tutela dagli infortuni sul lavoro), per passare poi a quelli che impediscono il crollo drammatico delle capacità di mercato in particolari situazioni della vita di lavoro (assicurazioni contro le malattie e pensioni di vecchiaia), fino a quelli che più direttamente intervengono a ridurre le ‛opportunità di regolazione del mercato' (l'assicurazione contro la disoccupazione, il diritto sociale che viene riconosciuto per ultimo in quasi tutti i paesi industriali). Saranno proprio l'estensione dell'intervento dello Stato nell'economia e il riconoscimento dei diritti sociali a pregiudicare in modo drastico le capacità di regolazione del mercato e a mettere in difficoltà, se non in crisi, i modelli pluralistici.

In questo modo la ‛cittadinanza industriale' si consolida, sia pure, come metteranno in luce i numerosi critici del pluralismo, in una visione generale dei rapporti sociali che conferma la dipendenza degli strati subalterni nel momento in cui concede loro chances di organizzazione collettiva e di promozione sociale. Iniziano ad affermarsi, favoriti dal diffondersi della produzione di massa, i sindacati industriali, che organizzano tutti i lavoratori di uno stesso settore industriale, al di là delle differenze di qualifica o di mestiere. Tali sindacati diventano i protagonisti tipici della contrattazione collettiva, vale a dire di uno strumento di regolazione del rapporto di lavoro pensato non solo per il riconoscimento delle figure con alte capacità individuali sul mercato, ma anche per la difesa e la promozione delle condizioni di lavoro (e di vita) dei lavoratori con scarse, o nulle, capacità di mercato. Uno strumento di regolazione pensato soprattutto per la diffusione di istituti minimi uguali per tutti, e non tanto per il riconoscimento di particolari condizioni professionali.

Sugli assetti pluralistici è sorta una riflessione teorica che ha permeato tutta la scienza politica contemporanea e alla quale è strettamente legata la teoria pluralista delle relazioni industriali. In non pochi contributi, specie nella cultura politica nordamericana, questi apporti teorici hanno svolto una rilevante funzione di legittimazione ideologica degli assetti pluralistici nella politica e nelle relazioni industriali. Una legittimazione che ha contribuito a nascondere i limiti e le ragioni di instabilità del pluralismo stesso. Tuttavia, proprio perché il pluralismo costituisce la più grande invenzione' del pensiero politico contemporaneo, da questa teoria politica è necessario partire per comprendere come si struttura, e si trasforma, il modello pluralista nelle relazioni industriali.

Come ha notato efficacemente R. Eisfeld (v., 1972; tr. it., pp. 129 e 186), il plurali smo è anzitutto una teoria politica: della molteplicità dei ruoli (e non più del dualismo borghese-cittadino), dei gruppi e delle associazioni (e non delle classi), dell'interazione individuo-società-governo (e non del confronto individuo-governo), della partecipazione alla politica (e non dei limiti dello Stato), dell'intervento del governo (e non del laissez faire), dell'eterogeneità degli interessi (e non dell'omogeneità), del carattere speciale della legislazione, a cominciare da quella sul lavoro (e non del carattere generale della legge), del compromesso di interessi nell'istituzione parlamentare con rinuncia alla soluzione ottimale (e non della discussione alla ricerca della ‛verità').

Lungi dal considerare il pluralismo come una teoria unitaria (il che sarebbe contraddittorio e incompatibile con alcuni suoi assunti di fondo) e pur tenendo conto della eterogeneità dei contributi del pensiero politico che in esso confluiscono (dalla tradizione del socialismo ghildista e del laburismo inglese di Cole e Lasky, alla maggiore ortodossia pluralista dei politologi americani, da Bentley a Truman), la caratterizzazione sopra esposta resta efficace nel contrapporre il modello pluralista a quello dell'individualismo liberale.

La stessa mancanza di unitarietà, pur nell'accettazione di alcuni principi (e soprattutto procedure) di fondo, si può rilevare nella teoria pluralista delle relazioni industriali. Su questa teoria è necessario soffermarsi in quanto, come il pluralismo fonda gli assetti delle relazioni industriali in senso proprio, così la teoria pluralista permea (con le sue varie correnti) tutta la riflessione teorica contemporanea sulle relazioni industriali.

Nella teoria pluralista delle relazioni industriali confluiscono almeno due grandi filoni (a loro volta divisi all'interno da polemiche e diversità anche notevoli), due filoni appartenenti alla tradizione anglosassone, ma con caratteristiche piuttosto differenti sulle due sponde dell'Atlantico. Schematizzando con non poche forzature, si può identificare una variante ‛conflittuale' del pluralismo, tipica degli ambienti britannici, che trova i suoi padri ispiratori nei grandi teorici della tradizione laburista e fabiana (i coniugi Webb, anzitutto, ma anche G. D. H. Cole). Tale filone di pensiero accompagna le vicende delle relazioni industriali britanniche: dalle discussioni e proposte della Commissione Whitley nel corso della prima guerra mondiale (che riguardavano forme di collaborazione e di regolamentazione congiunta fra le parti organizzate e l'impostazione di un primo modello di contrattazione per l'industria) fino ai materiali di ricerca e ai dibattiti della Commissione Donovan nella seconda metà degli anni sessanta (lavori motivati soprattutto dalla necessità di superare l'eccessiva frammentazione rappresentativa e contrattuale diffusasi nel corso del secondo dopoguerra) (v. Bain, 1983).

È possibile identificare una seconda variante (una concezione più ‛sistemica' ed ‛evolutiva' del pluralismo) nel contributo dei teorici statunitensi che, da una parte, attingono al patrimonio di riflessioni e di ricostruzione storica della Scuola del Wisconsin (da Commons a Perlman), dall'altra si ispirano al funzionalismo dominante nelle scienze sociali americane del secondo dopoguerra e alle versioni più ‛ottimiste' del pensiero politico pluralista. Ci si riferisce alla concezione sistemica delle relazioni industriali elaborata da J. T. Dunlop (v., 1958) e alla visione evolutiva (connessa alla previsione della riduzione di centralità del conflitto industriale e della progressiva scomparsa delle sue manifestazioni) presente nei contributi di Kerr e collaboratori (v., 1960) e di Ross e Hartman (v., 1960).

Delle due varianti, quella conflittuale si è dimostrata più capace, da una parte, di reggere alle profonde trasformazioni (e scosse) provenienti dalle relazioni industriali degli ultimi due decenni, dall'altra di non nascondere i limiti più o meno superabili del pluralismo stesso.

Per la ricostruzione di questa variante ci si può rifare agli scritti dei tre autori che, con le loro riflessioni comuni ma anche con le loro polemiche, hanno maggiormente caratterizzato il dibattito sul pluralismo britannico nel corso dei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale: A. Flanders, il grande teorico della contrattazione collettiva; A. Fox, il più sensibile alla crisi dei valori del pluralismo; H. Clegg, il più pragmatista fra i tre e il più profondo conoscitore del sistema britannico di relazioni industriali (v. Clegg e altri, 1980). A tale dibattito contribuivano le analisi giuridico-istituzionali di O. Kahn-Freund (v., 19772) che traeva le sue originali riflessioni sul pluralismo dalla drammatica esperienza di pluralismo mancato della Germania di Weimar.

Il punto di partenza comune di queste riflessioni (in parziale distacco dal pensiero dei coniugi Webb) è il rifiuto del sindacato come semplice organizzazione economica e, di conseguenza, della contrattazione collettiva come semplice istituzione economica. I sindacati, attraverso la contrattazione, eserciterebbero piuttosto una doppia azione: come gruppo di pressione e, assieme agli imprenditori, come ‛legislatori privati'. La contrattazione collettiva emerge da questa visione come struttura portante del pluralismo nelle relazioni industriali. Nei primi contributi sono così poste le basi per la comprensione degli aspetti procedurali e di regolamentazione dei sistemi di relazioni industriali. Restano ancora sullo sfondo i problemi derivanti dalla crisi del funzionamento di queste procedure. Problemi che sono invece al centro del fondamentale saggio di Fox e Flanders (v., 1969) dal titolo evocativo e significativo: La riforma della contrattazione collettiva: da Donovan a Durkheim. Fra i due tipi ideali di regolamentazione dei conflitti e delle rivendicazioni possibili nel modello delle relazioni industriali: quello centralizzato - o interventista - e quello pluralista puro (fondato sul contratto, con libere associazioni e con un inevitabile grado di disordine nelle relazioni), i due autori si schierano per il secondo. Sono tuttavia portati ad ammettere che, proprio perché la contrattazione è fondamentale nella creazione di un ordine normativo nella società pluralista, se per le sue inadeguatezze o contraddizioni (ad esempio fra una struttura formale e una informale, come sosteneva il rapporto Donovan) questo ruolo viene meno, il disordine non viene ridotto dal processo contrattuale e il sistema entra in crisi. Di qui la necessità di ricostruire un ordine normativo contrattuale, per evitare ‟frammentazioni deflazionistiche" o ‟frammentazioni inflazionistiche" e anche un altrimenti inarrestabile intervento dello Stato rivolto alla riduzione dell'autonomia della struttura contrattuale.

Sui caratteri e sulla possibilità di questa ricostruzione il gruppo dei pluralisti britannici tende però a dividersi. Sarà Fox (v., 1974) a consumare il distacco dalla scuola pluralista, riprendendo in parte alcune delle critiche che la sinistra marxista aveva da sempre rivolto al pensiero pluralista. Se, dice Fox, il pluralismo è sempre preferibile all'approccio ‛monista', esso è tuttavia portato a nascondere la vera natura di classe delle società avanzate, a dimenticare che il sistema di valori prevalente è sempre quello imposto dalla classe dominante. Lo scambio pluralista non è equilibrato e si fonda su una illusoria concezione della parità delle forze in gioco. La contrattazione avverrebbe in ‟stato di necessità" e perciò non dovrebbe essere moralmente vincolante. La stessa priorità concessa alle procedure, rispetto ai contenuti e agli obiettivi, costituisce un velo che nasconde la natura classista del compromesso di base sul quale si fonda la logica pluralista. Il grande ciclo di lotte dell'inizio degli anni settanta - è implicito nella visione di questo autore - avrebbe definitivamente svelato i miti, o le velleità, del pluralismo.

Scomparso Flanders, è Clegg che si assume il compito di una lucida, e non ideologica, difesa del pluralismo, pur nella consapevolezza dei suoi limiti. Il sindacato, aveva detto Clegg fin dagli anni cinquanta, è un'opposizione industriale, ma un'opposizione che non potrà mai diventare governo. Le procedure e le norme contrattuali vanno considerate come un equivalente nelle relazioni industriali delle leggi che regolano nel sistema politico l'attività dei gruppi di pressione. Gli obblighi di osservanza degli accordi derivano dal rispetto reciproco delle regole. Non è necessario fondamento del pluralismo l'uguaglianza dei poteri nelle relazioni contrattuali (anche se questi sono spesso meno asimmetrici di quanto si creda); nè, in sua assenza, un compromesso morale di fondo, un implicito consenso sui valori o sul valore del compromesso. Il pluralismo è soprattutto una guida prammatica all'azione; non costituisce una teoria etica. Da ciò l'inopportunità, o l'assurdità, di criticarlo come se potesse, e volesse, rappresentare una siffatta guida etica. Sono evidenti i limiti, o il fallimento, della logica pluralista nel contenere le tensioni inflazionistiche o le rincorse individualistiche. Essa indubbiamente necessita di altri valori oltre a quelli, troppo vaghi e scarni, derivanti dal suo funzionamento. Ma non esistono incompatibilità a priori fra il pluralismo e il perseguimento di politiche sociali ed economiche più capaci di generare esiti ugualitari e riformisti.

Dalla difesa di un pluralista come Clegg si intravedono le possibilità di un passaggio senza fratture ai modelli di pluralismo organizzato con espliciti compiti di regolazione centralizzata, ma collaborativa, delle relazioni industriali. Un passaggio che può essere richiesto dall'indebolirsi del reciproco sostegno di pluralismo e mercato concorrenziale (sia pure di quella concorrenza ‛funzionale' e organizzata prevista dal modello pluralista puro).

All'interno del modello pluralista si collocano tipicamente due modelli di sindacalismo e di azione sindacale: quelli già definiti come business unionism e come competitive unionism, ambedue rappresentativi della tradizione anglosassone. Il primo è caratteristico dell'esperienza nordamericana e ritrova le sue concezioni originarie nella American Federation of Labor di Samuel Gompers, anche se alcune sue versioni non sono assenti nell'esperienza britannica e, per gli anni più recenti, in quella giapponese. Esso privilegia sopra tutti gli altri gli obiettivi economici, agisce in modo pressoché esaustivo attraverso la contrattazione collettiva, intrattiene solo rapporti occasionali con le forze politiche e con le istituzioni pubbliche (secondo il famoso principio: 'tutto dal governo economico, nulla dal governo politico'), si fonda in prevalenza sulle strutture aziendali, nei confronti delle quali è esercitato un coordinamento non rigido dalle federazioni nazionali (solo di mestiere agli inizi, e poi anche generali e di industria). Nei confronti del potere politico si muove secondo la logica delle lobbies, come un tipico gruppo di pressione.

Il sindacalismo ‛competitivo' si identifica soprattutto con l'esperienza sindacale britannica durante questo secolo, ma non può essere ridotto a essa. In qualche modo entro questo modello può collocarsi il CIO nordamericano negli anni trenta, dopo la scissione dalla AFL, nel periodo di grande mobilitazione del New Deal. In termini ancor più appropriati, possono ricondursi a esso le esperienze del sindacalismo scandinavo prima della istituzionalizzazione dei modelli partecipativi nati dalla reazione alla grande crisi degli anni trenta. A questo modello, per qualche aspetto, è possibile avvicinare infine il sindacalismo italiano degli anni sessanta. È un sindacalismo che ha obiettivi più ampi rispetto alla variante business, obiettivi che includono riforme basilari di carattere socioeconomico (sui temi del welfare, ad esempio), perseguiti agendo contemporaneamente sui versanti economici e politici, spesso con atteggiamenti altamente conflittuali, con stretti rapporti, non necessariamente istituzionalizzati, con il sistema politico (con il quale non sono assenti momenti di scambio) e con legami intensi, ma di norma non di dipendenza, con partiti politici socialdemocratici. Un coordinamento generale delle diverse istanze organizzative è in qualche modo tentato dagli organismi confederali, deboli per esempio nel caso del TUC britannico, più forti nelle altre esperienze europee.

Le due varianti di sindacalismo operanti entro il modello pluralista si accompagnano a differenti forme e criteri di regolazione delle rivendicazioni e della conflittualità, o meglio a due varianti di una forma unica che ritrova la propria logica di fondo nel funzionamento del mercato. Anche all'interno del pluralismo l'azione sindacale non è spiegabile in tutto e per tutto secondo un modello economico, che prevede l'innalzamento delle richieste e della conflittualità nelle fasi di espansione e una loro caduta nelle fasi di recessione. Tuttavia, il livello della disoccupazione (assunto come indicatore, da una parte, delle tensioni nella domanda, dall'altra del potere di mercato dei lavoratori organizzati) è la variabile esplicativa più significativa e caratterizzante la particolare configurazione dell'azione sindacale nei diversi periodi e nelle diverse esperienze nazionali. Essa è il perno sul quale si instaurano, con effetti ‛scoraggianti' e ‛depressivi', la dipendenza delle lotte dal ciclo economico e il potere regolatore del mercato. Si configura come il regolatore di fondo della conflittualità industriale: quando per diverse ragioni il suo ruolo viene meno, come nel secondo dopoguerra in conseguenza delle politiche keynesiane, del pieno impiego, dell'estensione del welfare, aumentano le instabilità e si accelera la crisi del modello pluralista puro di relazioni industriali.

Entro questo quadro comune, la regolazione esclusiva della conflittualità attraverso criteri di mercato si verifica nell'esperienza nordamericana, con la sola clamorosa eccezione degli anni del New Deal (un periodo nel quale la disoccupazione perde ogni capacità di regolazione dell'intensità e della gravità del conflitto industriale). Nelle esperienze pluralistiche europee, le modalità di regolazione politica (fino a pratiche di vero e proprio scambio politico) e le possibilità di un uso più equilibrato delle risorse organizzative, finanziarie, conflittuali del sindacato, permesso dai coordinamenti di tipo confederale, sono riuscite non raramente a sfuggire alla regolazione rigida attuata a partire dai criteri di mercato.

Le diverse esperienze di relazioni industriali leggibili attraverso il modello pluralista presentano, come si è appena potuto vedere attraverso le differenze nei tipi di sindacalismo, eterogeneità non irrilevanti. Di questo non c'è da meravigliarsi se si tiene conto, da un lato, dell'ampio arco storico nel quale, in molti casi nazionali, è applicabile il modello pluralista, dall'altro del carattere essenzialmente procedurale del modello stesso. È un modello che lascia in una relativa indeterminatezza gli obiettivi e gli sbocchi delle relazioni industriali, ricercando soprattutto il consenso di fondo sulle procedure (contrattuali, in primo luogo).

È tuttavia possibile ritrovare alcuni caratteri necessari del modello pluralista di relazioni industriali, caratteri che si presentano in tutte le esperienze pluralistiche succedutesi nella storia delle relazioni industriali di questo secolo.

Il primo carattere riguarda l'affermarsi della contrattazione collettiva come strumento prevalente di regolazione del rapporto di lavoro dipendente e di risoluzione delle controversie. Il livello negoziale dominante può essere quello di industria (come nell'esperienza italiana degli anni sessanta), di impresa o di fabbrica (come nell'esperienza nordamericana); oppure può stentare a imporsi un qualunque livello dominante, come in Gran Bretagna (il paese dove la contrattazione di industria, pur proposta fin dal primo dopoguerra, non è mai riuscita a prevalere stabilmente). Comunque sia, è importante l'affermazione decisiva dello strumento contrattuale rispetto alle altre forme di regolazione.

Il secondo carattere necessario riguarda quella che può definirsi come la molteplicità delle forme della struttura rappresentativa sindacale. Il modello pluralista si afferma pienamente quando accanto ai sindacati di mestiere (e poi in opposizione o in alternativa a essi) sorgono forme di sindacati generali (quelli che accanto a un nucleo originario di operai di mestiere, poi venuto meno, iniziano a organizzare la forza lavoro comune, a qualunque settore produttivo appartenga) o di sindacati industriali: quest'ultimo è il soggetto sindacale tipico del modello pluralista. Quello che conta però è la nascita di movimenti sindacali capaci di muoversi con la logica del grande gruppo organizzato: Fasi eccezionali di mobilitazione collettiva accompagnano questo processo di trasformazione della rappresentanza, che costituisce una condizione necessaria per la piena affermazione del metodo contrattuale. Si pensi al movimento del new unionism, nella Gran Bretagna degli ultimi due decenni del secolo scorso, e al grande movimento di lotta contro l'open shop e per l'affermazione del sindacato industriale negli Stati Uniti della presidenza di F. D. Roosevelt.

Collegato a questa trasformazione della rappresentanza e a questa molteplicità di strutture organizzative è il raggiungimento di un tasso di sindacalizzazione medio-alto, in generale o almeno in alcuni settori particolari o nei luoghi di lavoro dove il sindacato è presente ed esercita attività contrattuale. Quest'ultimo caso corrisponde all'esperienza nordamericana, dove anche negli anni di maggior forza il sindacato non ha mai raggiunto livelli complessivi elevati di espansione. Tale situazione non ha tuttavia impedito un'ampia diffusione della contrattazione, per la presenza di settori e soprattutto di imprese con una sindacalizzazione elevata (pressoché totale se si tiene conto del particolare sistema di union prerogatives permesso negli Stati Uniti, dopo le leggi promozionali degli anni trenta).

Al di fuori delle relazioni industriali in senso stretto, due elementi sono necessari (e decisivi) per il prevalere del modello pluralista: la diffusione della produzione di massa (il tipo di industria per la quale è stata pensata e praticata la contrattazione di stampo pluralista) e l'esplicarsi di un ruolo (almeno) n o n repressivo e n o n espropriatore delle autonomie negoziali da parte dello Stato e di tutte le pubbliche istituzioni. (Un ruolo che, per gli aspetti repressivi, era invece presente nelle società dell'individualismo liberale e, per entrambi gli aspetti, permane nelle società con assetti autoritari di destra o di sinistra).

L'eterogeneità delle varianti del modello pluralista è testimoniata dall'ampio numero di caratteri variabili che si ritrovano nelle esperienze di questo secolo. Tale varietà si riferisce in primo luogo alle due dimensioni fondamentali della struttura contrattuale: l'autonomia e la centralizzazione. Sono incompatibili con il modello pluralista puro solo le soluzioni estreme: una totale eteronomia e la massima centralizzazione della contrattazione. Fra questi estremi sono possibili varie soluzioni: dalla forte autonomia della struttura, tipica della situazione britannica (e dell'esperienza pluralista italiana), alla regolazione eteronoma delle precondizioni necessarie per la conduzione del processo negoziale e per il costituirsi delle rappresentanze contrattuali, tipica dell'esperienza nordamericana (bargaining units, procedure di individuazione dell'exclusive bargaining agent); dalla già elevata centralizzazione del caso svedese dei primi decenni del secolo, alla bipolarità sempre operante nell'esperienza britannica (e italiana), al pressoché totale decentramento della contrattazione nordamericana.

Strettamente collegato con la centralizzazione è il grado di organizzazione del padronato (un altro dei caratteri variabili del modello pluralista). La presenza di una forte e centralizzata organizzazione unitaria degli imprenditori (favorita da una forte omogeneità interna della struttura produttiva) è una delle ragioni che spiegano l'elevata centralizzazione della contrattazione svedese; la pluralità (verticale e orizzontale) delle organizzazioni del padronato britannico (spiegabile con l'eterogeneità e con l'anzianità complessiva della struttura industriale) rispecchia il bipolarismo e la complessità della struttura contrattuale in questo paese. L'assenza di organizzazioni padronali con finalità negoziali, dovuta principalmente alla vastità del mercato interno e alle sue caratteristiche concorrenziali, è una delle cause che determinano l'elevato decentramento contrattuale degli Stati Uniti (v. Clegg, 1976; v. Windmuller e Gladstone, 1984).

Una volta escluse le situazioni estreme di repressione o di espropriazione, un carattere variabile è anche costituito dal ruolo dello Stato nelle relazioni industriali. Tale ruolo può ancora essere di sostanziale laissez faire (come in non pochi momenti di questo secolo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna), ma diventa più spesso di regolazione e occasionalmente di promozione, fino a diventare in momenti particolari esplicitamente e istituzionalmente promozionale, come negli anni del New Deal o dello Statuto dei lavoratori italiano (1970).

3. Il modello statalista

Relazioni industriali di tipo statalistico si formano in diversi contesti nazionali e storici, talora in alternativa ai sistemi pluralistici, talaltra intervenendo nella crisi di questi. Le varianti del tipo sono molteplici, come del resto le varianti pluralistiche: dalle relazioni industriali ‛corporative', diffuse specie tra le due guerre in alcuni paesi europei (Italia, Francia, Germania, e poi Spagna e Portogallo), alle forme di sindacalismo ‛statalizzato' delle democrazie socialiste modellate sul prototipo sovietico e alle relazioni industriali ‛dipendenti' dallo Stato riscontrabili in molti paesi in via di sviluppo.

Al di là delle varianti possono individuarsi alcuni tratti comuni che, complessivamente intesi, contraddistinguono questo da altri tipi di relazioni industriali e in particolare lo contrappongono quasi simmetricamente ai modelli pluralistici. Si tratta beninteso di una schematizzazione: questi caratteri non si ritrovano quasi mai allo stato puro e tuttavia la discontinuità è particolarmente netta proprio rispetto ai modelli pluralistici. Anzitutto gli istituti di relazioni industriali presentano un'accentuata dipendenza o mancanza di autonomia dallo Stato, che talora giunge fino alla totale subordinazione e al completo assorbimento, in particolare del sindacato nelle strutture pubbliche (talvolta attraverso il partito). Simile carattere consegue al fatto che le relazioni industriali diventano parte di un sistema politico e di ideologie corporative o socialiste anch'esse essenzialmente ‛moniste', in quanto postulano la presenza di un (solo) potere, identificato nello Stato, capace di fungere da regolatore supremo dell'intera organizzazione sociale (v. Tarello, 1970; v. Maier, 1975). La configurazione dei rapporti di lavoro in modo conforme a tale idea è uno dei punti di forza e dei postulati centrali di tutti i sistemi monistici moderni. Questo carattere fondamentale influisce ovviamente sui singoli tratti del sistema. Le forze di rappresentanza collettiva sono uniche, oltre che pubbliche e tendenzialmente non volontarie: si tratti di rappresentanze di tipo sindacale o genericamente consiliare (v. Winkler, 1977).

L'unicità della rappresentanza dei lavoratori è un requisito essenziale per l'‛unità' del sistema economico-politico, più ancora che non l'unità del partito; relazioni industriali corporative si riscontrano infatti in paesi con regimi partitici diversi, di partito unico, con pluralità di partiti, o senza partiti strutturati in modo definito (v. Schmitter, 1974). Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva sono tipicamente accentrate e controllate in modo rigoroso dal centro anche nelle loro espressioni periferiche. La gerarchia e il controllo centralizzato sulle varie componenti del sistema sono complementari alla mancanza di autonomia del sistema all'esterno e sono necessari per realizzare pienamente l'unità e l'ordine dell'intero sistema (anche economico-politico).

Unità e ordine del sistema implicano la rigorosa limitazione, fino alla soppressione, del conflitto industriale; e richiedono che la composizione delle controversie avvenga in forme alternative al conflitto: dall'arbitrato obbligatorio all'intervento amministrativo e/o legislativo. La capacità di governare i rapporti di lavoro senza conflitto costituisce l'obiettivo essenziale e il segno di successo dei sistemi statalistici; così come l'eccesso di conflitto incontrollato è ritenuto l'elemento di debolezza fondamentale dei sistemi pluralistici. In generale l'intero sistema di relazioni industriali presenta un alto grado di istituzionalizzazione, realizzata tramite norme specifiche, di origine legislativa e amministrativa, cui si aggiungono spesso le norme prodotte dalla stessa contrattazione collettiva.

La dipendenza delle relazioni industriali dallo Stato non esclude, anzi può postulare, che esse svolgano funzioni importanti nella regolazione del mercato del lavoro e dell'economia e anche nell'amministrazione di importanti servizi connessi agli interessi dei lavoratori: previdenza e sicurezza sociale, servizi sociali in genere, collocamento. La delega di poteri normativi e amministrativi al sindacato e alla contrattazione collettiva costituisce l'altra faccia della mancanza di autonomia e dell'assorbimento delle relazioni industriali nell'ambito statale. Lo svolgimento di funzioni delegate - tipicamente più ampie di quelle riscontrabili nei sistemi pluralistici - distingue i modelli statalistici dai regimi totalitari in senso proprio e costituisce un importante strumento di mobilitazione del consenso al sistema. Il nazionalismo è un ultimo connotato caratteristico dei sistemi statalistici - riscontrabile sia nelle varianti corporative sia in quelle proprie dei paesi in via di sviluppo - che influenza anche gli istituti di relazioni industriali.

Delle varianti storiche in cui il modello statalistico si è concentrato, quella corporativa è la più diffusamente analizzata, sia per l'importanza storica che ha rivestito nell'occidente europeo, sia per le suggestioni ricorrenti che il corporativismo esercita anche nell'attualità dei paesi capitalistici avanzati. Ciononostante le relazioni industriali corporative sono relativamente meno conosciute di altri aspetti dello Stato corporativo e sono ancora incerte le categorie fondamentali per la loro analisi. Prova ne sia - a tacer d'altro - la frequente attribuzione di caratteri corporativi alle relazioni industriali di paesi diversi: da quelli sopra ricordati - Francia, Italia, Spagna - a Grecia, Brasile, Messico, Perù.

Altrettanto significative sono le controversie esistenti nel dibattito storico sull'origine del corporativismo in ordine al ruolo svolto dallo Stato nelle relazioni industriali. Se, come si è detto, le origini del corporativismo di Stato si trovano ‟nella morte rapida e altamente visibile del pluralismo nascente" (v. Schmitter, 1974), la debolezza delle relazioni industriali e pluralistiche, come dei rapporti capitalistici in genere, ne costituisce uno dei fattori determinanti. L'importanza dello Stato nelle relazioni industriali trova alcuni indizi significativi nelle vicende dei vari sistemi europei tra le due guerre: nella diversa capacità di reagire alla crisi economica dei sistemi mitteleuropei e di quelli scandinavi-anglosassoni (v. Fauvel-Rouif; 1966; v. Cella, 1979).

In tutti i paesi la depressione attacca duramente le strutture del sistema di relazioni industriali, riducendo la forza del sindacato sul mercato del lavoro - già indebolito prima del 1929 -, ostacolandone la capacità conflittuale e bloccando la contrattazione. Ma la dipendenza dell'azione operaia, delle sue espressioni conflittuali, nonché dei suoi esiti, dal ciclo economico non è stata omogenea. Una capacità di reazione positiva si è manifestata in quei paesi - Gran Bretagna e Scandinavia - che avevano registrato un'esperienza relativamente consolidata di relazioni industriali pluralistiche in un ambiente industriale sviluppato e che avevano avuto, già prima e a cavallo della prima guerra mondiale, significativi esperimenti di contrattazione collettiva. Questi presupposti istituzionali, uniti all'attribuzione di poteri politico-istituzionali al sindacato e a meccanismi di scambio politico, hanno permesso a un sindacalismo forte, con tradizione unitaria e legato a un partito laburista, di difendersi senza crollare e di attuare programmi positivi di collaborazione con gli imprenditori per il superamento della crisi. In Svezia e Norvegia tali programmi giungeranno all'elaborazione di un codice per le relazioni industriali destinato a governare quei paesi fino ai giorni nostri.

All'opposto, in Italia e - sia pure in misure diverse - in Germania la debolezza delle relazioni industriali pluralistiche, un sindacalismo precario e dipendente dai partiti politici, la mancanza di meccanismi contrattuali e di scambio politico si sommano ai caratteri dello sviluppo capitalistico, per un verso ritardato - specie in Italia-, per altro verso fortemente dipendente dallo Stato, nel determinare la sconfitta o l'impotenza della reazione operaia alla crisi (v. Rusconi, 1977). Tale impotenza è emblematizzata tra l'altro dalla caduta delle stesse reazioni difensive e conflittuali, oltreché dall'incapacità sindacale di proporre soluzioni negoziali della crisi. D'altra parte l'imprenditoria di questi paesi era essa stessa troppo debole, internamente divisa, dipendente dall'estero - specie in Italia -, oltreché priva di tradizioni contrattuali riformatrici, per rispondere alla domanda operaia e alla sfida della crisi economica entro il quadro dello Stato democratico. Cosicché alla necessità di assicurare la pace sociale gli imprenditori hanno risposto alleandosi con lo Stato corporativo per reprimere o incorporare gli istituti rappresentativi della classe operaia. In un simile contesto tali paesi si sono trovati a passare da una regolazione dei rapporti di lavoro tramite il mercato individualistico a una disciplina per legge e per atto di autorità, propria appunto dei sistemi statalistici, saltando o quasi la fase della disciplina per accordo.

Simile assenza di strutture rappresentative e di contrattazione pluralista per regolare rapporti di lavoro - in un contesto di capitalismo ritardato e debole - si ritrova anche nelle altre esperienze statalistiche sopra menzionate: dal modello sovietico, che si afferma in una società pressoché totalmente priva di tradizioni associative e contrattuali, alle differenti esperienze dei paesi in via di sviluppo, dove i nascenti Stati nazionalistici hanno eliminato le ristrette forme di associazionismo operaio o più spesso le hanno integrate all'interno di più vasti movimenti di carattere politico-statale.

La distruzione e la sostituzione delle embrionali relazioni sindacali pluralistiche costituiscono in effetti uno dei primi impegni politici dei sistemi statalistici. Ma i risultati - come si diceva - non sono privi di significative varianti. Lo rivela già il confronto fra le maggiori espressioni europee: il fascismo italiano (e spagnolo) e il nazismo tedesco. Il ruolo e l'articolazione degli istituti di relazioni industriali sono molto più marcati nel primo che nel secondo tipo di regime (v. Sapelli, 1982; v. Ungari, 1970). Il regime hitleriano non ha creato una forma di sindacalismo nazista, mentre ha proceduto alla distruzione delle strutture rappresentative precedenti. L'organizzazione nazista del lavoro si identifica e si esaurisce in una lega politica mista fra le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro: il fronte del lavoro. Maggiore attenzione anche legislativa riceve l'organizzazione collettiva nell'impresa; essa è regolata dalla legge del 1934 che, sanzionando ed estremizzando la tradizione germanica dell'impresa-comunità, retta dai principi della gerarchia e della fedeltà, riconosce al suo interno fiduciari del lavoro che garantiscono la fedeltà (più che rappresentare gli interessi) dei lavoratori nei confronti dell'imprenditore, capo dell'impresa. Si ipotizza la possibilità di accordi aziendali, ma è vietata la contrattazione nazionale vera e propria, mentre la disciplina protettiva del lavoro è di origine legislativa (v. Mason, 1977; v. Neumann, 1934). Non solo è quindi soppresso il conflitto, ma è anche istituzionalmente negata l'esistenza di forme specifiche di rappresentanza dei lavoratori che possano raffigurare il dualismo degli interessi organizzati, pur nel quadro della prospettata unità corporativa della nazione.

Al contrario, la politica fascista del lavoro si manifestò preoccupata di mantenere la continuità delle forme di rappresentanza degli interessi della classe operaia, pur riformandone profondamente sia il fondamento, che non è più volontario, sia la struttura organizzativa, che diventa centralizzata e priva di radici nella fabbrica. Tale scelta, che ha profonde radici istituzionali e dottrinali, soprattutto nel pensiero di A. Rocco, conferma il bisogno, percepito dal regime, di legittimarsi anche per questo tramite nei confronti delle masse popolari.

Si registra altresì una significativa espansione delle funzioni delegate a tali rappresentanze: prima fra tutte quella contrattuale. L'esercizio di questa funzione, alquanto diffuso in tale periodo, serve a incanalare le persistenti tensioni sociali in una fitta rete di negoziati collettivi ai vari livelli, che producono effetti normativi, in senso stretto, sulla generalità dei lavoratori. Si allargano inoltre le forme di partecipazione sindacale in diversi organismi pubblici della previdenza sociale e del mercato del lavoro - di origine già precorporativa - che assorbono migliaia di sindacalisti in attività di gestione, significative ancorché sempre subordinate. Alla repressione del conflitto, che non impedisce il suo manifestarsi in forme diverse e atomizzate, si affianca un grande sviluppo delle attività di composizione arbitrale delle controversie ad opera della magistratura del lavoro, elemento anche questo senza riscontro nel regime nazista (v. Jocteau, 1978).

Queste strutture istituzionali influiscono corposamente non solo sulle condizioni di lavoro nel periodo fascista, che sono largamente affidate a una disciplina di origine contrattuale, nonostante la forte vocazione legislativa del regime, ma altresì nel passaggio alla fase democratica del dopoguerra. I sindacati fascisti esercitano un ruolo di mediazione sociale e di regolazione dei rapporti di lavoro, di cui potranno approfittare le nuove organizzazioni sindacali durante le fasi di crisi del regime, sia nelle vicende italiane del periodo 1943-1945, sia più tardi nella Spagna franchista degli anni cinquanta e sessanta. D'altra parte l'esclusione del sindacato dalla fabbrica continuerà a pesare nelle esperienze postbelliche di ambedue i paesi.

Il sistema contrattuale fascista influì a lungo, nel bene e nel male, sulle relazioni industriali italiane e spagnole dopo la caduta di quei regimi: sia rispetto ai contenuti della normativa, che hanno continuato a fornire per molti anni il plafond minimo di tutela e talora l'ossatura fondamentale di molti istituti del rapporto di lavoro, sia rispetto alla struttura della contrattazione, che mantenne per larga parte del dopoguerra i suoi caratteri di centralizzazione e verticalizzazione, nonché il suo baricento nel contratto nazionale di categoria (v. Giugni, 1956; v. Romagnoli e Treu, 19812; v. Accornero, 1976).

Gli istituti delle relazioni industriali hanno avuto un ruolo prevalentemente ridotto nei paesi socialisti. Nei sistemi e nei periodi in cui si afferma più rigidamente il metodo della pianificazione centralizzata (Unione Sovietica in tutto il periodo stalinista, ma anche molte delle democrazie popolari europee fino a tempi recenti), l'applicazione di tale metodo comporta un'eclisse spesso totale della funzione contrattuale del sindacato, specie per gli aspetti economici. La determinazione delle condizioni economiche e normative dipende da decisioni politiche, legislative e amministrative alla cui formazione il sindacato contribuisce come ‛collettore' di istanze collettive variamente efficaci e in ogni caso filtrate dal partito unico. L'iniziativa sindacale si concentra nello svolgimento di compiti amministrativi, specie nell'area della sicurezza e previdenza sociale, di supervisione e di applicazione delle normative, di compiti ispettivi, conciliativi e arbitrali, talora all'interno di commissioni tripartite comprendenti funzionari pubblici. A ciò va aggiunto il ruolo di rappresentanza settoriale del sindacato all'interno del partito, di contributo alla selezione dei leaders e di mobilitazione del sostegno (v. Grancelli, 1986).

Le reazioni a tali forme rigide di pianificazione, di recente manifestatesi in alcuni paesi socialisti e intese a renderle più flessibili e aperte al mercato e ad allargare la partecipazione dei lavoratori alle decisioni economiche, si sono espresse in una più o meno cauta rivalutazione dell'autonomia delle relazioni industriali. Stando alle informazioni disponibili, gli spazi economici e normativi della contrattazione collettiva si sono ampliati, sia pure nell'ambito delle indicazioni vincolanti del piano e per lo più a livello centralizzato. L'attività contrattuale nei luoghi di lavoro ha pure avuto qualche significativo sviluppo, con esclusione degli aspetti salariali per i quali si mantiene uno stretto controllo centrale: eccezione saliente è la Polonia dopo il 1980, di fronte alla pressione del nuovo sindacalismo autonomo di Solidarność.

In realtà a livello decentrato le rappresentanze dei lavoratori hanno registrato uno sviluppo soprattutto di funzioni partecipative alla produzione e all'organizzazione del lavoro. Tali funzioni sono enfatizzate specie in quei paesi dove più forte è stata la tendenza al decentramento economico e all'autonomia decisionale dell'impresa: la Iugoslavia, secondo la formula autogestionaria, ma anche l'Ungheria, la Cecoslovacchia e ora la Polonia. Negli stessi paesi, in concomitanza con questo relativo sviluppo di funzioni rappresentative autonome, si registra l'emergere di controversie e talora di conflitti espliciti su questioni di disciplina collettiva del lavoro. Nè mancano contrasti fra organismi partecipativi o di autogestione nell'azienda e organismi sindacali in senso stretto (ancora Iugoslavia e Polonia): si tratta di contrasti che il sistema monistico non è attrezzato istituzionalmente a comporre e per i quali si affida significativamente alla funzione direttiva preminente del partito comunista.

Ancora meno note sono le relazioni industriali statalistiche assai diffuse nei paesi in via di sviluppo dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina. Le condizioni della loro origine assenza di precedenti esperienze sindacali o retaggi di influenze coloniali, situazioni di capitalismo ritardato e periferico, tumultuose spinte all'autarchia e all'indipendenza nazionale - determinano di solito un'estrema debolezza delle strutture sindacali e contrattuali. La rigida disciplina e il riconoscimento legislativo dei sindacati, la cooptazione delle élites dirigenti nelle oligarchie di governo (peraltro con evidente squilibrio fra élites imprenditoriali e operaie) non riescono a supplire all'inconsistenza delle rappresentanze collettive, non impediscono la frammentazione organizzativa degli stessi sindacati ufficiali e - a maggior ragione - di quelli autonomi, non rimediano alla saltuarietà e casualità della contrattazione collettiva, limitata alle poche e diseguali aree di industrializzazione. In alcuni casi la contrattazione decentrata è tollerata o addirittura favorita, contrariamente a quanto si riscontra di solito in questi sistemi, perché conferma la debolezza delle strutture espressive della classe operaia, più che pregiudicare il controllo centrale (v. Cordova, 1984; v. Schregle, 1982). Si tratta in generale di un potere statale debole che non riesce neppure a utilizzare le strutture burocratico-sindacali come strumenti per un sostegno di massa, anche se talora arriva a compiere dure repressioni di attività sindacali tanto spontanee quanto improvvisate.

4. Il modello partecipativo o di pluralismo organizzato

La critica teorica dei modelli pluralistici accompagna, se non precede, le loro difficoltà pratiche di funzionamento e riguarda ancora una volta il pluralismo anzitutto come paradigma di assetto politico-sociale, quindi come teoria delle relazioni industriali. Queste critiche rilevano che nè il sistema politico nè quello di relazioni industriali funzionano secondo la raffigurazione pluralistica pura: molteplicità delle rappresentanze, che concorrono a regolare i rapporti sociali e politici; loro carattere privato e non coercitivo; distinzioni fra sfera privata e sfera pubblica; capacità delle transazioni fra i gruppi privati di condurre alla soluzione pacifica dei conflitti, assicurando integrazione, stabilità e consenso (v. Lowi, 1969). Molti di questi caratteri si alterano fino a tradursi nel loro contrario: il numero dei gruppi si riduce, con la formazione di organizzazioni provviste di diverso potere e diversa capacità di coazione degli aderenti; la linea di confine fra pubblico e privato si oscura fino a scomparire; lo Stato nei suoi diversi apparati presenta una sostanza istituzionale dotata di autonomia. Infine il gioco delle pressioni dei gruppi non garantisce nè equilibri, sia pur dinamici, fra le varie forze in gioco, nè una più razionale distribuzione delle risorse, bensì stalli decisionali e/o conflitti ricorrenti, con possibili crescenti diseguaglianze e sprechi. Le devianze delle relazioni industriali appaiono particolarmente preoccupanti per le influenze che i rapporti fra le organizzazioni del capitale e del lavoro hanno sull'operare dei sistemi sociali complessivi.

Al di là di questi rilievi, le origini dell'inadeguatezza del modello trovano diverse spiegazioni, come pure diversi sono i paradigmi proposti per correggere le devianze riscontrate. Le correzioni proposte vanno schematicamente in due direzioni opposte: una nel senso di ripristinare, in misura più o meno accentuata, il ruolo del mercato attraverso un allentamento dei vincoli a esso imposti dall'azione dei gruppi, cresciuti anche per l'intervento statale, e una riduzione di questo stesso intervento; l'altra nel senso opposto di allargare e istituzionalizzare il potere dei grandi gruppi organizzati, coinvolgendoli maggiormente sia nella regolazione dei rapporti economici sia nell'integrazione delle forme di democrazia politica.

Quest'ultima tendenza presenta ascendenze ideologiche e manifestazioni storiche così composite da assomigliare a una generica direttrice di marcia più che a una dottrina o a una politica organica. Lo testimoniano le stesse oscillazioni nella terminologia usata per indicare teorie e prassi di questo tipo: partecipazione, concertazione, pluralismo partecipativo o organizzato e infine neocorporativismo o corporativismo liberale (per distinguerlo dal corporativismo statalistico o autoritario). È significativo che tali teorie e prassi - sia nel loro rilievo sociopolitico generale, sia nelle loro applicazioni alle relazioni industriali - traggano alimento da tutti e tre i principali filoni presenti nelle democrazie liberali europee: il cattolico, il liberal-conservatore, il socialdemocratico. A questo proposito, si può riprendere con maggior precisione quanto e già stato osservato (v. Panitch, 1977) circa l'affinità fra tali filoni ideologici e il pensiero corporativo (a dire il vero con qualche forzatura se non si distinguono le versioni statalistiche del corporativismo dalle tendenze che ora interessano). Se un'idea comune si può trovare alla base di queste tendenze, essa riguarda l'inadeguatezza teorica e politica di una rappresentazione della società basata su un conflitto endemico e totale di interessi e la possibilità/opportunità di trovare aree di convergenza o interdipendenza di interessi fra i vari gruppi sociali. Da questo giudizio discende la proposta di valorizzare gli elementi di potenziale convergenza attraverso istituti in senso lato partecipativi per una soluzione (più) equilibrata dei conflitti sociali e per una distribuzione (più) giusta delle risorse (v. Lehmbruch, 1977).

Tali premesse comportano alcune conseguenze specifiche per le relazioni industriali, pure in parte comuni: anzitutto la predisposizione di istituti di vario genere o la scelta di prassi dirette a favorire il coinvolgimento dei lavoratori e/o delle loro rappresentanze in processi decisionali che li riguardano, di solito a livello sia microeconomico (di impresa), sia macroeconomico (istituti e politiche nazionali). Questi istituti o prassi sono destinati ad allargare e a integrare la tradizionale contrattazione collettiva nota ai sistemi pluralistici, senza sostituirla. Essi presentano attori e contenuti diversi da quelli della contrattazione tradizionale. Nell'ambito aziendale le rappresentanze dei lavoratori - se non perdono addirittura la loro identità per confluire in forme di rappresentanza mista - sono diverse dalle rappresentanze sindacali deputate alla contrattazione, principalmente per le funzioni loro affidate, che sono appunto più collaborative e meno conflittuali di quelle contrattuali (anche se con non poche varianti e sovrapposizioni). A livello territoriale e nazionale la caratteristica più saliente è la configurazione ‛tripartita' degli istituti - e prassi - partecipativi; oltre alle rappresentanze sindacali e imprenditoriali, è presente con funzioni attive l'attore Stato, rappresentato per lo più dall'esecutivo o dall'amministrazione (v. Strinati, 1979). Il contenuto delle relazioni partecipative - pur variando a seconda dei livelli e delle contingenze - si differenzia, più o meno nettamente, da quello della contrattazione, in quanto riguarda materie di interesse potenzialmente comune alle parti: sostegno delle performances del sistema economico nazionale e di quello di impresa, contenimento del conflitto, miglioramento delle condizioni di reddito e di occupazione dei lavoratori, riconoscimento di ruolo alle rappresentanze. Lo scambio perseguito è a somma accentuatamente p o s i t i v a, più che nel ‛gioco' contrattuale classico.

I caratteri generali così descritti sono suscettibili - come si diceva - di applicazioni storiche e di usi politici diversi: tanto più che la loro manifestazione è stata spesso parziale e nient'affatto organica. Forme e istituti partecipativi hanno fatto significative apparizioni già nei primi decenni del secolo, in una fase di pluralismo ancora in ascesa, nonostante le difficoltà del periodo (v. Bowen, 1947). Non è possibile stabilire correlazioni semplici fra tali apparizioni e situazioni di acuta crisi economica. Inoltre molte di queste formule partecipative, pur avanzate fin dall'inizio in polemica con le tesi classiste del marxismo e con le posizioni sindacaliste rivoluzionarie, non perseguivano semplicemente una collaborazione di classe o una strategia di integrazione pacifica della classe operaia nel sistema capitalista. Al contrario tendevano ad allargare il potere collettivo dei lavoratori e a ridurre l'influenza di segno capitalistico in una prospettiva, se non di socializzazione, certo di forte democratizzazione dell'economia. Infatti la riforma delle relazioni industriali in senso partecipativo costituiva di solito la base di progetti di trasformazione delle strutture economiche e statuali intesi a correggere, anche profondamente, il funzionamento dell'economia capitalistica e della democrazia liberale, senza cadere nell'opposta ‛alienazione' del comunismo di Stato. Questo era infatti uno degli spartiacque fondamentali che separava le ipotesi partecipative di stampo liberal-conservatore, la maggior parte di quelle cattoliche, da molte varianti socialdemocratiche e riformiste: dai fabiani al socialismo ghildista, alle posizioni istituzionaliste dei socialisti weimariani, a quelle del movimento consiliare italiano e tedesco del primo Novecento. In effetti la pressione del rafforzato movimento operaio indusse in quegli anni d'inizio secolo governi della più varia ispirazione ad abbandonare i tradizionali atteggiamenti repressivi o di mera tolleranza verso l'azione sindacale e a introdurre forme partecipative sia nell'impresa, come le prime forme rappresentative dei lavoratori istituzionalmente riconosciute, sia nelle istituzioni pubbliche, con la diffusione di rappresentanze ‛tripartite'. L'effetto di simili politiche, al di là della loro intrinseca ambiguità, fu di sostenere le varie forme di rappresentanza e di azione collettiva, contribuendo a rafforzarne le per lo più fragili strutture. Già allora i fautori del liberismo mostrarono di dolersi di tali politiche come di una interferenza indebita, che contribuiva a squilibrare il razionale rapporto fra i gruppi ipotizzato dai modelli pluralistici.

Questi istituti, lato sensu partecipativi, dovevano registrare alterne vicende negli anni successivi. Si svilupparono quasi ovunque nel periodo della prima guerra mondiale (dai Whitley Committees, in Gran Bretagna, alle strutture rappresentative dei lavoratori nelle aziende e poi agli esperimenti consiliari in vari paesi europei) e - con varianti - nella seconda (soprattutto organismi misti per la collaborazione produttiva e per il controllo dei salari, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti), in coincidenza con lo sforzo di collaborazione nazionale richiesto dall'impegno bellico. Durante la grande depressione degli anni trenta mostrarono buone capacità di resistenza in Gran Bretagna e Svezia; invece negli altri paesi europei crollarono con la sconfitta del movimento sindacale, talora vittime delle loro stesse ambiguità. In Germania, per esempio, le proposte weimariane dei consigli furono utilizzate rovesciate dal nazismo per avallare la concezione fiduciaria dei rappresentanti dei lavoratori nell'impresa (v. Kahn-Freund, 1932). Negli Stati Uniti furono presenti istituti partecipativi nella prima versione del New Deal rooseveltiano, per lasciar posto in seguito a una legislazione di sostegno e di disciplina della contrattazione collettiva (v. Schlesinger, 1957; v. Vaudagna, 1981).

Le spinte a soluzioni partecipative si generalizzano nel secondo dopoguerra, tanto da essere individuate come una delle tendenze costanti, ancorchè con esiti diversi, presenti nei paesi capitalistici con sistemi sviluppati di relazioni industriali. L'attenzione circa i motivi e le varianti di simili soluzioni si accresce nell'ultimo decennio, tanto da occupare spesso il centro del dibattito (v. Lehmbruch, 1977; v. Bordogna e Provasi, Politica..., 1984). Ancora una volta il modello partecipativo si esprime - specie in Europa - a diversi livelli: macroeconomico, istituzionale e di impresa. Esperienze di politiche concertate dei redditi, sostenute da istituti tripartiti (formali o informali), punteggiano le relazioni industriali europee quasi senza soluzione di continuità: prima nei paesi del Nord - dalla Scandinavia all'Olanda, alla Gran Bretagna - più tardi nella Repubblica Federale Tedesca e infine nei paesi mediterranei, Italia, Spagna, Grecia (gli ultimi arrivati a tali politiche). Parallelamente si diffondono nella maggioranza degli stessi paesi forme partecipative, più o meno istituzionalizzate, dei lavoratori nell'azienda che riprendono con adattamenti il filo, quasi sempre interrotto, dei primi esperimenti di inizio secolo. Lo riprendono con minori tensioni ideologiche delle varianti consiliari di allora e con più pragmatica finalizzazione a obiettivi di relazioni industriali. Non mancano significative eccezioni, quali Gran Bretagna e Italia, ove le relazioni industriali nelle aziende restano a lungo ancorate a pratiche pluralistiche (quasi) pure, anche quando si avviano esperienze di concertazione centrale.

Il parallelismo fra i due livelli - nazionale e di impresa - è lungi tuttavia dall'essere completo, non solo in questi paesi. L'asse portante del modello partecipativo e per molti versi il fulcro dell'attenzione teorica si spostano verso il livello macroeconomico e politico, in parallelo con una spinta alla centralizzazione delle relazioni industriali emersa talora già negli anni sessanta e più generalmente nel decennio successivo.

Nell'analisi della crisi del pluralismo e delle possibilità di correggerne il funzionamento con un'evoluzione in senso partecipativo - o neocorporativo - figurano in primo piano motivi riguardanti gli equilibri generali delle economie capitalistiche e il ruolo dello Stato nella loro regolazione (v. Panitch, 1977; v. Martin, 1983). Da una parte il crescente coinvolgimento dello Stato nella vita economica - indotto dalla pressione sociale organizzata - ha spostato la sede decisionale dal mercato al sistema politico, allargando gli interventi di questo anche nelle relazioni industriali: legislazione protettiva, welfare, politiche di pieno impiego. Si completa, e secondo alcuni si conclude, in tal modo, il ciclo di espansione del welfare avviato dalla riflessione keynesiana e drammaticamente stimolato dalla grande crisi. Tale funzione attiva, che implica un'autonoma relazione dello Stato quale regolatore di un sistema sociale sempre più ‛intriso' di elementi pubblici, costituisce un elemento distintivo, di crescente rilievo, delle concezioni partecipative neocorporative, rispetto sia alle concezioni pluralistiche sia alle raffigurazioni marxiste delle società capitalistiche (v. Maraffi, 1981). D'altra parte tali politiche protettive e di welfare hanno accentuato la rigidità verso il basso di prezzi e redditi, e quindi le tendenze inflazionistiche dell'economia, riducendo l'efficacia delle tradizionali terapie di intervento economico (indiretto) e mettendo in difficoltà la capacità regolatrice propria delle autorità pubbliche. Di qui l'enfasi delle prassi concertative e delle corrispondenti analisi teoriche su forme istituzionali capaci di coinvolgere le grandi organizzazioni nel processo decisionale politico-economico, acquisendone il consenso preventivo o neutralizzandone il potere conflittuale di veto. Non a caso le politiche dei redditi, basate sulla collaborazione, si rivelano il ‛cuore' degli assetti neocorporativi e i rapporti fra Stato e sindacato diventano l'elemento cruciale per garantire la stabilità delle società democratiche sviluppate (v. Pizzorno, 1980).

Oltre questo ambito la diffusione delle esperienze collaborative è parziale. Assente o limitata è l'estensione di forme partecipative del sindacato sia alle decisioni di governo generale dell'economia sia alle decisioni dell'impresa. Nel primo caso le strutture tradizionali di controllo dell'economia - espresse nel potere esecutivo e amministrativo dello Stato, nonché nelle concentrazioni del potere economico - riducono l'area d'influenza della concertazione neocorporativa, che rivela un limite intrinseco nella sua stessa origine da intese parziali e precarie fra gruppi in posizione conflittuale (v. Lehmbruch e Schmitter, 1982). Le esperienze di partecipazione in azienda rimangono quasi ovunque meno generalizzate di quelle di politica dei redditi. Per lo più si arrestano di fronte alle cosiddette prerogative del management, anche nei sistemi dove il modello partecipativo è più forte e consolidato, come nel caso dei Paesi Scandinavi: proprio il rispetto di questo limite costituisce anzi in tali paesi la condizione del compromesso raggiunto fra capitale e lavoro già negli anni trenta e solo in parte rivisitato nel decennio scorso.

La ricerca dei tratti comuni ai vari modelli partecipativi e dei caratteri che ne favoriscono lo sviluppo è approdata a risultati solo in parte appaganti, nonostante l'impegno analitico e teorico profuso. L'importanza di alcuni caratteri è peraltro largamente riconosciuta: primi fra questi la c e n t r a l i z z a z i o n e e la c o n c e n t r a z i o n e delle organizzazioni di interessi. Le esperienze collaborative presuppongono un tendenziale monopolio delle rappresentanze sociali, anche sostenuto dalla legge, e la capacità di queste rappresentanze di controllare in modo uniforme, appunto attraverso la centralizzazione, le grandi decisioni cui gli attori devono collaborare a fini di stabilizzazione del sistema. Un altro carattere usualmente ritenuto comune è la presenza (stabile) al governo di partiti espressione della (o vicini alla) classe operaia (pro-labor), per lo più in rapporto di interdipendenza con movimenti sindacali unitari. In effetti, governi sostenuti da partiti socialdemocratici sono stati i protagonisti massimi di quel ruolo attivo dello Stato nelle relazioni industriali che ha facilitato lo sviluppo di politiche concertative, mettendo a disposizione delle parti sindacali risorse pubbliche (riconoscimento di status per le organizzazioni e i dirigenti, prestazione di welfare per i componenti) come contropartita dell'autocontenimento sindacale sul mercato. La mancanza di queste condizioni, insieme con le divisioni dei partiti politici espressione della classe operaia e dei sindacati, contribuisce a spiegare la debolezza degli esperimenti neocorporativi in altri paesi, in particolare quelli latino-mediterranei (v. Treu, Crisi..., 1983). Tuttavia, forme di concertazione, sia pur deboli, si sono affermate in alcuni paesi privi di tali precondizioni, che hanno posto in essere per così dire degli ‛equivalenti funzionali': forte controllo ideologico e politico delle confederazioni centrali, specie dei lavoratori, che supplisce in parte alla scarsa centralizzazione organizzativa; unità di azione - al posto dell'unità organica del movimento sindacale; infine, invece di un governo pro-labor in senso stretto, governi di coalizione inclini a promuovere forme di scambio politico col sindacato concordandole con partiti comunisti all'opposizione (Francia, Italia, Spagna, Grecia; v. Lehmbruch e Schmitter, 1982; v. Regini, 1983).

A questi caratteri - centralizzazione, concentrazione delle rappresentanze e governo pro-labor - si aggiunge di solito una diffusa istituzionalizzazione delle relazioni industriali, che riguarda sia i rapporti fra le parti sia la partecipazione delle rappresentanze sociali nelle istituzioni pubbliche. Il metodo dell'accordo e della partecipazione si estende oltre i confini tradizionali della contrattazione a decisioni di significativo rilievo economico-sociale, nonché alla loro attuazione. Ciò implica una crescente delega di funzioni sociali e lato sensu pubbliche alle organizzazioni di interessi, oltre che un'alterazione del metodo di produzione normativa (leggi contrattate, leggi contratto). A parte questi tratti generali comuni, i modelli partecipativi presentano non poche varianti su quasi tutti i punti critici che li distinguono dagli altri modelli. Le varianti possono raggrupparsi secondo due assi o spartiacque fondamentali, a seconda del comportamento delle variabili individuate, in particolare delle forme e dei gradi del controllo centrale della partecipazione e dell'istituzionalizzazione (v. Lehmbruch e Schmitter, 1982; v. Bordogna e Provasi, Politica..., 1984; v. Treu, Sindacato..., 1983).

In alcune esperienze (Austria, Olanda, Repubblica Federale Tedesca) la centralizzazione e l'istituzionalizzazione delle rappresentanze e della partecipazione risultano accentuate; talora si accompagnano con forme dirette o indirette di coazione, quali limiti al diritto di sciopero: controlli dello Stato sulle organizzazioni sociali e delle organizzazioni sindacali sugli aderenti, rivolti a contrastare le tendenze centrifughe, che costituiscono un punto debole dei modelli partecipativi centralizzati. Tali caratteri enfatizzano gli elementi di legalismo, se non di statalismo, di organicismo e di integrazione gerarchica propri tradizionalmente di questi sistemi. Gli stessi caratteri contribuiscono alla stabilità delle relazioni industriali tramite una considerevole selezione delle domande sociali da parte delle organizzazioni; cosicché possono costituire un parziale sostituto dello scambio politico, cioé ridurre le concessioni materiali dello Stato necessarie a mantenere il consenso sociale e l'ingerenza della partecipazione sociale nel funzionamento del mercato.

Una combinazione diversa di elementi può rinvenirsi in altri sistemi, quale ad esempio quello svedese: un grado ridotto di istituzionalizzazione della partecipazione anche a livello d'impresa, controllata dal centro in via prevalentemente contrattuale, e una minore frammentazione dei canali di partecipazione si accompagnano a una maggiore influenza del sindacato nelle decisioni economiche cruciali. Tale combinazione porta a un consistente controllo sociale dell'economia, a una più accentuata impostazione solidaristica del welfare, fino al punto di tendere ad alterare alcune caratteristiche fondamentali del sistema di mercato come nella recente legislazione svedese (dicembre 1984) sulla partecipazione dei lavoratori a quote dei profitti aziendali.

Le varianti così schematizzate confermano come la maggior parte dei modelli di relazioni industriali vadano visti, piuttosto che in termini di antitesi, come poli di un continuum lungo il quale si collocano le varie esperienze storiche. In particolare ciò deve dirsi dei rapporti fra pluralismo e modelli concertativi o neocorporativi, che possono definirsi come forme di pluralismo organizzato e ‛controllato', oltre che meno conflittuale e più cooperativo (v. Crouch, 1977). Lo stacco è più netto fra pluralismo e statalismo, sia storicamente sia nei principi ispiratori (monismo autoritario versus pluralità). Tuttavia, anche in paesi sviluppati con lunga tradizione di pluralismo e di modelli partecipativi si sono registrati significativi sviluppi in direzione di un accentuato dirigismo pubblico nelle relazioni industriali, tramite soprattutto il potere esecutivo. I caratteri di centralizzazione e interventismo statale presenti in molte esperienze di concertazione (si veda la prima variante sopra ricordata) si sono ulteriormente accentuati per iniziativa di un interlocutore pubblico ‛forte'. Ciò è avvenuto nel tentativo di porre rimedio alla precarietà (intrinseca) dei patti sociali durante periodi di crisi e di scarsità di risorse e segnala una concertazione, o se si vuole un corporativismo, con tratti statalistici, che accentua le distanze dal pluralismo tradizionale.

5. Trasformazioni sociali e crisi dei modelli di relazioni industriali

Negli ultimi anni i vari modelli di relazioni industriali si sono rivelati particolarmente instabili. Il tema del mutamento è al centro dell'attenzione e ha sostituito quello della stabilità, o della tranquillità crescente, anche negli studi sulle relazioni industriali. Le difficoltà di funzionamento riguardano sia i modelli pluralistici, sia i modelli partecipativi e investono tutte le principali componenti delle relazioni industriali: declino della sindacalizzazione, che in alcuni paesi registra veri e propri crolli (Stati Uniti e Gran Bretagna); frammentazione della rappresentanza, con la rinascita del sindacalismo autonomo e dell'associazionismo professionale; perdita di rappresentatività del sindacato fra alcuni strati di lavoratori, in particolare quelli più esposti alle trasformazioni tecnologico-produttive, come i quadri, i tecnici e in genere i lavoratori a scolarizzazione relativamente elevata; frammentazione, anche in forme nuove, dei conflitti di lavoro. Infine, gli indicatori di crisi si palesano nel funzionamento complessivo del sistema: alta inflazione, ridotta produttività, crescente disoccupazione sono apparsi negli anni settanta problemi via via più gravi soprattutto nei paesi a più forte impronta pluralistica (si pensi all'Italia e alla Gran Bretagna).

Le analisi della crisi conducono alle radici stesse della logica pluralistica e smentiscono molti postulati sostenuti soprattutto nel periodo massimo della crescita - gli anni cinquanta e sessanta - dai teorici dell'industrialismo pluralistico. Secondo le valutazioni più drastiche, ma probabilmente più rigorose, i problemi di inflazione e di stagflazione che affliggono le maggiori economie nel corso degli anni settanta hanno in larga parte origine endogena, cioè negli stessi meccanismi pluralistici. Le potenzialità destabilizzanti e le intrinseche contraddizioni di questi meccanismi sono state largamente sottovalutate a causa di un ottimismo analitico, evidentemente influenzato dal lungo periodo di crescita postbellica. Tali analisi ipotizzavano la capacità di questi meccanismi - e della contrattazione in primo luogo - di realizzare equilibri solidi, sia pure dinamici, fra gruppi sociali, una composizione razionale dei conflitti, una riduzione delle diseguaglianze sociali e quindi delle tensioni collettive, fino alla convergenza di tutte le società moderne appunto verso il modello pluralista (v. Dunlop, 1958; v. Kerr e altri, 1960). Tra gli elementi di crisi non adeguatamente valutati c'è stata l'influenza ostativa e destabilizzante esercitata dall'attività dei gruppi organizzati, in rappresentanza degli interessi dei loro membri, rispetto all'operare dei meccanismi di mercato. La capacità dei differenti gruppi, a cominciare dalle rappresentanze sindacali, di proteggere (in particolare) i propri redditi contro le tendenze sfavorevoli del mercato ha accentuato la rigidità verso il basso di prezzi e redditi e quindi le tendenze inflazionistiche dell'economia. La loro capacità di pressione ha concorso allo sviluppo di una legislazione protettiva e di welfare rivelatasi progressivamente sempre più costosa e per certi versi fattore di ulteriori rigidità del sistema.

È stato già ricordato come tali fattori di debolezza del modello pluralista costituiscano la causa prima dei tentativi di revisione teorica e delle esperienze di relazioni industriali partecipative o neocorporative diffuse nei paesi sviluppati. In alcuni casi sollecitano l'accentuazione dei tratti dirigistici dei modelli concertativi al fine di garantirne per questa via la stabilità, fino al punto di progettare se non un allargamento verso modelli statalistici, almeno forme di neointerventismo. Più frequente è tuttavia una reazione per molti versi opposta: quella cosiddetta neoliberista, che si esprime nei confronti non solo degli effetti ritenuti stabilizzanti del pluralismo tradizionale, ma anche delle relazioni industriali partecipative. Il rafforzamento del potere centrale dei grandi gruppi di interesse e l'accresciuto interventismo statale sono accusati di aver irrigidito piuttosto che stabilizzato il sistema, ridotto gli incentivi all'innovazione e alla produttività e favorito gli sprechi nel tentativo di garantire (eccessiva) eguaglianza nella distribuzione del reddito e delle opportunità di impiego. Si sarebbe così prodotta una ‛sclerosi istituzionale', manifesta nella tendenza delle grandi organizzazioni a ridurre la velocità del cambiamento e della riallocazione delle risorse per proteggere i propri membri, nonché nella lentezza dei processi decisionali interni a tali organizzazioni e nel sovraccarico delle domande sociali riversate su di esse (v. Goldthorpe, 1984).

Le correzioni proposte da queste tendenze liberistiche vanno in senso opposto al coinvolgimento istituzionale dei grandi gruppi organizzati. Puntano invece a ridurne il potere, allargando l'area delle relazioni industriali in cui predominano rapporti di mercato senza mediazioni istituzionali, e perseguono una strategia di contenimento o di ‛esclusione' delle organizzazioni collettive sviluppate dal pluralismo e di ‛deregolazione' del rapporto di lavoro. Tali manifestazioni comuni del neoliberismo (esclusione e deregolazione) si manifestano ancora una volta con varia intensità nei differenti paesi e utilizzano strumenti diversi: da una parte l'iniziativa diretta degli imprenditori sul mercato, dall'altra l'azione dello Stato legislativa, fiscale e monetaria nei confronti di ambedue le parti, rivolta a sollecitarne comportamenti più coerenti con un ‛libero' funzionamento del mercato.

Le versioni più nette del neoliberismo evidenti ad esempio in Gran Bretagna e negli Stati Uniti - realizzano una esplicita limitazione dell'area di influenza sindacale e un'alterazione degli istituti delle relazioni industriali sviluppati nei decenni del pluralismo. I correttivi sono diversi: riduzione dei ‛privilegi' del sindacato; passaggio, o ritorno, da politiche del diritto ‛promozionali' a politiche limitative, o astensionistiche, con indiretto allargamento dei poteri unilaterali dell'imprenditore nell'amministrazione dei rapporti di lavoro; favore verso forme di individualizzazione delle relazioni industriali (dal sostegno ai referendum, alla riduzione delle forme di union security); smantellamento o emarginazione delle istituzioni triangolari ai vari livelli; decentramento della contrattazione collettiva; riduzione degli ambiti di questa; ritorno a una maggiore distinzione di competenze fra informazione e consultazione su materie che restano prerogativa del management, e contrattazione ricondotta a oggetti economici tradizionali.

Parallelamente, le politiche liberistiche propongono l'abolizione o l'allentamento della tradizionale disciplina protettiva del diritto del lavoro, ovvero sollecitano la riduzione del suo ambito di estensione con l'allargamento dei settori del mercato del lavoro dove essa non si applica: piccole unità produttive, rapporti di lavoro atipici e precari.

Questo mutamento è sollecitato da fattori diversi: alcuni esterni, altri interni agli stessi sistemi di relazioni industriali. Fra i primi si sottolineano di solito le trasformazioni nella composizione quantitativa e soprattutto qualitativa della forza lavoro, la diversa ripartizione per settori, il cosiddetto processo di terziarizzazione, il parallelo articolarsi dei mercati del lavoro, il mutamento delle qualifiche professionali, indotto (anche) dalle nuove tecnologie; la mutata proporzione fra lavoratori e lavoratrici, fra diversi gruppi di età, fra occupati e disoccupati; la conseguente manifestazione di un'offerta di lavoro irregolare e non determinata interamente dalla domanda (v. Accornero, 1985).

Gli effetti di queste trasformazioni sul sistema di relazioni industriali non sono però univoci. Alcune trasformazioni impongono più regole (di fonte autonoma o eteronoma): è il caso, ad esempio, della terziarizzazione dei conflitti. Altre invece richiedono meno regole o regole più elastiche: ad esempio quelle attinenti alla composizione della disoccupazione giovanile. Alcune trasformazioni spingono verso il decentramento nelle relazioni contrattuali, come i conflitti legati ai fenomeni di ristrutturazione o riconversione industriali o le trasformazioni nella composizione qualitativa della forza lavoro (la struttura per qualifiche). Altre richiedono processi di centralizzazione, come l'aumento dell'occupazione nel terziario pubblico e delle sue rivendicazioni in una pesante situazione finanziaria dei bilanci pubblici. Alcune richiedono adeguamenti (più o meno semplici) nelle strutture di rappresentanza sindacale (ad esempio il declino della tradizionale figura dell'operaio industriale), altre richiedono modificazioni più profonde di queste strutture, come nel caso delle esigenze di rappresentanza del cosiddetto ‛mondo dei lavori'.

Le strutture di regolazione proprie dei vari sistemi reagiscono diversamente alle ‛perturbazioni' esterne, anche se non si possono individuare correlazioni semplici. Alcuni fra i modelli partecipativi ‛forti' (Paesi Scandinavi, Olanda, Austria e anche RFT) hanno mostrato finora di saper fronteggiare meglio di altri la sfida neoliberista, adattandosi alle esigenze di maggiore flessibilità e articolazione dei rapporti di lavoro, senza perdere però il controllo centrale delle relazioni industriali. In ciò sono stati favoriti dall'esistenza di regole istituzionali collaudate di sostegno alle organizzazioni di interessi, da un intreccio di forme contrattuali e partecipative diffuse sia a livello aziendale che istituzionale, da strutture di relazioni industriali centralizzate. Più esposti alla crisi, alla deregulation e alla restrizione degli spazi contrattuali sono i sistemi accentuatamente contrattualistici, con strutture tradizionalmente decentrate, con poca esperienza di partecipazione istituzionale, con forti tracce di sindacalismo di mestiere, come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e (in quest'ultimo caso) con debole tradizione di sindacalismo politico (v. Treu, 1985).

La capacità di competizione dei modelli pluralistici e partecipativi con le tendenze neoliberistiche è aperta a diverse ipotesi. Non manca chi prospetta - anche se finora con scarsa attendibilità - l'avvento di una società deregolata e desindacalizzata, ove i modelli di relazioni industriali finora conosciuti si estinguerebbero nel generale diffondersi delle relazioni industriali mediate (solo) dal mercato. I fattori di indebolimento del sindacato, pur presenti, non sembrano tuttavia per ora sufficienti a escludere la sua capacità rappresentativa e quindi la sua utilità per una regolazione in qualche modo concordata dei rapporti di lavoro.

Non è esclusa, anzi da alcuni è ritenuta probabile, la convivenza di modelli diversi nei vari paesi e/o all'interno dello stesso sistema. La tenuta o il rafforzamento di modelli partecipativi nella regolazione di alcune aree di rapporti e di alcuni settori economico-sociali coesisterebbe con, e sarebbe compensata dalla, espansione delle deregulations in altre aree o settori economico-sociali dove opererebbero i meri meccanismi di mercato. Tale esito aggiungerebbe un nuovo dualismo a quelli tradizionali, smentendo le ottimistiche previsioni che attribuivano all'industrialismo pluralista la capacità di unificare, con progressive convergenze, le condizioni economiche e sociali nelle società avanzate (v. Goldthorpe, 1984).

6. Le relazioni industriali in Italia: particolarità, convergenze, prospettive

Alcune condizioni delle relazioni industriali italiane sono particolari rispetto a quelle dei paesi sui quali si è sviluppata la riflessione della scuola pluralista: gli squilibri tradizionali e a lungo non sanati del nostro tessuto economicosociale; il ritardo dello sviluppo economico e della transizione da società agricola a società industriale, e nel contempo l'ampia ‛esposizione' internazionale dell'economia italiana; la fragilità delle strutture portanti delle nostre relazioni industriali (organizzazione sindacale, contrattazione); le lacerazioni ideologico-politiche del paese, riflesse nel movimento sindacale, e la tradizionale dipendenza di questo dal sistema politico.

In tale contesto i problemi dell'equilibrio pluralistico non hanno motivo di porsi per un lungo periodo del nostro dopoguerra. Il problema è semmai (per molti) come porre le basi per la crescita di relazioni industriali meno fragili, fondate sulla contrattazione, meno ‛protette' o inquadrate entro schemi legalistici, con possibili venature organicistiche, come quelle desumibili dall'art. 39 della Costituzione (v. Cella e Treu, 1984). L'obiettivo è perseguito con tale determinatezza e successo che il sistema di relazioni industriali in Italia si configura all'inizio degli anni settanta, insieme con quello inglese, come uno dei modelli più significativi di pluralismo conflittuale in Europa. I principali istituti - dalla contrattazione collettiva al sindacato - sono privi di regolamentazione legislativa; anche la regolamentazione giurisprudenziale dello sciopero è allentata, mentre viceversa il legislatore è intervenuto positivamente a promuovere i diritti individuali e sindacali nell'impresa, con lo Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970). Una simile esperienza, di astensionismo legislativo nelle relazioni industriali e quindi di promozione senza regolamentazione dell'attività sindacale, è legata agli equilibri sindacali e politici del paese. Questi equilibri prima impediscono interventi legislativi (del resto non necessari, data la sostanziale debolezza delle relazioni industriali), più tardi richiedono un potenziamento del sindacato nei confronti sia degli imprenditori sia della base operaia, in un contesto economico di forte crescita e di alta tensione politica. Ma le premesse e i ritardi storici sopra accennati non sono senza influenza nello spiegare la scarsissima istituzionalizzazione delle nostre relazioni industriali. Inoltre nel vuoto di disciplina legislativa tardano a svilupparsi in Italia anche quelle regole del gioco, contrattuali o di prassi, che in altri paesi hanno sorretto le relazioni industriali nel periodo del pluralismo in ascesa, temperandone l'instabilità e le manifestazioni conflittuali.

In effetti la conflittualità italiana si colloca ai livelli più elevati nel contesto internazionale; è poco controllata dal punto di vista istituzionale, data l'assenza di regole procedurali compositive; è scarsamente regolata dall'andamento del ciclo economico e semmai talora più sensibile a determinanti del ciclo politico (v. Bordogna e Provasi, La conflittualità, 1984). L'indeterminatezza del quadro istituzionale non impedisce, anzi in parte favorisce l'impetuosa crescita della contrattazione collettiva e dell'organizzazione sindacale, specie nel periodo 1968-1975. La sindacalizzazione raggiunge in pochi anni livelli medio-alti, sospinta dai successi ottenuti dall'azione sindacale e aiutata da una diffusa rete di protezione pubblica: dallo Statuto dei lavoratori alla Cassa integrazione, alla rete assistenziale in agricoltura, ai rapporti fra patronati sindacali ed enti previdenziali.

Il modello organizzativo del sindacato è fondato, fin dalle origini, su una combinazione alquanto singolare di strutture verticali di tipo industriale e orizzontali, che richiama forse alcuni tratti del sindacato svedese (v. Cella e Treu, 19852). La presenza di una forte componente orizzontale non è più solo un segno di debolezza, come è stato alle origini ed è ancor oggi, ad esempio, nel sistema francese. Pur fra molte incertezze, tale presenza è funzionale al perseguimento di iniziative del sindacato estese alle politiche economiche generali e al controllo delle autonomie negoziali di categoria. La rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, debole nella nostra tradizione, si è rafforzata alla fine degli anni sessanta, specie nel settore industriale, con il diffondersi dei delegati e dei consigli di fabbrica. Si tratta di un modello organizzativo del tipo single union channel (canale unico di rappresentanza sindacale), che si può avvicinare a quello britannico degli shop stewards. Le trasformazioni intervenute negli ultimi anni, in dipendenza dei mutamenti della forza lavoro e delle difficoltà nei rapporti fra i diversi sindacati, hanno indebolito ma non stravolto tali rappresentanze unitarie.

La pluralità delle organizzazioni imprenditoriali è un altro carattere peculiare del sistema italiano, che tuttavia ha giocato solo a tratti un ruolo significativo nelle relazioni industriali. La compattezza di tali organizzazioni, il controllo sulle imprese affiliate e la stessa capacità di iniziativa nelle relazioni industriali sono tradizionalmente ridotte: il che riflette in buona parte i già rilevati dualismi nella composizione economica del paese e le parallele divergenze di interessi fra i diversi settori del padronato.

La contrattazione collettiva è il metodo d'azione prevalente e l'istituto cardine del sistema italiano. Presenta, come è noto, una struttura tradizionalmente a tre livelli: interconfederale, di categoria, aziendale. Questi livelli hanno assunto diversa importanza nei vari periodi: il ruolo della contrattazione interconfederale si è accentuato nel periodo della ricostruzione e poi di nuovo nell'ultimo decennio; il contratto nazionale di categoria è stato ‛baricentrico' a partire dalla fine degli anni cinquanta; la contrattazione aziendale si è rivelata decisiva nella forte crescita del sistema fra il 1968 e il 1975. È caratteristica del nostro sistema la tendenza al bipolarismo della struttura, cioè alla presenza di due livelli portanti: nella fase di crescita questi due livelli sono la contrattazione nazionale e aziendale, mentre nel decennio successivo il livello interconfederale tende a sostituire quello categoriale, seguendo una progressiva centralizzazione dell'intero sistema. Le caratteristiche del sistema produttivo e del mercato del lavoro spiegano in larga parte tali dimensioni della struttura contrattuale: meno rilevante nella sua formazione si è rivelata l'influenza del padronato e dei poteri pubblici, contrariamente a quanto si riscontra in altri sistemi. Alla contrattazione collettiva quale metodo prevalente di azione sindacale si accompagnano forme di partecipazione occasionale del sindacato nell'ambito del sistema delle imprese e soprattutto delle istituzioni pubbliche: partecipazione poco o nulla formalizzata nelle imprese e nelle sedi decisionali di politica economica, maggiormente istituzionalizzata invece nelle sedi amministrative, dove ha una tradizione risalente al periodo precorporativo.

Nel complesso le relazioni industriali italiane configurano un modello di pluralismo debolmente organizzato: esso è soggetto a ricorrenti tensioni riconducibili sia a fattori esterni, le perturbazioni economiche e politiche, sia a fattori interni come, anzitutto, le divisioni politiche del sindacato. Ai fattori di indeterminatezza istituzionale delle relazioni industriali italiane e di relativa fragilità del contesto economico si aggiungono infine i difficili rapporti con il sistema politico. Su questo versante spicca innanzitutto l'elevata esposizione - o meglio la dipendenza - politico-partitica dei sindacati italiani. Nonostante il relativo rafforzamento dell'autonomia sindacale e quindi dell'unità nel periodo di crescita pluralistica, non si sono affermati rapporti sindacato-partiti di tipo paritario simili a quelli prevalenti in altri contesti europei con lunga tradizione di rappresentanza politica riformista del lavoro. Nel sistema politico italiano i cleavages non risolti e una certa debolezza e frammentazione della società civile e delle connesse relazioni pluralistiche conducono a un eccessivo peso dei partiti nella società e nelle istituzioni, comprese quelle di governo dell'economia. Ciò non favorisce una maggiore istituzionalizzazione delle disponibilità alla partecipazione mostrate in anni recenti dai sindacati italiani.

Considerate simili caratteristiche, non è sorprendente che le difficoltà ovunque manifestate dai modelli pluralistici, specie a partire dalla metà degli anni settanta, siano risultate accentuate nel sistema italiano e che i correttivi altrove sperimentati si siano rivelati di applicazione molto ardua. In particolare si osserva come il sistema pluralistico italiano non presenti alcune condizioni necessarie o tipiche per evolvere verso modelli partecipativi: movimento sindacale unito, forte controllo delle organizzazioni centrali (sindacati e imprenditori) sulla base, governi pro-labor e stabili, pubblica amministrazione in grado di garantire la realizzazione degli obiettivi propri dello scambio politico.

Queste particolarità del sistema ne hanno determinato lunghi periodi di stallo. Tuttavia non hanno impedito che (almeno) dal 1976 si reiterassero tentativi di governo ‛partecipato' o ‛concertato' delle relazioni industriali, specie a livello macroeconomico. Questi tentativi hanno avuto tre momenti salienti: nelle intese e nella legislazione sul costo del lavoro del 1977, con il governo di ‛solidarietà nazionale'; nell'accordo del gennaio 1983; nel protocollo d'intesa e nel decreto del febbraio 1984. Il sistema italiano avrebbe sviluppato - si è detto - alcuni equivalenti funzionali dei presupposti tipici del modello partecipativo: unità d'azione (se non organica) fra le maggiori confederazioni sindacali; controllo ideologico-politico di queste sulla base per garantire l'osservanza degli accordi centrali; governi di coalizione, inclini a prendere misure pro-labor d'intesa col Partito Comunista, pur sempre all'opposizione.

Alcuni caratteri sono comuni ai tre episodi e alle altre esperienze europee di pluralismo organizzato o partecipativo: il coinvolgimento esplicito delle organizzazioni centrali rappresentative nelle scelte di politica economica; l'intervento decisivo dello Stato con risorse pubbliche per facilitare lo scambio; l'allargamento delle intese triangolari a un ambito crescente di temi; infine l'autocontenimento salariale e conflittuale del sindacato, nonché l'accettazione delle esigenze imprenditoriali di maggiore flessibilità e produttività, in cambio dell'ottenimento di benefici distributivi (riequilibrio fiscale a favore dei lavoratori dipendenti) e occupazionali (politiche attive del lavoro).

Fra i tre episodi esistono differenze, alcune largamente riconosciute dai commentatori, altre controverse. Le intese del 1977 sono vicine agli accordi sociali riscontrabili in paesi nordeuropei, sia per i termini di scambio, sia perché sorrette da un governo di ‛solidarietà nazionale' appoggiato dal maggiore partito di rappresentanza del lavoro, il Partito Comunista. La fragilità delle intese, che pure contribuirono a una stabilizzazione temporanea delle relazioni industriali, è da ricondurre non tanto alla mancanza dei prerequisiti organizzativi del sindacato, quanto alla scarsità delle risorse spendibili, in un periodo di crisi, per soddisfare le richieste sindacali, e soprattutto all'inadeguatezza politica del governo, finita la solidarietà nazionale, a garantire l'utilità dello scambio per tutti i contraenti.

Nel 1983 è lo strumento contrattuale a essere utilizzato in modo quasi esclusivo, sia pure al massimo livello di centralizzazione e con espliciti caratteri triangolari, nel tentativo ambizioso di stabilizzare e riformare per via consensuale l'intero assetto delle relazioni industriali (per questo si parlò allora di neocontrattualismo). I termini di scambio non sono istituzionalmente mutati, ma sono deteriorati dalla pesante situazione economica e soprattutto dalle crescenti divisioni fra sindacati e sistema politico. Non a caso gli obiettivi raggiungibili nel lungo periodo,. relativi alla politica occupazionale e alla partecipazione sindacale nel govemo dell'economia, pure presenti nell'accordo, risultano di fatto indeboliti rispetto agli obiettivi redistributivi immediati: riduzione dell'indicizzazione salariale, controriduzione del drenaggio fiscale a favore dei lavoratori dipendenti, fiscalizzazione degli oneri sociali.

Gli eventi dei mesi successivi (disaccordi fra i sindacati, intervento legislativo nelle indicizzazioni salariali, organizzazione di un referendum abrogativo della legge da parte del Partito Comunista) enfatizzano le crescenti difficoltà dell'esperienza italiana di pluralismo partecipativo. Tali difficoltà risultano dall'aggravamento di motivi già presenti nelle vicende passate: la persistente crisi economica limita ulteriormente la possibilità dello Stato di fornire risorse aggiuntive per compensare le rinunce salariali richieste al sindacato per il controllo dell'inflazione (controllo che diventerà un bene in sé); i provvedimenti del governo diretti ad attuare un riequilibrio fiscale a carico dei lavoratori autonomi, pure inediti in Italia, risultano insufficienti; la debolezza sindacale, esposta a crescenti divisioni e a un'accentuata crisi di rappresentatività, ne riduce la capacità di influenza per ottenere tali contropartite; nello stesso tempo la situazione economica incoraggia gli imprenditori ad accentuare la loro pressione, puntando a ottenere crescenti aree di deregolazione nel mercato del lavoro. Il deterioramento dei termini di scambio non sarebbe stato tuttavia sufficiente a spiegare la rottura degli esperimenti di collaborazione se su di essi non avessero gravato ostacoli di carattere politico. Il deteriorarsi dei rapporti fra maggioranza di governo e opposizione comunista riduce progressivamente, fino ad annullarlo, l'interesse del Partito Comunista a favorire il coinvolgimento sindacale della CGIL in grandi accordi di concertazione. Il venir meno dell'assenso del Partito Comunista fa cadere quell'equivalente funzionale ai governi pro-labor che aveva operato nel periodo precedente nel sistema italiano.

Le travagliate vicende italiane dal 1983 al 1985 riflettono fattori strutturali di crisi dei modelli partecipativi riscontrabili anche in altri paesi europei. Il ritardo e le incertezze dei tentativi italiani di concertazione si riconducono non solo al contesto peculiare delle relazioni industriali, ma alle stesse caratteristiche interne del sistema. Un rilievo negativo assume la scarsa istituzionalizzazione delle regole che ne presidiano il funzionamento: le pratiche sindacali di partecipazione all'azienda, alle istituzioni, alla conduzione della politica economica - non si sono tradotte in regole del gioco minimamente affidabili che servissero a consolidarne i percorsi, rimanendo consegnate a una quasi completa informalità. Analogamente la relativa centralizzazione delle relazioni industriali non ha dato origine a mutamenti certi, e proceduralmente controllabili, nella struttura della contrattazione, nelle forme di governo interno delle grandi organizzazioni sindacali e imprenditoriali. Simili mutamenti di struttura sarebbero invece serviti a rendere più efficiente e trasparente il farraginoso sistema contrattuale italiano e a permettere un controllo esplicito, secondo le regole della democrazia rappresentativa, sugli attori della negoziazione, sia al centro sia a livello di azienda.

Alcuni caratteri delle relazioni industriali italiane rendono tali relazioni alquanto esposte alle tendenze liberistiche. Tuttavia sarebbe affrettato desumerne, in Italia come in Europa, conseguenze decisive sulla perdita di rilevanza, o addirittura sulla scomparsa, degli istituti di concertazione e partecipativi in senso lato. All'affermarsi di relazioni industriali apertamente liberistiche ostano altri caratteri, non meno radicati nella storia italiana: la tradizione interventista del potere pubblico, sostenuta (per motivi diversi) dalla maggioranza degli attori politici e sociali, imprenditori compresi; la scarsa compattezza e vocazione egemonica di questi ultimi; la forza ancora diffusa del sindacato e il suo radicamento nelle istituzioni; il peso e le posizioni dei partiti piu vicini al sindacato. La combinazione di questi caratteri è più univoca nell'escludere alternative forti, come quella neoliberista o neointerventista, che nell'indicare il percorso di un'altra strada. In Italia, più che mai, la continuazione di modelli partecipativi richiederebbe sia revisioni procedurali istituzionali (probabilmente un ridimensionamento delle questioni oggetto della concertazione centrale, una migliore ‛proceduralizzazione' della stessa, una maggiore articolazione della struttura contrattuale), sia una modifica delle condizioni sindacali e politiche (rinnovata rappresentatività del sindacato e coalizioni favorevoli allo scambio politico).

Sulla probabilità di quest'ultima ipotesi - da cui dipende anche la revisione istituzionale - non è facile esprimersi. Se l'ipotesi non si realizzasse, potrebbero reiterarsi situazioni di sostanziale indeterminatezza, di ‛scambio bloccato' o di 'stallo pluralistico', più volte riscontrate nella storia italiana recente. Oppure tale indeterminatezza potrebbe facilitare l'affermarsi di relazioni industriali ‛duali', caratterizzate cioè dalla coesistenza di modelli diversi in diversi segmenti della società italiana. (V. sindacalismo; v. lavoro: Diritto del).

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