Reazioni da farmaci

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Reazioni da farmaci

Giuseppe Luzi

La farmacologia ha lo scopo di individuare le caratteristiche delle molecole studiate per definirne le proprietà terapeutiche e determinare con buona approssimazione la risposta individuale al prodotto commercializzato. La farmacologia molecolare, le indagini di genetica, la farmacodinamica e un approccio su vasta scala nella sperimentazione attraverso trials clinici hanno permesso di introdurre prodotti di alta efficacia e dei quali si ha sufficiente conoscenza per limitarne gli effetti collaterali. In generale ogni risposta a un farmaco impiegato deve essere conosciuta sia in funzione del meccanismo d'azione stesso sia in rapporto all'evoluzione dell'impiego o a una sua limitazione. I progressi dell'industria farmaceutica hanno tuttavia reso complesso per il medico l'atto di prescrizione terapeutica, che è basato su una serie di implicazioni non sempre agevolmente gestibili. I parametri che devono guidare la prescrizione di un farmaco includono la finalità dell'impiego per la patologia diagnosticata (il beneficio deve essere nettamente superiore al rischio), la somministrazione della dose necessaria, le modalità della somministrazione, la conoscenza di interazione con altri farmaci somministrati, la conoscenza (dove possibile) della variabilità genetica che può condizionare la risposta alla molecola usata e il continuo aggiornamento sulle funzioni e sulle caratteristiche del prodotto impiegato. In generale le proprietà benefiche dei farmaci sono associate a inevitabili rischi di effetti indesiderati. Mortalità e morbilità derivate da effetti non desiderati dipendenti dall'uso di farmaci pongono problemi di varia natura, anche di tipo diagnostico, perché le reazioni, oltre al coinvolgimento di vari organi e apparati, possono modificare segni e sintomi correlati alla malattia di base per la quale i farmaci sono prescritti. Nell'applicazione clinica dei farmaci esiste una sorveglianza costante esercitata da organismi istituzionali di controllo ai quali afferiscono segnalazioni sulla comparsa di quegli effetti indesiderati (RAF, Reazioni Avverse da Farmaci) che, anche quando sono rari, possono tuttavia avere gravi conseguenze e, comunque, consentire l'identificazione di individui a più alto rischio per la somministrazione di una determinata molecola. Qualsiasi sostanza con azione farmacologica impiegata per finalità di terapia può indurre effetti sfavorevoli. Le reazioni avverse da farmaci sono divise in due gruppi: a) reazioni prevedibili, dipendenti dalla dose (tipo A) e correlate essenzialmente alla farmacodinamica della molecola considerata; b) reazioni 'bizzarre' (tipo B) scarsamente prevedibili oppure del tutto imprevedibili, non frequenti, in generale non dipendenti dalle caratteristiche farmacologiche e talora con consistente gravità clinica che può mettere a rischio la vita del paziente; le reazioni di tipo B non correlano con la dose e possono essere scatenate da assunzione di quantità minime di prodotto. Le reazioni avverse durante l'uso di farmaci (definite anche sindromi reattive ai medicamenti) sono piuttosto frequenti. Si verificano più spesso nel sesso femminile e nella maturità (tra i 20 e 40-45 anni). È stato calcolato che una percentuale notevole di ricoveri in ospedale dipende da effetti non desiderati nell'impiego di prodotti con scopo terapeutico. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità si definiscono reazioni non desiderate all'uso di un farmaco quelle che si associano a una risposta dannosa e inattesa che si manifesta dopo l'impiego di dosi abitualmente impiegate nell'uomo per profilassi, diagnosi e terapia. Il crescente consumo dei farmaci si è associato con l'incremento del numero delle reazioni avverse. Una reazione avversa viene considerata significativamente seria o grave quando si sospetta il suo ruolo nel causare morte, pericolo per la vita, ricovero in ambiente ospedaliero, prolungamento di degenza, allontanamento dal lavoro o attività produttiva, necessità di attuare ricerche di accertamento ulteriori con aggravio dei costi assistenziali, difetti nel feto. Le reazioni di tipo A sono circa l'80% delle RAF e non hanno alta mortalità; circa un quinto sono di tipo B. L'analisi delle RAF ha richiesto un lungo iter di indagini scientifiche e l'impiego di un linguaggio condiviso dai vari autori, al fine di non descrivere in modo impreciso o incompleto un fenomeno indesiderato associabile all'assunzione di una molecola impiegata con finalità terapeutiche. Pertanto le RAF vengono distinte in effetti tossici (sovradosaggio, alterazioni nell'assorbimento o nell'eliminazione dei metaboliti, interazione tra farmaci) e da ipersensibilità. Nell'ambito dell'ipersensibilità (nel contesto delle reazioni di tipo B) vengono distinti i fenomeni a patogenesi non immunitaria e quelli su base immunitaria. Il gruppo delle reazioni extraimmunologiche include quelle da intolleranza (ridotta soglia verso l'attesa azione farmacologica della molecola considerata), il gruppo delle patologie da idiosincrasia (non dipendenti dall'effetto farmacologico), le reazioni pseudoallergiche. Le manifestazioni allergiche propriamente considerate seguono la classica distinzione delle immunoreazioni patogene di Gell e Coombs: tipo i (ruolo degli anticorpi di classe IgE: per es., episodi di tipo asmatico, anafilattico, orticarioide); tipo ii (reazione mediata da anticorpi non IgE, ma IgG o IgM: si hanno conseguenze di natura citolitica/citotossica, per es., trombocitopenia, anemia emolitica, leucocitopenia); tipo iii (mediazione degli immunocomplessi circolanti: per es. vascoliti, glomerulonefriti); tipo iv (reazione mediata da cellule, a carattere ritardato: per es., dermatite da contatto). Nell'ambito delle reazioni definite come pseudoallergiche il meccanismo di interpretazione è solo parzialmente compreso. Gran parte delle reazioni pseudoallergiche sono causate da prodotti analgesici e antireumatici (aspirina, farmaci antinfiammatori non steroidei o FANS e così via), ma anche da mezzi di contrasto a base di iodio usati nella diagnostica radiologica, da anestetici locali, da plasma expanders. Nelle reazioni pseudoallergiche la liberazione del mediatore chimico che causa il danno non dipende da una reazione immunitaria, ma dal ruolo svolto direttamente dalle molecole introdotte. Per es., i FANS possono indurre un incremento dei leucotrieni che causano broncospasmo attraverso l'inibizione della ciclo-ossigenasi e ridotta sintesi di prostaglandine; altri prodotti stimolano i mastociti a liberare istamina o agiscono attivando la via alternativa del complemento. Sul concetto di idiosincrasia (manifestazione associata a difetti o alterazioni geneticamente definite, con comparsa anche alla prima assunzione del farmaco) esiste una qualche perplessità terminologica: infatti la sua definizione come reattività anomala a una molecola su base genetica è in parte incompleta e l'uso del termine viene sconsigliato perché con il progredire delle conoscenze vengono via via acquisite le informazioni che spiegano i meccanismi patogenetici che causano il danno. D'altro canto anche il termine pseudoallergia dovrebbe essere eliminato e, secondo alcuni autori, sostituito dall'espressione ipersensibilità non allergica. Questo ulteriore inquadramento facilita la descrizione e la giusta collocazione in generale dei fenomeni in ambito immunoallergologico e anche per i farmaci lo schema definitorio utilizzabile può essere sintetizzato in ipersensibilità di natura non allergica (reazioni che non hanno meccanismo immunitario) e ipersensibilità allergica a genesi immunitaria (IgE mediata e non IgE mediata).

Aspetti clinici e di diagnosi

La maggior parte delle RAF non ha rilevante gravità clinica, ma non è possibile prevedere il grado di severità relativamente al prodotto impiegato e alla risposta individuale. Un aspetto importante nel riconoscimento di una patologia da RAF riguarda le difficoltà di indagine diagnostica. Infatti non è sempre immediato differenziare i sintomi della malattia da quelli indotti dal farmaco e risulta nella pratica clinica che le RAF possono dar luogo a segni e sintomi che sono gli stessi per i quali il farmaco viene usato. A complicare l'interpretazione diagnostica intervengono la prescrizione di più farmaci e/o l'autosomministrazione da parte del paziente. Nonostante non risulti semplice prevedere l'insorgenza di una reazione avversa da farmaci, sono noti alcuni fattori che possono condizionare l'induzione delle patologie RAF e la derivante sintomatologia clinicamente obiettivabile. Tra i fattori importanti si ricordano la struttura del farmaco (chimica e metaboliti reattivi), le vie di somministrazione (orale, parenterale, azione topica), le modalità di esposizione al prodotto (dosaggio, durata, frequenza), il rischio di sensibilizzazione crociata se vengono impiegate molecole affini o compaiono metaboliti cross-reattivi. Si ribadisce che qualunque farmaco può essere responsabile di reazioni avverse. Le manifestazioni cliniche delle reazioni avverse a farmaci sono numerose. Comprendono tra le altre angioedema, asma, forme orticarioidi, reazioni anafilattoidi. Non frequente ma pericolosa è la sindrome di Lyell (necrolisi epidermica tossica) così come la sindrome di Stevens-Johnson (anche descritta come eritema multiforme o eritema essudativo polimorfo). La sindrome di Stevens-Johnson e la sindrome di Lyell sono entità cliniche tra loro correlate, riguardano il coinvolgimento cutaneo e sono definite da eritema, lesioni bollose, con aree di distacco dermoepidermico e frequente interessamento delle mucose. In relazione alla gravità clinica e poiché la prognosi dipende dall'estensione del distacco dermoepidermico si è adottata una distinzione clinica: un distacco superiore al 30% è caratteristico della sindrome di Lyell, mentre un distacco inferiore al 10% è stato scelto per definire la sindrome di Stevens-Johnson; esiste anche una sindrome di tipo overlap, che comprende un'estensione tra il 10 e il 30%. Ulteriori manifestazioni riguardano le cellule del sangue con riduzione dei globuli rossi, globuli bianchi o grave piastrinopenia. D'altro canto sono descritti in letteratura vari fenomeni, soprattutto a carattere autoimmunitario, legati alla somministrazione di un farmaco. Le manifestazioni associate a RAF danno sintomi spesso simili, causati da farmaci diversi, o uno stesso farmaco può dar luogo a numerose varianti cliniche. Oltre alle patologie citate si ricorda l'opportunità di distinguere le manifestazioni generalizzate tipo shock anafilattico o le malattie di natura autoimmunitaria come la sindrome simil-LES (lupus eritematoso sistemico) e la patologia riguardante un solo organo o apparato (molto frequente è l'interessamento della cute, ma possono essere interessati singolarmente l'apparato respiratorio, i reni, il sistema ematopoietico, il fegato). In rapporto al tempo di insorgenza dopo l'assunzione di un farmaco le manifestazioni cliniche possono comparire entro pochi minuti (immediate) oppure a distanza di tempo, anche giorni (ritardate o tardive). La comparsa dopo la prima somministrazione di un farmaco riguarda soprattutto il gruppo A, mentre nel gruppo B da ipersensibilità allergica le RAF si manifestano a una successiva somministrazione in soggetti che pure avevano ben tollerato il prodotto, ma verso il quale si sono sensibilizzati con meccanismo immunitario (a una somministrazione successiva alla prima la presenza di anticorpi specifici verso la molecola scatena la reazione). La cute è una sede frequente delle manifestazioni cliniche da ipersensibilità a farmaci. Sono descritte forme esantematiche diffuse che ricordano il morbillo o la scarlattina correlate, per es., ad assunzione di penicilline e sulfamidici. Il quadro definito eritema fisso è causato da alcuni analgesici e FANS. Di particolare interesse è la sindrome orticaria/angioedema. Per orticaria si intende un'eruzione cutanea con elementi rilevati (pomfi), associati a prurito. L'angioedema o edema angioneurotico di Quincke caratterizza una sindrome a comparsa accessionale con edema a carico del sottocutaneo e delle mucose. Orticaria e angioedema hanno numerosi elementi in comune sia sotto il profilo patogenetico sia per gli aspetti clinici e pertanto si usa la comune denominazione di sindrome orticaria-angioedema (SOA). Nella SOA si riconosce un'eziopatogenesi allergica (alcuni antibiotici soprattutto β-lattamici, miorilassanti, anestetici generali) e una extraimmunologica (quadro di pseudoallergia) nella quale sono in causa FANS, acido acetilsalicilico, emoderivati, plasma-expander, ACE-inibitori e altre molecole. Minore prevalenza hanno le manifestazioni cutanee ritardate come le dermatiti da contatto, correlate a numerosi prodotti tra i quali gli antibiotici, anestetici locali, antistaminici e così via. Anche alcune fotodermatiti dipendono da processi di sensibilizzazione dovuta a impiego di varie molecole (per es., fenotiazinici).

Nell'ambito delle sindromi che coinvolgono il sistema respiratorio, un quadro clinico che può assumere notevole gravità è l'asma bronchiale. Un particolare rilievo assume l'asma che viene indotto da analgesici (acido acetilsalicilico e FANS). Gli studi sull'asma da aspirina sono stati molto approfonditi e hanno dimostrato aspetti di più vasta implicazione sull'uso degli antiflogistici non steroidei. Per es., si è osservato che poliposi nasale, intolleranza all'acido acetilsalicilico e comparsa di asma bronchiale possono coesistere in circa la metà dei casi segnalati nella letteratura scientifica e che la sindrome asmatica può essere preceduta per anni da manifestazioni di rinite vasomotoria. Assai interessante, anche sotto il profilo concettuale, è il dato che FANS a struttura chimica diversa e comunque non correlata a quella dell'acido acetilsalicilico possono indurre episodi asmatici. Questo gruppo di molecole agisce inibendo la ciclo-ossigenasi (blocco di sintesi per prostaglandine, prostacicline e trombossani) con prevalenza della via leucotrienica (ruolo della lipossigenasi), e l'ipotesi che tale meccanismo sia alla base della manifestazione clinica sembra suffragato da diverse osservazioni, sebbene altri studi non confermino questo rigido approccio interpretativo; inoltre, sono state formulate diverse valutazioni in funzione del ruolo svolto dai leucotrieni e del fatto che queste molecole sono sintetizzate da varie cellule coinvolte nella produzione di mediatori chimici. Alcune manifestazioni cliniche, talora assai temibili per la salute, riguardano le sindromi ematologiche a patogenesi allergica che si scatenano dopo assunzione di farmaci. Per quanto riguarda questo capitolo si usa la definizione di immunocitopenie farmaco-indotte e per molte di esse il meccanismo immunitario risulta ben dimostrato. Esistono alcune caratteristiche che identificano tale patologia: il trattamento con la molecola impiegata deve essere effettuato per un certo periodo (5-7-10 giorni) durante il quale si verifica la sensibilizzazione; l'espressione clinica ha un esordio acuto e lo scatenamento risulta indipendente dalla dose impiegata; in particolare, quando il farmaco interessato viene nuovamente introdotto i sintomi recidivano. I meccanismi patogenetici che determinano il danno, secondo lo schema sopra citato di Gell e Coombs, sono di tipo ii o di tipo iii. Nel caso della patogenesi di tipo ii un farmaco si lega sulla membrana di globuli rossi, leucociti o piastrine e gli anticorpi aggrediscono la molecola adesa al substrato cellulare; il danno che riceve la membrana dipende dal legame fra anticorpo e farmaco. Questa condizione differenzia il meccanismo lesivo dalle circostanze che si verificano quando un farmaco 'altera' la membrana cellulare e il sistema immunitario attacca la membrana stessa (emocitopenia autoimmune vera e propria) ma non il farmaco. Nel meccanismo di tipo iii anticorpi IgM, o con minor frequenza IgG, si combinano con il farmaco legato a una componente della membrana; si formano immunocomplessi che attivano il sistema complementare e causano lisi cellulare.

La diagnosi di allergia da farmaci non è un problema di facile soluzione. È importante in primis un adeguato approccio anamnestico nel quale deve essere messo in evidenza il tempo intercorrente tra l'inizio dell'assunzione del farmaco e la comparsa delle manifestazioni cliniche. Farmaci che sono stati assunti per mesi di solito non causano reazioni allergiche, ma la sensibilizzazione può verificarsi egualmente. Se la reazione si manifesta durante un ricovero ordinario in ambiente ospedaliero è importante evidenziare la documentazione sia per il contesto immediato delle decisioni da assumere (sospensione del farmaco), sia a futura memoria nell'interesse del paziente. Per es., episodi mal descritti di reazioni all'anestesia generale vengono talora segnalati senza che sia possibile identificare la natura dell'anestetico, soprattutto se quanto riferito dal paziente riguarda circostanze verificatesi a distanza di anni. Un aspetto non secondario nella pratica clinica concerne l'uso, improprio e generalizzato nel linguaggio, del termine allergia. Infatti se consideriamo le reazioni prevedibili, quelle classificate come A e in generale dose-dipendenti, abbiamo effetti che correlano con la tossicità del prodotto (per es., alcuni antibiotici possono provocare danno a reni o causare perdita dell'udito), effetti indesiderati ma in qualche modo inevitabili (collaterali) legati alla proprietà del farmaco (sonnolenza indotta da antistaminici o, per. es., benzodiazepine), effetti associati all'azione principale della molecola (secondari), come si verifica in corso di terapia antibiotica che altera la flora intestinale causando diarrea o altri sintomi. Una problematica complessa riguarda poi le interazioni farmacologiche tra due o più farmaci che vengono somministrati nello schema terapeutico formulato e che possono interferire reciprocamente creando situazioni di potenziamento o di riduzione dell'efficacia. Questi aspetti, ben definiti in terminologia medica, sono spesso comunicati come allergie al farmaco. Il medico che raccoglie l'anamnesi deve ben orientarsi e, quando possibile, utilizzare precise domande. Infatti nelle RAF i termini ipersensibilità, allergia, patogenesi immunitaria e non immunitaria hanno una specificata valenza definitoria per una diagnosi accurata e un inquadramento della sintomatologia causata dall'assunzione del farmaco. Ai fini diagnostici, nel caso della sospetta allergia da farmaci, vanno pertanto premesse alcune considerazioni: si ribadisce l'importanza dell'anamnesi (se un paziente riferisce una reazione all'amoxicillina, questa sostanza non va somministrata e non vanno somministrati prodotti analoghi); il sospetto clinico non sempre è validabile con indagini di laboratorio; è importante evitare i test cutanei nei casi di gravi reazioni avverse che sono chiaramente secondarie a terapia con un β-lattamico o ai farmaci in generale.

Un aspetto molto importante che viene incluso nell'ambito delle reazioni avverse a farmaci riguarda l'impiego di mezzi di contrasto nelle indagini radiologiche. Anche per questi prodotti possono essere scatenate diverse reazioni che vanno dall'oculorinite a disturbi del ritmo cardiaco, alla sindrome orticaria-angioedema, fino allo shock anafilattoide. L'approccio al problema diagnostico si basa sull'inquadramento corretto e completo della storia del paziente e delle condizioni cliniche in generale. Per es., devono essere considerati alcuni aspetti: maggior frequenza delle reazioni per via endovenosa rispetto alla via endoarteriosa (situazione che si accompagna però a fenomeni più gravi), più alta probabilità di reazione in soggetti con anamnesi di allergia e asma e in pazienti che abbiano già ricevuto mezzi di contrasto 'convenzionali' ai quali abbia fatto seguito un episodio di allergia. La questione dei mezzi di contrasto è piuttosto comune. Per inquadrare questo tipo di RAF si devono considerare i prodotti impiegati (ad alta e bassa osmolalità) e il quadro anamnestico (esistenza di diverse condizioni di rischio). La maggior parte delle reazioni si autolimitano e rispondono bene ai trattamenti consueti con steroidi, antistaminici e (quando necessario) adrenalina. I prodotti ionici (elevata osmolalità) possono dar luogo in vario modo alla liberazione di mediatori chimici (soprattutto da parte di mastociti e basofili). Gli effetti indesiderati minori si verificano con prodotti non ionici, che risultano anche meno tossici.

In diagnostica i test cutanei utilizzabili sono il prick test, l'intradermoreazione e il patch test. Il prick test e l'intradermoreazione sono attendibili principalmente per quei farmaci che provocano reazioni mediate da anticorpi IgE. Per i β-lattamici (gruppo derivato delle penicilline) i test cutanei hanno valore predittivo, a meno che non sia trascorso troppo tempo dalla reazione segnalata. In questa circostanza è bene evitare completamente i β-lattamici e fare ricorso ad antibiotici con altra struttura chimica, che evitano reazioni crociate. I test cutanei effettuati con i farmaci non sono privi di rischi e possono causare anche gravi reazioni sistemiche; è importante pertanto evitarli del tutto quando l'anamnesi segnala un'importante reazione anamnestica. Se è inevitabile effettuare il test si utilizzano dapprima i prick test e in caso di negatività si effettua l'intradermoreazione; quando è possibile si ricorre a studi in vitro per la ricerca di IgE specifiche nel siero. In pratica il ricorso a test cutanei per allergia a farmaci ha significato se non esistono soluzioni alternative a quel particolare prodotto, altrimenti il farmaco non va somministrato.

I test devono essere in ogni caso eseguiti in condizioni di massima sicurezza e dopo aver adeguatamente informato il paziente dei rischi possibili. Il laboratorio è di parziale ausilio: le IgE specifiche possono essere dosate, ma hanno un valore indicativo perché la sensibilità della metodica è minore rispetto a quella presentata dai test cutanei. Comunque la ricerca delle IgE specifiche deve precedere ogni altra indagine perché la positività (in particolare per β-lattamici e alcuni altri farmaci, quando possibile) evita l'esecuzione del test in vivo. Prima dell'esecuzione del test in vivo devono essere valutati con particolare cura i soggetti considerati a rischio (cardiopatici, ipertesi, diabetici, pazienti con insufficienza renale, epatopatici, neonati, anziani, persone affette da malattie ematologiche). In alcuni casi viene proposto al paziente il test di tolleranza orale. Questo si effettua somministrando una molecola con basso dosaggio, partendo da una frazione molto piccola della dose terapeutica. La dose viene progressivamente aumentata in definiti intervalli di tempo. Poiché il test non è privo di rischi esso deve essere usato in casi del tutto particolari, quando vanno individuati farmaci alternativi nei confronti di quello sospettato o conosciuto per aver indotto la reazione avversa. Il test di tolleranza va eseguito sempre in ambiente protetto e in regime di ricovero con possibilità di immediato ricorso alla rianimazione.

Il danno da farmaci

La patologia indotta dall'assunzione di farmaci e i relativi meccanismi, di cui si è discusso, possono essere inseriti nel più ampio capitolo di iatropatologia, cioè delle malattie iatrogene causate dall'effetto nocivo dell'intervento medico praticato. Si tratta di un argomento complesso che coinvolge gli aspetti integrati dell'azione sanitaria nelle sue varie articolazioni, dalla diagnosi alle procedure medico-chirurgiche, dall'assetto igienico nei reparti al rischio dell'errore medico-assistenziale. Per es., viene riportato da D.M. Roden nella 16a edizione (2004) dell'Harrisons's principles of internal medicine (nel cap. Principles of clinical pharmacology) che i pazienti ricevono, in media, dieci farmaci diversi durante ogni ospedalizzazione: quando i farmaci somministrati sono meno di sei la probabilità di una reazione avversa si aggira sul 5%; nei casi che superano i quindici prodotti la probabilità sale a oltre il 40%. Analisi retrospettive su soggetti ambulatoriali avrebbero rilevato effetti avversi nel 20% dei casi. Nello stesso testo, in riferimento a una indagine svolta nel 2000, si calcola che circa 7000 americani muoiono ogni anno a causa di trattamento terapeutico errato e che il ricovero negli ospedali dovuto a malattie indotte da farmaci è dell'ordine del 2-3%. Le istituzioni pubbliche hanno organizzato meccanismi di controllo e sorveglianza che rappresentano il punto di riferimento per le segnalazioni di effetti indesiderati da farmaci e le indagini a carattere distrettuale offrono la possibilità di monitorizzare l'andamento dei fenomeni considerati in rapporto alla patologia che si ritiene probabile in relazione all'intervento terapeutico.

Fattori di rischio nell'assistenza medica: il problema delle infezioni ospedaliere

Uno degli aspetti più studiati, tra gli esempi possibili nell'ambito del danno correlato all'assistenza sanitaria, riguarda le infezioni ospedaliere. È questo un importante problema di sanità pubblica, che impegna notevoli risorse finanziarie e ha una consistente ricaduta sulla qualità di vita del paziente. Per convenzione si considerano nosocomiali quelle infezioni che si manifestano dopo il ricovero (48-72 ore). A partire dagli anni Ottanta del 20° sec. il fenomeno delle infezioni ospedaliere si è amplificato per una serie di ragioni: complessità delle procedure effettuate sui pazienti, maggior numero di personale sanitario impegnato nella gestione dei ricoverati, aumento delle esposizioni al rischio, immunosoppressione indotta da vari trattamenti farmacologici. Per valutare tale aspetto dell'assistenza esistono interventi ministeriali che riguardano la definizione di esito di un ricovero in rapporto al numero delle infezioni ospedaliere per numero di degenti. Gli aspetti epidemiologici sono stati analizzati (prevalenza e incidenza) in diversi Paesi. Dati degli anni Novanta in Europa indicano che l'incidenza è variabile da nazione a nazione: 9% in Gran Bretagna, 11,6% in Svizzera, 6,7% in Francia, 4% in Germania. Per l'Italia si riporta quanto riferito nell'audizione alla Camera del 23 gennaio 2007 dal ministro della Salute L. Turco: "Nei nostri 672 ospedali ogni anno vengono effettuati circa nove milioni di ricoveri ordinari, quasi la metà di questi per intervento chirurgico. Dal 4,5 al 7% di questi pazienti acquisisce un'infezione ospedaliera". Nonostante l'elevato significato medico ed economico che hanno assunto le infezioni nosocomiali, i sistemi di rilevazione e i protocolli di controllo sono ancora caratterizzati da una certa disomogeneità tra i vari Paesi e quindi è necessario essere prudenti nell'interpretazione delle cifre che vengono fornite e, soprattutto, dei parametri utilizzati per i confronti. In genere i dati acquisiti indicano che è possibile prevenire circa un terzo delle infezioni acquisite in rapporto ai ricoveri, con notevole risparmio per le strutture sanitarie. Le fonti di microrganismi coinvolti sono diverse; si possono ricordare i sistemi di ventilazione, l'acqua, le operazioni su tessuti e campioni di laboratorio, l'igiene del personale di assistenza, il complesso delle pratiche chirurgiche e le indagini invasive. Un problema del tutto particolare è l'uso improprio degli antibiotici, che è causa di resistenze batteriche. Varie sono le sedi nelle quali possono insorgere infezioni: frequente è il coinvolgimento delle vie respiratorie e dei polmoni, delle vie urinarie, delle ferite chirurgiche. Un altro aspetto di grande rilievo riguarda i siti dove vengono inseriti i cateteri e la problematica delle piaghe da decubito. Le infezioni possono avere origine da flora batterica già presente nel paziente (infezione endogena primaria), da microrganismi che hanno sede in un'altra parte del corpo o provenienti dall'esterno (infezione esogena). Il complesso dei fattori di rischio include: uso di cateteri urinari e introdotti per via venosa, impiego di tubi endotracheali, applicazione di respirazione artificiale, stato di immobilità del paziente, permanenza nei reparti di terapia intensiva e degenza con alta densità di malati. Lo stato clinico del degente rappresenta inoltre un importante fattore intrinseco di rischio. I parametri individuati riguardano l'età, la gravità del processo morboso, lo stato di immunodepressione primitiva o acquisita, lo stato di nutrizione, i dismetabolismi e la malattia diabetica in particolare. Il controllo delle infezioni nosocomiali ha la finalità di ridurre sia il rischio sia il numero dei casi di infezioni acquisite in ambiente ospedaliero e di salvaguardare non solo i pazienti, ma chi lavora in ospedale o in ambiente sanitario e i parenti o visitatori dei degenti. In Italia è previsto un comitato multidisciplinare per le infezioni ospedaliere che ha lo scopo di adempiere alle funzioni di sorveglianza: vi partecipano medici e infermieri di area chirurgica e di medicina-infettivologia; le finalità di questo comitato sono importanti e abbracciano la sorveglianza epidemiologica (valutazione dell'incidenza delle infezioni in tutto il nosocomio o in servizi con rischi particolari, come si verifica per le terapie intensive), un'azione educativa e informativa per un continuo aggiornamento sulle procedure di intervento finalizzate a ridurre il contagio fino al complesso degli interventi sulla gestione di materiale biologico, il suo smaltimento o conservazione temporanea, l'adozione di varie norme di isolamento e così via. Un problema di grande significato clinico, talora misconosciuto nelle valutazioni di obiettivo che un'istituzione assistenziale si propone, è quello delle piaghe da decubito, meglio definite come lesioni da pressione. Per lesione da pressione si intende una lesione tissutale, con evoluzione necrotica, che interessa la cute, il derma e gli strati sottocutanei, fino a raggiungere, nei casi più gravi, la muscolatura e le ossa. Nella genesi delle lesioni da pressione sono coinvolti fattori locali (danno meccanico riguardante i tessuti molli indotto da pressione, sfregamenti, imbibizione umida, presenza continua di lesioni) e intrinseci (stato del paziente: anemia, ridotta mobilità spontanea, alterazioni sensoriali e mentali, incontinenza, malnutrizione, età avanzata). Poiché una gran parte delle lesioni da pressione può essere prevenuta, le istituzioni sanitarie devono porre grande attenzione al fenomeno, che ha una sostanziale importanza per il benessere del malato e per il contenimento delle spese di ricovero e cura. Un'elevata e prolungata compressione dei tessuti è il presupposto patogenetico; ne deriva una trazione e/o stiramento che genera la sollecitazione meccanica tra superficie cutanea di appoggio e le prominenze ossee. Il danno compare quando la forza di compressione, per un tempo sufficientemente lungo, è più grande della pressione riscontrabile nel flusso ematico del distretto arterioso-capillare e pertanto insorge un'ischemia. Le lesioni da pressione sono una patologia frequente che colpisce i pazienti immobilizzati o con scarsa mobilità: si manifestano soprattutto nelle persone anziane, allettate e con malattie che rendono problematica l'alimentazione, l'idratazione e il movimento. È evidente che nelle lungodegenze, in rapporto a malattie croniche e in politraumatismi, considerando anche l'incremento della durata della vita media, le piaghe da decubito possono rappresentare un fattore di prolungamento dei ricoveri e generare ulteriori complicazioni nella gestione dei malati sia in regime di degenza ordinaria sia quando essi vengono trasferiti in centri di riabilitazione o nuovamente rinviati a domicilio.

La resistenza ai farmaci: l'esperienza con antiretrovirali verso HIV

Uno degli esempi storicamente più recenti nei quali si è cimentata la medicina riguarda l'infezione da virus HIV. Il virus, riconosciuto responsabile dell'AIDS e delle sindromi correlate, appartiene al gruppo dei retrovirus. La particella attacca direttamente il sistema immunitario, si integra nel genoma della cellula ospite, causa un'infezione ad andamento cronico, va incontro a mutazione nell'ospite infettato. La caratteristica di HIV è quella di avere un RNA che trasferisce l'informazione su DNA grazie all'azione di un enzima noto come transcrittasi inversa. Dal momento del contagio HIV si lega sulla cellula bersaglio grazie a recettori che consentono la penetrazione attraverso la membrana. La cellula linfocitaria CD4+ (linfocita T helper) è uno dei bersagli chiave per le implicazioni patogenetiche. Infatti, il virus, penetrato al suo interno, si integra nel patrimonio genetico e inizia a replicarsi formando altre particelle. Oltre alla transcrittasi inversa sono importanti altri enzimi per completare il ciclo di replicazione. Tra questi si ricordano RNA polimerasi e proteasi. HIV danneggia in modo progressivo il sistema immunitario e l'organismo non è più in grado di difendersi dalle infezioni (batteriche, virali, fungine, parassitarie). Esistono valori soglia e parametri che consentono il monitoraggio dell'infezione: essi rappresentano gli indici che consentono al medico di iniziare e/o modulare un determinato approccio terapeutico. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta del 20° sec., in assenza di alternative valide al controllo della malattia da HIV nelle sue diverse estrinsecazioni cliniche, l'industria farmaceutica ha fatto enormi progressi e introdotto in commercio diverse molecole in grado di controllare la replicazione del virus. Lo scopo del trattamento antiretrovirale è quello di distruggere il virus e prevenirne la replicazione, consentendo l'estinzione delle riserve e permettendo al sistema immunitario di recuperare le sue funzioni. Allo scopo di affrontare il virus e di agire sul suo ciclo di replicazione sono disponibili farmaci che agiscono in diversi punti: sulla fusione tra virus e membrana, sulla transcrittasi inversa, a livello di proteasi. Uno schema delle molecole impiegate comprende: inibitori analoghi nucleosidici della transcrittasi inversa, combinazione di analoghi nucleosidici, inibitori non nucleosidici della transcrittasi inversa, inibitori della proteasi, inibitori di fusione. Poiché il virus adotta una sua strategia di difesa l'uso di un solo farmaco induce in un tempo ragionevolmente prevedibile la resistenza specifica. Quindi è necessario intervenire secondo schemi complessi che tengano conto dello stato immunitario del paziente, della replicazione virale (particelle presenti nel sangue), della sintomatologia clinica. Il modello operativo che ha consentito, a metà degli anni Novanta, di ottenere ottimi risultati, ha il nome di HAART (Highly Active Anti-Retroviral Therapy): procedura terapeutica che prevede l'uso di più farmaci contemporaneamente per ottenere in tempo breve un decremento delle particelle virali e stabilizzare nel tempo la risposta immunitaria. Questo schema non è tuttavia la risoluzione ultima; infatti anche con HAART compaiono resistenze ai farmaci. In Italia il sistema di sorveglianza e controllo dell'AIDS e delle infezioni da HIV è gestito dal Ministero della Salute che elabora attraverso un documento periodico gli aggiornamenti delle linee-guida da adottare nella gestione dei soggetti con infezione da HIV. Infatti esiste una griglia di opzioni con la quale si propone al medico di individuare la fase opportuna per iniziare il trattamento (AIDS sintomatico, infezione asintomatica con numero di linfociti T CD4+ al di sotto di 200/mmc e così via) o di dilazionarlo in rapporto a parametri clinico-laboratoristici. Per es., se il paziente è del tutto asintomatico e il suo sistema immunitario è efficiente (linfociti T CD4+ > 500/mmc) è consigliabile monitorizzare nel tempo il quadro clinico-laboratoristico e decidere con migliore cognizione di causa il momento di inizio del trattamento. Durante la terapia è possibile controllare la concentrazione del farmaco interessato e, in caso di fallimento, utilizzare approcci di varie combinazioni farmacologiche. Studi di genetica permettono di caratterizzare alcune mutazioni di HIV incorse durante il trattamento e rendere almeno in parte più agevole la proposta terapeutica alternativa. Ma in questo quadro d'insieme non va dimenticato il problema della stessa tossicità da farmaci e le associazioni con gli altri prodotti che vengono impiegati. Quindi nel caso della malattia da HIV (AIDS e sindromi correlate) si evidenzia uno degli esempi più entusiasmanti e nello stesso tempo più inquietanti che si possono considerare nell'uso di farmaci: le molecole sono efficaci ma dotate di non insignificanti effetti collaterali; la decisione terapeutica non è immediata (è necessario valutare il sistema immunitario e la viremia prima di iniziare); è prevedibile la comparsa di certe mutazioni nel corso della replicazione del virus sotto pressione farmacologia; c'è da valutare l'aderenza alla terapia e la necessità di un monitoraggio continuo. Quindi è possibile che si induca la diffusione di virus farmaco-resistenti verso i quali è necessario proporre molecole che siano in grado di controllare i 'nuovi' HIV. Alcuni ricercatori hanno propriamente descritto questo scenario come una corsa costante, senza sosta. Ne deriva la necessità, per le strutture sanitarie e per l'utenza, di un'informazione in tempo reale che risulti filtrata da organismi di riferimento in grado di elaborare gli opportuni aggiustamenti i quali da soli rappresentano, nel tempo, un valido equilibrio tra le esigenze del malato (successo del trattamento, rischio di subire gli effetti indesiderati dei farmaci e probabilità di una mutazione all'interno della popolazione virale che lo ha infettato) e quelle della comunità.

Benefici e rischi nell'uso di nuove molecole: il modello dei 'farmaci biologici'

Le biotecnologie consentono nuovi approcci per l'elaborazione di farmaci e/o molecole farmacologicamente attive. In ambito immunologico, grazie ai progressi di conoscenze in questo settore, è stato possibile costruire prodotti mirati verso determinati componenti della risposta immunitaria che risultano coinvolti in alcuni processi patologici. Un ruolo fondamentale è svolto dagli anticorpi monoclonali o MoAb (Monoclonal Antibodies). Gli anticorpi sono per propria intrinseca natura altamente specifici. Il loro uso come molecole multifunzionali ha costituito una tappa fondamentale nel ruolo dei MoAb, ed è andato incontro a un'ulteriore revisione grazie alle biotecnologie che hanno permesso di costruire nuove generazioni di molecole da usare prevalentemente con finalità terapeutiche. Alcuni anticorpi sono ingegnerizzati per riconoscere un determinato bersaglio e per avere una specificità 'orientata'. Dall'idea della funzione-anticorpo si è avuto un successivo sviluppo che consente un'amplificazione del significato biologico. La struttura di un'immunoglobulina prevede una parte variabile e una costante. Su questa dicotomia si giocano le diverse possibilità di utilizzare un prodotto attivo. In sostanza l'anticorpo esprime tre livelli di azione: a) blocco di molecole specifiche; b) azione su cellule bersaglio; c) ruolo di molecola 'segnale' con capacità di interferenza nel contesto di vari meccanismi di membrana o citoplasmatici. È stato possibile costruire molecole chimeriche, con una frazione umana e una murina e quindi, proseguendo il cammino mirante a ottenere la migliore tollerabilità della molecola infusa, si è lavorato per 'umanizzare' al massimo il prodotto. Riducendo la componente murina all'inserimento di alcune frazioni CDR (Complementarity-Determining Region) all'interno della regione variabile umana si contiene il rischio di un rigetto antianticorpo. Ulteriori progressi hanno consentito di ottenere anticorpi solo umani e quindi di più agevole impiego. Poiché con i MoAb possiamo dirigere la costruzione di un anticorpo su un bersaglio ben definito, in diverse aree della medicina sono stati progettati modelli molecolari orientati sul target desiderato. Nell'ambito delle malattie autoimmuni un ruolo sempre maggiore nella comprensione della patogenesi hanno assunto determinate citochine infiammatorie. Tra queste si ricordano il TNF-α (Tumor Necrosis Factor α) e l'interleuchina IL-1. Particolare rilievo per i risultati ottenuti è stato attribuito ai protocolli anti TNF-α in corso di artrite reumatoide. Il TNF-α esplica un'azione importante nella flogosi sistemica e in particolare nel danno riguardante cartilagini, osso e tessuti molli; se TNF-α viene inibito possono essere migliorati gli aspetti sintomatologici più gravi, ma soprattutto sembra verificarsi una regressione del danno a livello articolare.

In questa grave malattia del connettivo si osservano varie alterazioni della risposta immunitaria, ma si è visto che il TNF-α si accumula a livello delle articolazioni dove innesca e/o mantiene il processo infiammatorio che evolve con l'erosione del tessuto attaccato fino alla distruzione dell'assetto anatomico con le devastanti conseguenze cliniche che ne scaturiscono. La possibilità di disporre di molecole anti TNF-α e anti IL-1 ha permesso di neutralizzare gli effetti dannosi di queste citochine proinfiammatorie. L'interleuchina-1 è una importantissima citochina proinfiammatoria, dosabile in concentrazioni elevate nel plasma e nel liquido sinoviale dei pazienti con artrite reumatoide; inoltre, è stato dimostrato che i livelli plasmatici di IL-1 sono strettamente correlati con l'attività della malattia; IL-1 è un mediatore coinvolto in numerose risposte immunitarie, fra le quali alcune determinanti per l'infiammazione sinoviale e la costituzione del 'panno'. Gli inibitori di citochine sono diversi e risultano impiegati in relazione a protocolli via via perfezionati. Si ricordano i prodotti più noti come l'infliximab, l'etanercept, l'adalimumab e l'anakinra. L'infliximab è un anticorpo chimerico, umano-murino, in grado di combinarsi con alta affinità al TNF-α nella forma legata a membrana (transmembrana) e alla forma solubile. È stato dimostrato che infliximab costituisce in tempi rapidi complessi di legame stabile con TNF-α. Etanercept è una proteina di fusione solubile che neutralizza il TNF-α. In particolare la sua struttura è ottenuta associando il recettore umano p75 del fattore di necrosi tumorale con Fc (frazione di un'immunoglobulina IgG1) ottenuta grazie all'impiego di tecniche di DNA ricombinante. L'anakinra è un antagonista sintetico del recettore dell'IL-1 anch'esso di origine biotecnologica; è una proteina ricombinante non glicosilata che inibisce competitivamente il legame IL-1 per il suo recettore. Adalimumab è un anticorpo interamente 'umanizzato' anti TNF-α. Le malattie che hanno tratto giovamento dall'impiego dei farmaci biologici e che evolvono con una prognosi migliore sono la malattia di Crohn, l'artrite reumatoide, l'artrite psoriasica. Esistono numerose pubblicazioni che mettono in evidenza il successo di questi farmaci e il beneficio clinico che ne è derivato ha indotto l'estensione di impiego in diverse condizioni cliniche, alcune delle quali ancora in fase sperimentale. Nelle malattie autoimmuni lo scopo è quello di agire sopprimendo la risposta immunitaria e gli studi effettuati su anticorpi o molecole anti TNF-α e anti IL-1 hanno dimostrato che l'azione immunosoppressiva dei farmaci biologici è potente e si esercita in tempi relativamente brevi. Poiché, per es., TNF-α è una molecola importante nella dinamica della risposta immunitaria è necessario valutare il rapporto rischio/beneficio in relazione all'efficacia immunosoppressiva (che va a vantaggio della malattia trattata) e alla concomitante induzione di uno stato biologico immunosoppresso. D'altro canto, come ci si può attendere, l'inibizione del TNF-α genera uno stato nel quale possono slatentizzarsi processi infettivi preesistenti o nuove infezioni non vengono adeguatamente controllate. Il numero degli agenti patogeni che provocano malattie infettive a carattere invasivo durante il blocco del TNF-α è ampio. Si va dai comuni batteri gram positivi e negativi a vari opportunisti. Sono state descritte manifestazioni causate da Mycobacterium tuberculosis, Cryptococcus, Aspergillus. La natura delle infezioni può manifestarsi con carattere disseminato o localizzato. Tra i batteri sono anche segnalati lo Streptococcus pneumoniae e la Listeria monocytogenes; particolare attenzione è stata data alla tubercolosi. Il maggior numero dei casi di tubercolosi segnalati in letteratura è il risultato di una riattivazione di una precedente infezione 'latente'. I farmaci biologici, gli anticorpi monoclonali e le molecole ibride che associano frazione di anticorpo con altre strutture rappresentano una vera rivoluzione nel campo della medicina, sebbene siano gravati da alto costo e richiedano una gestione altamente specialistica. Infatti si tratta di mantenere un equilibrio importante tra la gravità del danno clinicamente rilevato (malattia di base), il beneficio terapeutico e il concomitante rischio di complicazioni infettive (ma anche non infettive). I dati comunque acquisiti sono abbastanza confortanti perché grazie alla selezione dei malati, a un loro corretto inquadramento che precede la somministrazione dei farmaci in esame e a un attento monitoraggio nel corso del tempo è possibile ridurre il rischio di danni. L'esempio dei farmaci biologici, nuovi arrivati nel novero dei presidi terapeutici, è importante; esso dimostra che si agisce consapevolmente nella gestione di un rischio, e quindi in un modello operativo che vede la necessità di integrare diverse competenze (gestione immunoreumatologica, screening infettivologico, monitoraggio laboratoristico e così via). La diffusione dei prodotti biologici è in espansione costante e varie malattie ne trarranno sicuro beneficio se la gestione verrà effettuata con cognizione di causa e costante aggiornamento relativo alle segnalazioni di problemi emergenti; in tal senso il ruolo di Internet e dei siti ufficiali di consultazione, unitamente alle riviste specializzate, sono per i medici un sostanziale punto di riferimento.

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