Reati contro la pubblica amministrazione

Diritto on line (2012)

Adelmo Manna

Abstract

I reati contro la pubblica amministrazione si dividono in due species, ovverosia i reati dei pubblici agenti contro la p.a. ed i reati dei privati contro la p.a. Hanno ricevuto una prima generale riforma nel 1990, che ha “abolito” il peculato per distrazione e l’interesse privato in atti d’ufficio, ma ha anche inciso sull’abuso d’ufficio e sull’omissione di atti d’ufficio. Altra importante riforma è stata quella relativa alle qualifiche soggettive. Nel 1997 è stato riformato funditus di nuovo il delitto di abuso d’ufficio. Fra i delitti dei privati contro la P.A. va menzionato soprattutto l’oltraggio, che in un primo tempo era stato abolito, per essere poi reintegrato nel codice penale, seppure in particolare con l’utilizzazione di un meccanismo risarcitorio e con la previsione dell’exceptio veritatis. Da ultimo, anche l’attuale Governo Monti, si sta impegnando per introdurre una nuova riforma dei reati dei p.u. contro la p.a. che ha già ottenuto la fiducia alla Camera dei Deputati.

1. L’originaria intelaiatura del 1930

Sia i delitti dei pubblici ufficiali che quelli dei privati contro la pubblica amministrazione risentono, nella loro intelaiatura originaria, in maniera spiccata, degli stilemi autoritari del regime sotto il quale si è varato il codice penale del 1930. Ciò spiega perché non solo il settore dei delitti dei pubblici ufficiali ha subìto una profonda trasformazione con la riforma del 1990, poi seguita da aggiustamenti tecnici nel 1992 e dalla riforma dell’abuso d’ufficio del 1997, ma anche il versante dei delitti dei privati ha incontrato profonde revisioni sia in tema di sciopero nei servizi pubblici essenziali, con influssi anche sul delitto di interruzione di pubblico servizio, che in tema di oltraggio, quest’ultimo ad opera del legislatore, di nuovo, nel 1999.

Al fondo, infatti, del problema sussisteva, almeno a nostro avviso, una visione originaria dei rapporti tra individuo ed autorità tutta sbilanciata a favore di quest’ultima, tanto che l’individuo, inserito nella pubblica amministrazione, si trova circondato da una serie di fattispecie criminose poste a tutela anche di beni come il prestigio, non certo di rilevanza costituzionale, bensì di tipo autoritario. Ciò ha condotto ad un ampliamento a dismisura delle stesse fattispecie criminose, in cui emerge in primo piano sovente la violazione del rapporto di “fedeltà” fra pubblico agente e Stato, anziché una tutela di concreti interessi, posti solo sullo sfondo.

Un primo esempio valga a chiarire il nostro assunto: se, infatti, prendiamo in considerazione il delitto di peculato nella sua formulazione originaria, possiamo constatare la bontà di quanto siamo venuti testé osservando, perché, accanto al peculato per appropriazione, posto chiaramente a presidio di un ben individuato interesse, quale il patrimonio della pubblica amministrazione, sussisteva anche quello per distrazione, che, probabilmente, anche a causa dei confini sfumati, rischiava di andare a colpire soprattutto il pubblico funzionario “infedele” ai suoi doveri, giacché distraeva fondi dai capitoli del bilancio pubblico, anche se, per avventura, ciò non avesse provocato un danno per la stessa pubblica amministrazione, ma, anzi addirittura un vantaggio.

Peraltro, anche sul versante della corruzione si può constatare la fondatezza di quanto da noi asserito a livello generale, soprattutto con riguardo alla incriminazione pure della corruzione impropria, sia antecedente sia, a maggior ragione, susseguente, cioè per un atto conforme ai doveri d’ufficio, addirittura già compiuto. Ciò ulteriormente dimostra come, nell’ottica del legislatore del 1930, aveva evidentemente più importanza rinsaldare, attraverso la minaccia penale, per dirla con Jakobs, il rapporto di fedeltà tra cittadino e Stato, piuttosto che la tutela di concreti e ben delimitati interessi della p.a., tanto è vero che si era costretti a ricorrere a beni giuridici evanescenti ed “ontologicamente” autoritari, come, appunto, il prestigio.

Né la situazione, sotto questo particolare angolo visuale, poteva dirsi migliore, in relazione al “combinato disposto” fra le norme relative all’interesse privato e all’abuso d’ufficio. Traspare infatti chiaramente dall’utilizzazione di entrambe queste fattispecie come intendimento del legislatore storico fosse quello di una tutela ad amplissimo raggio, nel senso che ad un reato, come l’interesse privato, maggiormente tipizzato dell’altro, seppure notoriamente non in modo esaustivo, faceva da contraltare la fattispecie di abuso, vero “contenitore vuoto”, che solo un intervento assai risalente della Corte costituzionale – quindi in un’epoca in cui ancora non si era affermato il principio di determinatezza – poteva salvare, ma in base ad un criterio quanto mai labile, nonostante recenti tentativi di “oggettivizzazione”, come il ricorso al dolo specifico (Picotti, L., Il dolo specifico. Un’indagine sugli “elementi finalistici” della fattispecie penali, Milano, 1993, passim), quale discrimen tra il reato e l’illecito amministrativo.

Anche l’omissione di atti d’ufficio, così come si configurava originariamente, presentava indubbiamente gli stessi difetti, soprattutto perché poteva estendersi chiaramente anche ad atti meramente interni alla p.a., così però configgendo in modo palese con il principio di offensività, nel senso, quantomeno, della dubbia legittimità di punire con una sanzione pensale l’omissione di un atto che non incideva, di per sé, sui diritti dei cittadini (sia consentito, in argomento, per maggiori approfondimenti, anche bibliografici, il rinvio a Manna, A., La riforma del delitto di omissione di atti d’uffici: alla ricerca dell’ “offensività” perduta?, in Reati contro la Pubblica amministrazione, a cura di F. Coppi, Torino, 1993, 331; cui adde, di recente, Perdonò, G., Rifiuto ed omissione di atti d’ufficio, in Materiali sulla riforma dei reati contro la P.A., a cura di A. Manna, Padova, 2007, 353).

Da ultimo, anche sul versante della qualifiche soggettive si potevano riscontrare le caratteristiche testé descritte in tema di configurazione dei reati contro la p.a., giacché non a caso dominava il criterio soggettivo, cioè della dipendenza organica del soggetto alla p.a., manifestazione evidente dell’obiettivo politico-criminale tendente a rinsaldare i rapporti fra individuo e autorità.

2. La riforma del 1990

Quanto sinora osservato spiega pertanto perché, dopo una approfondita elaborazione, nel 1990 si è varata la più importante riforma della Parte speciale del codice Rocco, cioè quella, appunto, dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Intendimento comune della riforma era, evidentemente, quello di ridurre la sfera di intervento del giudice penale sulla p.a., così da rendere questo settore nevralgico della parte speciale più attento anche ai valori costituzionali di riferimento, ovverosia l’imparzialità ed il buon andamento, di cui all’art. 97 Cost. Gli obiettivi di politica criminale non appaiono, però, raggiunti in modo del tutto esaustivo, come emergerà nel corso della presente analisi, soprattutto perché, almeno a nostro avviso, l’obiettivo era soltanto, in definitiva,quello di ridurre la sfera di intervento del giudice penale, senza, al contempo,un’opera di “modernizzazione” delle fattispecie. Quest’ultima, infatti, successivamente invece si imporrà, soprattutto, a seguito della esperienza cd. di “tangentopoli”, ma troverà, questa volta, il legislatore silente, evidentemente perché le esigenze riformatrici, seppure autorevolmente rappresentate nel Progetto del pool “mani pulite” di Milano, andavano in direzione contraria. Ad ogni buon conto, i principali cardini della riforma del ’90 passano attraverso l’abolizione, almeno formale, di due fattispecie alquanto discusse, perché avevano provocato filoni giurisprudenziali del tutto opposti, a seconda che prevalesse o no, come criterio ermeneutico, il principio di offensività, ovverosia il peculato per distrazione e l’interesse privato in atti d’ufficio. Anche qui, però, la riforma non è priva di aspetti critici, soprattutto perché le relative fattispecie risultano “trasmigrate” in una ipotesi criminosa, quale l’abuso d’ufficio che, da fattispecie residuale, diventa il fulcro della riforma, tanto che viene divisa in due, ovverosia quello per finalità patrimoniali, e l’altro per finalità non patrimoniali. Entrambe, tuttavia, presentano lo stesso atavico ed endemico vizio di indeterminatezza, a causa della vaghezza del termine “abusa del suo ufficio”, ove anche qui il correttivo, cioè il ricorso al dolo specifico, perpetua il vizio di scaricare l’intero disvalore del fatto su di un elemento che comunque, nonostante gli sforzi, resta, soprattutto a livello probatorio, di indole soggettiva, con tutte le conseguenze che ciò comporta a livello di realizzazione pratica della fattispecie e di, conseguente, suo accertamento.

Anche l’altro “fiore all’occhiello” della riforma del ’90 si dimostra, però, alquanto “appassito”, cioè l’omissione di atti d’ufficio, soprattutto a causa del famigerato comma 2 in cui il, peraltro interessante, meccanismo di origine civilista della cd. messa in mora, viene però di fatto vanificato con l’ammissione della possibilità, per il pubblico agente, di dimostrare a sua discolpa le ragioni del mancato adempimento dell’obbligo di agire e, quindi, del ritardo, così introducendo una clausola di esonero di responsabilità praticamente senza limiti (sul punto sia di nuovo consentito il rinvio a Manna, A., Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione, in I delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., a cura di T. Padovani, Torino, 1996, 361).

Pure sul versante della riforma delle qualifiche soggettive, le riserve critiche sono presenti, perché il sicuro passo in avanti rappresentato dall’abbandono del paradigma soggettivo, che con la riforma ha ceduto il passo a quello oggettivo, è avvenuto, però, mediante il ricorso al criterio “esterno” – tra attività pubblica e attività privata – consistente, in particolare, nella presenza, o no, di norme di diritto pubblico, che disciplinino l’attività medesima, che, nonostante gli sforzi di affinamento interpretativo, provoca comunque notevoli incertezze, giacché non è sempre agevole individuare se una norma appartiene al diritto pubblico, oppure al diritto privato (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., I, IV ed., Bologna, 2007, 257). Va, peraltro, aggiunto che il legislatore della riforma del ‘90 ha anche perso un’importante occasione per eliminare la distinzione fra pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio, che rappresenta notoriamente uno dei profili più discussi del settore in esame e che ormai non appare, in epoca di accentuata privatizzazione, più utile allo scopo, tanto che potrebbe essere sostituita da un’unica categoria, quale quella del “pubblico agente” (Di Giovine, O., Le qualifiche pubblicistiche, in Materiali sulla riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, a cura di A. Manna, cit., 409 ss).

3. L’esperienza di “tangentopoli”

Il fenomeno politico e giudiziario che va sotto il nome di “tangentopoli” e che nel nostro Paese ha decretato la fine della cd. “prima Repubblica”, ha anche condotto ad un’opera di “torsione interpretativa” delle fattispecie di concussione e corruzione, la prima perché ha mostrato una mancanza di tenuta in relazione ad un’alternativa modale della condotta, quale l’induzione, vera “carta velina”, che ha consentito disinvolti passaggi da quest’ultima fattispecie alla corruzione, e viceversa, a seconda delle strategie messe in campo dalla pubblica accusa o dalla difesa, il tutto in spregio al principio di precisione della fattispecie penale.

Anche sul versante della corruzione, la law in action ha avuto il sopravvento sulla law in the books, perché la giurisprudenza, di fronte a fenomeni come la cd. corruzione sistemica, ha progressivamente fatto a meno della prova dello sviamento dell’atto o, comunque, del rapporto con un singolo, ben determinato, o almeno determinabile, atto dell’ufficio, nell’ottica dichiarata di un diritto penale servente alle esigenze del processo, in particolare di quelle probatorie (sul punto, ci si consenta, di nuovo, il rinvio a Manna, A., Corruzione e finanziamento illegale ai partiti, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 166 ss.; Forte, G., La mercificazione della funzione pubblica al bivio fra corruzione e concussione, in Materiali, cit., 275).

In tal modo, però, la corruzione ha rischiato di abbandonare la sua fisionomia di “reato-contratto”, per rischiare di approdare ai lidi del delitto di infedeltà, tipico di un’epoca di emergenza giudiziaria quale quella in esame, col conseguente pericolo dell’inversione dell’onus probandi, nel senso che debba spettare al pubblico agente dimostrare la causa lecita del donativo promesso, od effettuato dal privato.

La fondatezza di queste ultime considerazioni è dimostrata dal revirement effettuato dalla Suprema Corte, passata l’emergenza, alla fine degli anni Novanta, con il ripristino dell’atto dell’ufficio nella struttura del delitto di corruzione, pur se, ovviamente, non ha potuto disporre nulla nei confronti del pericoloso fenomeno della corruzione cd. “sistematica”, sempre nel silenzio “assordante” del legislatore.

Altro fenomeno emerso da “tangentopoli” è, poi, la cd. concussione ambientale, che ha preso piede in giurisprudenza ed ha anche affascinato autorevoli settori della dottrina, tanto che ne è stata proposta l’introduzione nel progetto Pagliaro di riforma del codice penale del 1992. Pur tuttavia, con il termine “concussione ambientale” ci si intende comunemente riferire al fatto che il privato è indotto al pagamento del denaro o dell’altra utilità, non già a seguito delle pressioni operate da un pubblico agente ben individuato, bensì a causa di un clima di intimidazione generalizzato, di cui anche il privato in questione è stato vittima (in argomento, in senso giustamente critico, cfr. infatti Musco, E., L’illusione penalistica, Milano, 2004, 115).

In tal modo, però, con la concussione ambientale si rischia di non individuare una concreta condotta criminosa, da collegare ad un ben individuato soggetto attivo, tanto è vero che la stessa giurisprudenza della Suprema Corte ha, in materia, successivamente “rettificato il tiro”, richiedendo comunque che l’accettazione della promessa, o la dazione del denaro o di altra utilità, siano il frutto di una ben individuata attività di pressione da parte di un pubblico agente in carne ed ossa.

Un problema di natura processuale, che però ha influenzato l’intero sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a., è poi quello relativo alla collaborazione processuale (Musco, E., cit., 125), dato che l’esperienza cd. di “tangentopoli” ha dimostrato come i reati in questione sono facilmente individuabili solo se uno degli attori cd. factum sceleris decide di collaborare con le autorità inquirenti.

Ciò spiega perché, nel già ricordato progetto del pool “mani pulite”, era prevista una causa di non punibilità, legata alla collaborazione processuale del privato corruttore entro un ristretto periodo dalla commissione del fatto, assieme ad altre modifiche strutturali sulle fattispecie, come, in particolare, l’abolizione della concussione e la sua trasfigurazione nell’estorsione, aggravata dalla qualità di pubblico agente del soggetto attivo, nonché nell’abolizione dell’atto dell’ufficio come requisito strutturale del delitto di corruzione (in argomento, da ultimo, Davigo, P.-Mannozzi, G., La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Bari, 2007, spec. 286 ss.).

Ora, se dette proposte hanno sicuramente sollevato riserve – già illustrate per quanto attiene all’eliminazione del requisito dell’atto nella corruzione (Manna, A., Corruzione e finanziamento, cit., 136; Spena, A., Il turpe mercato, Milano, 2003, 144 ss.), mentre appariva più fondata la proposta di far trasmigrare la concussione nell’estorsione aggravata, al fine di utilizzare due requisiti modali di maggiore pregnanza, come la violenza e la minaccia, rispetto all’induzione, nonché, in rapporto alla introduzione della collaborazione processuale, le riserve medesime si appuntavano giustamente sul rischio di ritorsioni – ciò non toglie che le stesse, globalmente considerate, costituivano comunque un utile banco di prova per future riforme.

Appariva, infatti, quanto mai opportuna anche l’introduzione della cd. “corruzione sistemica” (Fiandaca, G., Esigenze e prospettive di riforma dei reati di concussione e corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen.. 2003, 883), accanto a quella legata all’atto, avente ad oggetto l’ “acquisto” e, quindi, l’asservimento dell’intera funzione a fini privatistici, nonché di quella relativa al “traffico di influenze”, ove cioè la dazione o la promessa di denaro o altra utilità sia effettuata nei confronti del pubblico agente, solo affinché quest’ultimo faccia da tramite con l’autore dell’atto dell’ufficio (Padovani, T., Il confine conteso. Metamorfosi dei rapporti tra concussione e corruzione ed esigenze improcrastinabili di riforma, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1314 ss.; nonché, volendo, anche Manna, A., Una possibile riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, in Materiali, cit., 435).

Ebbene, nonostante queste sollecitazioni in chiave di riforma, sicuramente originate da una prassi giurisprudenziale, che, per altro verso, aveva anche “sovraesposto” le fattispecie in questione, sino a farle diventare a tutela anche della sicurezza dello Stato e della pubblica economia, il legislatore italiano non ha, purtroppo, accolto detti, seppur controversi ma comunque importanti, suggerimenti, tanto che non li ha trasfusi in legge, a differenza di quello che, ad esempio, è avvenuto sia in Francia che in Germania, ove la corruzione si è estesa anche alla funzione (Tiedemann, K., Frode, corruzione e armonizzazione giuridica in Europa, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2007, 89 ss.) , nonostante che in quei Paesi il fenomeno cd. di tangentopoli sia risultato sicuramente di ben minore portata ed effetti.

È, quindi, necessario individuare le ragioni di questo sostanziale self restraint del legislatore italiano, che, a nostro giudizio, vanno individuate soprattutto nel fatto che simili riforme sarebbero andate in linea di controtendenza, rispetto quantomeno alla riforma generale del 1990, cioè nel senso di una espansione della sfera di influenza del giudice penale sulla p.a., che era proprio quello che si voleva evitare a livello politico-parlamentare, memori, evidentemente, anche delle cadute di garanzia che hanno, purtroppo, accompagnato un fenomeno complesso come quello denominato Tangentopoli.

Il legislatore, infatti, si è limitato ad interventi di contorno, come la, seppur importante, introduzione nel 1992 della corruzione in atti giudiziari, nonché della cd. confisca per equivalente, ma non ha minimamente dato corso ad una riforma strutturale dei reati in questione, che tuttavia le suggestioni emerse dalla prassi sicuramente reclamavano.

4. Le nuove prospettive in tema di europeizzazione della tutela penale della p.a. e della sua patrimonializzazione

L’accentuata sempre maggiore dipendenza degli ordinamenti statali rispetto a quelli comunitari, ha provocato anche in tema di delitti contro la pubblica amministrazione un ampliamento della tutela, nel senso di rendere punibili alcune fattispecie criminose, come quelle di peculato, concussione, corruzione ed istigazione alla corruzione, anche se commesse da pubblici agenti comunitari o di Stati esteri, oppure a danno di questi ultimi.

La “comunitarizzazione” della tutela si interseca poi con il settore relativo alla protezione del patrimonio della p.a., mediante l’introduzione degli artt. 316 bis c.p., nel 1990-1992, e 316 ter c.p., nel 2000, aventi infatti ad oggetto la tutela delle finanze comunitarie, ad ulteriore riprova come non sia ormai più sufficiente, per questo importante settore della Parte speciale del codice penale, il riferimento all’art. 97 Cost., perché proprio questi recenti innesti dimostrano come la prospettiva di protezione si allarghi anche in un’ottica sovranazionale (Salcuni, G., La tutela penale delle finanze comunitarie. Controllo penale vs. cogestione delle risorse pubbliche, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2004, 757 ss.).

Nonostante ciò, l’introduzione delle fattispecie da ultimo ricordate hanno trovato ben scarsa eco a livello giurisprudenziale, soprattutto perché, come costruite, non sembrano possedere un autonomo spazio vitale rispetto alla cd. truffa nelle sovvenzioni, peraltro, di recente ed in maniera discutibile qualificata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione come integrante una mera circostanza aggravante.

Sarebbe, invece, stato certamente più opportuno che almeno l’art. 316 ter c.p. fosse stato costruito come “reato ostacolo”, rispetto al 640 bis c.p., nel senso che l’elemento del danno patrimoniale avrebbe dovuto caratterizzare soltanto quest’ultima fattispecie, in modo da assicurare anche alla prima delle due fattispecie criminose in discorso un reale Lebensraum (Salcuni, G., Rapsodiche indicazioni sulla tutela penale delle finanze pubbliche, in Materiali, cit., 251 ss.).

Ragionando diversamente saremmo di fronte ad un’ennesima ipotesi di diritto penale meramente simbolico, come, peraltro, seppur in parte, riconosciuto dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2007, le quali hanno ritenuto quasi sempre configurabile la più grave fattispecie di cui all’art. 640 bis, salvo i casi, piuttosto rari, nei quali la produzione di dati o notizie false non abbiano indotto in errore la p.a. erogatrice dei finanziamenti (Cass. pen., S.U., 27.4.2007 n. 16568, in www.penale.it).

5. La riforma del 1997 in tema di abuso d’ufficio

L’ultima riforma in ordine di tempo, in questa delicata materia, riguarda l’abuso d’ufficio e tale riforma può, a nostro giudizio, essere valutata in senso biunivoco, cioè a dire che, seppur si apprezza il deciso, maggior rispetto del principio di precisione, con il definitivo abbandono della condotta d’abuso, sostituita da una duplice alternativa modale, come la violazione di leggi o di regolamenti, oppure quella relativa alla violazione del dovere di astensione, in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ciò, però, non solo è avvenuto con l’aggiunta di ulteriori “paletti”, che rendono la fattispecie di difficile dimostrazione a livello probatorio, come, fra tutti, il famigerato dolo intenzionale, nonché il requisito della cd. doppia ingiustizia, ma anche la prima delle stesse alternative modali ha mostrato di mantenere molto meno di quello che aveva inizialmente promesso.

In particolare, la dichiarata volontà del legislatore di espungere dal sindacato del giudice penale l’eccesso di potere, seppur ha trovato iniziale conferma in una importante sentenza della Cass. pen., sez. II, del 4.12.1997, ricorrente Tosches, che infatti ha ritenuto che il termine “violazione di legge” vada inteso solo con riferimento a specifiche norme che riguardano quel determinato comportamento, con esclusione, quindi, delle norme generali o di principio, nonché delle norme procedimentali, non ha però soddisfatto in primo luogo parte della dottrina, che ha infatti giustamente rilevato come non possa negarsi valore di legge sia a norme costituzionali, come l’art. 97 Cost., che a norma ordinarie, come l’art. 1, l. n. 241/1990, e, più di recente, ha trovato anche la giurisprudenza della Suprema Corte più orientata verso questo secondo e più ampio significato della norma (Manna, A., Abuso d’ufficio e conflitto di interessi nel sistema penale, Torino, 2004; Tesauro, A., Violazione di legge ed abuso d’ufficio. Tra diritto penale e diritto amministrativo, Torino, 2002).

Per altro verso, anche il termine “regolamento” – che pure porta ad un parziale vulnus della riserva assoluta di legge – è stato dalla giurisprudenza “superato”, con riguardo alla violazione delle norme del piano regolatore, che infatti non sono norme regolamentari stricto sensu, attraverso l’escamotage interpretativo, per cui, in tal modo, si violerebbero a monte anche le norme della legge urbanistica, così però creando una sorta di fictio iuris, adattabile, a ben vedere, in ogni altro campo di materia.

Da ultimo, anche il requisito del dolo intenzionale ha subìto una interpretazione, questa volta addirittura più restrittiva, da parte della giurisprudenza di legittimità, nel senso di richiedere addirittura un dolo cd. “esclusivo”, tale da condurre ad una esclusione della responsabilità penale, laddove il pubblico agente, che pure ha agito, mosso da un interesse proprio, o di un proprio sodale, dimostri che, contemporaneamente, ha voluto fare anche gli interessi della pubblica amministrazione, così però dando la stura ad assoluzioni praticamente senza limiti, dato che sarà, ovviamente, scontato che ogni pubblico agente si difenda (anche) in tal modo (Cass. pen., sez. VI, 16.10.2007, n. 38259, inedita; nello stesso senso, v. già Cass. pen., sez. VI, 6.5.2003, n. 33068, in Cass. pen., 2004, 3204 ss., con nota critica di A. Natalini).

Da tutto quanto sin qui considerato, emerge quindi che anche la riforma in tema di abuso di ufficio presenti, in definitiva, più ombre che luci (Manna, A., Luci ed ombre nella nuova fattispecie d’abuso, in Indice pen., 1998, 13 ss.), e, soprattutto, come la sua strutturazione si renda di difficile dimostrazione probatoria, per cui si sono già sviluppate proposte emendative, soprattutto nel fare emergere, come criterio modale unitario, il “conflitto di interessi”, che muove, nella specie, il pubblico agente, al pari di ciò che avviene per il settore societario, con riferimento al delitto di infedeltà patrimoniale, così quantomeno restituendo alla fattispecie in esame una dimensione più propriamente penalistica.

6. I delitti dei privati contro la pubblica amministrazione

In questo più particolare settore l’interesse dell’interprete appare maggiormente di tipo esegetico-ricostruttivo e sistematico, perché non è un settore che, comparato con l’altro, ha subìto interventi così massicci da parte del legislatore, come invece è avvenuto con la riforma del 1990.

Ciò non toglie, però, che anche in subiecta materia il legislatore sia intervenuto, addirittura una prima volta con il d.lgs.lgt. 14.9.1944, n. 288, ovverosia uno dei primi provvedimenti dell’Italia liberata, con il quale, a norma dell’art. 4, è stata ripristinata la scriminante della reazione agli atti arbitrari del pubblico agente, che possiede, anche a nostro giudizio, tale natura giuridica, giacché sottende il bilanciamento fra l’interesse all’esecutorietà degli atti amministrativi e quello relativo alla tutela della personalità del privato. Trattasi, come detto, di uno dei primi provvedimenti dell’Italia liberata, proprio perché si inserisce in un settore del diritto penale in cui prevaleva, invece, esclusivamente la tutela della pubblica autorità, senza, cioè, che ci fosse alcuno spazio per una protezione dell’individuo di fronte alle prevaricazioni.

Questo aspetto, decisamente autoritario, che permeava il tessuto originario dei delitti in questione, è stato in un periodo molto più recente ulteriormente ridimensionato, attraverso l’abrogazione, tramite l’art. 18, l. 25.6.1999, n. 205, sia dell’oltraggio a pubblico ufficiale, ex art. 341 c.p., che, conseguentemente, anche di quello a pubblico impiegato, di cui all’art. 344 c.p.

Trattandosi, infatti, sostanzialmente di reati di ingiuria, se ne poteva chiaramente desumere come la prospettiva di tutela in ambito pubblicistico fosse dovuta al collegamento, più che altro, al “prestigio” della pubblica amministrazione, bene notoriamente non ricompreso fra quelli di ascendenza costituzionale e, comunque, di palese derivazione autoritaria (Bricola, F., Tutela penale della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Temi, 1968, 563 ss; Flora, G., Il problema della costituzionalità del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, in Arch. giur., 1976, 55 ss; Pedrazza Gorlero, M., Il “tono” dell’espressione verbale: un nuovo limite alla libertà di pensiero?, in Giur. cost., 1972, 775 ss.; Guerrini, R., Osservazioni sulla legittimità costituzionale dell’art. 341 c.p., in Arch. Pen., 1973, l, 127, 140; Mantovani, F., I reati di opinione, in Il Ponte, 1971, 216; Palazzo, F., Oltraggio, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 849 ss.).

Si è posto quindi, su tale ultima riforma, un delicato problema interpretativo, se cioè trattasi di abolitio criminis, oppure di semplice fenomeno successorio.

Orbene, laddove si applicasse il criterio, che ormai va per la maggiore, della continenza, ma esclusivamente a livello strutturale, si dovrebbe chiaramente concludere nel senso che si è in presenza di un fenomeno successorio.

La giurisprudenza, tuttavia, segnatamente a Sezioni Unite penali del 2001, ricorrente Avitabile (Cass., pen., S.U., 27.6.2001, in Cass. pen., 2002, 482 ss., con nota critica di Lazzari, C., L’abrogazione del reato di oltraggio: la parola delle Sezioni Unite; nonché in Dir. pen. e processo, 2001, 979; ed in Riv. pen., 2001, 802), ha concluso nel senso opposto, sull’onda dell’altra pronuncia in tema di reati tributari, in entrambi i casi facendo quindi operare anche un criterio valoriale, in base al quale l’intervento del legislatore della riforma segnerebbe una evidente discontinuità del tipo di illecito, a causa della diversa, ed anzi, antitetica linea di politica criminale adottata, per cui saremmo di fronte ad un fenomeno abolitivo, anche perché non sarebbe configurabile un rapporto di continuità normativa nell’ipotesi di abrogazione di una fattispecie speciale e di conseguente riespansione di una più generale fattispecie incriminatrice preesistente.

Più in generale, v’è quindi da chiedersi se l’intervento abrogativo del legislatore del ’99 sia o non auspicabile che venga esteso anche in relazione all’oltraggio cd. “corporativo” (Romano, M., I delitti contro la pubblica amministrazione, I delitti dei privati, Le qualifiche soggettive pubblicistiche, II ed., Milano, 2002, 74; Seminara, S., Sub art. 342, in Commentario breve al codice penale, a cura di A. Crespi-F. Stella-G. Zuccalà, IV ed., Padova, 2003, 988), nonché a quello di magistrato in udienza, ove viene in considerazione forse maggiormente il profilo della turbativa della funzione, ma, per altro verso, non solo restano intatte le propaggini di un impianto autoritario di sistema, ma, più in particolare, l’oltraggio a magistrato in udienza rischia anche di configgere con il diritto di difesa, soprattutto laddove sia rivolto al p.m. , in relazione al quale è anzi da evidenziare una irragionevole disparità di trattamento, rispetto al difensore, laddove si ritenga che l’immunità giudiziale, di cui all’art. 598 c.p., valga solo per il primo e non possa essere estesa anche al secondo, proprio perché trattasi di oltraggio, anziché di ingiuria (Fiandaca, G.-Musco, E., cit., 302 ss.).

Va, tuttavia, da ultimo rilevato che il legislatore, con l’art. 1, co. 8, l. 15.7.2009, n. 94, ha inaspettatamente “ripristinato”, all’art. 341 bis c.p., il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, sembra in base alle pressioni esercitate dalle forze dell’ordine, ove le differenze più rilevanti, rispetto all’originaria formulazione, consistono in primo luogo in una scriminante se l’offesa consiste in un fatto determinato, ma quest’ultimo risulta vero, oppure se per esso il pubblico ufficiale è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo.

Trattasi, come ognun vede, di una “riedizione”, seppur parziale, dell’exceptio veritatis, di cui all’art. 596 c.p.

In secondo luogo, si prevede l’effetto estintivo di condotte riparatorie, integrali sia nei confronti della persona offesa che dell’ente di appartenenza, se avvenute prima del giudizio, evidentemente in nome delle ben note prospettive internazionali di riforma in tema di Wiedergutmachung (sia, in argomento, consentito il rinvio a Manna, A., Beni della personalità e limiti della protezione penale, Padova, 1989, spec. 682 ss., con ivi ulteriori riferimenti bibliografici).

7. I più recenti progetti di riforma in tema di reati contro la pubblica amministrazione e conclusioni definitive in argomento

Sarebbe sicuramente un’opera incompleta, laddove non dessimo conto dei progetti di legge presentati nel corso dell’attuale legislatura.

Essi si muovono su versanti alquanto diversi.

Il d.d.l. governativo c. 4434 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, approvato dal Senato il 15 giugno 2011, si caratterizza per un impianto pressoché interamente incentrato sul fronte preventivo ed amministrativo, mentre la parte penale è limitata soltanto ad un innalzamento delle pene per molti dei reati contro la pubblica amministrazione (cfr., in argomento, Marzuoli, C., Fenomeni corruttivi e pubblica amministrazione: più disciplina, un unico obiettivo, in Diritto pen. e processo, 2011, 1045, nonché, per un più ampio quadro di insieme, comprensivo anche dei progetti di legge della opposizione, cfr., Palazzo, F., Corruzione: per una disciplina “integrata” ed efficace, ibidem, 1177 ss.).

Il d.d.l. governativo, nonostante talune autorevoli opinioni contrarie (Palazzo, F., op. ult. cit., 1177), non appare condivisibile, almeno nella misura in cui limitare l’intervento del diritto penale soltanto ad un innalzamento delle sanzioni è, come noto, un’operazione che di per sé non garantisce i risultati sperati, perché è dato di comune esperienza in campo criminologico, che il mero innalzamento del livello edittale delle pene non ha mai condotto di per sé ad una diminuzione del numero dei reati, oppure a distogliere il singolo soggetto dal commetterli, ovverosia non è dimostrata un’efficacia sia general-, che special-preventiva.

I progetti, viceversa, dell’opposizione sono costituiti da quello di iniziativa dei deputati Di Pietro ed altri (p.d.l. c. 3380, presentata il 9 aprile 2010), di quello di iniziativa dei deputati Ferranti ed altri (p.d.l. c. 3850, presentato il 10 novembre 2010); dell’altro di iniziativa dei deputati Giovannelli ed altri (p.d.l. c. 4382, presentato il 25 maggio 2011); l’ulteriore, di iniziativa dei deputati Torrisi ed altri (p.d.l. c. 4501, presentato il 12 luglio 2011) ed, infine, quello di iniziativa del deputato Garavini (p.d.l. c. 4516, presentato il 18 luglio 2011).

Queste ultime proposte di legge entrano, invece, più all’interno di una modifica sostanziale dei reati contro la pubblica amministrazione, come, del resto, avevamo anche noi proposto nelle pagine precedenti.

In primo luogo, si ribadisce la necessità di introdurre la fattispecie di “traffico di influenze”, che si verifica, come in precedenza ricordato, laddove un soggetto privato si rivolga ad un pubblico agente che si limiti a fare da “intermediario” con il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio “finale”, affinché costui possa essere messo in contatto col privato, per programmare ed eseguire insieme il cd. patto corruttivo.

Certo, forse in mancanza di una fattispecie così delineata, sarebbe sempre possibile ricorrere allo strumento tradizionale del concorso di persone nel reato, ma sicuramente la nuova fattispecie contribuirebbe quanto meno a chiarire meglio i rispettivi ruoli e ciò anche in chiave sanzionatoria (nello stesso senso, a favore dell’introduzione di tale fattispecie, cfr., da ultimo, Travaglio, M., Un programma per la giustizia penale, in MicroMega, 2011, n. 7, 24 ss. e, quivi, 37; nonché Scarpinato, R., Un programma contro i poteri criminali, ibidem, 92 ss. e quivi 102-103).

Una seconda fattispecie che si intende introdurre è la cd. “corruzione per la funzione”, già peraltro esistente in Germania e Spagna, che si verifica laddove la corruzione non ha ad oggetto un singolo atto dell’ufficio, bensì l’intera funzione riservata al pubblico agente, per cui, come suol dirsi, costui risulta “iscritto al libro paga” del privato.

A questo proposito autorevole dottrina (Palazzo, F., op. ult. cit., 1178) propone un trattamento sanzionatorio meno severo rispetto a quello previsto per la corruzione per l’atto dell’ufficio, ma ci sentiamo di dissentire da detta opinione in quanto, laddove la corruzione riguardi addirittura l’intera funzione esercitata dal pubblico agente e non un singolo atto identificato od identificabile, riteniamo più logico un trattamento sanzionatorio più severo, rispetto alla corruzione per un singolo atto d’ufficio.

Altro tema di grande rilievo in materia è quello dell’introduzione o meno di una cd “macrofattispecie” di corruzione, ove verrebbe, evidentemente, eliminata l’attuale distinzione tra corruzione propria ed impropria, antecedente e susseguente e vi verrebbe ricompresa anche l’attuale concussione per induzione, riservando al posto della concussione per costrizione, invece da eliminare, l’estorsione aggravata dalla qualità del pubblico agente.

Questa prospettiva risale al già ricordato progetto del pool “Mani Pulite” degli inizi degli anni ’90 dello scorso secolo, che però, come abbiamo peraltro già ricordato, ci lascia su alcuni punti perplessi.

In primo luogo, eliminare la distinzione tra corruzione propria ed impropria, antecedente e susseguente, rischia di provocare, soprattutto nella prassi, il rischio di creare una fattispecie cd. di “mero sospetto“, nel senso che sarà obbligo del pubblico agente dimostrare la ragione lecita del donativo, così però invertendo l’onus probandi e, quindi, rischiando di mettersi in contrasto con l’art. 27, co. 2, Cost.

Siamo, invece, d’accordo nell’eliminare la concussione per induzione, giacché quest’ultimo concetto è troppo evanescente e quindi provoca, com’è noto, nella prassi giurisprudenziale, “disinvolti passaggi” dalla concussione alla corruzione, secondo le prevalenze degli interessi dell’accusa o della difesa.

Siamo, infine, conseguentemente d’accordo nell’eliminare il delitto di concussione, vero unicum nel panorama europeo, per sostituirlo con l’estorsione aggravata dalla qualità di pubblico agente del soggetto attivo, proprio perché i requisiti modali della condotta sono più pregnanti, rispetto alla concussione, giacché trattasi di violenza o minaccia.

D’altro canto, la cd. macrofattispecie di corruzione non sembra possa essere giustificata validamente in chiave costituzionale con il riferimento all’art. 54, cioè alla necessità che il pubblico ufficio venga esercitato con “disciplina e onore” (in tal senso, invece, Palazzo, F., op. cit., 1179).

Tale norma, infatti, possiede notoriamente una ratio assai diversa, che è quella di far sì che il pubblico agente “sia d’esempio”, con i suoi comportamenti, per i cittadini comuni, per cui non appare adatta a giustificare, addirittura in chiave costituzionale, tale macrofattispecie, fra l’altro dai contorni alquanto evanescenti.

Altro problema, di recente sollevato, è quello di introdurre una fattispecie cd. di corruzione fra privati (così, ad esempio, Travaglio, M., op. cit., 36; nonché Scarpinato, R., op. cit., 105), anche in esecuzione di precisi obblighi internazionali.

Crediamo, tuttavia, che sul punto sia necessario intendersi perché non corrisponde a verità che in Italia non esista affatto una fattispecie di corruzione fra privati, giacché la riforma dei reati societari, di cui al d.lgs. 11.4.2002, n. 61, per molti altri versi giustamente criticata, ha introdotto la fattispecie di infedeltà patrimoniale, a seguito di dazione o promessa di utilità (art. 2635 c.c.), che è, appunto, una classica ipotesi di corruzione fra privati, solo che è poco nota alla prassi giurisprudenziale, in particolare perché è perseguibile a querela della persona offesa, che è, ovviamente, l’assemblea dei soci, ove ben difficilmente la maggioranza che ha eletto il management, deciderà di querelare le posizioni apicali “infedeli”.

Da ultimo, vanno svolte alcune riflessioni su di un altro delicato aspetto presente sia nella più moderna discussione in materia, che nelle proposte di legge dell’opposizione, cioè a dire la previsione di norme cd. premiali per la collaborazione processuale.

Giustamente in dottrina si raccomanda grande cautela al riguardo, soprattutto laddove si intenda introdurre addirittura una causa di non punibilità, mentre maggior consenso potrebbe riavere una circostanza attenuante, pur se non va dimenticato che la “premialità” in questa materia rischia di provocare effetti di carattere “ricattatorio”, come è del resto facile intuire.

Resta, infine, il problema di carattere sanzionatorio.

In argomento abbiamo già rilevato in apicibus le nostre perplessità e ci fa piacere rilevare che autorevole dottrina, nonostante il favore manifestato per un generale inasprimento delle pene, preferisca, però, intervenire direttamente sui tempi prescrizionali, come del resto “suggerito” dalla Convenzione di Merida e dalle ultime raccomandazioni del GRECO-Gruppo di Stati contro la Corruzione (Palazzo, F., op. ult. cit., 1179).

Il Palazzo giustamente ritiene che bisogna intervenire, nell’ottica di un potenziamento repressivo, pure sull’abuso d’ufficio, divenuto notoriamente ben difficile da perseguire anche a seguito delle riforme succedutesi (Palazzo, F., op. ult. cit.).

Ciò fa particolarmente piacere giacché lo scrivente, quando scrisse la monografia in argomento, si mostrò in netta minoranza perché allora sembrava che la fattispecie in oggetto fosse decisamente da preferire, in ossequio al principio di precisione, senza, però, rendersi del tutto conto dei diversi e notevoli limiti che pur nascondeva la fattispecie in oggetto (Manna, A., Abuso d’ufficio e conflitto di interessi nel sistema penale, Torino, 2004, con, ivi, ulteriori riferimenti anche alle opinioni contrarie, cui, pertanto, anche sotto questo profilo, si rinvia).

In conclusione, anche le riforme ordite in questa legislatura ci sembra, però, che appartengano a quel che suole definirsi un “libro dei sogni”, giacché, a parte il disegno di legge governativo, che in campo penale si limita soltanto ad un maquillage di carattere sanzionatorio, senza entrare, ovviamente nelle modifiche strutturali a livello penalistico, le altre proposte, pur assai interessanti e pur suscettibili, talune, di critiche, sembrano però, almeno allo stato, nel complesso di ben difficile realizzazione in un Paese come il nostro, ove il conflitto “endemico” tra Politica e Magistratura ben difficilmente, almeno sinora, indurrà la prima a legiferare, in fondo, contro i “propri interessi”.

8. Conclusioni: la riforma dei delitti dei pubblici agenti contro la P.A. del Governo Monti

8.1 Premessa

In definitiva, il settore della parte speciale, relativo ai delitti contro la pubblica amministrazione è quello che, a differenza degli altri, ha subìto una generale opera di riforma, soprattutto con riguardo ai delitti dei pubblici ufficiali, per cui è più in grado, rispetto ad altri, di accogliere una eventuale, ulteriore opera riformatrice, che, nel primo settore, magari introduca nuove fattispecie e non si limiti, quindi, soltanto a ridurre il campo di applicazione del giudice penale, e, in quello relativo ai delitti dei privati, completi l’opera di revisione, con l’auspicata abrogazione delle ipotesi (fino a poco tempo fa residuali) di oltraggio, attualmente resa, tuttavia, assai più problematica a causa della recente reintroduzione dell’oltraggio a pubblico ufficiale.

Certo, per fare ciò sembrerebbe ideale la riforma codicistica, ma, proprio a causa dei numerosi progetti di riforma succedutisi a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale e sempre per lo più arenatisi nelle secche delle cicliche crisi governativo-parlamentari, è lecito mostrare una notevole dose di scetticismo (Manna, A., La crisi attuale della codificazione penale italiana, in Indice pen., 2006, 965), che potrebbe però essere superata laddove si preferisca privilegiare una riforma soltanto di settore, per la quale risulta tuttavia difficile coagulare una maggioranza favorevole, a causa della accentuata difficoltà di rapporti fra giustizia e politica, che contraddistingue, in particolare, la storia recente del nostro Paese e che forse nemmeno un governo “tecnico” può davvero contribuire a risolverli.

Tuttavia, va, a questo proposito, rilevato che il Ministro della giustizia Paola Severino sembra invece intenzionata a operare su tre direttrici in materia di cui l’una comporta l’ingresso nel nostro codice penale di fattispecie come il traffico di influenze ed evidentemente soltanto la modifica di quella già esistente di corruzione privata, per renderla più efficace.

La seconda direttrice attiene a una rimodulazione dei reati di corruzione e concussione, raccordandosi con le richieste internazionali, rappresentate in particolare dall’immediata ratifica della ben nota Convenzione di Strasburgo, anch’essa nell’agenda del Governo.

Infine, per quanto riguarda le pene, il Ministro sta spingendo per elevare il massimo edittale mentre nel disegno di legge governativo aumenta solo il minimo, per cui, laddove passasse la linea del Ministro ciò consentirebbe una prescrizione più lunga, senza la necessità di un intervento ad hoc (cfr. La Repubblica, 17 febbraio 2012, p. 3).

8.2 La nuova fattispecie di “induzione indebita” e la punizione anche dell’indotto: abolitio criminis o fenomeno successorio?

Dopo il tempo che ha ritenuto di prendersi, l’attuale Ministro della Giustizia, Prof.ssa Severino, alla fine il 12 aprile 2012 ha reso noti gli emendamenti governativi alle proposte di riforma in materia di corruzione. Se è pur vero che compaiono il nuovo reato di «traffico di influenze», e la «riedizione» della cd. corruzione privata, che passa dall’attuale articolo 2635 c.c. all’art. 346 c.p., al posto, cioè, del vecchio millantato credito, va rilevato che le pene risultano, per tali tipi di reato, di non particolare rilievo, giacché la corruzione privata viene punita non più sino a tre anni di reclusione, bensì da uno a tre anni, ed anche il traffico di influenze è punito fino a tre anni di reclusione, ciò che, ovviamente, non consente soprattutto né intercezioni telefoniche, né captazioni ambientali, che, invece, com’è noto, costituiscono strumenti probatori di notevole efficacia per scoprire i reati in oggetto.

Tuttavia, il vero punctum dolens della progettata riforma governativa consiste nello “smembramento” del delitto di concussione in due distinte fattispecie. La prima, che resta nell’attuale articolo 317 c.p., riguarda la concussione per costrizione, che rimane inalterata a livello di fattispecie, ma rafforzata a livello di pena, in quanto il minimo passa dagli attuali quattro anni di reclusione a sei. Ciò che, però, più preoccupa è il novellato articolo 319 quater, che ha ad oggetto: «L’indebita induzione a dare o promettere utilità». Con questa nuova fattispecie, figlia chiaramente della concussione per induzione, si punisce, però, con una pena minore, rispetto alla concussione per costrizione, «il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità e dei suoi poteri, induce taluno a dare o promettere denaro o altra utilità».

La vera novità, tuttavia, sta nel fatto che verrà punito fino a tre anni di reclusione anche colui che, cioè - evidentemente, il privato - «da o promette» denaro o altra utilità.

Orbene, su quest’ultima proposta di riforma, sempre se non verrà nel frattempo modificata, siano consentiti allo stato taluni rilievi critici: in primo luogo, la Convenzione sulla corruzione del Consiglio d’Europa, firmata a Strasburgo il 27 gennaio 1999, e non ancora ratificata dall’Italia, si occupa esclusivamente della corruzione, sia attiva sia passiva, ma non si occupa per niente della concussione, per cui è del tutto destituita di fondamento l’opinione di chi sostiene che la modifica in tema di concussione sarebbe stata imposta a livello europeo.

In secondo luogo, la diminuzione del carico sanzionatorio della nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p. e, in particolare, una sanzione così lieve, come quella sino a tre anni per l’ “indotto” a dare o promettere denaro o altra utilità, certamente riduce oltremodo i già risicati termini prescrizionali a loro volta già ridotti a causa della legge ex Cirielli.

In terzo luogo, la punizione anche del soggetto che è stato indotto da chi ha abusato del suo potere, o delle sue qualità, a dare o a promettere a costui denaro o altra utilità, suscita talune perplessità, almeno nella misura in cui non può non rilevarsi, al contrario, che colui che viene indotto a compiere qualcosa, non può certo qualificarsi come concorrente nel reato, poiché non agisce su di un piano di parità con il pubblico agente, come invece avviene nella corruzione, ma la sua libertà di autodeterminazione è sicuramente limitata, proprio a causa dell’induzione; ciò spiega la ragione per cui, almeno a nostro avviso, quest’ultimo non potrà essere correttamente qualificato concorrente nel reato, bensì solo soggetto passivo, come d’altro canto avveniva in precedenza nella concussione per induzione.

Non va, infatti, dimenticato che chi è indotto, a causa di un abuso di potere o di qualità da parte del pubblico agente, promette o dà denaro o altra utilità, in genere “per evitare un danno”, mentre, nella corruzione, nella quale, infatti, non è ricompresa la nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater, il privato promette o dà denaro o altra utilità al pubblico agente “per ottenere un vantaggio” ed è questa la ragione per cui la sua libertà di autodeterminazione non è scalfita, egli agisce infatti su di un piano di parità con il pubblico agente ed è quindi giustificato, ma solo, a nostro sommesso avviso, in questo caso, che venga punito al pari del pubblico ufficiale, costituendo, evidentemente, un concorrente nel reato di cui trattasi.

Va, tuttavia, rilevato che nella Relazione ministeriale che accompagna l’emendamento governativo in oggetto, si legge che il privato «non essendo costretto ma semplicemente indotto alla promessa o dazione, mantiene un margine di scelta tale da giustificare una pena seppure in misura ridotta rispetto al pubblico agente» (reclusione fino a tre anni).

É stato, però, di recente ed autorevolmente rilevato, a contrariis, che «chi viene indotto non è un correo dell’induttore, è una vittima , perché il suo consenso è determinato dalla condizione di inferiorità in cui viene a trovarsi rispetto all’induttore» (così testualmente Vinciguerra, S., Consussione a rischio, in ItaliaOggi, 3 maggio 2012, 34).

Questi rilievi sono, a nostro avviso, del tutto condivisibili tanto è vero che lo stesso Vinciguerra aggiunge, giustamente, come non si sorprenderebbe laddove «questa norma, senza precedenti nella nostra tradizione giuridica, fosse ritenuta incostituzionale per manifesta irrazionalità» (corsivo aggiunto).

In quarto luogo, va soprattutto evidenziato che la proposta distinzione in due diverse fattispecie della concussione, come avevamo del resto già paventato nel corpo di queste nostre considerazioni, creerà non pochi problemi sotto il profilo, ex art. 2 c.p., della distinzione tra abolitio criminis.e fenomeno meramente successorio.

Se, infatti, si analizzano i tre criteri notoriamente elaborati da dottrina e giurisprudenza per distinguere i due istituti, ci si potrà rendere conto che, almeno a nostro avviso, rischieranno di condurre tutti all’identico risultato.

Se, infatti, si prende in considerazione il criterio più risalente, cioè il cd. fatto in concreto, per cui ciò che è prima punito e anche dopo è punito, vuol dire che è sempre punito, e, dunque, trattasi di successione e non di abolitio, se lo applichiamo al “nuovo” art. 319 quater, dobbiamo concludere che prima il privato non era punito, perché, nella concussione per induzione, era giustamente qualificato come vittima, per cui non può non concludersi che si è di fronte ad un fenomeno abolitivo.

La conclusione non muta anche se si adotta la teoria, di origine germanica, della «continuità del tipo d’illecito», per cui il fenomeno è successorio se è identico non solo il bene giuridico, ma sono anche analoghe le modalità di condotta.

Anche in questo caso, infatti, se permane lo stesso bene giuridico, altrettanto non può dirsi per le modalità di condotta, giacché, nella concussione per induzione la dazione o la promessa di denaro o altra utilità, posta in essere dal privato, non sono punite, mentre lo diverrebbero se fosse trasformato in legge l’art. 319 quater.

Se, infine, si intende adottare il criterio della continenza, per cui tra vecchia e nuova normativa deve sussistere un quid pluris, certamente nel caso che qui ci occupa sussiste, ma trattasi altrettanto sicuramente di una specialità cd. “per aggiunta”, anziché “per specificazione”, perché l’elemento ulteriore conduce a punire anche il soggetto indotto, ciò che prima non avveniva, con chiara “discontinuità”, a livello sia dogmatico, che di politica criminale, del tipo d’illecito e, quindi, abolitio criminis, anziché fenomeno successorio.

Certo, si potrebbe a ciò in teoria obiettare che, utilizzando la distinzione surricordata in tema di specialità, s’inserisce un elemento valoriale (sostenuto, invece, autorevolmente da Romano, M., Commentario al codice penale, I, Artt. 1-84, Milano, 2004, 67 ss.), che introduce inevitabilmente un coefficiente d’incertezza, essendo legato troppo alla discrezionalità soggettiva dell’interprete, ma, almeno a nostro avviso, non può, di contro, non rilevarsi come il criterio c.d. della continenza, se invece interpretato in senso puramente “strutturale”, rischia di condurre “inevitabilmente” ad un fenomeno successorio, anziché ad un abolitio criminis.

Infine, se fosse varato il novellato art. 319 quater, non solo per le ragioni sinora addotte, verrebbe messo in serio pericolo il prosieguo dei processi ad imputati “eccellenti”, a qualunque partito essi appartengano, perché da un punto di vista processuale, ciò che ha riferito all’Autorità Giudiziaria il privato “indotto” sarebbe del tutto inutilizzabile, ex art. 63 c.p.p., perché, a causa del fatto che con la nuova norma verrebbe punito, doveva essere sentito fin dall’inizio alla presenza di un difensore.

Il legislatore, in altri termini, sembra aver non tenuto nel dovuto conto la ragione per cui, nel codice Rocco, si ritenne di aggiungere la concussione per induzione a quella, classica, per costrizione, in quanto, si osservò, per merito soprattutto del Manzini, che il pubblico agente di alto rango sicuramente non ricorrerà alla “brutale” costrizione, ma adotterà mezzi più suadenti e, talvolta, anche frutto di frode, pur di “convincere” il privato a soggiacere ai suoi illeciti desiderata. Nella Relazione ministeriale al codice penale si può, infatti, leggere come l’eliminazione del tutto del requisito dell’induzione non possa essere accolta perché, così facendo, non si sarebbero perseguite quelle ipotesi, più insidiose perché compiute dai più alti vertici della p.a., di minacce larvate, di insinuazioni idonee a coartare la volontà del soggetto passivo, senza che costui abbia la possibilità di evitare, in altro modo, il danno che andrebbe a subire (cfr. in tal senso, per l’appunto, Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, IX, 8 ed., Torino, 1988, 857).

Ciò, però, ulteriormente dimostra come l’indotto non potrà “logicamente” essere qualificato concorrente nel reato, giacché, seppure persuaso in modo più “soave”, rispetto a colui che, viceversa, è stato “costretto”, svolge comunque, per quanto in precedenza osservato circa il vulnus alla sua libertà di autodeterminazione, il ruolo di vittima.

Aveva, dunque, probabilmente ragione il Foscolo ad “esortare” gli italiani “alle istorie”, ma si sa che nel mondo della politica, anche se posta in essere da cd. tecnici, spesso sussiste il fondato rischio che l’elemento storico, nella prospettiva del legislatore, assuma un valore del tutto secondario e, quindi, non decisivo.

8.3 Le prime “reazioni” della dottrina

Da ultimo, non può non darsi conto, oltre quello, già ricordato, del Vinciguerra, degli ulteriori, primi ed altrettanto autorevoli, commenti all’emendamento governativo, soprattutto, per quel che qui interessa, in relazione al nuovo reato di “induzione” di cui all’art. 319 quater c.p..

Il primo profilo che qui intendiamo analizzare è quello dell’opportunità e dell’illegittimità di punire anche il privato.

In argomento le soluzioni divergono, giacchè sussistono coloro che, come Dolcini e Viganò, ritengono che la relativa punizione svolga un’importante “messaggio” a livello general-preventivo, cioè a dire che i pubblici funzionari “non devono essere pagati dai privati” (Dolcini, E.-Viganò, F., Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 1 ss. e, quivi, 15).

Altri, invece, come Palazzo (Palazzo, F., Concussione, corruzione e dintorni: una strana vicenda, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 1 ss. e, quivi, 5), si dimostrano, quanto meno più prudenti e, in definitiva, almeno a nostro avviso, più coerenti, quanto meno con il dato storico, giacché, se è pur vero, secondo il chiaro Autore, che il privato può anche mostrare “un’inclinazione spontaneamente accondiscendente al pubblico funzionario” Egli ha, però, anche cura, di contro, di rilevare come “la necessità di non uscire dal giro, di non aggravare una situazione debitoria pericolosa e così via, possa rendere il privato facile preda di un pubblico funzionario tanto più quanto più quest’ultimo sia scaltro ed avvezzo ad esercitare la prassi del detto e non detto”.

Quindi, la punizione anche del privato finisce inevitabilmente per creare seppure indirettamente un obbligo a carico dell’”indotto” di sottrarsi - ed isolarsi - alle spire avvolgenti “di chi comunque ha il coltello dalla parte del manico”.

Tutto ciò, però, rivela, non solo una certa contraddizione, tra il “trasmettere” un segnale forte ed il corresponsabilizzare il privato, “scaricando” su di lui il compito di “resistere” al pubblico funzionario, ma anche, in definitiva, almeno a nostro parere, conferma la funzione essenzialmente “simbolico-espressiva” della norma che punisce anche il privato “indotto”.

Il secondo profilo riguarda il complesso problema della distinzione tra abolitio criminiis e fenomeno successorio: sul punto Dolcini e Viganò (Dolcini, E.-Viganò, F., op. cit., 16) sempre con riguardo alla “novità”, consistita nella punizione anche del privato “indebitamente indotto”, ritengono che trattasi di una «nuova incriminazione», come tale, ovviamente, irretroattiva.

Ci sembra, tuttavia, che una conclusione siffatta, seppure può costituire un utile “suggerimento” alla giurisprudenza per evitare gli effetti negativi sui processi in corso, che abbiamo in precedenza preconizzato, tuttavia comporta l’adesione ad una tesi del tutto minoritaria (Pagliaro, A., Le fattispecie di corruzione come legge mista alternativa, in Dir. pen e processo, 1997, 848 ss.), derivante dalla corruzione, per cui quest’ultimo reato si deve distinguere in due diverse ed autonome fattispecie, cioè la corruzione c.d. attiva e quella passiva, che, però, non solo non è seguita dalla maggior parte della dottrina e della giurisprudenza, ma, almeno a nostro giudizio, non tiene nel dovuto conto che trattasi, invece, di un reato unico, a concorso necessario (così, da ultimo, Tarantino, Sui difficili rapporti tra concussione per induzione e istigazione alla corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 245 ss. e, spec., 263 ss.).

Quest’ultima Autrice giustamente, infatti, non solo rileva come il delitto di concussione dia luogo ad un reato necessariamente plurisoggettivo improprio, ma anche che il privato «viene sempre, inevitabilmente a trovarsi in un condizione di soggezione psicologica, indipendentemente dal fatto che decida, o meno, di soddisfare l’indebita pretesa» (288).

Altrettanto, quindi, è a concludersi per il nuovo reato di induzione che non può dar luogo a due fattispecie “autonome”, come l’induzione “attiva” e quella “passiva”, non potendo possedere un rilievo decisivo il fatto che quest’ultima è punita meno gravemente dell’altra, perché ciò rientra nella “discrezionalità legislativa”, di cui, anzi, abbiamo anche individuato la ratio “simbolico-espressiva”, ma non può, appunto, essere tale da condurre ad una “scissione” del nuovo reato di induzione in due fattispecie autonome.

Se così è, risorgono allora tutti i dubbi che abbiamo in precedenza evidenziato e che rendono, sul punto, la progettata riforma fonte di talune perplessità di non poco momento.

8.4 L’approvazione da parte della Camera del d.d.l. in esame con tre voti di fiducia: rilievi critici

Il 13 giugno 2012 il disegno di legge anti-corruzione è stato approvato dalla Camera dei Deputati, essendo stata chiesta la fiducia su tre profili importanti dello stesso d.d.l. (cfr. La Repubblica, 14 giugno 2012, 10-11).

Il primo voto di fiducia riguarda l’interdizione automatica dai pubblici uffici. In argomento va osservato come non si sia optato per una norma immediatamente efficace, che sarebbe stato decisamente preferibile, bensì si è preferito rimandare il tutto ad un decreto legislativo che potrebbe pure non essere mai adottato, nonostante che il Governo assicuri che eviterà tempi lunghi che rischierebbero di fare slittare il tutto addirittura al 2018.

Il secondo aspetto su cui è stata concessa la fiducia riguarda il cd. “spacchettamento” del delitto di concussione, distinta in due ipotesi, cioè nella classica “concussione per costrizione” e nella nuova fattispecie, di cui all’art. 319 quater c.p. avente ad oggetto la cd. “induzione indebita”, ove, come abbiamo già ricordato, viene punito, seppur con una pena minore, anche il privato “indotto” a promettere o a dare denaro o altra utilità. In argomento, oltre quanto già in precedenza rilevato, va osservato che per questo secondo tipo di concussione è prevista una pena minore, beninteso per il pubblico agente, cioè da tre a otto anni, che ovviamente riduce in maniera rilevante il relativo termine prescrizionale e quindi mette “a rischio” l’esito di importanti processi.

La terza fiducia, anch’essa concessa, riguarda la cd. “corruzione tra privati” di cui all’art. 14 del disegno di legge anti-corruzione. Si tratterà ora di verificare che cosa potrà accadere al Senato della Repubblica anche se già sin d’ora emergono voci critiche, concentrate soprattutto su due profili: l’uno riguarda la riduzione della cornice edittale di pena per il nuovo reato di “induzione indebita”, a causa del fatto che così si abbrevia notevolmente anche il termine prescrizionale. La seconda ragione di perplessità riguarda la connessa interdizione dai pubblici uffici: la perplessità sta nel fatto che tale misura non è per nulla automatica, bensì affidata ad un futuro decreto legislativo, con il rischio di un notevole aggravio dei tempi per il varo di detto decreto, quando invece sarebbe stato decisamente più logico ed opportuno prevedere l’automaticità dell’interdizione, e cioè l’inserimento di detta pena accessoria direttamente nel disegno di legge anti-corruzione (per tali rilievi critici, Pellegrino, G.L., Il colpo di spugna, in La Repubblica, etc., cit., 1-31).

Soprattutto quest’ultimo aspetto ha fatto giustamente rilevare alla Presidente della Commissione Giustizia della Camera, On.le Giulia Bongiorno quanto segue: «Non si può fare che la legge è uguale per tutti tranne che per i politici. Per tutti entra in vigore subito, per i politici si vedrà se e quando».

Come si può quindi constatare, in definitiva, il Disegno di legge anti-corruzione, “blindato” con tre votazioni di fiducia alla Camera dei Deputati ha comunque suscitato talune importanti riserve, per cui si tratterà ora di verificare se ed in che misura verrà eventualmente emendato dal Senato della Repubblica.

Fonti normative

Artt. 314-360 c.p.

Bibliografia essenziale

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