GARDINI, Raul

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 52 (1999)

GARDINI, Raul

Franco Amatori

Nacque a Ravenna il 7 giugno 1933 da Ivan e Bruna Piazza.

I nonni materni gestivano una fonderia di ghisa e bronzo, mentre i Gardini possedevano diverse centinaia di ettari lungo il litorale romagnolo e in Veneto. Il nonno paterno Pietro fu un innovatore nella frutticoltura e nell'apicoltura, un'attività che conduceva con metodi industriali. Suo figlio Ivan si distinse invece nella bonifica dell'area paludosa attorno a Ravenna.

Il G. trascorse l'infanzia con i genitori e il fratello Franco soprattutto in campagna, fra le varie tenute della famiglia, e in particolare visse gli anni della guerra in quella di Vaccolino presso l'abbazia di Pomposa. In seguito fu inviato in collegio a Ferrara, quindi a Cesena per frequentare l'istituto di agraria; per questa stessa specializzazione di studi si iscrisse all'Università di Bologna. Il G. sembrava destinato a occuparsi dell'azienda di famiglia che, sebbene - in seguito alla riforma del 1952 - subisse l'esproprio di 130 ettari, veniva costantemente ammodernata.

A cambiare la sua vita fu il fidanzamento con la vicina di casa - nel 1947 i Gardini erano tornati a vivere a Ravenna - Ida Ferruzzi, che sposò nel 1957. In quell'anno iniziò a lavorare, acquistandone con 40 milioni di lire il 10%, nella Cementi Ravenna, società costituita due anni prima dal suocero Serafino Ferruzzi che, in una città vivacizzata dalle iniziative dell'ENI di Enrico Mattei e dalle intraprese di un aggressivo uomo di affari come Attilio Monti, stava ponendo le fondamenta di un vero e proprio impero economico.

Le attività del Ferruzzi erano centrate sull'importazione di cereali, resa assai vantaggiosa dal cronico deficit nazionale nelle derrate agricole, ma che egli seppe sostenere con investimenti in poderose e capillari strutture di trasporto, immagazzinamento e distribuzione sia in Italia, sia in Argentina e negli Stati Uniti. Il Ferruzzi espandeva progressivamente i suoi interessi al cemento e alla lavorazione della soia, mentre parte sostanziale degli utili veniva reinvestita nell'acquisto di quasi un milione di ettari di terreno in Italia, negli Stati Uniti, in Argentina, in Brasile, in Uruguay, in Paraguay. Alla metà degli anni Settanta, nonostante fosse tra i protagonisti delle contrattazioni alla Borsa granaria di Chicago, la prima del mondo, e, fra i privati, il maggior proprietario fondiario del Paese, egli era pressoché sconosciuto al grande pubblico. Le sue società non erano quotate in Borsa e i prestiti di cui aveva bisogno per i commerci li otteneva facilmente dal mondo bancario, restituendoli dopo le vendite non senza effettuare ampi giochi sulle valute data la dimensione globale dei suoi affari. Del resto era in ottimi rapporti sia con il presidente della Banca commerciale italiana, Raffaele Mattioli, sia con l'amministratore delegato di Mediobanca, Enrico Cuccia, e possedeva quote rilevanti del Credito Romagnolo e dell'American Bank and Trust. Nonostante un comportamento sempre molto riservato, il Ferruzzi non poté evitare la notorietà nel 1979 quando rilevò per 100 miliardi di lire da Attilio Monti, in difficoltà, il pacchetto di maggioranza dell'Agricola Finanziaria, una holding che controllava l'Eridania, prima produttrice nazionale di zucchero e proprietaria del 15% della francese Beghin Say, maggiore impresa saccarifera europea (per maggiori particolari si v. L. Simonin, Ferruzzi, Serafino, in Diz. biogr. degli Italiani, XLVII, Roma 1997, pp. 262-266).

In un ventennio di crescita tumultuosa, nonostante rapporti non sempre facili date le forti personalità di entrambi, il G. fu fra i più stretti collaboratori del suocero che coadiuvò in particolar modo nello sviluppo delle iniziative industriali, i cementifici e gli impianti di produzione di olio e mangimi. Il G. rivelò un'abilità insolita in un dirigente italiano nel comprendere le implicazioni delle normative emanate dalla nascente Comunità europea ormai determinanti per le attività agroindustriali e i modi di operare dei gruppi di pressione al suo interno. Il G. seppe difendere con successo a Bruxelles gli interessi dei produttori italiani di olio di semi tanto da essere nominato presidente della associazione nazionale.

Dopo un periodo di difficoltà personali dovuto alla malattia e alla morte del padre (1975) che lo costrinse a dedicarsi al riassetto del patrimonio familiare, il G. assunse un ruolo di sempre maggior rilevanza all'interno del gruppo affiancando il suocero nei più importanti consigli d'amministrazione di cui il Ferruzzi faceva parte, come quello dell'Unicem, la seconda azienda cementiera italiana controllata dagli Agnelli, ma della quale l'imprenditore ravennate aveva acquistato una consistente partecipazione nel 1974. Per il G., che della società divenne membro del comitato direttivo, fu il primo contatto con la cosiddetta ala nobile del capitalismo italiano, un'esperienza che in un racconto autobiografico definì significativa per il suo apprendistato di capo di imprese di grandi dimensioni. Di fatto alla fine degli anni Settanta appariva il solo, con il fondatore, in grado di padroneggiare i problemi di una conglomerata così vasta e complessa. Serafino Ferruzzi perse la vita in un incidente aereo il 10 dic. 1979. Da tre anni aveva diviso il suo patrimonio, stimato circa 800 miliardi di lire fra i quattro eredi, intestandone il 31% al figlio Arturo e il 23% a ciascuna delle tre figlie, Ida, Franca e Alessandra.

Dopo qualche mese di guida collegiale con Arturo Ferruzzi e Vittorio Giuliani Ricci, marito della cognata Franca, il G. assunse decisamente le redini del gruppo, e tuttavia la sua posizione di comando era basata unicamente sulla fiducia dei suoi parenti. Ricevette un riconoscimento formale solo nel 1985 con la presidenza della Ferruzzi finanziaria, la holding di famiglia che allora si quotò in Borsa.

La necessità di una guida forte era particolarmente motivata dal fatto che la morte del Ferruzzi coincise con una congiuntura economica internazionale che poneva in crisi alcuni basilari elementi della sua strategia. L'Europa aveva superato la condizione di inferiorità nel campo agroalimentare nei confronti dei grandi paesi d'Oltreoceano raggiungendo la piena autosufficienza: la convenienza a importare cereali si riduceva drasticamente, dato anche il netto rialzo del tasso di interesse negli Stati Uniti che creava gravi difficoltà a chi, come la Ferruzzi, doveva acquistare in dollari e attendere circa sei mesi per il pagamento in lire.

Il G. seppe muoversi con decisione e abilità. Ridusse progressivamente i volumi del commercio di cereali, che non esitò a vendere al ribasso (prevedendo un ulteriore calo di prezzo), e spostò il centro degli interessi del gruppo dall'America all'Europa, concentrandosi sull'industria. Tentò di realizzare una robusta agglomerazione nel settore cementiero progettando di ottenere il controllo del colosso francese Lafarge Coppé attraverso un'iniziativa dell'Unicem, ma non riuscì a convincere gli Agnelli a compiere questa operazione. Nel 1982 sciolse quindi l'alleanza con il gruppo torinese nel cemento, attuando un certo disimpegno da questo settore mentre puntava a espandersi in quello saccarifero. Approfittando della crisi dei maggiori concorrenti nazionali, Montesi (che in seguito assorbirà) e Maraldi, consolidò il predominio in Italia dell'Eridania, ne acquisì ulteriori quote da Attilio Monti e, forte delle azioni che questa possedeva nella Beghin Say, dal 1981 si impegnò nella conquista della grande società saccarifera francese, un obiettivo che raggiunse cinque anni dopo, ponendo così l'impresa di Ravenna al primo posto in Europa nel settore. In questa occasione il G. dimostrò una notevolissima capacità manovriera rovesciando la dura ostilità iniziale dei maggiori azionisti francesi, e in generale dell'ambiente economico e politico transalpino. Il G. riuscì a portare dalla sua parte sia George Garinois che guidava l'associazione dei bieticoltori, sia lo stesso presidente della Beghin Say, il banchiere Jean-Marc Vernes che da allora divenne un sicuro alleato. Non riuscì invece a superare le resistenze poste dall'establishment inglese che lo accusò di perseguire posizioni monopolistiche quando negli stessi anni provò ad acquisire il controllo di un altro protagonista dell'industria saccarifera europea, British Sugar. Molto maggior successo ebbe la campagna che convinse gli agricoltori italiani a produrre soia su vasta scala, attuata con il sostegno tecnico-scientifico della Ferruzzi i cui ricercatori seppero selezionare i semi adatti al territorio nazionale, ma anche con il supporto ottenuto dalla Comunità europea, che si impegnò a sovvenzionare metà del prezzo di ritiro della merce. Il gruppo di Ravenna rafforzò così ulteriormente il suo predominio in Italia nella lavorazione di olio di semi e farina di soia, un primato che alla metà degli anni '80 si aggiunse a quelli nello zucchero, nel calcestruzzo, nell'estensione della proprietà terriera, nel commercio dei cereali, tanto da apparire un gruppo agricolo, industriale, commerciale integrato, notevolmente ristrutturato e reso più compatto rispetto all'ultima fase di attività del fondatore.

Il G. si era circondato di un gruppo manageriale di tutto rispetto. Se Arturo Ferruzzi sovrintendeva alle proprietà fondiarie e Vittorio Giuliani Ricci alla logistica, emergevano dirigenti quali Rinaldo Panzavolta nel cemento, Renato Picco nello zucchero, Roberto Magnani e Sergio Cragnotti nella finanza. Un certo rilievo nell'ambito del gruppo acquisiva anche Carlo Sama, che del G. divenne poi cognato sposando Alessandra Ferruzzi, responsabile delle relazioni esterne. Si presentava, questa, come una funzione aziendale ormai importante per il G. che, superando la ferrea riservatezza del suocero, si concedeva ai mass media rendendo note le sue strategie imprenditoriali e, pure, manifestando la sua personalità e i suoi gusti (la grande passione per la barca a vela, utilissima per stabilire relazioni come quella con Edmond de Rothschild, che gli facilitò di molto la scalata alla Beghin Say; l'acquisto di lussuose dimore, quali il palazzetto di piazza Belgioioso a Milano o Cà Dario a Venezia). Tale atteggiamento non va visto come semplice ostentazione, poiché corrispondeva almeno in parte all'esigenza di visibilità del leader di un gruppo le cui maggiori aziende erano ormai quotate in Borsa. Notevole risonanza ebbe nel 1985 l'aumento di capitale per 620 miliardi di lire dell'Agricola finanziaria, un'operazione alla quale la famiglia Ferruzzi contribuì per la metà con il conferimento di società e tenute agricole, ma che portò denaro fresco da altri azionisti per più di 300 miliardi, un decimo tuttavia di quanto le imprese Ferruzzi, approfittando di un andamento molto favorevole del mercato, raccolsero in Borsa tra il 1985 e il 1987.

A questo punto la complicata struttura che il G. aveva disegnato può essere così delineata. Al vertice era collocata la Serafino Ferruzzi srl che controllava il 40% della Ferruzzi finanziaria, holding alla quale facevano riferimento l'Agricola industriale finanziaria armatoriale che conteneva le molteplici proprietà della famiglia all'estero, in particolare negli Stati Uniti, e la Agricola finanziaria, capofila delle attività industriali (tranne i cementifici che dipendevano direttamente dalla Ferruzzi finanziaria).

Certamente il G. non ebbe più alcun bisogno di promuovere la propria notorietà dall'ottobre del 1986 quando, inserendosi nell'aspra lotta per il controllo della Montedison fra il presidente della società Mario Schimberni e Mediobanca guidata da Enrico Cuccia, ne diventava il maggior azionista acquistando il 18% dei titoli.

Nonostante fosse la seconda impresa privata italiana dopo la FIAT (con 14.000 miliardi di fatturato e 22.000 dipendenti), sin dalla fondazione, avvenuta nel 1966, la Montedison non aveva conosciuto una guida stabile e una strategia ben definita. Nata da una fusione fra la Montecatini, la maggiore impresa chimica italiana, e la Edison, che vantava importanti esperienze nel settore, ma che soprattutto era florida per gli indennizzi che le derivavano dall'esproprio degli impianti elettrici (1962), già nei primi anni la Montedison stentava a trasformarsi in un organico complesso industriale, restando caratterizzata da doppioni e da settori (il minerario e la chimica di base) largamente in perdita. Enrico Cuccia, che della fusione era stato il principale ideatore, aveva promosso nel 1968, per rivitalizzare la società, la scalata della Montedison da parte dell'ENI allora presieduta da Eugenio Cefis, il quale, ottenuto il risultato, aveva nel 1971 abbandonato la guida dell'impresa pubblica per assumere quella della Montedison. Ma anche Cefis, troppo condizionato da vincoli di natura politica, aveva fallito l'obiettivo della razionalizzazione, abbandonando l'incarico nel 1977. Dopo una fase interlocutoria durante la quale la società era stata retta da un patto di sindacato fra l'ENI e i maggiori esponenti dell'imprenditoria privata, nel 1980 veniva designato alla presidenza Mario Schimberni - un manager di sicure capacità, protetto anch'egli da Enrico Cuccia - che nel 1981 riprivatizzava la Montedison organizzando l'acquisto delle quote dell'ENI da parte di Gemina, una holding presto definita "il salotto buono della finanza italiana": principali azionisti ne erano le famiglie Agnelli, Pirelli, Orlando, Bonomi e la stessa Mediobanca. Schimberni raddrizzò almeno parzialmente le sorti della Montedison e sembrò proporre una chiara politica aziendale, l'abbandono della chimica di base, la concentrazione su poche produzioni speciali e sulla chimica fine, lo sviluppo della finanza e del terziario avanzato. Non essendo Gemina disposta a fornirgli le risorse finanziarie necessarie a tali progetti, Schimberni si rivolse al mercato proclamando con vigore la sua fede nella grande impresa ad azionariato diffuso governata dal management (public company) e non esitò a scalare gli azionisti della Montedison: nell'estate del 1985 la Bi-Invest, la cassaforte dei Bonomi con partecipazioni in campo assicurativo, immobiliare, industriale e, l'anno successivo, la ricca compagnia d'assicurazione Fondiaria nella quale Mediobanca possedeva rilevanti interessi. All'inizio d'autunno del 1986 l'inimicizia fra Schimberni e l'establishment finanziario e industriale italiano - Gemina vendette le sue quote all'imprenditore milanese proprietario della Max Mayer, Gianni Varasi - appariva irrimediabile.

Fra l'ottobre del 1986 e il marzo dell'anno successivo (quando acquistò le azioni di Varasi), il G. portò la partecipazione dei Ferruzzi dal 18 al 40%, un limite che avrebbe dovuto garantirlo da qualsiasi rischio di scalata ostile. Per ottenere questo risultato spese poco meno di 2000 miliardi di lire, raccolti da tutte le società del gruppo, inclusa la Beghin Say, anche grazie a un ardito aumento di capitale lanciato in Borsa per 1100 miliardi. Il G. non si mosse certo per ristabilire l'ordine dei vecchi potentati dell'economia italiana. Anzi, i suoi primi massicci acquisti anticiparono inaspettatamente un'OPA (offerta pubblica d'acquisto) orchestrata da Cuccia con il sostegno del presidente dell'Olivetti, Carlo De Benedetti, e nel dicembre successivo rifiutò bruscamente la richiesta dell'anziano banchiere che, restato in minoranza nella Fondiaria, pretendeva una posizione paritaria con la Montedison nella scelta dell'amministratore delegato della compagnia d'assicurazione. Tuttavia il G. era anche poco incline ad accettare le posizioni di Schimberni circa la public company e, quando questi nell'autunno del 1987 per sostenere le produzioni speciali lanciò un aumento di capitale di 1000 miliardi di lire, ne bloccò l'iniziativa costringendolo a lasciare la presidenza.

Per il suo progetto Schimberni poteva godere dell'appoggio della banca statunitense Wertheim Schroeder, che si era dichiarata disposta a coprire l'intero aumento ponendo in difficoltà il G. che per la crisi borsistica scoppiata violentemente nell'ottobre del 1987 non poteva replicare, e avrebbe quindi visto indebolita nell'assetto proprietario la posizione della famiglia che rappresentava.

Il 4 dic. 1987 il G. assunse direttamente la presidenza della Montedison a proposito della quale dichiarava di perseguire una strategia di fondo, l'integrazione fra la chimica e le attività agroindustriali del gruppo Ferruzzi. In questa direzione poteva vantare la grande campagna iniziata nel 1985 negli Stati Uniti per l'introduzione dell'etanolo, un additivo in grado di sostituire il piombo nella benzina, ottenuto dalla trasformazione delle eccedenze agricole. Il G. aveva lottato duramente per immettere sul mercato questa sostanza che poteva risolvere sia problemi ambientali sia economici, ma come in altre occasioni gli era necessario il supporto della Comunità europea che invece, proprio nel novembre del 1987, pressata dalla potente lobby petrolifera, a cui non era estranea l'ENI, respinse il progetto. In ogni caso l'eredità di Schimberni non era negativa da un punto di vista economico-industriale. Ceduta all'ENI per 400 miliardi la produzione di etilene, parte cospicua della chimica di base, nel 1983, ai 320 miliardi di perdita di quell'anno corrispondevano gli utili di più di 400 del 1987, mentre anche attraverso adeguate alleanze e acquisizioni si erano raggiunti ottimi traguardi nelle produzioni di polipropilene (Himont), di ausiliari chimici (Ausimont), e si erano rafforzate quelle farmaceutiche (Erbamont). Di speciale rilievo era stata la costituzione di Iniziativa Meta, una holding che aveva incorporato le attività più promettenti, i grandi magazzini Standa, la Fondiaria, la Technimont (ingegneria e costruzioni), i fondi mobiliari. Ma a tutto ciò si contrapponeva il pesante indebitamento finanziario, 11.500 miliardi di lire di cui 4000 a breve scadenza, su un fatturato di 14.000 miliardi nel 1987. Del resto nello stesso anno la Ferruzzi non era in condizioni migliori se nel bilancio consolidato a un debito superiore ai 5000 miliardi corrispondeva un fatturato che non toccava i 6000.

Queste difficoltà erano anche il risvolto di una crescita del mercato borsistico (la capitalizzazione lorda di Borsa passa dai 24.000 miliardi del 1980 ai 142.000 del 1987) a cui molto aveva contribuito l'introduzione dei fondi comuni d'investimento, ma che era avvenuta in un contesto istituzionale ancora fragile, poiché erano tuttora assenti diversi strumenti normativi tipici di un capitalismo maturo, come la punizione dell'insidertrading, la regolamentazione della competizione, l'autorizzazione ai fondi pensionistici a operare in Borsa. Le piramidi societarie e l'ampia emissione di azioni di risparmio (senza diritto di voto) non contribuivano a creare un clima di stabilità e fiducia. E fra i grandi gruppi Ferruzzi era quello che subiva il maggior ridimensionamento se si considerava la capitalizzazione netta (eliminando cioè dal computo le partecipazioni infra gruppo), poco più di metà di quella lorda a testimonianza dell'estrema articolazione della sua struttura proprietaria.

La severa crisi dell'ottobre 1987 rese inevitabile il riavvicinamento fra Cuccia e il G., del resto reso più agevole dall'estromissione di Schimberni. Ormai privo del sostegno dei risparmiatori, per non restare schiacciato dalla sua conquista il G. non poteva che ricorrere a Mediobanca, di fatto indispensabile supporto della grande impresa nell'Italia degli anni Ottanta. All'inizio del 1988 Cuccia ideò un complesso piano di riassetto societario il cui nucleo centrale prevedeva la fusione fra Iniziativa Meta (ovvero le più redditizie attività della Montedison) e Ferruzzi finanziaria, così da dar vita a Ferfin, la nuova holding di controllo dell'intero gruppo, che a un patrimonio di 2000 miliardi di lire opponeva debiti per 1200, ma vantava anche partecipazioni per 3200. L'operazione recò consistente sollievo ai Ferruzzi, non mancarono però critiche all'ingegneria finanziaria di Cuccia, sia per i concambi, che apparivano troppo favorevoli alla famiglia ravennate, sia perché venivano danneggiati gli azionisti di Montedison, una società quotata in Borsa, che veniva depauperata di una delle componenti più pregiate. Insieme con l'attuazione del piano elaborato da Cuccia, vennero effettuate diverse cessioni: fra le più significative, quella della Standa, acquistata da S. Berlusconi, e di parte della quota detenuta nella Fondiaria, lasciata a Camillo De Benedetti, non a caso un finanziere in buoni rapporti con il capo di Mediobanca. E tuttavia restava pesante l'indebitamento di Montedison per la quale erano necessari 1300 miliardi l'anno di interessi passivi. Questa ragione, la scarsa omogeneità delle strutture produttive, il disinteresse del G. per la chimica di base lo spinsero a intavolare trattative nel corso del 1988 con il presidente dell'ENI, F. Reviglio, per dar vita a un'azienda comune alla quale conferire gli impianti per le produzioni chimiche di base, le fibre, gli elastomeri e i prodotti per l'agricoltura, premessa ineludibile per ottenere adeguate economie di scala che in quei comparti nessuno dei due gruppi da solo poteva raggiungere. Nacque così nel gennaio del 1989 l'Enimont, un'impresa chimica che poteva collocarsi fra le prime dieci del mondo con 14.000 miliardi di fatturato e 20.000 dipendenti, ma che consentiva anche al G. di liberarsi di 4000 miliardi di debiti e, al tempo stesso, di conservare la parte migliore della Montedison, poiché le produzioni di polipropilene, i derivati del fluoro e la farmaceutica non entrarono a far parte dell'Enimont.

L'accordo presentava tuttavia due punti deboli. Innanzitutto il governo si era impegnato con il G. - che in questo senso era stato anche rassicurato nel dicembre 1988 dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga - a fare approvare una legge che consentisse l'abbattimento degli oneri fiscali (1200 miliardi) sulle plusvalenze derivanti alla Montedison dalla fusione (l'ENI usufruiva in questo campo di una vecchia normativa in suo favore). Ma in Parlamento il decreto legge emanato dal governo non ottenne mai la maggioranza. In secondo luogo l'intesa prevedeva che ENI e Montedison possedessero ciascuna il 40% della nuova società e il restante 20% fosse posto sul mercato, con il patto che i soci non ne approfittassero per alterare la pariteticità. Quando, però, nell'ottobre del 1989 il titolo esordì in Borsa, Varasi e Vernes (ormai sodali del G.) e la banca d'affari americana Prudential Bache, che spesso operava per lui negli Stati Uniti, iniziarono ad acquistarne quantità tali da squilibrare di fatto i rapporti.

La vicenda Enimont si trascinò quindi per quasi due anni fra polemiche e scontri di ogni genere finché il 22 nov. 1990 la Montedison cedette all'ENI il suo 40% per 2805 miliardi di lire, una somma che a molti parve eccessiva. Va detto però che a fine settembre il CIPI (Comitato interministeriale per la programmazione industriale) aveva posto al compratore vincoli sulla localizzazione degli investimenti e sulla nazionalità del capitale che il G., il quale pure aveva dichiarato più volte spavaldamente di volere e di essere in grado di acquistare l'intera Enimont, giudicava inaccettabili.

Due anni dopo, il processo al finanziere Sergio Cusani, uomo di fiducia del G., rivelerà aspetti inquietanti quanto facilmente immaginabili dell'"affare" Enimont. Emerse che in realtà era stato Giuseppe Berlini, gestore in Svizzera della finanza extracontabile del gruppo Ferruzzi, per ordine del G. a rastrellare l'8,8% delle azioni Enimont poste sul mercato per poi affidarle a Vernes e alla Prudential Bache. Vari testimoni ammisero inoltre il versamento di diverse decine di miliardi ai partiti politici sia per il decreto sulle plusvalenze sia per lo scioglimento della società. Nella sua deposizione (10 novembre 1993) Berlini accennò anche a una errata speculazione sulla soia condotta alla Borsa di Chicago nel 1989 che sarebbe costata alle società del gruppo la perdita di più di 300 milioni di dollari.

La vendita delle azioni Enimont rappresentò una frattura nel percorso imprenditoriale del Gardini. Deluso dal comportamento di politici e finanzieri - ruppe clamorosamente l'antico rapporto con la Banca commerciale italiana -, abbandonò tutte le cariche operative in Italia, mantenendo solo la presidenza della Serafino Ferruzzi srl, mentre il figlio Ivan Francesco assumeva quella della Ferfin. Ma qualcosa si incrinò anche nei rapporti con la famiglia Ferruzzi. Nei mesi seguenti il G. presentò un progetto di allargamento della Serafino Ferruzzi srl ai più importanti membri del management, fra i quali includeva se stesso, e ai giovani della terza generazione. I cognati percepirono la proposta come una manovra per rafforzare il suo comando ed escluderli da qualsiasi potere decisionale e, in un consiglio d'amministrazione della società a responsabilità limitata, l'11 giugno 1991 gli tolsero la loro fiducia. Nell'agosto successivo il G. uscì dal gruppo con 505 miliardi di lire ottenuti come liquidazione della quota di sua moglie, una somma che investì in campo alimentare spostando però il tiro sui prodotti di consumo e alleandosi ancora con Vernes nella Société centrale d'investissements e con Giulio Malgara, un dirigente della Quaker Oats Italia, insieme con il quale fondò la Garma.

La popolarità del G. toccò l'apice nel maggio del 1992 quando l'imbarcazione da lui allestita, il "Moro di Venezia", disputò a San Diego in California la finale di una delle più antiche e prestigiose competizioni velistiche del mondo, l'America's Cup. Non mancarono tuttavia coloro i quali fecero osservare che la somma spesa dalla Montedison per finanziare l'iniziativa, circa 250 miliardi di lire, fosse troppo gravosa per una società non certo florida.

Il 4 giugno 1993 venne dato l'annuncio che il gruppo Ferruzzi, ormai guidato da Carlo Sama, non era più in grado di rispettare gli obblighi coi fornitori; il controllo passò a un comitato di cinque banche, e la famiglia Ferruzzi uscì completamente di scena. Intanto tutti i massimi dirigenti del gruppo venivano sottoposti a indagine nell'ambito dell'inchiesta "mani pulite" per l'affare Enimont. Dal carcere di Opera, presso Milano, trapelarono stralci della deposizione di Giuseppe Garofano - succeduto al G. nella presidenza della Montedison dopo essere stato fra i suoi più vicini collaboratori -, nella quale questi veniva accusato di gravi scorrettezze e irregolarità. Prima che potesse essere convocato dal magistrato inquirente il G. si suicidò con un colpo di pistola alla tempia il mattino del 23 luglio 1993 nella sua casa milanese di piazza Belgioioso.

Il G. aveva cercato di imprimere all'impero Ferruzzi, che le circostanze gli avevano affidato, il sigillo "Gardini", di dimostrare alle dinastie imprenditoriali, per le quali rimaneva "il contadino", di saper rischiare e costruire. Guascone, irridente, sicuro di sé, insofferente delle regole, preferì scomparire piuttosto che vedere mortificata la sua immagine.

Fonti e Bibl.: Il G. ha pubblicato un volume autobiografico, A modo mio, a cura di C. Peruzzi, Milano 1991, di grande vivacità e interesse. Naturalmente va confrontato con un profilo molto meno benevolo come quello di M. Borsa, Capitani di sventura, Milano 1992, pp. 132-161. Interessanti sono i lavori giornalistici di C. Peruzzi, Il caso Ferruzzi, Milano 1987; C. Pizzinelli, Gardini. Il "Contadino" alla conquista della Borsa, Roma 1988; G. Turani - D. Rattazzi, R. G., Milano 1990; S. Cingolani, Le grandi famiglie del capitalismo italiano, Roma-Bari 1990, pp. 203-224. La ricostruzione di un economista è invece G.C. Bianco, Il gruppo Ferruzzi, Roma 1988. Sull'Enimont si veda: Atti parlamentari, Camera dei deputati, X legislatura, Documenti, Indagine conoscitiva n. 18, Roma 1992; A. Pamparana, Il processo Cusani, Milano 1994, oltre a Tribunale di Milano, V sezione penale, La maxitangente Enimont, Milano 1997. Per cogliere il clima nel quale il G. aveva iniziato a operare si veda Il "miracolo economico" a Ravenna, a cura di P.P. D'Attorre, Ravenna 1994, in particolare pp. 11-48, 135-208. Sulla Montedison e più in generale sulla chimica italiana nel periodo in cui il G. fu protagonista: A. Marchi - R. Marchionatti, Montedison 1966-1989, Milano 1992 e G.F. Lepore Dubois - C. Sonzogno, L'impero della chimica, Roma 1990. Per inquadrare la vicenda del G. nel più vasto ambito dell'evoluzione del grande capitalismo italiano contemporaneo, G. Bruno - L. Segreto, Finanza e industria in Italia (1963-1995), in Storia dell'Italia repubblicana (Einaudi), III, Torino 1996, pp. 444-694; F. Amatori - F. Brioschi, Le grandi imprese private: famiglie e coalizioni, in Storia del capitalismo italiano, a cura di F. Barca, Roma 1997, passim, in partic. pp. 133-150. Informazioni analitiche sulla struttura economico-finanziaria del gruppo Ferruzzi sono riportate a partire dal 1980 nell'annuario pubblicato dalla società Ricerche & Studi.

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