Rapporti tra processo tributario e procedimento penale

Il Libro dell'anno del Diritto 2016

Rapporti tra processo tributario e procedimento penale

Marco Di Siena

Ancorché la cosiddetta riforma del diritto penale tributario sia entrata in vigore da tempo e non si registrino specifiche innovazioni normative circa la regola di autonomia fra le sorti del procedimento penale e quelle del processo tributario (il cosiddetto principio del doppio binario), l’interazione fra i due percorsi costituisce sempre più spesso motivo di difficoltà teoriche e di complicazioni pratiche. Una tale situazione è ascrivibile allo stesso modulo punitivo di cui al d.lgs. 10.3.2000, n. 74 che, abbandonato l’archetipo dei cosiddetti reati prodromici, ha delineato una (quasi) totale sovrapposizione dell’oggetto della repressione penale e dell’azione accertativa (e, quindi – in via mediata – dell’oggetto del processo tributario). Un fenomeno idoneo a generare difetti di percezione e criticità interpretative che il presente contributo mira ad illustrare alla luce di alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali e di talune modifiche normative che ne condizionano l’operatività.

La ricognizione

Il vigente assetto delle relazioni fra il procedimento penale ed il processo tributario appare, prima facie, stabile e frutto di un’impostazione concettuale che è lecito definire come ormai sedimentata. Per un verso, l’art. 20 del d.lgs. 10.3.2000, n. 74 e gli artt. 3 e 479 c.p.p. sanciscono la reciproca autonomia fra le vicende accertative e processuali tributarie ed il procedimento penale (salvo permettere un transito del materiale istruttorio dalle une all’altro e viceversa1) e, per altro verso, è pacifica l’impossibilità di ravvisare nel giudicato penale un quid che risulti vincolante ai fini della definizione della fattispecie impositiva. Si tratta, come detto, di un’impostazione ormai tradizionale e che caratterizzava anche il pregresso assetto della l. 7.8.1982, n. 516 la quale – nel presupposto dell’inefficienza e vischiosità di quella forma di pregiudizialità tributaria sancita dall’art. 21 della l. 7.1.1929, n. 4 – aveva attuato una rigida autonomia dei relativi procedimenti e dei conseguenti processi (l’uno autonomo rispetto all’altro quanto alle modalità di avvio ed alla relativa tempistica ed entrambi non sospendibili per l’eventuale contestuale pendenza dell’altro). Residuava, peraltro, nell’impostazione propria della l. n. 516/1982 una possibile valenza vincolante del giudicato penale quanto all’accertamento dei fatti materiali come affermata dall’art. 12 di tale testo.

La successiva evoluzione normativa (e, in particolare, l’entrata in vigore nel 1988 dell’art. 654 c.p.p. recante la disciplina degli effetti del giudicato penale nei procedimenti di natura amministrativa e civile), tuttavia, aveva eliminato anche questo possibile residuo di vincolatività esterna. Secondo una giurisprudenza di legittimità sempre confermata2 (sebbene al riguardo fossero state espresse da parte della dottrina alcune perplessità3), infatti, le limitazioni al regime probatorio caratterizzanti il processo tributario impedivano in radice al giudicato penale di esplicare efficacia vincolante in ambito impositivo (quand’anche con esclusivo riferimento all’accertamento dei fatti materiali). Il d.lgs. n. 74/20004, quindi, si è in qualche modo limitato a razionalizzare l’esistente enfatizzando ulteriormente la reciproca autonomia dei procedimenti e dei processi nel presupposto che tale criterio non generi particolari antinomie come dimostrato dall’esperienza (almeno in tale caso non del tutto negativa) della l. n. 516/1982. Questa, quindi, la situazione attuale che, come anticipato, parrebbe sostanzialmente stabile. In realtà, la recente evoluzione giurisprudenziale e normativa offre più di un’occasione per riflettere (talvolta in modo critico) su questa apparentemente pacifica impostazione.

La focalizzazione

In termini di sintesi, non è del tutto errato affermare che il principio della rigida separatezza del procedimento penale e del processo tributario (sintetizzato con l’efficace metafora di doppio binario) vive attualmente un momento di crisi5.

Non si tratta della negazione del principio sistematico che, come detto, resta intatto a livello legislativo ma di una serie di micro-interventi di natura giurisprudenziale e legislativa che ne incrinano la razionalità.

2.1 Il controverso rapporto in tema di imposta evasa

Un primo elemento segnaletico dell’evidenziato stato di crisi è rappresentato dall’interazione fra il procedimento penale ed il processo tributario con riguardo alla nozione penalistica di imposta evasa che è chiaramente conformata sulla scorta del concetto tributario di imposta dovuta. Come noto, il nucleo centrale dell’assetto delineato dal d.lgs. n. 74/2000 è rappresentato dai delitti dichiarativi per i quali il superamento della soglia di punibilità commisurata all’imposta evasa6 assume rilievo dirimente. Si viene così a creare un’evidente sovrapposizione fra i due ambiti procedimentali e processuali che – seppure con dinamiche differenti – tendono ad accertare lo stesso evento (vale a dire il quantum dell’obbligo tributario). In questo contesto, la soluzione del doppio binario mostra limiti che la differente struttura della l. n. 516/1982 (incentrata, come era, sulla penalizzazione delle condotte prodromiche) non determinava. La sostanziale identità dell’oggetto dell’accertamento giudiziale, infatti, rende poco coerente il criterio della totale separatezza e costringe a difficili coordinamenti operativi in punto di fatto7 il cui buon esito, tuttavia, non è sempre assicurato. In dottrina, pertanto, si è spesso cercato di affermare (ad onore del vero sulla scorta di percorsi metanormativi) il carattere vincolante a fini penali della determinazione tributaria dell’imposta evasa. Un’affermazione così radicale è, chiaramente, estranea al vigente ordito normativo e, per tale motivo, non ha mai trovato effettivo accoglimento8. È da segnalare, tuttavia, che mentre l’influenza dell’esito del processo tributario sul contiguo procedimento penale è stata costantemente negata, un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità9 – pur non affermando tour court la natura vincolante della determinazione accertativa del quantum evaso – afferma la necessità che un eventuale differente apprezzamento (in astratto possibile) dell’imposta evasa da parte del giudice penale debba formare oggetto di adeguata motivazione; e ciò sulla scorta di puntuali elementi fattuali che rendano la stima penalistica più attendibile di quella operata dallo stesso Ufficio accertatore. Si tratta di un’affermazione che – pur escludendo un impossibile recupero di forme di pregiudizialità tributaria – deve fare riflettere su quali possano essere gli eccessi del doppio binario; un principio che, ove enfatizzato o comunque quando vi sia sostanziale identità di thema decidendum, rischia di ingenerare confusione e può porre seriamente in crisi il corretto funzionamento del sistema nel suo complesso.

2.2 Il raddoppio dei termini di accertamento

Con una sentenza10 tanto articolata quanto contestata dalla dottrina11, la Corte costituzionale ha di recente affermato la legittimità della previsione normativa che prevede il cosiddetto raddoppio dei termini per l’esercizio dell’attività accertativa quando vi sia l’obbligo di denunziare un delitto disciplinato dal d.lgs. n. 74/200012; una legittimità ravvisata anche nell’ipotesi in cui, all’inizio delle operazioni ispettive, il periodo d’imposta interessato non sia formalmente accertabile per intervenuta decadenza dei suddetti termini. Si tratta di un istituto complesso (a maggiore ragione ove consente la cosiddetta riapertura dei termini di accertamento relativi ad annualità ormai definite) che appare segnaletico di un’ulteriore criticità dei rapporti fra il procedimento penale ed il processo tributario. Secondo l’orientamento della Corte costituzionale, infatti, la ratio sottesa alla peculiare disciplina sarebbe da ravvisare nell’esigenza di garantire all’Amministrazione finanziaria un più ampio lasso temporale per sviluppare a fini impositivi elementi concernenti fatti la cui rilevanza penale testimonierebbe il maggiore allarme sociale. Più chiaramente, la gravità della condotta legittimerebbe il prolungamento della tempistica di accertamento13. Se così è, tuttavia, è abbastanza evidente la lesione del principio del doppio binario che – come detto – rappresenta tuttora il nucleo fondamentale della dinamica relazionale fra il procedimento penale ed il processo tributario. L’istituto in commento, infatti, finisce per introdurre un meccanismo di dipendenza funzionale del procedimento accertativo e del processo tributario dal procedimento penale (recte da un atto di tale procedimento qual è la denunzia ex art. 331 c.p.p.) sancendo così un’interdipendenza che appare estranea al sistema. Si stabilisce cioè una sorta di cripto-dipendenza delle vicende tributarie da quelle criminali basata sull’implicito primato del rito penale la cui semplice attivazione (o potenziale attivazione secondo l’interpretazione della Corte costituzionale) è considerata circostanza indicativa della maggiore gravità dei fatti investigati e, quindi, idonea a legittimare la proroga dell’azione accertativa. Una siffatta soluzione, tuttavia, è contraddittoria sotto più profili. In prima istanza, infatti – una volta affermata a livello legislativo l’autonomia dei relativi procedimenti e processi ancorché gli stessi siano interdipendenti sui fatti (l’accertamento del quantum dell’obbligo tributario) e nei fatti (seppure valutati con dinamiche probatorie differenti il materiale istruttorio è sostanzialmente identico) tanto da escludersi ogni effetto vincolante per il giudicato penale – la legittimazione del prolungamento dei termini configura una evidente contraddizione. Il carattere asistematico di tale istituto (rispetto all’affermato criterio del doppio binario), peraltro, è viepiù evidente ove se ne considerino alcuni profili apparentemente minori. Il concreto primato attribuito al procedimento penale (inteso come capacità d’incidere sulle sorti della vicenda impositiva), infatti, si fonda su basi poco solide. Ciò che legittima il raddoppio (la denunzia di un reato ex d.lgs. n. 74/2000) costituisce un evento, al tempo stesso, troppo rigoroso e troppo poco ragionevole in un assetto formalmente ispirato al criterio della reciproca autonomia. È troppo rigoroso perché la denunzia rappresenta il mero incipit del procedimento penale, un adempimento che prescinde da una valutazione complessiva della fattispecie criminosa e si focalizza sul solo elemento oggetto dell’illecito (il che fa sì che una denunzia, in esito alla valutazione del pubblico ministero, possa anche non essere mai iscritta nel registro ex art. 335 c.p.p. non dando mai luogo ad un procedimento penale; una circostanza intrinsecamente contraddittoria rispetto alla ratio dell’istituto elaborata, come detto, in termini di maggiore allarme sociale connesso ai fatti-reato). È, ugualmente, troppo rigoroso perché l’effetto di raddoppio presuppone – almeno secondo la Corte costituzionale – l’insorgere dell’obbligo di cui all’art. 331 c.p.p. senza, tuttavia, che rilevi alla circostanza che la denunzia sia stata realmente presentata (di talché una denunzia meramente virtuale – ossia mai formalizzata come tale ma di cui, ex post, l’Amministrazione finanziaria ne dovesse ravvisare l’obbligatorietà ha – sotto questo profilo – il medesimo effetto di una denunzia reale). È, ancora, troppo rigoroso perché – una volta che, come fa la Corte costituzionale, la ratio del raddoppio sia individuata nell’intrinseca maggiore gravità dei fatti costituenti reato – l’irrilevanza degli esiti della denunzia sul procedimento e sul processo tributario appare del tutto ingiustificata; in tal modo, infatti, si finisce irrazionalmente per attribuire significato dirimente ad una nozione di gravità di carattere astratto ed elaborata in vitro laddove l’esito della vicenda penale (si pensi ad un provvedimento di archiviazione o ad una sentenza di assoluzione con formula perché il fatto non sussiste) ben potrebbe dimostrare la totale carenza di gravità in concreto del fatto denunziato14. Sotto altro profilo, invece, l’istituto del raddoppio risulta – come anticipato – troppo poco ragionevole ove declinato nella prospettiva di un rigoroso sistema di doppio binario quale dovrebbe essere ancora, a norma di legge, quello vigente. Se è vero, infatti, che i relativi procedimenti e processi sono tali che addirittura lo stesso giudicato penale non esplica alcuna efficacia vincolante a fini impositivi ai sensi dell’art. art. 654 c.p.p. (potendo la relativa sentenza rilevare quale mero elemento di convincimento del giudice tributario15), la circostanza che il solo evento genetico del procedimento penale (la richiamata notitia criminis) possa cagionare una modifica della tempistica di accertamento (peraltro definitiva in quanto insensibile alle successive evoluzioni del procedimento penale) è senz’altro indicativa di un sostanziale disequilibrio del sistema. Delle due, infatti, l’una: o esiste realmente un meccanismo di doppio binario (al di là della sua condivisibilità concettuale) e, allora, i relativi procedimenti devono restare reciprocamente ed effettivamente indifferenti senza che la certezza del rapporto tributario ed il diritto di difesa del contribuente possano essere compressi; ovvero la scelta strategica della rigida autonomia deve forse essere rivista nell’ottica di un’attenuazione della stessa. In tale contesto ciò che appare veramente insoddisfacente è proprio l’opzione larvatamente ibrida delineata con il regime del raddoppio dei termini; un istituto che – senza apparentemente incidere sulla separazione procedimentale e processuale causa una surrettizia dipendenza dell’ambito tributario da quello penale e per di più identificando come elemento genetico di tale dipendenza un evento – la denunzia – dal contenuto necessariamente approssimativo e così evanescente da rappresentare poco più che un simulacro (considerato che, come evidenziato, l’effetto di proroga – secondo l’orientamento della Corte costituzionale – prescinderebbe dalla concreta presentazione della notitia criminis limitandosi a presupporre l’obbligatorietà dello specifico adempimento). Su tali basi, quindi, è agevole affermare come – una volta assunta la decisione di incrinare il rigore del doppio binario – si sarebbe reso necessario stabilire un migliore raccordo introducendo, ad esempio, un riferimento (quanto meno) al momento di effettivo esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero16 ed escludendo così la necessità – pure prefigurata dalla Corte costituzionale nella richiamata pronunzia – di un (improbabile e tecnicamente difficile) vaglio da parte del giudice tributario circa l’effettiva sussistenza dei presupposti fattuali dell’obbligo di denunzia. In tal modo si sarebbe garantito al regime in commento una maggiore stabilità ed una più solida coerenza con la ratio di riferimento; entrambe caratteristiche che non sono invece ravvisabili nell’istituto in argomento e ne fanno una disciplina di palese favor per l’Amministrazione finanziaria, dall’opinabile ragionevolezza (nonostante il positivo giudizio espresso dalla Corte costituzionale) e, soprattutto, incoerente con il menzionato principio di doppio binario che pure continua a rappresentare il formale criterio che presiede all’interazione fra procedimenti e processi di diversa natura aventi ad oggetto la determinazione quantitativa dell’obbligo tributario17.

2.3 L’indeducibilità dei costi da reato

Ugualmente confermativa di un’ormai evidente crisi delle relazioni fra procedimento penale e processo tributario è la disciplina dell’indeducibilità dei costi da reato18. L’affermazione può forse apparire paradossale visto che la recente l. 26.04.2012, n. 44 ha sensibilmente modificato tale regime nel tentativo di smussarne le principali incoerenze e di elidere alcuni dei profili di censura su cui la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunziarsi con riguardo alla pregressa formulazione della disposizione19. La verità, tuttavia, è che questo istituto – ai fini di cui trattasi – pone tematiche così radicali che eventuali modifiche della sua sola dinamica attuativa (pur significative come quelle introdotte dalla l. n. 44/2012) non sono ex se risolutive. V’è, infatti, un profilo critico di ordine preliminare rappresentato dalla circostanza che la prefigurata indeducibilità non ha alcuna reale ratio tributaria20 essendo oggettivamente difficile ravvisare nella mera realizzazione di un reato un indice di capacità contributiva. Anche in esito alla recente riformulazione normativa – tesa ad abbandonare un approccio da sanzione fiscale impropria a fronte della commissione di un illecito penale per fare della prescritta indeducibilità una sorta di presunzione legale di non inerenza di natura endo-tributaria – lo specifico regime risulta tendenzialmente svincolato dalla reale forza economica del contribuente e potenzialmente discriminatorio (e come tale lesivo dell’art. 3 Cost.). Basti pensare all’ipotesi del contribuente il quale realizzi l’attività delittuosa di esercizio abusivo di una professione liberale. Questi sarà assoggettabile a tassazione al lordo (non potendo dedurre alcun costo) laddove le regole di determinazione del reddito derivante dall’esercizio della professione sono quelle tipiche dei redditi cosiddetti netti. È allora condivisibile quanto affermato in dottrina e cioè che il legislatore della l. n. 44/2012 – più che riformare – avrebbe dovuto abrogare tout court lo specifico istituto21 perché lo stesso espone al rischio della tassazione di una ricchezza inesistente e ciò in contraddizione con l’art. 53 Cost. La scelta legislativa, invece, è stata quella di un tentativo di fine tuning dell’istituto articolato: a) sull’esclusione dall’ambito della relativa disciplina dei reati di natura contravvenzionale; b) su di una più puntuale individuazione dei costi potenzialmente indeducibili che sono stati limitati a quelli direttamente strumentali al compimento del delitto22; c) sull’attribuzione di rilievo sistematico all’esercizio dell’azione penale venendosi così a superare il pregresso regime che correlava l’indeducibilità alla mera qualificazione della condotta in termini di reità in sede di notitia criminis; d) sull’introduzione di un meccanismo di rimborso nell’ipotesi in cui il procedimento penale dovesse concludersi con una pronunzia assolutoria (purché non motivata sull’intervenuta prescrizione del delitto) ovvero con una sentenza di non luogo a procedere. Anche così modificato, tuttavia, l’istituto – non solo – non risolve tutte le perplessità nel tempo sollevate dalla dottrina ma, per quanto attiene specificamente ai rapporti fra procedimento penale e processo tributario, ne alimenta di nuove. Il criterio del doppio binario, infatti, subisce un’ulteriore importante erosione. L’esercizio dell’azione penale viene assunto a fatto genetico del procedimento di accertamento e del processo tributario e l’esito della vicenda criminale esplica efficacia su quella impositiva imponendo, in caso di soluzione favorevole all’imputato, l’obbligo di rimborso delle somme dallo stesso medio tempore corrisposte. Fra questi due momenti che presentano elementi di palese interazione dialettica le rispettive procedure restano, tuttavia, autonome e prive di coordinamento. Il che non può che suscitare dubbi. Una volta delineata una forma d’interazione iniziale e finale, infatti, vi sarebbe forse stato spazio per una soluzione differente. Si è, per converso, optato per mantenere in apparenza saldo il principio della separazione senza curarsi della differente tempistica che presiede ai differenti processi (tendenzialmente più rapido, almeno nelle fasi di merito, quello tributario rispetto al rito penale) e senza valorizzare l’esperienza (non positiva) del coordinamento fra i due procedimenti in tema di definizione dell’imposta evasa. Il risultato che ne è scaturito è un condizionamento reciproco e circolare del tutto extra ordinem in un sistema che si vorrebbe ispirato da un criterio di rigoroso doppio binario. Il fatto generatore del procedimento tributario, infatti, non ha nulla di fiscale e ciò, sotto molti profili, rende difficile l’istruzione stessa di un’adeguata difesa in campo impositivo dissuadendo dalla presentazione del ricorso (se l’azione penale è stata esercitata, infatti, la pretesa accertativa si giustifica ex se) e favorendo sensibilmente l’opzione dell’acquiescenza (per la riduzione percentuale della misura delle sanzioni amministrative ad essa connessa). La prescritta indeducibilità, di contro, ha effetti antitetici in ambito penale incentivando a coltivare il processo e ciò in quanto da una eventuale pronunzia assolutoria può scaturire un immediato effetto di annullamento dell’accertamento. Sino al termine del rito penale, tuttavia, l’esecuzione della pretesa può avere effetti pecuniari irreversibili a fronte dei quali l’istituto non offre alcun rimedio a causa dell’impossibilità di sospendere il processo tributario in ragione della contestuale pendenza di quello penale. Lo scenario che scaturisce dal rinnovato regime dell’indeducibilità dei costi da reato non è, quindi, particolarmente soddisfacente. L’istituto delinea una situazione in cui profili penali e quelli tributari si sovrappongono scompostamente in un contesto di apparente autonomia procedimentale e processuale che rischia in tal modo di essere sempre più un contenitore formale sprovvisto di adeguato contenuto sostanziale.

I profili problematici

Le considerazioni sin qui svolte, pur nella propria eterogeneità, danno conto di quanto sia ormai profonda la crisi del regime di doppio binario. La circostanza appare viepiù significativa nella misura in cui tale situazione – contrariamente a quanto avviene di solito – è solo in parte l’esito di un’evoluzione di natura giurisprudenziale. È soprattutto il legislatore, infatti – con interventi la cui ratio è identificabile in un atteggiamento di spiccato favor nei confronti dell’Amministrazione finanziaria – che sta contribuendo a generare ibridazioni e sovrapposizioni fra il procedimento penale ed il processo tributario.

Ciò che è grave, peraltro, è che un siffatto fenomeno viene realizzandosi secondo una dinamica normativa speciale la quale non nega mai formalmente l’assetto generale della reciproca separazione procedimentale e processuale; alla formale autonomia dei due ambiti, tuttavia, corrisponde sempre meno una reale indipendenza degli stessi. Sulla base di tali premesse è logico, quindi, chiedersi se il criterio dell’autonomia adottato in occasione della riforma del diritto penale tributario del 2000 (principalmente per effetto imitativo della l. n. 516/1982) rappresenti tuttora una scelta efficace e rispondente alle esigenze del sistema. E la risposta a tale quesito (evidentemente di segno negativo) rischia di risolversi in una vivace critica tanto alle scelte sottese in parte qua al d.lgs. n. 74/2000 quanto alla successiva evoluzione normativa. Quest’ultima, infatti – come evidenziato – appare indirizzata più da esigenze contingenti che da una reale visione d’insieme rischiando così di ridurre il principio del doppio binario ad un mero orpello formale suscettibile di cripto-deroghe ogni qualvolta appaia necessario per giustificare regimi in favorem Fisci. L’esperienza dimostra, tuttavia, che il vizio principale è forse di natura genetica essendo ravvisabile nella scelta legislativa – adottata in maniera forse un po’ meccanica in occasione della riforma dell’assetto penale tributario del 2000 – di riprodurre la rigorosa autonomia procedimentale e processuale in un contesto profondamente mutato. Fino a quando i due ambiti (amministrativo e penale) avevano ad oggetto profili differenti (l’accertamento del tributo evaso, da un lato, e le condotte cosiddette prodromiche all’evasione, dall’altro) l’affermata separatezza non incontrava, infatti, alcuna controindicazione concettuale. Una volta focalizzata la disciplina criminale sul fatto evasivo, di contro, il mantenimento anodino di un radicale regime di doppio binario (con il rischio di divergenza quanto agli esiti delle procedure) diviene portatrice di un’intrinseca criticità. La circostanza che, all’epoca, le perplessità manifestate al riguardo non siano state prese in considerazione e si sia optato per una replica dello status quo fissato dalla l. n. 516/1982 rappresenta un elemento di debolezza fisiologica a cui varrebbe la pena che si ponesse rimedio in sede di attuazione della legge delega per la riforma del sistema fiscale elaborata dal gabinetto Monti.

Note

1 In tal senso si veda l’art. 23 del d.lgs. n. 74/2000 nonché l’art. 37, co. 31, del d.l. 4.7.2006, n. 223 il quale ha esteso gli obblighi di comunicazione (già) sanciti dall’art. 36 del d.P.R. 29.9.1973, n. 600 anche agli organi della magistratura penale.

2 Ex multis si veda Cass., 12.2.2001, n. 1945.

3 Le perplessità interpretative sollevate in dottrina si incentravano principalmente sul principio generale sancito dall’art. 4 l. 20.3.1865, n. 2248 allegato E che imporrebbe agli organi amministrativi di adeguarsi al giudicato allorquando la vicenda contenziosa abbia ad oggetto i medesimi fatti materiali.

4 A cui si deve anche l’abrogazione espressa del citato art. 12 l. n. 516/1982 in precedenza giudicato abrogato in maniera implicita dalla giurisprudenza in ragione della sua incompatibilità con l’art. 654 c.p.p.

5 E ciò sebbene, anche di recente, la Corte costituzionale abbia avuto modo di ribadire la legittimità del principio di separatezza del procedimento penale e del processo tributario e del criterio di non sospendibilità del secondo in pendenza del primo; si veda C. cost., 24.11.2010, n. 335.

6 Cfr. art. 1, co. 1, lett. f) del d.lgs. n. 74/2000.

7 Ne costituiscono prova evidente le indicazioni contenute nella circ. n. 1/2008 della Guardia di Finanza (Istruzione sull’attività di verifica – volume III – parte VII) le quali tendono a rendere stringente il coordinamento fra la determinazione amministrativa dell’imposta dovuta ed il procedimento penale avente ad oggetto la fattispecie dichiarativa.

8 Per un’analisi dell’attuale stato delle interazioni fra procedimento penale e processo tributario cfr. Nicotina, L., Le interferenze tra processo tributario e processo penale: pregiudizialità, autonomia o coordinazione critica, in Riv. dir. trib., 2010, II, 455 ss.

9 Cfr. Cass., 14.2.2011, n. 5640.

10 Cfr. C. cost., 25.7.2011, n. 247.

11 Per tutti si vedano le considerazioni di Marello, E., Il raddoppio dei termini per l’accertamento al vaglio della Corte costituzionale, in Rass. trib., 2011, 1296 ss.

12 Si tratta delle note modifiche introdotte nella formulazione degli artt. 43 del d.P.R. 29.9.1973, n. 600 e 57 del d.P.R. 26.10.1972, n. 633 ad opera dell’art. 37, co. 25, del d.l. 4.7.2006, n. 223.

13 Va precisato come, in realtà, prima della pronunzia della Consulta – sulla base della stessa relazione governativa al d.l. n. 223/2006 – la ratio dell’istituto del raddoppio fosse ravvisata nella necessità da parte dell’Amministrazione finanziaria di disporre di un maggiore lasso temporale per sviluppare gli elementi emersi in sede d’istruttoria penale. Sul carattere (ugualmente opinabile) di tale possibile giustificazione dell’istituto si rinvia a Zoppini, G., Il raddoppio dei termini per l’accertamento, ovvero nuove ipotesi borgesiane di decadenza dell’azione della finanza, in Riv. dir. trib., 2008, I, 669 ss.

14 È di tutta evidenza, infatti, che in termini logici la gravità del fatto reato o è sempre giustificativa di un’incidenza del procedimento penale su quello amministrativo (come lo è – in fase iniziale – per quanto attiene alla legittimazione dell’effetto di raddoppio ma dovrebbe esserlo anche in fase finale – per quanto attiene all’esito del procedimento che, peraltro, potrebbe anche essere archiviato in apicibus) oppure non lo è mai.

15 Ex multis, cfr. Cass., 30.12.2009, n. 27954.

16 Non appare casuale che la recente modifica legislativa del regime dei costi da reato individui nell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero l’ineludibile presupposto affinché possa essere contestata l’indeducibilità.

17 Cfr. Marello, E., Raddoppio dei termini per l’accertamento e crisi del doppio binario, in Riv. dir. trib., 2010, III, 85 ss.

18 Cfr. art. 14, co. 4-bis, l. 24.12.1993, n. 537.

19 In tal senso si rinvia alle argomentazioni dell’ordinanza della Comm. trib. reg. Veneto, 11.4.2011, n. 27, in Corr. trib., 2011, 2840 ss. La Corte costituzionale, con propria ordinanza 16.07.2012, n. 190 ha restituito gli atti al giudice remittente per una nuova valutazione alla luce della novella. Una precedente questione di costituzionalità sollevata dalla Comm. trib. prov. di Terni era stata dichiarata inammissibile con ordinanza 3.3.2011, 73.

20 Cfr. Tesauro, F., Indeducibilità dei costi illeciti: profili critici di una norma di assai dubbia costituzionalità, in Corr. trib., 2012, 6, 426 ss.

21 È la considerazione di Tesauro, F., Sui costi da illecito necessario allineare le regole tributarie a quelle penali, in Il Sole 24 Ore del 22.03.2012, 21.

22 Anche se, in proposito, va evidenziata l’interpretazione formulata dall’Agenzia delle entrate nella propria circ. 3.8.2012, n. 32/E secondo cui anche costi tipicamente generali (quali gli ammortamenti, gli accantonamenti, gli interessi passivi et coetera) potrebbero formare oggetto della rilevata indeducibilità.

CATEGORIE