FARNESE, Ranuccio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

FARNESE, Ranuccio

Andrea Zorzi

Figlio primogenito di Pietro di Ranuccio di Cola e di Pentasilea Dolci di Corbara, nacque presumibilmente nel penultimo decennio del XIV secolo.

In quel periodo la sua famiglia era coinvolta in continui conflitti, che rischiavano di incrinarne la stessa solidarietà interna, con le vicine stirpi signorili degli Orsini e del prefetto di Vico per il predominio su quell'area di incerti confini tra il Patrimonio di S. Pietro e la Repubblica di Siena, dove si trovavano le terre dei Farnese.

Ancora adolescente, il F. scampò fortunosamente nell'estate del 1395 a una violenta ribellione degli abitanti del castello avito di Ischia (ora prov. di Viterbo), sobillata dagli Orsini, nella quale rimasero uccisi alcuni fratelli del padre.

Quest'ultimo ricercò in quegli anni una più forte protezione politica, che portasse all'accerchiamento degli Orsini, raccomandando la propria stirpe e i propri possessi signorili ai Comuni di Siena e Firenze, e mettendo al servizio di vari potentati il proprio mestiere delle armi: fu così capitano della Chiesa nel Patrimonio nel 1386 e nel 1388, conestabile del Comune di Perugia nel 1387, e di Siena nel 1390-91, capitano di 50 lance per Bologna nel 1400, e nuovamente a Siena come capitano generale nel 1408.

Fu alla scuola d'armi del padre Pietro che il F. compì il proprio tirocinio militare, avviandosi a continuare quella tradizione che rappresentava uno dei cardini principali dell'identità familiare e delle fortune dei Farnese. Forse già nel 1414 si trovava con lo zio paterno Pietro Bertoldo negli assedi di Viterbo e Orvieto al seguito dell'esercito di re Ladislao di Napoli; e certamente, nell'aprile 106, a Siena, dapprima come procuratore della famiglia a riconfermare la condizione di raccomandati, censuari e aderenti per le terre di Valentano, Ischia, Latera, Farnese, Capodimonte, Mezzano, Sala, Castiglione, Cellere e Piandiana, e poi, dall'agosto successivo, come generale della Repubblica nella guerra contro gli Orsini di Sovana e Pitigliano. Venendosi in pratica a inserire da una posizione di forza nel vivo delle lotte regionali che toccavano gli interessi della famiglia, il F. riuscì, dopo alterne vicende militari protrattesi fino all'estate del 1417, a prendere a Guido di Bertoldo Orsini alcuni castelli (tra i quali quelli di Sorano e Morano, che Siena gli concesse in perpetuo) e a costringerlo a nuovi patti con Siena.

Meno felice fu invece l'esito, alcuni anni dopo, della sua condotta fiorentina nell'esercito guidato dal capitano generale Carlo Malatesta contro i Visconti. Fatto prigioniero nell'ingloriosa rotta di Zagonara in Romagna il 28 luglio 1424, il F. fu sospettato di accordi segreti col duca di Milano, e cadde in disgrazia presso il regime oligarchico fiorentino, finendo addirittura condannato nel 1425 per debiti contratti presso alcuni mercanti fiorentini: solo la memoria dei meriti acquisiti dai suoi antenati, e soprattutto l'intervento a suo favore dei governanti senesi e di Martino V (Oddone Colonna), gli consentirono di vedere cancellato il dipinto infamante al quale era stato condannato da uno dei tribunali civili fiorentini. Questi contrattempi e la consapevolezza di non essere riuscito a entrare con successo nel circuito dei grandi condottieri, molto probabilmente lo indussero a concentrare le proprie attività nell'ambito pontificio e romano, dove negli anni della piena maturità seppe viceversa dimostrare indubbie capacità di realismo politico e di abile gestione dei propri interessi signorili e patrimoniali.

Fondando la propria stabilità su un saldo radicamento territoriale, il F. operò infatti un lento ma tenace accrescimento di potenza e ricchezze, sfruttando le opportunità offerte dal complesso processo di ricostruzione dello Stato pontificio avviato da Martino V e dalla ritrovata autorità papale dopo la fine dello scisma. L'abile posizione di neutralità tra le fazioni che scuotevano i ranghi dell'aristocrazia signorile romana, e la stabile dimostrazione di fedeltà politica alle insegne papali, guadagnarono al F. le grazie dei diversi pontefici e fecero della sua affidabilità lo strumento per rendersi vieppiù necessario dal punto di vista militare e finanziario.

Fu Martino V a nominarlo nell'aprile 1419 senatore di Roma; a confermargli, nel successivo settembre, i privilegi e le infeudazioni pregressi come riconoscimento di fedeltà; e a concedergli, nel maggio 1422, il castello e le terre di Piansano. Ma fu soprattutto al servizio di Eugenio IV che il F. colse le maggiori soddisfazioni. Forte della capacità di ampio reclutamento di uomini armati che gli derivava dalla relativa estensione delle sue terre - nel 1431 fu in grado di allestire un contingente di 100 fanti e di 200 lance (di tre cavalieri ciascuna) -, fu infatti condotto quasi ininterrottamente nella prima metà degli anni Trenta nella guerra che il papa scatenò contro il baronaggio ribelle. Inviato dapprima a Orvieto per mettere pace tra quella città e il cardinale di S. Clemente, e poi a Sutri, prese e distrusse nel 1431, insieme con Everso di Anguillara, il castello di Vico, e nell'anno successivo quello di Tolfanuova di cui si era impadronito nel 1430 Giovanni di Vico. Sotto il comando di Giovanni Vitelleschi andò poi a snidare Lorenzo Colonna da Palestrina partecipando nel 1437 alla presa del castello, e contribuendo alla definitiva repressione dello stato di instabilità e di ribellione provocato dagli anarchismi signorili e baronali nel Patrimonio e nella Campagna. Nel 1442 catturò a Viterbo messer Giovanni da Rieti, rettore del Patrimonio, su mandato del papa, e l'anno successivo riconquistò infine alla Chiesa Toscanella (oggi Tuscania), sottraendola al dominio di Francesco Sforza.

La lunga stagione di impegni militari al servizio di Eugenio IV rappresentò la chiave di volta delle fortune politiche, patrimoniali e finanziarie del Farnese. È stato calcolato come solo tra l'ottobre 1431 e il gennaio 1434 gli furono pagati dalla Camera apostolica 13.886 fiorini per la sue prestazioni militari. A queste somme venne progressivamente affiancandosi per la cronica difficoltà delle casse papali a rendersi solvibili, un credito ingentissimo che il pontefice riconosceva ammontare, già nell'ottobre 1433, a 11.900 fiorini. Lasciando accumulare senza eccessive proteste le somme a lui dovute, il F. sfruttò abilmente le penurie finanziarie della S. Sede e le ampie dimensioni assunte dal proprio credito, ottenendo la concessione, in un primo tempo a titolo di garanzia ma poi definitivamente in contraccambio, di govenatorati e di vicariati su castelli, terre e fortezze contigui al proprio nucleo di possedimenti signorili e allodiali.

Nel settembre 1431 ottenne così il riconoscimento del vicariato perpetuo sulle terre e i castelli di Valentano e Latera; nello stesso mese il governatorato di Marta, dapprima a beneplacito del pontefice, poi per cinque anni e quindi a tempo indeterminato; nel gennaio 1434 H vicariato di Montalto per tre anni, poi rinnovato a tempo indeterminato nel dicembre 1436; nel maggio 1435 la concessione di metà delle rendite e dei diritti sul castello di Tessennano; nel maggio 1436 l'alienazione -del castello di Cassano; nel giugno 1445 il vicariato, trasmissibile fino alla terza generazione di eredi, di metà dei castelli di Canino, Gradoli, Badia al Ponte e Musignano (possesso che poi i figli completeranno nel 1464 con l'acquisto della metà rirnanente). Strumento di legittimazione di vecchie e nuove forme di signoria locale nell'ambito teorico di una riafferirnata sovranità pontificia, il vicariato apostolico significò per il F. soprattutto l'acquisto, con la sola forza del denaro e dei servizi, di terre e potere, che, per quanto fondati inizialmente su titoli precari, si fecero progressivamente perpetui proprio attraverso le investiture estese anche alle generazioni future. Solo con il pontificato di Niccolò V - fautore di una svolta nell'amministrazione dello Stato della Chiesa intesa a ridurre il ricorso al vicariato e a procedere al recupero dei feudi non ancora definitivamente alienati - l'accrescimento territoriale del F. conobbe un arresto, quando nel 1447 il papa riuscì a rimborsargli un credito di 9.000 fiorini e a recuperare la giurisdizione sul castello di Montalto.

Ma ormai la potenza del F. era tale da non uscire scalfita da una menomazione di questa entità. Nel volgere di un paio di decenni egli era riuscito con ostinazione e intelligenza politica a costituire un insieme territorialmente compatto che dalle propaggini orvietane scendeva al mare fasciando settentrionalmente il lago di Bolsena: un possesso terriero che era base di potere militare, forte economicamente e convalidato da un predominio giurisdizionale.

Un governo signorile di tali dimensioni consentì infatti al F. di radunare cospicui contingenti di gente da armare, di riscuotere dazi e altri diritti, di produrre e commercializzare una discreta quantità di granaglie, di rafforzare il suo prestigio. Le ricchezze accumulate grazie ai servizi militari e alle rendite di natura fondiaria e signorile lo misero in condizione di poter agevolmente prestare somme di una certa rilevanza - come i 4.000 fiorini che imprestò alla S. Sede a cavallo tra i pontificati di Martino V e Eugenio IV -, di diversificare il patrimonio - come fece investendo in titoli del debito pubblico fiorentino per una somina complessiva di 11.000 fiorini -, di farsi garante di terzi presso banchieri locali e forestieri - come è attestato che fece in tempi diversi con quelli viterbesi e con il banco dei Medici. Dando prova in tale modo - a differenza della maggior parte degli altri signori coevi che per mantenersi dovevano fare assegnamento unicamente sul mestiere delle armi - di saper coniugare le doti militari (che dopo le non appaganti esperienze iniziali non misurò più nelle condotte delle guerre tra gli Stati italiani) a un'indubbia capacità di oculata gestione imprenditoriale e finanziaria.

Sagacia diplomatica dimostrò inoltre nella lungimirante capacità di radicarsi stabilmente al servizio dei diversi pontefici, accreditandosi ai loro occhi come una forza fedele che si inseriva oltretutto quale elemento di assoluta novità nelle tradizionali linee marcate dalla vecchia aristocrazia romana dei Colonna, degli Orsini, dei Savelli. Coltivò rapporti anche con gli altri signori italiani, come per esempio Cosimo de' Medici, con il quale intrattenne ottimi contatti testimoniafici da un carteggio dai toni di familiare amicizia e al quale, nel 1439, donò alcune reliquie del braccio di s. Giovanni che gli erano pervenute in possesso. Ma soprattutto, pur puntando a un continuo accrescimento di potere e di prestigio, il F. fu realista nel mantenersi ancorato a una dimensione provinciale che dissimulava le reali ricchezze e le potenzialità della famiglia.

Sposando Agnese Monaldeschi perpetuò i tradizionali legami con Orvieto, della quale sempre mantenne la cittadinanza, anche quando avrebbe successivamente acquisito quelle viterbese e romana. E non a Roma, ma a Viterbo diede il via alla costruzione del palazzo familiare, e sull'isola Bisentina nel lago di Bolsena - dove negli anni Trenta restaurò la chiesa e il monastero nel quale poi insediò i frati minori - fece erigere, nel 1448, il sepolcro di famiglia, dove sarebbe poi stato tumulato. Sempre sull'isola Bisentina e a Capodimonte ospitò nel 1443 Eugenio IV, dando avvio a una lunga serie di visite papali ai Farnese. Senza mai tentare l'avventura di una carriera propriamente romana, fu in provincia che il F. concretizzò le proprie fortune ed esercitò la sua influenza personale.

Il prestigio e la solidità acquisiti gli consentirono di dedicarsi negli anni Quaranta del XV secolo a preparare, da vero e proprio capostipite, la successione agli eredi curando in particolare modo le qualificazioni matrimoniali e le acquisizioni dotali dei figli: la dote della moglie gli aveva infatti consentito a sua volta di realizzare la prima acquisizione, per 5.900 ducati d'oro, dei castello di Marta. Con l'unione, nel 1442, del primogenito Gabriele Francesco con Isabella di Aldobrandino Orsini conte di Pitigliano, garantì l'appianamento dei conflitti che per secoli avevano visto rivali e spesso nemiche le due casate, ma soprattutto l'effettivo inserimento della famiglia nei ranghi dell'aristocrazia romana di più antica tradizione, che i matrimoni dell'altro figlio Pierluigi con Giovannella di Onorato Caetani di Sermoneta e di alcune delle figlie, avrebbero poi ultefiormente contribuito a rafforzare.

Col testamento redatto a Ischia il 2 luglio 1450 - e precedente probabilmente di poco la morte - il F. lasciava agli eredi una base stabile di prestigio e potere, ricca in feudi, fondi rurali, bestiame, possessi immobiliari e in investimenti mobiliari- Al fratello Bartolomeo riconosceva, in particolare, i diritti su Latera, Farnese e le tenute di Sala, Mezzano e Castiglione; mentre ai figli Gabriele Francesco, Angelo e Pierluigi trasmetteva i possessi di Ischia, Tessennano, Cellere, Pianano, Valentano, Capodiimonte, Piansano, Marta, le isole Martana e Bisentina, Canino, Gradoli, Badia al Ponte e Musignano, preoccupandosi di assicurare l'indivisibilità del patrimonio e della sua gestione attraverso obbligazioni di mutuo aiuto, consiglio e favore e di reciproca legazione tra gli eredi; alle figlie femmine destinava infine solo lasciti dotali.

Dalla moglie Agnese Monaldeschi, sposata probabilmente nel terzo decennio del secolo, oltre a Gabriele Francesco, Pierluigi e Angelo, che morì agli inizi degli anni Sessanta, lasciando solo una progenie femminile, ebbe anche sette figlie: Caterina, Violante, Agnese, che sposò un Savelli di Rignano, Lucrezia, che andò sposa a Francesco Anguillara, Eugenia, che fu maritata a Stefano di Stefano Colonna, Pentasilea, che sposò il perugino Costantino Contranieri, e Giulia, terziaria francescana.

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