GATTI, Raniero

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 52 (1999)

GATTI (Gattus), Raniero

Angela Lanconelli

Esponente di una nobile famiglia viterbese che svolse un ruolo di primo piano nella storia cittadina fra XIII e XV secolo, il G. nacque presumibilmente intorno ai primi anni del Duecento, da Bartolomeo di Rolando "Veralducii" (morto prima del 1237) e da Viscontessa. Fu il primo a portare il cognome Gatti - testimoniato a partire dal 1253 - e ad aggiungere all'arme di famiglia un gatto, simbolo di destrezza e abilità, qualità indispensabili per l'ascesa sociale ("Gatti quos cernis currendo solent dare saltum, virtutes signant per quas conscendit in altum": così l'epigrafe del 1266 eretta a ricordo della costruzione del palazzo papale di Viterbo a opera del G.: Carosi, p. 60); dopo di lui il cognome Gatti passò a indicare il ramo dei discendenti di Bartolomeo, mentre quelli di Brettoni ("de Brectonibus" o "Britonibus") e Gatteschi vennero usati per designare più in generale l'intera stirpe di Rolando "Veralducii".

Secondo una ricostruzione di Kamp (1975, p. 121), sebbene il cognome "de Brectonibus" compaia nei documenti solo successivamente a "Gatti" (è testimoniato a partire dal 1267 nella epigrafe che ricorda la costruzione della loggia del palazzo papale di Viterbo, avvenuta mentre era capitano del Popolo Andrea di Veraldo, cugino del G.), può non essere infondata l'opinione degli storici locali secondo la quale la famiglia sarebbe giunta a Viterbo dalla Bretagna nel XII secolo. È certo comunque che i Gatti, sebbene non appartenenti all'aristocrazia consolare di antica formazione, già agli inizi del Duecento occupavano una posizione di rilievo all'interno della società viterbese, al punto che fu possibile al padre del G., Bartolomeo, accedere alla carica di console (ante 1212).

Le basi della ricchezza della famiglia appaiono sin dalle prime generazioni saldamente legate al commercio dei cereali e al prestito di denaro; già Rolando, il nonno del G., risulta impegnato in queste due attività: nel 1217, nella divisione di beni fra i suoi tre figli (Bartolomeo, Leonardo e Veraldo) sono elencate più di 1500 lire di crediti ancora da riscuotere, alle quali si aggiungeva un cospicuo patrimonio immobiliare cittadino costituito da palazzi, case e torri che, essendo denominate ancora con riferimento ai precedenti proprietari, sembrano essere pegni non riscattati e passati nelle mani di Rolando solo da poco tempo. L'attività del prestito di denaro, insieme con il commercio dei prodotti agricoli, continuò a costituire la base della fortuna familiare anche con le generazioni successive (tanto da guadagnare ai Gatti la definizione di "prima banca viterbese": ibid., p. 122) e rese possibile l'ingresso della famiglia nell'aristocrazia cittadina detentrice di castelli nel contado di Viterbo; già nel 1226 Bartolomeo e Leonardo, figli di Rolando, erano entrati in possesso di Valcena (presso il lago di Bolsena), quale pegno per un prestito di 525 lire, e prima della fine del Duecento i Gatti vantavano diritti anche sui castelli di Sala, Fratta, Cornienta Vecchia, Cornienta Nuova e Monte Casoli.

Il G. fu il primo esponente della famiglia che ricoprì un ruolo di rilievo nella vita politica e prese posizione nelle contese tra le fazioni cittadine legando i destini della sua stirpe al Papato proprio negli anni in cui Viterbo era schierata a fianco di Federico II.

Stando a quanto narrano i cronisti cittadini del XV secolo, sin dai primi decenni del Duecento i Gatti erano alleati degli Alessandri e fieramente opposti ai Cocco, con i quali più volte sostennero sanguinosi scontri. In assenza di studi sui ceti dirigenti del Comune medievale viterbese, risulta impossibile chiarire il complesso quadro dei rapporti tra le fazioni; possiamo comunque ricordare come tali rapporti vadano inseriti nel contesto delle vicende primoduecentesche della città, dominate dai ripetuti attacchi di Roma che, nell'intento di assoggettare Viterbo e di impadronirsi del suo territorio, a più riprese ne devastò il contado, le sottrasse il controllo di alcuni castelli e giunse con i suoi eserciti fin sotto le mura cittadine. Viterbo, pur trovandosi in più di un'occasione in gravi difficoltà, riuscì a resistere a questa pressione grazie all'appoggio di Papato e Impero, entrambi interessati alla città, che rappresentava un prezioso punto d'appoggio contro Roma, e quindi ben disposti nei suoi confronti. In una situazione politica connotata dalle aggressioni del Comune capitolino, quanto emerge dalle fonti evidenzia che i Gatti si schierarono a difesa dell'autonomia cittadina (non è possibile peraltro stabilire se la loro posizione fosse in quella fase filoimperiale o filopapale), entrando in conflitto con i Cocco, alleati dei Romani, i quali speravano con il loro aiuto di impadronirsi di Viterbo.

Il primo riferimento documentario al G. risale al 1225, quando lo troviamo fra i testimoni di un prestito di 141 lire fatto da suo zio Leonardo a Pietro di Nicola, signore di Rispampani, a garanzia del quale Pietro obbligò la metà di Castel Liutprando. L'ingresso del G. sulla scena politica si colloca nel 1241, allorché risulta contrapposto a Maffuccio Salamari, esponente di una delle principali famiglie dell'aristocrazia comunale con la quale a quei tempi i Gatti erano in contrasto per il possesso del castello di Fratta. Erano gli anni in cui la città, dopo la definitiva rottura tra Gregorio IX e Federico II, aveva legato i propri destini all'imperatore il quale vi era arrivato nel febbraio 1240, stabilendovi il suo quartier generale in attesa di muovere contro Roma, e ne era ripartito nel marzo successivo, dopo avervi lasciato come vicario generale il conte Simone di Chieti. Il G., stando sempre a quanto narrano le cronache viterbesi, ebbe un ruolo determinante nella rivolta antimperiale del 1243 che determinò una svolta decisiva nei rapporti tra Impero e Papato, riaprendo le ostilità in un momento in cui, con l'elezione di Innocenzo IV, sembrava che avessero preso il sopravvento le forze favorevoli a un compromesso con l'imperatore. La storiografia sugli avvenimenti di quegli anni ha messo in rilievo il ruolo del cardinale Raniero Capocci nella riconquista della città, ma è indubbio che tale riconquista fu preparata con l'aiuto di elementi interni, i quali fecero leva su un diffuso malcontento nei confronti degli ufficiali imperiali accusati di angherie e soprusi, come segnala la lettera con cui Federico II, nel febbraio 1243, nominava podestà di Viterbo Vitale d'Aversa, in sostituzione di Simone di Chieti che da tre anni esercitava la carica.

Secondo la ricostruzione degli avvenimenti esposta in una relazione coeva (Winkelmann, 1880, pp. 546-554), il cardinale Capocci stabilì contatti con elementi dell'aristocrazia cittadina incoraggiandoli a organizzare una congiura per riportare Viterbo sotto il controllo della Chiesa e il 15 agosto si recò a Sutri con un nucleo di armati in attesa di muovere sulla città; un improvviso ripensamento dei congiurati fece fallire questo primo tentativo, ma di lì a pochi giorni, in occasione di un'assemblea cittadina convocata da Simone di Chieti per diffidare i Viterbesi dal tramare contro l'imperatore, il G. prese la parola per criticare pubblicamente l'operato di Simone. Il suo intervento diede l'avvio a un confronto tra le fazioni cittadine all'interno delle quali prevalse quella filopapale che prese subito l'iniziativa aprendo la città al Capocci. Questi vi entrò il 9 settembre alla testa delle sue truppe, mentre il vicario imperiale si rifugiò nel castello di San Lorenzo insieme con le forze imperiali e la fazione ghibellina: Viterbo si staccava così da Federico II il quale due mesi dopo avrebbe inutilmente assediato la città nel tentativo di riconquistarla. Sebbene il ruolo del G. nella ribellione dell'agosto 1243 sia ricordato solo nelle cronache cittadine, una conferma dei suoi legami con Raniero Capocci viene dal fatto che il figlio Visconte, già promesso in matrimonio nel 1253 - al momento della pacificazione tra le fazioni cittadine - alla figlia di un esponente della parte ghibellina, sposò, invece, nel 1258 una pronipote del cardinale, Teodora, e fu per tutta la vita devotamente legato al convento domenicano di S. Maria in Gradi, edificato dallo stesso Capocci, presso il quale nel 1292 fondò l'ospedale della "Domus Dei" lasciandogli in eredità, nel 1306, tutti i suoi beni.

A partire dal 1246 il G. assunse responsabilità dirette e di primo piano nella vita politica viterbese, che da quel momento e per i due decenni successivi sarebbe stata monopolizzata dalla sua famiglia. Tra il settembre di quell'anno e il marzo 1247 fu uno dei quattro rectores del Comune, mentre dopo il definitivo ritorno della città all'obbedienza papale (nel 1252) fu eletto per tre volte capitano del Popolo (1257-58, 1258-59, 1266), carica ricoperta in seguito anche dai suoi figli Visconte (1268 e 1281-82) e Raniero (1269 e 1270).

Lo stesso G. ha lasciato un incisivo ricordo del suo primato politico in una deposizione resa nel 1263 in occasione della vertenza fra il Comune di Viterbo e un signore della vicina Teverina per il possesso di una vasta e fertile tenuta situata in quel territorio. Nel corso dell'interrogatorio, parlando del biennio in cui era stato capitano del Popolo (1257-59), egli raccontò come in tale veste spettasse a lui nominare i consoli e aggiunse che in quel tempo a Viterbo nulla poteva essere fatto senza suo ordine; ricordò, inoltre, che durante il mandato aveva svolto un'attiva campagna di ricognizione e rivendicazione dei domini territoriali del Comune e curato la creazione di un archivio del capitano del Popolo - che si affiancava a quello dei podestà - con l'impianto di registri nei quali furono trascritti alcuni dei principali documenti relativi ai diritti vantati da Viterbo sul suo distretto. Stupisce, dopo avere letto l'orgoglioso racconto dei suoi poteri e dei suoi meriti, venire a sapere dallo stesso G. che egli era analfabeta: "ipse nescit litteras et ideo nescit tenorem instrumentorum" (Kamp, 1963, p. 113).

Il segno lasciato dal G. e dalla sua famiglia nella Viterbo del XIII secolo non si limita comunque all'attività politica e amministrativa; si devono ai Gatti i grandiosi progetti di ampliamento e di abbellimento della città portati avanti nei due decenni ('60 e '70) in cui questa conobbe l'apice del suo sviluppo, grazie anche al prolungato soggiorno della corte pontificia. Si deve, infatti, al G. l'edificazione, nel 1266, del palazzo papale - ottenuto con l'ampliamento e l'abbellimento del palazzo vescovile - all'interno del quale si svolse il lungo conclave (1268-71) convocato dopo la morte di Clemente IV; suo figlio Visconte, capitano del Popolo, nel 1268 curò il completamento delle mura cittadine e la costruzione di un acquedotto che, dalle pendici dei monti Cimini, attraversava la parte orientale della città portando l'acqua alla fontana della loggia papale (edificata nel 1267 da Andrea di Veraldo cugino del G.); all'altro figlio, Raniero, si deve invece, presumibilmente, il progetto di ampliare la cinta muraria cittadina a est della città, verso i Cimini, in modo da racchiudervi il monastero di S. Maria in Gradi: tale progetto fu ben presto abbandonato per le mutate condizioni della città e ne resta, unica testimonianza, l'imponente torre detta di S. Biele.

In un arbitrato tra i suoi figli Visconte, Raniero e Pepone, avvenuto nel 1270, il G. risulta già morto.

Dei suoi discendenti quelli che hanno lasciato un segno più incisivo nella storia cittadina sono i già più volte menzionati Visconte e Raniero, i quali sono da ricordare anche per aver esercitato la professione di podestà in diversi Comuni forestieri: Raniero fu chiamato nel 1298 a Parma, Visconte ad Arezzo (1269 e 1286) e Foligno (1271). Oltre a questi due e a Pepone le fonti ricordano altri quattro figli del G.: Princivalle (priore della chiesa viterbese di S. Stefano nel 1296), Latina, Margherita e Melontana (o Meloncana).

Fonti e Bibl.: Viterbo, Arch. comunale, Pergg. 76-78, 2707, 2712, 2714, 2742, 2761; Margarita, I, cc. 1-18, 19v-22, 25v-29v, 31v-35v, 43v-54, 57v-66; Liber IV clavium, c. 70v; Niccolò della Tuccia, Cronache di Viterbo, in Cronache e statuti della città di Viterbo, a cura di I. Ciampi, Firenze 1872, pp. 15, 20 s., 27, 31; Acta Imperii inedita saeculi XIII, a cura di E. Winkelmann, I, Innsbruck 1880, docc. 693, pp. 546-554; 908, p. 685; Codice diplomatico della città di Orvieto, a cura di L. Fumi, Firenze 1884, p. 61 n. 85; Francesco di Andrea, Croniche di Viterbo, a cura di P. Egidi, in Arch. della R. Soc. romana di storia patria, XXIV (1901), pp. 237-239, 246, 300, 316, 320, 328; Liber memorie omnium privilegiorum et instrumentorum et actorum Communis Viterbii (1283), a cura di C. Carbonetti Vendittelli, Roma 1990, docc. 29, p. 11; 106 s., p. 39; 193, p. 67; 240, p. 82; E. Winkelmann, Kaiser Friedrichs II. Kampf um Viterbo, in Historische Aufsätze dem Andenken an Georg Waitz gewidmet, Hannover 1886, p. 284; C. Pinzi, Storia della città di Viterbo, I, Roma 1887, pp. 266 s., 385-389; Id., Gli ospizi medioevali e l'ospedal Grande di Viterbo, Viterbo 1893, pp. 101, 266; G. Signorelli, Viterbo nella storia della Chiesa, I, Viterbo 1907, p. 376; A. Scriattoli, Viterbo nei suoi monumenti, Roma 1915, p. 144; G. Signorelli, I Gatti, in Bibl. prov. A. Anselmi, Miscellanea di studi viterbesi, Viterbo 1962, pp. 427-461; N. Kamp, Istituzioni comunali in Viterbo nel Medioevo, I, Consoli, podestà, balivi e capitani nei secoli XII e XIII, Viterbo 1963, pp. 17, 55, 58, 61, 80, 112-114 (cfr. rec. di P. Supino, in Studi medievali, s. 7, III [1966], p. 267); Id., Viterbo nella seconda metà del Duecento, in VII centenario del 1° conclave (1268-1271). Atti del Convegno, Viterbo1970, Viterbo 1975, pp. 121, 126; A. Carosi, Le epigrafi medievali di Viterbo (secc. VI-XV), Viterbo 1986, pp. 60, 62, 66, 70, 76; C. Carbonetti Vendittelli, Documenti su libro. L'attività documentaria del Comune di Viterbo nel Duecento, Roma 1996, pp. 8, 31, 35, 121, 183.

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