CECCHETTI, Raimondo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CECCHETTI, Raimondo

Giuseppe Pignatelli

Nacque a Oderzo (Treviso) il 26 febbr. 1703 da Giuseppe e da Paolina Mondini, originaria di Venezia. Dopo aver compiuto i primi studi nella città natale, li proseguì all'università di Padova, ove fu allievo del Poleni, del Serry, del Vallisnieri e del Lazzarini. A quest'ultimo in particolare il C. fu strettamente legato: insieme con Francesco Benaglio fu per alcuni anni suo ospite e aiutante di studio. Già fornito di una buona cultura, forse troppo eclettica, che andava dalla teologia al diritto civile e canonico alle scienze matematiche e naturali, il C. cercò di approfondire lo studio delle discipline umanistiche, acquisendo una perfetta conoscenza delle lingue e letterature italiana e latina e seguendo le orme del suo maestro D. Lazzarini nella composizione di rime, tragedie, epistole italiane e latine, orazioni.

Di questa produzione letteraria concentrata negli anni 1720-1740, durante la sua permanenza a Padova e nei primi anni del suo soggiorno romano, il C. dette ben poco alla luce; soltanto dopo la sua morte Giulio Bernardino Tomitano raccoglieva nel Saggio di rime e prose dell'abate R. C. (Treviso 1796) tutti gli inediti allora disponibili e alcune orazioni già pubblicate.

Le Rime (che comprendono ventotto sonetti, quattro canzoni e un'egloga) rivelano nel C., fedele discepolo del Lazzarini anche in questo, un seguace scarsamente originale del petrarchismo arcadico: soprattutto nei sonetti, d'argomento amoroso o d'occasione (per monacazioni, nozze, morti, lauree, partenze, ingressi solenni), ma anche nella prima delle canzoni, il tema costante è quello del conflitto tra la ragione e la passione, dell'alterno passaggio dalla resa all'amore profano (che "lusinghe, e vezzi, e cortesie mostrommi per adescarmi alle sue frodi usate", sonetto I) alla volontà di liberarsi da esso grazie al pietoso intervento celeste ("Tu che sei di pietate esempio vero, Tu che lo puoi, da questo morbo indegno, Padre del Ciel tu mi risana e purga"). Perduta è andata una tragedia, Anna Erizzo in Negroponte, rappresentata a Zara nel novembre 1725 alla presenza dell'autore stesso e di Nicolò Erizzo provveditore generale di Dalmazia e d'Albania; come pure irreperibili risultano le opere in prosa Dialoghi sopra la poetica e Il francese in Italia, che trattava tardivamente il tema della polemica Orsi-Bouhours. Le Prose raccolte dal Tomitano comprendono: l'Orazione a Sua Eccellenza il Sig. Cavalier Giovanni Mocenigo elettoprocurator di S. Marco per merito, in occasione del suo solenne ingresso (già pubblicata a Venezia nel 1735); la Dissertazione epistolare al Ch. Sig. Giulio Baitelli patrizio bresciano sopra un passo di Omero censurato da Platone nel terzo della Repubblica; Alcune notizie appartenenti all'eloquenza; l'Orazione in funere Jo. Ernesti Harrachii Episcopi Nittriensis (già pubblicata a Roma nel 1740) e le Epistolae, nove lettere latine inviate tra il 1732 e il 1738 a Orazio Amalteo, Giulio Baitelli (tre), Francesco Melchiori (tre), Casimiro Viviani e Susanna Le Maistre.

Da questi scritti emerge tutta la personalità del C.: teso a imitare il modello dell'umanista-cortigiano al servizio dei potenti, ma desideroso di mantenere una assoluta libertà di giudizio nei confronti degli avvenimenti contemporanei. Egli risolse questa contraddizione ponendosi al servizio di ragguardevoli uomini pubblici, ambasciatori e cardinali, cui come segretario offriva i propri consigli, ma dovette autoemarginarsi dagli ambienti accademici, più organicamente legati al potere e - specialmente a Roma - più ligi al conformismo ideologico. Il nucleo centrale della riflessione teorica del C., attento conoscitore del dibattito controriformistico e sensibile ai primi bagliori illuministici, era quello dei rapporti tra religione e politica e tra politica e arte.

Se ancora nel 1732 (vedi la lettera a Orazio Amalteo del 30 agosto, in Epistolae nunc primum editae, pp. 3 s.) egli criticava come antireligioso il Saggio sull'intelletto umano del Locke, già tre anni dopo accoglieva spregiudicatamente (da buon conservatore) il motivo tipicamente illuministico dell'utilità politico-sociale della religione: "Tutte le bene ordinate Repubbliche si sono sempre proposte come cosa principalissima la coltura della Religione, la quale quantunque falsa, pure per la forza grandissima, con che s'imprime naturalmente negli animi umani il nome di lei potentissimo, ha sempre meravigliosamente operato a beneficio degli Stati" (Orazione... per G. Mocenigo, p. 16), e giungeva a sottolineare, sia pure con una certa amara ironia, la necessità per l'uomo politico di svincolarsi dalla visione trascendente propria del cristianesimo, poiché giudicava "largamente superiore a quello, che ad umana virtù si conviene... l'essere un perfetto cristiano, e insieme un perfetto Politico, e trattare questi due diversissimi ufficj senza confonderli, e senza l'un l'altro impedirli" (ibid., p. 22). Il primato della politica è sostenuto dal C. anche nella Dissertazione epistolare al Ch. Sig. G. Baitelli, in cui si considera se siano giuste le critiche mosse da Platone al passo dell'Iliade in cui Omero fa apparire Achille crudele nell'infierire sul cadavere di Ettore e avaro nel concederlo a Priamo soltanto dietro riscatto. Pur salvando l'eccellenza artistica della poesia omerica ("Platone determina quello che in Omero può esser utile, o disutile, o se vogliamo anche dannoso alla sua Repubblica, non quello che sia poetico, o non poetico": - p. 40), egli avalla la possibilità del giudizio e della censura ideologica e morale, per cui l'arte, prescindendo dal suo valore intrinseco, deve essere subordinata a fini sociali.

Il C. aveva lasciato il Veneto, che pur definirà alcuni anni più tardi "quella parte d'Italia, dove una reliquia di libertà si mantiene" (Alcune notizie appartenenti all'eloquenza, p. 52), nel gennaio 1731, spinto dal desiderio di frequentare ambienti meno provinciali. Giunto a Roma fornito di lettere commendatizie del Lazzarini per il cardinale Spinola, entrò come gentiluomo di camera al servizio del cardinale Troiano Acquaviva d'Aragona, che allora rappresentava presso la Curia romana gli interessi di Carlo di Borbone. Accettò poi il posto di segretario privato degli ambasciatori veneti Alvise Mocenigo (1734-37) e Andrea da Lezze (1743-47). Questi si adoperò con successo per fargli ottenere dal cardinale Rezzonico, arcivescovo di Padova, una pensione in quella diocesi, dove il C. aveva ricevuto gli ordini minori. Dal 1748, durante le trattative tra la S. Sede e la Serenissima per risolvere la controversia che portò nel 1751 alla soppressione del patriarcato di Aquileia, il C., grazie alla sua profonda competenza nel diritto ecclesiastico, assistette validamente l'inviato straordinario veneto Marco Foscarini e nel 1750 passò al servizio del cardinale Rezzonico giunto a Roma per lo stesso motivo.

In questo periodo il C. compose il breve trattato Degli asili libritre..., Padova 1751, dedicato a monsignor G. Molino.

L'opera, originata da una dissertazione letta all'Accademia di diritto pubblico, della quale il C. era socio dalla fondazione, dopo aver tessuto la storia ed esaminato le varie specie di diritto d'asilo, tratta nel terzo libro degli asili sacri. Egli, ritenendone un fatto positivo l'esistenza, nega che tale diritto sia d'istituzione divina - come ancora si sosteneva in alcuni ambienti ecclesiastici - definendolo "se non un dovere del dritto naturale, certamente una... emanazione di esso" (p. 126), sulla base storicistica della sua presenza presso tutti i popoli.

Nel 1752, nella qualità di uditore, seguì monsignor A. Branciforte Colonna, incaricato di portare come nunzio straordinario le fasce del papa al neonato duca di Borgogna, figlio del delfino di Francia. Partito da Roma nel luglio 1752, il C. si trattenne in Francia per oltre un anno, durante il quale trovò il modo di compiere una breve visita in Inghilterra insieme con l'abate Fabris. A Parigi, incaricato dal Branciforte di stendere una relazione sulla situazione politico-religiosa francese, aveva messo a frutto le numerose indiscrezioni raccolte nei vari ambienti che aveva frequentato: ne nacque così un documento che andava al di là dello scopo primitivo cui era destinato, divenendo consapevolmente un resoconto colorito atto a soddisfare la morbosa curiosità di circoli e salotti culturali italiani. Tornato a Roma alla fine del 1753 il C. non esitò a leggerlo ripetutamente in riunioni di amici, tra cui vi fu anche il conte di Firmian che nel febbraio 1754 soggiornò a Roma prima di raggiungere Napoli ov'era destinato come ministro plenipotenziario dell'Impero. Fu forse quest'ultimo, che ne aveva ottenuto una copia (Tomitano, Vita, pp. 11 s.), a diffonderla ampiamente: certo è che ai primi d'aprile circolava già a Firenze, come avvertiva il C. l'amico Guido Savini (poi provveditore dell'università di Siena), che nel marzo gli aveva fatto offrire la cattedra di lettere greche e di eloquenza. Il C., benché si fosse lamentato che "di Francia e d'Inghilterra non ho portato, che il vano compiacimento di esserci stato, e la solida partita di cento zecchini di debito", preferì continuare a fare "il dottore di queipaesi" (ibid., p. 11), confessando al Savini: "Io non mi sento più in capo niente né di Greco, né di Latino, e forse né pur di volgare, e... la voglia di studiare mi è andata fuor di corpo a mille miglia. Se mi vedeste, mi trovereste assai più Epicureo di quel che mai mi sia stato, e in ispecie sull'articolo della gloria e del sapere incomparabilmente più, a paro dell'istesso Padre Epicuro..." (ibid., p. 31). Alcuni mesi dopo la relazione giunse anche in mano dell'ambasciatore francese a Roma, Etienne François de Stainville, il quale, adirato per alcune espressioni irriguardose nei confronti della corte francese e in particolare per la frase che indicava nella marchesa di Pompadour, "ministra dei piaceri" del re e "infetta di giansenismo", la potentissima protettrice del Parlamento di Parigi (Renucci, p. 623), fece circolare la voce di voler catturare il C. per spedirlo in Francia o addirittura per ucciderlo. Avvertito dall'amico Benaglio, per incarico del cardinale Prospero Colonna e di monsignor Molino, invano il C. cercò di giustificarsi affermando che la relazione era stata alterata da mani malevoli; poi, temendo per la propria vita, avuto un cospicuo aiuto in denaro dal segretario di Stato e dall'ambasciatore veneto, il giovedì grasso del 1755 egli fuggì da Roma sotto il falso nome di Tommaso Morandi rifugiandosi a Siena in casa dei fratelli Savini. Quindi, avvisato che da parte francese si facevano ricerche accurate per ritrovarlo, stimò più sicuro nascondersi in una proprietà dei Savini a diciotto miglia da Siena, Castelnuovo Tancredi, ospite delle "tre bellissime giovani sorelle" Savini. In questa "deliziosa prigionia" riceveva frequenti visite di amici e delle "belle, sciolte, e ingegnose" dame Violante Chigi Zondadari, Elena Saraceni e Maria Angela Spannocchi (Tomitano, Vita, p. 13). Scoperto questo suo rifugio, nel giugno 1755 partì per Milano, ove per otto giorni fu ospite in casa di Pompeo Neri, grazie all'intervento del conte B. Cristiani e di Gian Rinaldo Carli. Questi suggerì al C. di modificare la relazione e di diffonderla rifiutando come apocrifa la precedente; l'aiutò anche a comporre la nuova redazione, ma, poiché frattanto lo Stainville aveva ottenuto dal governo milanese un ordine di arresto per il C., il Carli scrisse al vescovo di Como chiedendogli di procurare al C. un asilo a Morbegno in territorio svizzero. Egli stesso, dopo averlo provvisoriamente nascosto a Saronno in casa del conte Rubini, lo accompagnò oltre frontiera. Il soggiorno a Morbegno durò oltre un anno. Protetto dagli amici milanesi, tra cui v'era la potente Clelia Borromeo del Grillo, il C. non corse in realtà alcun serio pericolo: "Lo stato de' suoi affari non è se volete pericoloso - scriveva il 3 luglio 1755 Francesca Spannocchi Neri a Guido Savini -, ma fastidioso; si vede chiaramente che non tentano sopra la sua persona, ma vogliono vederlo mortificato vivere un poco oscuramente" (ibid., p. 34). Si disse pubblicamente che il C. era fuggito in Inghilterra, finché nell'autunno 1756 l'ambasciatore veneto a Roma ottenne dall'ambasciatore francese la fine di ogni persecuzione nei suoi riguardi.

Il C. si ritirò allora a Oderzo e soltanto dopo l'elevazione del cardinale Rezzonico al soglio pontificio, nel 1758, ritornò a Roma. Qui non trovò però il favore sperato e fu costretto a condurre una vita piuttosto modesta, che prevedeva come unica distrazione l'assidua frequenza di alcune "conversazioni", tra cui quella del cardinale Andrea Corsini e quella della duchessa di Bracciano.

Il C. morì a Roma il 13 dic. 1769 e fu sepolto nella basilica di S. Marco. Lasciò erede dei suoi scritti e delle poche altre cose il prelato torinese Damiano-Triocca.

Lo Storico ragguaglio dello stato presente della religione per le controversie tra il clero e il Parlamento di Francia nell'anno 1752 è stato pubblicato soltanto nel 1964 da G. Renucci, il quale ha utilizzato una copia di Angelo Marchesan (1893) tratta a sua volta da una copia conservata tra le carte di Francesco Benaglio, allora nella Biblioteca capitolare di Treviso poi andate perdute nel 1944 per un bombardamento aereo (ma numerose altre copie settecentesche si trovano, con diversi titoli, in varie biblioteche; ad esempio: Roma, Bibl. nazionale, S. Onofrio, ms. 34, ff. 162-174; e S. Lorenzo in Lucina, ms. 146, ff. 325-362; Ibid., Bibl. Angelica, ms. 1628, n. 4; Venezia, Bibl. naz. Marciana, ms. It. VI. 313). Al di là delle accuse moralistiche al re e alla corte, la relazione del C. centra la sua attenzione su due problemi fondamentali: quello del funzionamento dei poteri istituzionali e quello politico-religioso della diffusione del giansenismo. Sul primo tema molto severe sono le critiche rivolte al sistema di controlli messo in atto dal Parlamento che vanifica l'autorità regia rendendo inefficace l'azione del governo; le simpatie del C.vanno chiaramente, in prospettiva, ad una forma di assolutismo "illuminato", in cui è individuato il modo per superare gli interessi particolari nel perseguimento del bene generale della nazione (non a caso il C. porta ad esempio l'intenzione del governo francese, non ancora realizzata, di sottoporre ad adeguata imposizione fiscale i beni del clero fino ad allora ingiustamente privilegiati). Sulla questione giansenistica il C., che da buon difensore degli interessi di Roma paventa l'ingerenza delle autorità civili nell'ambito religioso, distingue accuratamente tra i veri e propri giansenisti, gli appellanti e i gallicani; egli critica perciò l'eccessiva intransigenza dell'arcivescovo di Parigi, monsignor de Beaumont, che ha provocato la formazione di un fronte unico tra le tre componenti, la più numerosa delle quali, la terza, ha vasto seguito nel Parlamento e nella popolazione, e ha creato così un "caso" politico gravido di pericoli per l'autorità di Roma. Anche in questo il C., che non perde di vista la situazione italiana, auspica una condotta "illuminata" e tollerante che difenda l'ortodossia religiosa senza far ricorso a drastiche misure.

Fonti e Bibl.: Quattro lettere del C. a G. M. Mazzuchelli (1728-1740) sono in Bibl. Apost. Vaticana, Vat. lat. 10005, II, ff. 497-501; vedi inoltre Bibl. Apost. Vaticana, Vat. lat. 9283, ff. 599r-604r: G. B. Tomitano, Notizie intorno alla vita, a' costumi, ed agli scritti dell'abate don R. C. cittadino di Oderzo, (un ampliam. di queste notizie è la Vita di R. C., premessa al Saggio di rime e prose dell'abate R. C., raccolte da G. B. Tomitano...,Treviso 1796); Novelle letterarie di Firenze, I (1740), col. 514; G. A. Moschini, Della letter. Veneziana…, I,Venezia 1806, p. 197; IV, ibid. 1808, pp. 81 s.; E. A. Cicogna, Saggio di bibliogr. veneziana, Venezia 1847, p. 349; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant'anni, App., Venezia 1857, p. 46; G. Renucci, Una inedita relazione di R. C. di Oderzo sulle questioni insorte tra il clero e il Parlamento francese nel 1754, in Nuova Riv. stor.,XLVIII (1964), pp. 606-32.

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