PYRGI

Enciclopedia dell' Arte Antica (1996)

Vedi PYRGI dell'anno: 1965 - 1996

PYRGI (v. vol. VI, p. 570)

G. Colonna

Piccola città dell'Etruria meridionale costiera, porto principale di Caere, da cui dista c.a 13 km, e sede del più importante santuario non solo della città, ma di tutta l'Etruria marittima. Sacro a una divinità identificata comunemente con Leucotea (per Strabone: Ilizia), fu saccheggiato nel 384 a.C. da una spedizione navale siracusana agli ordini di Dionigi il Vecchio, che ne trasse enormi ricchezze (almeno 1.500 talenti). Il sito accolse intorno al 264 a.C. una colonia di cittadini romani, che nel 191 a.C. fu tra quelle che invano reclamarono la vacatio militiae. I pyrgensi M. Postumius e M. Antistius furono condannati, rispettivamente nel 212 e nel 179 a.C., per colpe, almeno nel primo caso, sicuramente collegate alle attività portuali. La menzione da parte di Lucilio (frg. 1271, Marx) delle scorta Pyrgensia si riferisce probabilmente alla prostituzione sacra già praticata nel santuario etrusco, cui sembra alludere indirettamente anche Plauto (Cist., 562 s.). Per Strabone il santuario sarebbe stato fondato, come la città di Caere, dai Pelasgi: teoria condivisa a quanto pare da Virgilio, che dice P. già veteres ai tempi di Tarconte e di Enea. Nel commento al poeta Servio (Aen., X, 184) dichiara P. metropolis degli Etruschi, qualifica altrimenti nota solo per Cortona: il che riporta alla leggenda delle origini, nella versione lidia, centrata sullo sbarco di Tirreno (Colonna), o in quella della autoctonia, centrata sulla paretimologia dell'etnico Tirreni come «uomini delle torri» (Briquel, 1993).

Divenuta luogo di villeggiatura, grazie anche alla vicinanza delle ricercate Aquae Caeretanae, vi morì nel 40 d.C. Cn. Domitius, padre di Nerone, che probabilmente vi possedeva fondi, poi passati al demanio imperiale (il che spiegherebbe la donazione da parte di Adriano di una derivazione d'acqua ai Pyrgensi). Forse vi soggiornò anche Nerva, prima di ascendere al trono (Mart., XII, 5,1). Pur declassato dalla fondazione di Centumcellae, il porto continuò a rifornire Roma di pesce (Ath., VI, 224 C), mentre due membri della gens senatoria dei Volumnii, di probabile origine locale, compivano notevoli dediche sacre nella città. Nel 417 d.C. Alsium e P. apparvero dal mare a Rutilio Namaziano con l'aspetto più di una grande villa che di una pur modesta cittadina: il che, invero, si attaglia meglio al primo che al secondo dei due siti. Scavi continuativi, condotti dall'Università di Roma a partire dal 1957, anche con l'aiuto della prospezione geofísica, hanno riportato alla luce quasi per intero il grande santuario, con scoperte clamorose, cui si è aggiunta dal 1983 una seconda area sacra, in corso di esplorazione. Tra il 1964 e il 1967 sono state scavate le mura e le porte della colonia romana, mentre nel 1972 è stato allestito sul posto un Antiquarium statale.

L'insediamento etrusco occupava il breve promontorio fronteggiato dall'insenatura naturale del porto, oggi quasi del tutto interrata, prolungandosi a S lungo la costa per c.a 300 m, con una superficie complessiva di c.a 10 ha, in parte erosa dal mare. Dopo una lunga fase di frequentazione a quanto pare precaria, iniziata almeno dalla fine dell'VIII sec. a.C., il sito fu urbanizzato verso il 600 a.C. o poco dopo, secondo un piano apparentemente ortogonale, con strade larghe (da 3,50 a 4,40 m) e ben drenate, case con muri dapprima a mattoni crudi su zoccolo di ciottoli grossi, più tardi interamente di pietre a secco. Il collegamento con la città fu assicurato da una strada a fondo glareato tra due spalle a filari di blocchi di tufo, larga oltre 10 m, datata dalle tombe a piccolo dado che sorsero ai suoi margini. Al di là del centro abitato furono insediate, in una piana costiera fino allora deserta, due aree sacre, separate da un fosso alimentato da una sorgente situata poco all'interno, che è l'unica esistente nell'intero comprensorio. La costruzione dei primi sacelli, noti in entrambe le aree esclusivamente da antefisse a testa femminile di stile ionico e da poche altre terrecotte architettoniche di I fase (includenti nell'area S almeno un acroterio a busto di Acheloo), si data verso il 540-530 a.C.

La svolta decisiva sopravvenne tuttavia solo verso il 510 a.C., quando l'area a Ν del fosso fu rialzata e monumentalizzata con la costruzione di un recinto a pianta rettangolare di 36 m per almeno 72, orientato come gli isolati della città, con l'ingresso sul lato corto E, obliquo perché probabilmente attestato su una preesistente via suburbana. All'interno fu innalzato il tempio Β con il collegato recinto C (fornito di altare cilindrico perforato sull'asse per offerte liquide di evidente carattere catactonio): si aggiunsero inoltre una cisterna e un ambiente addossati al lato E del tèmenos, nonché una sequenza di almeno venti celle uguali, addossate al lato S dello stesso e precedute da una fila di piccoli altari quadrati. Il tempio, di c.a 20 X 30 m, aveva una cella quadrata con pronao ad ante precedute da una coppia di colonne, fasciata da una peristasi di 4x6 colonne, con portico meno largo sul lato posteriore. Muri e colonne erano di tufo intonacato di bianco, mentre la decorazione fittile del tetto e degli stipiti della porta della cella, progettata espressamente per il tempio e non replicata altrove, includeva altorilievi frontonali con fatiche di Eracle e palafreniere affiancato a una pariglia di cavalli stanti, piccoli acroterî da sima con cavalieri e amazzoni montate, grandi antefisse a testa di sileno, di menade e di etiope entro nimbo a serpentina traforata. All'edificio delle venti celle è stata invece attribuita la serie di sei tipi di antefisse a figura intera - tre in movimento verso destra e tre stanti, queste ultime su alta base modanata ad altare - la cui interpretazione è ancora controversa. Si riconoscono con sicurezza Helios che trascorre sulle onde, Eos tra i suoi cavalli alati, Eracle probabilmente anch'egli tra cavalli alati, la Notte che avanza celando gli astri sotto il mantello.

Assieme ai resti della decorazione del tempio, e precisamente entro un riparo costruito con blocchi intonacati tratti dalle sue ante, sono venute in luce nel 1964 tre lamine d'oro a forma di fogli verticali di cm 8/9 X 18/19, iscritte due in etrusco e la terza in fenicio, databili, per quanto lo consentono fonetica e paleografia, alla stessa epoca del tempio. L'iscrizione etrusca lunga (36 parole) e quella fenicia (41 parole) costituiscono una bilingue, anche se non puntuale, mentre l'etrusca corta contiene informazioni aggiuntive. La bilingue commemora l'impresa di un re «su» Caere, Thefarie Velianas, che ha costruito un «luogo santo» nel «tempio» di Uni, in fenicio chiamata Astarte, e lo ha donato alla dea per ringraziarla del favore ricevuto di regnare per tre anni. Poiché nella terminologia fenicia (e biblica) il «tempio» del dio (letteralmente la «casa») è quello che in Occidente si usa chiamare piuttosto il santuario, con tutta la molteplicità di strutture e di spazi di cui proprio il caso in questione è un buon esempio, è lecito identificare il più circoscritto ma cultualmente più importante «luogo santo» con il tempio B, alla cui porta probabilmente le lamine erano affisse, in compagnia delle grandi bullae d'oro rinvenute assieme con esse (forse metonimicamente chiamate «stelle» nella chiusa del testo fenicio). La menzione di Uni è coerente con i tre pocola tardoarcaici dipinti col nome della dea finora rinvenuti, mentre quella di Astarte trova anch'essa conferma in una dedica vascolare dall'area S. Il ricorso alla bilingue, in assenza di qualsiasi indizio di frequentazione del santuario da parte di parlanti fenicio o punico, è stato spiegato con l'ipotesi di un culto affidato inizialmente, come a Roma quello della triade aventina, a sacerdotesse straniere, eventualmente coinvolte nella prostituzione sacra (suggerita dalla tipologia, altrimenti di difficile motivazione, dell'edificio delle venti celle con gli altarini antistanti).

Dopo un parziale rinnovo delle antefisse del tempio B, con i tipi della menade e dell'etiope in una redazione di minor formato del 490-480 a.C., il santuario fu sottoposto a grandiosi lavori di ampliamento in direzione della città, che ne raddoppiarono la superficie. Sorse allora (verso il 470-460 a.C. in base alla combinazione dei dati stratigrafici e stilistici, questi ultimi relativi alla decorazione fittile) l'ancor più imponente tempio A (m 24 X 34,40), a pianta tuscanica con tre celle e pronao di 10 o 12 colonne disposte su tre file (come nel Tempio dei Castori a Roma, di poco più antico), preceduto verso mare da una più larga terrazza con due pozzi agli angoli. La fronte posteriore fu decorata con altorilievi dei quali nel 1957- 1958 si è rinvenuto quasi completo quello centrale, raffigurante i due momenti più «immorali» dell'assedio dei Sette a Tebe: Capaneo che sfida Zeus e ne è fulminato, Tideo ferito che agguanta il capo del morente Melanippo, disgustando Atena che gli rifiuta l’athanasìa. È possibile che altre scene di lotta, raffigurate nei due altorilievi laterali, appartengano alla medesima narrazione. Opera di uno stesso ignoto maestro, si pongono tra le creazioni più originali e tecnicamente ardite della coroplastica di tradizione arcaica, pervase da un forte senso di condanna della hỳbris, a livello sia intestino che delle relazioni esterne (v. etrusca, arte). Anche le altre terrecotte sono di nuova progettazione, a eccezione delle antefisse a teste di sileno e di menade di varî tipi, ripresi da matrici più antiche, già utilizzate a Veio e a Caere. Una lamina bronzea iscritta, già apposta sotto un'immagine di Thesan «nel santuario di Uni» da parte di una Thanachvil Catharnai, rinvenuta tra le terrecotte del tempio, fa ritenere che in esso fosse venerata in particolare quella divinità, che, in quanto divinità di culto, i Greci identificavano non con Eos ma con Leucotea (esattamente come era accaduto a Roma nei confronti di Mater Matuta, e fin dall'epoca di Servio Tullio). L'ampliamento del santuario fu anch'esso recintato con un muro nel quale, in corrispondenza dell'intersezione con la strada Caere-P., fu aperta una porta di tipo sceo, larga 2,90 m, preceduta da un piazzale.

Contemporaneamente o poco dopo l'ampliamento del santuario di Uni fu dato all'area S un nuovo assetto, cui appartengono le più antiche strutture finora note. Su un lieve rialzo parallelo alla spiaggia, artificialmente accentuato, sorse il sacello γ, a forma di disadorno òikos di 5,70 X 8,70 m, orientato a NO, con ingresso decentrato, «cella» completamente isolata e al suo interno due blocchi con cuppella per libazioni. Nei pressi un bòthros a cista litica, con un craterisco acromo e una piccola oinochòe a figure nere all'interno, conferma il carattere catactonio del culto. Furono anche costruiti due altari: uno quadrato di blocchi (δ) e uno circolare a basso cumulo di sassi fluviali, misti a tritume di ossa combuste (ζ), situato all'estremità Ν dell'area. I numerosissimi doni votivi di fine VI-V sec., rinvenuti in uno strato recenziore (infra), comprendono tra l'altro pregevole ceramica attica (eccelle una grande phiàle mesomfalica con la raffigurazione del massacro dei Proci, attribuita al Pittore di Brygos), armi da getto esclusivamente di ferro, gioielli e altri elementi del mundus muliebris, aes rude, olpette acrome, terrecotte votive. Alcuni graffiti vascolari menzionano una coppia divina, Suri e Cav(a)tha, il primo chiamato anche semplicemente apa, «Padre». Sono divinità poco note, dai contorni sfuggenti. Il carattere infero e oracolare di Suri, altrove ben attestato (sortes del Viterbese e di Arezzo, menzione nella Tegola di Capua, nei Piombi di Chiusi e di Magliano, ecc.), risulta a P. dai tela, dalle teste fittili di ariete, dagli astragali di caprovini, forse dallo stesso aes rude. L'identificazione greca con un Apollo infero è provata a Falerii e sul Soratte, dove il dio porta il nome latinizzato di Soranus, e anche a Roma, dove sappiamo che l'affine Vediove dell'Asylum capitolino era popolarmente considerato un Apollo. A P. l'identificazione è assicurata dal ricordo, giuntoci attraverso Eliano (Var. hist., I, 20), del saccheggio effettuato nel 384 a.C. delle ricchezze di Apollo oltre che di Leucotea, e in particolare dell'asportazione della tràpeza d'argento del dio, ordinata da Dionigi dopo un beffardo brindisi di fine pasto. Di Cav(a)tha sappiamo ancora meno: una dedica da Orvieto di recente resa nota, anch'essa di V sec., le attribuisce l'epiteto di «Figlia», che evoca immediatamente Persefone/Proserpina, compagna a Roma di Dispater, cui Servio, seguendo probabilmente Varrone, assimila Soranus. Da altre fonti risulta che la dea aveva un carattere solare, il che non è inconciliabile con l'aspetto catactonio del culto.

Al tardo V sec. si data il rifacimento degli altorilievi della fronte del tempio A, di cui restano pochi frammenti, raffiguranti una amazzonomachia, con la partecipazione di Eracle nel quadro centrale. L'ingente accumulo di ricchezze, che suscitò la cupidigia di Dionigi, è evocato dal rinvenimento, avvenuto in corrispondenza di uno degli ambienti di fondo del tempio A, di un gruzzolo di nove tetradrammi di V sec., ateniesi e sicelioti, che sono gli unici finora apparsi in Etruria.

Dopo il sacco siracusano si attese, a quanto pare, la metà del IV sec., o poco dopo, quando la consolidata intesa con Roma cominciava ad apportare alla città concreti vantaggi economici, per avviare un programma di restauro e di rinnovamento edilizio. Nel grande santuario si intervenne sul tempio B, sull'edificio delle venti celle (se gli appartengono le antefisse con la coppia della dea e del suo giovane paredro) e soprattutto sul tempio A. Oltre alla sostituzione pressoché generale delle antefisse e delle lastre di rivestimento, si rinnovò l'altorilievo centrale della fronte, di cui notevoli resti sono venuti in luce nel 1969-1970 entro i due pozzi della terrazza del tempio. I più notevoli sono la figura di un dio o eroe, nudo e incoronato di pioppo, quasi certamente Eracle, e la testa di una dea o eroina che gli sta accanto inquieta, presente un giovanetto: quasi certamente Leucotea con Palemone, accolti localmente da Eracle. Il quadro, di ottimo stile tardo-classico, sembra richiamare la leggenda «pelasgica» del santuario, in relazione a quella che a Roma si attribuiva al santuario di Mater Matuta.

Ancora più radicali furono gli interventi operati sull'area S, che tuttavia conservò immutato il suo carattere «povero» e disadorno, tipico di un santuario rimasto forse, come a Gravisca, fuori dalla sfera statale. Anzitutto fu creato un vasto piazzale d'ingresso, a N, seppellendo nella sua massicciata pavimentale i doni votivi di cui sopra si è detto. Demolito l'altare δ, fu costruito il sacello α: un òikos di pianta quadrangolare, con ingresso anche in questo decentrato, orientato con i templi del grande santuario. Un secondo edificio, ϐ ugualmente orientato, con ingresso aperto con due ante verso E, aveva forse funzioni di servizio.

Intorno al 280-270 a.C. sia il santuario monumentale che l'area S furono devastati da un evento bellico che ha disseminato la zona di ghiande-missili, da porre in relazione col malnoto conflitto allora insorto tra Roma e Caere, cui seguirono la riduzione a prefettura della città etrusca e l'annessione a Roma dell'intero litorale. Poco dopo templi, sacelli e ogni altra costruzione furono demoliti e i loro resti accumulati al suolo, colmando le bassure, specialmente intorno al podio del tempio A, e livellando accuratamente le due aree. Nei pozzi del grande santuario furono sacrificate vittime animali, anche selvatiche (un maialino, una pecora, un cane, un tasso e varie volpi), cui fu aggiunta in un caso una stips di 20 monete e un simpulum dedicato a Farthan, il «Genio». Altre monete furono sparse nello strato di livellamento dell'area S, rendendo evidente la pietas dell'operazione. Il culto continuò per quasi tutto il III sec. a.C., come provano le terrecotte votive di tipo «anatomico», deposte sulla terrazza del tempio A, e le monete, deposte con altre offerte in una fossa sacrificale adiacente all'altare ζ dell'area S. In quest'ultima altre monete provano una saltuaria frequentazione protrattasi almeno fino all'età sillana, rendendo plausibile un rapporto tra i culti dell'area e quelli del Pater Pyrgensis e di Sol Iuvans, praticati nella colonia romana.

La devastazione che colpì le aree sacre coinvolse, a quanto risulta dall'esame della sezione tagliata dall'erosione marina, anche l'intero abitato. Sulle rovine del quartiere antistante il porto fu impiantata la colonia romana, la cui superficie di 5,5 ha, più che doppia rispetto a quella di Ostia e Minturno, fa pensare, come nel caso di Sinuessa, a una consistente partecipazione della superstite popolazione indigena. Le mura urbane, fungenti alla base da contenimento dell'interro livellante i resti della città etrusca, disegnano un rettangolo di 218 X 270 m, mutilato del settore d'angolo S secondo una linea obliqua corrispondente alla linea di costa dell'epoca. Analogo è il caso delle mura della colonia di Luni (v.). Mentre da tempo i resti disfatti di tale tratto delle mura e dell'adiacente estremità del lato lungo S sono stati osservati sul fondale marino, solo recentemente (1988) sono stati individuati nei sotterranei del castello quelli ben conservati di parte del tratto rettilineo del lato O.

L'anomalo tracciato del lato in questione è stato certamente la causa del leggero spostamento a Ν e del decumano massimo e delle due porte corrispondenti, di cui quella a mare non è stata ancora ritrovata. Per il resto le mura, costruite con massi di arenaria locale lavorati sulla faccia esterna in una raffinata opera poligonale, sono le meglio conservate che si conoscano per una colonia optimo iure. Sul lato Ν ne resta un tratto di 100 m conservato per l'intera altezza di 3,25 m, terminante con un piano orizzontale che sembra presumere un coronamento di mattoni crudi. Prive di qualunque aggetto esterno, hanno le porte composte da due camere assiali, sporgenti a bastione verso l'interno. Nel vano di quella del lato S, da cui usciva la via per Caere e forse l’Aurelia Vetus, passava l'acquedotto sotterraneo adducente l'acqua della sorgente situata nel retroterra delle aree sacre. L'erosione marina ha messo in vista la sezione della fossa antistante le mura, interrata, come la porta vicina, fin dalla prima età imperiale. Nel II-III sec. d.C. porta e pomerio furono invasi da modeste tombe di tegulae o in anfore segate. Presso le mura e sul tratto contiguo della Via Aurelia sorsero a partire dal I sec. a.C. alcune ville, di cui restano scarsi avanzi, mentre una tomba con statua di togato e mensa su trapezofori è venuta alla luce nell'allargamento dell'Aurelia moderna al km 54. All'età antonina risale la sistematica spoliazione del santuario per il recupero dei blocchi di tufo.

Per quanto riguarda il porto le ricerche condotte a più riprese dall'Istituto Internazionale di Studi Liguri, nel 1974 con la collaborazione dell'Accademia Americana di Roma, hanno permesso di accertare che l'accesso al bacino interno avveniva tramite un canale sottomarino, delimitato da due vasti affioramenti rocciosi, che in età romana sono stati rialzati con scogliere frangiflutti. Fu allora aperto a E un canale laterale per il ricambio e la circolazione della corrente, orientato quasi come il tratto obliquo delle mura e accompagnato verso terra da una banchina di calcestruzzo. Più tardi, con la decadenza del porto, sulla scogliera Ν fu installata una peschiera, forse in relazione alla villa sorta dinanzi al contiguo lato delle mura.

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