PUCCI DI BARSENTO, Emilio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 85 (2016)

PUCCI DI BARSENTO, Emilio

Michele Lungonelli

PUCCI DI BARSENTO, Emilio. – Nacque a Napoli il 20 novembre 1914, primogenito di Orazio e di Augusta Pavoncelli, seguito l’anno successivo dal fratello Puccio e, più tardi, da Nicoletta (1921-2015).

Il padre apparteneva a una delle più antiche e blasonate famiglie dell’aristocrazia fiorentina, quella dei marchesi di Barsento, e la madre, di estrazione borghese, proveniva da una famiglia di facoltosi commercianti di origine pugliese che – nella Napoli di fine Ottocento – aveva saputo conquistare una posizione economica di rilievo, testimoniata assai bene dalle residenze che la famiglia arrivò a possedere nella zona di Posillipo. Fu in una di queste ville, conosciuta come lo Scoglio di Frisio, che Orazio e Augusta trascorsero i primi anni di matrimonio e nacquero Emilio e Puccio.

Dopo il trasferimento a Firenze fu Augusta, donna di carattere e dotata di notevole forza di volontà, a stabilire la residenza in una villa sulla via Bolognese, lasciando il centralissimo palazzo della famiglia, ubicato nella strada omonima, a disposizione della suocera, la nobildonna russa Barbara Narijshkin rimasta vedova di Emilio Paolo Pucci nel 1912.

Emilio ricevette la tipica, rigida educazione poliglotta riservata ai rampolli dell’aristocrazia fiorentina sia pure in un ambiente segnato da decadenza economica.

Al pari di altre grandi famiglie toscane – scarsamente reattive rispetto ai processi di trasformazione in corso nella gestione di patrimoni prevalentemente di origine fondiaria che risaliva almeno all’età napoleonica – la famiglia Pucci fu costretta, per mantenere uno stile di vita tipicamente ancien régime, all’alienazione di buona parte dei terreni nonché di diverse opere d’arte di grande valore tra cui Il martirio di san Sebastiano del Pollaiolo (Antonio Benci) e tre dipinti di Botticelli raffiguranti la novella Nastagio degli Onesti presente nel Decameron di Boccaccio, attualmente conservati a Londra (National Gallery) e Madrid (Museo del Prado). Questa situazione fu vanamente contrastata dalla madre che, cresciuta in una famiglia con un forte senso degli affari, manifestava spesso insofferenza per gli sprechi del marito il cui patrimonio, rimasto indiviso, era poco oculatamente amministrato da Roberto, fratello maggiore di Orazio.

Dopo la licenza liceale conseguita nel 1933 al liceo classico Galileo, Emilio Pucci si iscrisse alla facoltà di agraria, inizialmente a Firenze e successivamente a Milano, senza tuttavia completare gli studi. Il proposito inizialmente accarezzato di raccogliere la sollecitazione pervenutagli dallo zio Roberto, che lo aveva designato quale erede della tenuta di Granaiolo in Val d’Elsa, a divenire un proprietario terriero fu rapidamente accantonato di fronte alla ben più allettante prospettiva di proseguire gli studi universitari negli Stati Uniti dove si recò, nell’estate del 1935, dopo aver ricevuto una borsa di studio dall’Università della Georgia. Dopo pochi mesi, le scarse motivazioni per gli studi agrari lasciarono il posto ai nuovi interessi per le scienze politiche. Nel settembre del 1936, sorretto anche dal desiderio di conoscere altre parti degli Stati Uniti, approdò a Portland in Oregon. La sua ammissione al Reed College fu facilitata dalla passione per lo sci, che gli consentì, grazie a un posto di istruttore, di ottenere l’iscrizione con i vantaggi annessi (alloggio, mensa ed esenzione dalle tasse universitarie). Ottenuto il Master of arts in scienze sociali nel giugno del 1937, tornò in Italia solo nell’autunno di quell’anno dopo un lungo viaggio in Giappone, Cina e Malesia. A Firenze si iscrisse alla facoltà di scienze politiche Cesare Alfieri, dove si laureò nel 1941.

Con il rientro in Italia maturarono scelte e incontri destinati ad avere un peso rilevante nella sua vita. Nell’autunno del 1938 fu ammesso al corso per allievo pilota della Regia Aeronautica e nel luglio 1939 ne divenne ufficiale di complemento. Dopo una prima assegnazione alla base di Aviano (Udine), fu destinato al 9° stormo bombardieri di Viterbo e, poi, al 10° di stanza a Milano. In quello stesso periodo ebbe modo di frequentare, tramite i comuni interessi in campo sciistico e aviatorio, i figli di Benito Mussolini: Bruno, Vittorio e soprattutto Edda, moglie di Galeazzo Ciano. Con quest’ultima stabilì un sodalizio profondo, destinato con il tempo a trasformarsi in una relazione affettiva.

Molti anni dopo, in un lungo libro-intervista, Edda avrebbe ricordato: «Pucci era già arruolato nell’aviazione. È stato un eroe in guerra e un uomo molto coraggioso che mi ha difeso quando ne avevo bisogno. Sì, perché a parte l’aspetto affettivo, è stato un amico fedele, veramente un amico. Era in gamba. Brutto come un diavolo, però molto raffinato, un vero gentiluomo che mi ha aiutato fino alla fine quando, nel 1944, io sono partita per la Svizzera» (Ciano, 2001, p. 43).

L’ingresso in guerra lo colse a Benina, in Africa settentrionale, dove rimase fino al settembre 1940. Nella primavera del 1942, dopo un periodo di addestramento, fu trasferito al 41° gruppo aerosiluranti e con questo reparto prese parte alle battaglie di giugno e agosto 1942 intraprese dalla Regia Aeronautica per contrastare il traffico dei convogli britannici diretti all’isola di Malta. In queste occasioni il suo comportamento gli valse due medaglie d’argento e una croce al valor militare. Pucci rimase in servizio, usufruendo di alcuni periodi di licenza per malattia, fino all’estate del 1943, quando l’armistizio dell’8 settembre lo sorprese alla base di Gorizia. Ottenuto un congedo di tre mesi per le sue precarie condizioni di salute rientrò a Firenze e, grazie a una Fiat Topolino balestra procuratagli dal padre, raggiunse Edda e fu al suo fianco nei tre mesi nei quali lei si adoperò per salvare il marito, Galezzo Ciano, accusato di alto tradimento dai vertici della Repubblica sociale italiana e giustiziato a Verona l’11 gennaio 1944. Tramontate le speranze di salvare Ciano, barattando con le autorità tedesche la cessione dei diari di quest’ultimo, aiutò Edda a espatriare in Svizzera.

Al ritorno da questa missione, il 10 gennaio 1944 fu arrestato e condotto a Milano nel carcere di San Vittore, dove trascorse una settimana tra interrogatori e torture. Liberato grazie a intercessioni mai del tutto chiarite, il 19 dello stesso mese poté rifugiarsi in Svizzera e, ricoverato all’ospedale di Bellinzona, fu curato dalle sevizie subite durante la detenzione (duplice frattura cranica, perforazione del timpano e contusioni multiple).

La permanenza nella Confederazione elvetica si protrasse fino all’estate 1946, ma una volta rientrato in Italia dovette prendere atto del dissesto del patrimonio familiare e della necessità di procurarsi rapidamente un’occupazione. Grazie ai rapporti di amicizia intrattenuti in anni precedenti con esponenti della famiglia Agnelli, ebbe inizialmente un posto come responsabile della stazione sciistica del Sestriere in Piemonte. Da qui si spostò nuovamente in Svizzera, a Zermatt, dove le sue doti di creatività e di stile ebbero un primo, importante riconoscimento.

Fu la fotografa americana Toni Frissel a documentare alcune sue creazioni di abbigliamento sportivo destinate al pubblico femminile. Le foto, pubblicate sul mensile Harper’s Bazaar nel dicembre del 1948 con un breve testo di accompagnamento, An Italian skier designs, che ne sottolineava l’originalità, riscossero un grande interesse e gli aprirono le porte del mercato americano attraverso contratti con catene commerciali quali White Stag e Lord & Taylor. Al successo dei capi invernali seguì quello della moda dedicata al mare. L’apertura di una piccola boutique a Capri nel 1950, in uno dei luoghi più esclusivi dell’isola – lo stabilimento balneare della Canzone del mare nella baia di Marina Piccola – fu il trampolino di lancio di un percorso straordinario.

In questi stessi anni fu al fianco di Giovanni Battista Giorgini, personaggio chiave per l’affermazione su scala internazionale di numerosi esponenti della moda italiana nel corso degli anni Cinquanta.

Giorgini, nella sua veste di ‘agente d’acquisto’ di grandi magazzini americani e dunque da ottimo conoscitore della realtà statunitense, comprese che – per rilanciare l’attenzione sui prodotti dell’artigianato italiano e, più in generale, su un Paese ancora gravato da pesanti stereotipi (spaghetti, mandolino, mafia), la cui immagine era uscita fortemente incrinata dall’esperienza fascista e da una guerra perduta – occorreva un deciso salto di qualità. La lunga esperienza maturata Oltreoceano gli aveva poi messo di fronte uno scenario di mutamento del quale dover tenere conto: ritmi di vita più accelerati, donne sempre più impegnate in attività lavorative al di fuori dell’ambito domestico, costrette a utilizzare mezzi pubblici, a trascorrere parecchie ore fuori casa senza per questo rinunciare a un’esigenza di stile e di eleganza. Quello che occorreva era la disponibilità di un prodotto di moda attraente ma più semplice e meno sofisticato di quello offerto dai sarti parigini. Partendo da questa consapevolezza, che all’epoca apparve poco meno che temeraria, Giorgini lavorò all’organizzazione di un evento fiorentino da collocare immediatamente a ridosso delle presentazioni della moda francese a Parigi, irrinunciabile appuntamento mondiale per tutti gli operatori del settore, al quale fossero presenti sia case di alta sartoria che boutique impegnate nella realizzazione di prêt-à-porter (confezione pronta di lusso) in piccole quantità destinate alla vendita nelle località di villeggiatura all’epoca più in voga (Capri, Portofino, Positano).

A partire dalla prima sfilata fiorentina nell’abitazione di Giorgini (12-14 febbraio 1951), vero e proprio atto di nascita della moda italiana – poi trasferitasi nella celeberrima sala bianca degli appartamenti reali di Palazzo Pitti – per oltre quindici anni Pucci fu costantemente presente alle due manifestazioni annuali (invernale ed estiva) dell’Italian high fashion show che contribuirono non poco al suo successo internazionale.

Fin dalla fase di avvio mostrò particolare interesse per la sperimentazione sui materiali, stimolando diverse imprese (Ravasi, Legler, Cotonificio Valle Susa) a impegnarsi in questo campo, come nel caso del nuovo jersey in organzino di seta finissimo realizzato dalla Mabu di Solbiate e dalla Boselli di Como per la confezione di capi ingualcibili e dal minimo ingombro.

Nel 1954 l’assegnazione del Neiman-Marcus Award, il più prestigioso riconoscimento americano nel campo della moda, lo consacrò come il sarto più in auge.

Furono numerose le attrici ritratte con i suoi abiti, da Lauren Bacall a Elizabeth Taylor, da Marilyn Monroe a Sophia Loren. Eleganza e funzionalità, le due componenti fondamentali della sua creatività sartoriale, furono alla base anche di alcune delle collezioni più note della seconda metà del decennio: Siciliana (1956), Palio (1957), che si richiamava all’omonima corsa senese, e Botticelliana (1959), chiaramente ispirata all’arte fiorentina.

Gli anni Cinquanta, che gli avevano riservato grandi soddisfazioni, si chiusero idealmente con il matrimonio con Cristina Nannini dalla quale ebbe due figli: Alessandro (1959-1998) e Laudomia (1961).

All’inizio del decennio successivo la notorietà facilitò il suo ingresso in politica. Primo dei non eletti alla Camera (circoscrizione di Firenze-Pistoia) nelle liste del Partito liberale italiano alle elezioni politiche del 1963, dopo soli quattro mesi subentrò nel seggio parlamentare a Vittorio Fossombroni in seguito alla morte di questi. Fu confermato nelle elezioni politiche del 1968 e in entrambe le legislature fece parte della XIII commissione (Lavoro e previdenza sociale). Nel 1964 fu eletto nel Consiglio comunale di Firenze, dove rimase ininterrottamente fino al 1990, prima nelle file liberali e, dal 1980, come indipendente nel gruppo democristiano.

La fine degli anni Sessanta rappresentò la conclusione di un’epoca e l’inizio di un periodo segnato da crescenti difficoltà.

La protesta e la ribellione giovanile del 1968 portarono al rifiuto del lusso e dell’eleganza.

La ‘trasandatezza’ divenne una nuova forma di snobismo. «Tutti si potevano e si dovevano mettere tutto», ricordava Pucci con amarezza di quel periodo nel quale «si doveva anche essere brutti, o sporchi per dimostrare che la vera personalità conta più dell’aspetto» (Emilio Pucci, 1996, p. 90).

A questo si aggiunsero le delusioni per alcune scelte (alta sartoria, moda maschile), prima fra tutte la creazione del profumo Vivara, che non dettero i risultati sperati e che, oltretutto, incrinarono il rapporto con Diana Vreeland, una delle giornaliste che, prima con Harper’s Bazaar e poi con Vogue, più avevano contribuito alla sua affermazione nel mercato americano. Tutte vicende che non offuscarono però i suoi alti meriti: uno stile profondamente innovativo, che aveva liberato le donne da un abbigliamento rigido e strutturato offrendo loro modelli essenziali che seguivano le linee del corpo e al contempo capace di consentire, per crescenti fasce di consumatori, l’accesso a creazioni firmate.

La sua fama, ancora molto grande negli Stati Uniti all’inizio degli anni Settanta, lo portò, su richiesta della NASA (National Aeronautics and Space Administration), a realizzare l’emblema della missione lunare Apollo 15. Tra i riconoscimenti dell’ultimo periodo vi fu, il 4 giugno 1982, la nomina a cavaliere del Lavoro.

Dalla metà degli anni Ottanta la figlia Laudomia lo affiancò nella predisposizione delle collezioni, in un’impresa di cui aveva il pieno controllo nella forma di società a responsabilità limitata e con un laboratorio creativo da sempre collocato in un’ala del palazzo di famiglia – ubicato nel centro storico di Firenze – nel quale operava un ristretto numero di lavoranti di provata affidabilità.

L’artigiano Emilio Pucci, come si era sempre definito, nonché – come ricordò in un necrologio il quotidiano britannico The Independent riprendendo una sua affermazione – «primo membro della sua famiglia a lavorare da un migliaio d’anni» (R. Scott, Obituary: Emilio Pucci, 1° dicembre 1992), morì a Firenze il 29 novembre 1992.

Dopo la sua morte la responsabilità dell’azienda è passata alla figlia Laudomia. Nell’aprile del 2000 la LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy) ha rilevato la quota maggioritaria dell’azienda.

Fonti e Bibl.: Dal 2001 l’archivio privato e i materiali (abiti, accessori, disegni e foto) accumulati in oltre quattro decenni di attività sono conservati a Firenze presso la Fondazione che porta il suo nome (cfr. www.siusa.archivi.benicultu

rali.it). Ulteriori informazioni sono rintracciabili a Roma, Archivio storico della Federazione dei cavalieri del Lavoro, ad nomen. Per i due mandati parlamentari si veda il portale storico della Camera dei deputati (www.storia.camera.it/deputati).

E. Mannucci, Il marchese rampante. E. P.: avventure, illusioni, successi di un inventore della moda italiana, Milano 1998, passim. Sulla famiglia materna: M.C. Schisani, Pavoncelli, Nicola, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXXI, Roma 2014, pp. 813-816. Sulla famiglia e sugli stili di vita nobiliari nella Firenze tra Otto e Novecento: A. Moroni, Antica gente e subiti guadagni. Patrimoni aristocratici fiorentini nell’800, Firenze 1997, pp. 20, 98 s., 109, 142, 147, 161; D. Arnetoli, La famiglia Pucci, Firenze 2002. Sul rapporto intrattenuto con Edda Mussolini si veda la testimonianza di quest’ultima in E. Ciano, La mia vita. Intervista di D. Olivieri, Milano 2001, pp. 43, 83, 86, 92, 99, 108-110, 121 s. Sul comportamento in guerra cfr. G. Rocca, I disperati. La tragedia dell’Aeronautica italiana nella seconda guerra mondiale, Milano 1991, pp. 214, 232. Sulle origini del made in Italy nel campo della moda e sul ruolo delle prime sfilate fiorentine si vedano, per un quadro d’insieme: G. Vergani, La sala bianca: nascita della moda italiana, Milano 1992, pp. 23-82; V. Pinchera, Firenze e la nascita della moda italiana: dai drappi alla sala bianca, in Annali di storia dell’impresa, 2008, n. 19, pp. 133-190. Per il caso specifico: S. Kennedy, Pucci. A renaissance in fashion, New York 1991; E. P., a cura di K. Le Bourhis - S. Ricci - L. Settembrini, Milano 1996; V. Mendes - A. de la Haye, La mode au XXe siècle, Paris 2000, pp. 172 s.; A. Chitolina - V. Friedman - A. Arezzi Boza, E. P.: fashion story, Köln 2013.

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