Psicologia

Dizionario di filosofia (2009)

psicologia


Dal lat. mod. psychologia, comp. del gr. ψυχή «anima» e λόγος «ragionamento, discorso», letteral. «dottrina dell’anima». In generale, la scienza che studia i fenomeni psichici in sé stessi e nelle loro reciproche integrazioni, sia che vengano avvertiti dalla coscienza, sia che si svolgano al di sotto di essa, negli strati dell’inconscio. Si distingue una p. razionale o filosofica, che ricerca il principio ontologico dell’attività psichica, e una p. scientifica o sperimentale, la quale, con i metodi propri delle scienze positive (l’osservazione e l’esperimento), indaga sulle funzioni, sui processi e sui comportamenti dell’attività psichica. Il termine sembra sia stato coniato da Melantone (nella forma latina psychologia) e specialmente messo in circolazione da Goclenio, che nel 1590 diede a un suo trattato il titolo di Ψυχολογία, hoc est de hominis perfectione. Affermatosi poi definitivamente nell’uso con Leibniz e con la scuola wolffiana, divenne termine comune per designare ogni dottrina sulla natura dell’anima che fosse stata professata fin dall’antichità, quando ancora non si parlava di p. ma solo d’indagini περὶ ψυχῆς o de anima. Più tardi, fra il sec. 18° e il 19°, lo sviluppo sia della filosofia sia della scienza portò a una determinazione più specifica del dominio della psicologia. Essa si conformò infatti come scienza empirica di quel mondo della consapevolezza, che la filosofia studiava dal punto di vista trascendentale, e che la fisiologia e la fisica indagavano solo nei suoi riflessi esterni. A tale significato, che la p. ha mantenuto nell’età moderna, corrisponde la forma tecnicamente più evoluta che essa è venuta assumendo in quanto si è presentata come p. scientifica, basata cioè sugli stessi metodi delle scienze naturalistiche.

Le concezioni dell’anima nel mondo antico

L’idea generale dell’anima (➔), che appare presupposta dalle più antiche riflessioni greche circa la sua natura, è quella che si constata propria dei primitivi e costitutiva di ogni animismo: l’anima è cioè considerata non tanto come principio di consapevolezza, quanto come generale principio di vita, identificandosi (conformemente all’originario significato delle sue designazioni) con il soffio vivificante del respiro. Di qui, per es., il tipico parallelismo istituito da Anassimene tra l’aria principio della vita cosmica e l’anima principio della vita corporea. La concezione dell’anima come sede della coscienza, e quindi come principio della responsabilità e del valore morale, si afferma infatti essenzialmente nel sec. 5° a.C. Da un lato essa è implicita nell’insegnamento morale di Socrate; dall’altro risulta dal consolidamento etico-metafisico, operato da Platone, della tradizione orfico-pitagorica, già teoricamente sistemata nel secolo precedente e asserente l’immortalità dell’anima e la metempsicosi. Nella filosofia di Platone si incontra infatti per la prima volta una vera e propria p. come particolare dottrina speculativa concernente la natura dell’anima. Approfondendo l’idea pitagorica della sua trasmigrazione attraverso varie esistenze corporee, Platone ne asserisce anzitutto l’immortalità, con più di una dimostrazione. Eterna, l’anima ha quindi sperimentato, prima di entrare in un dato corpo, infinite esistenze anteriori; è stata nell’Iperuranio, la divina regione ‘sopraceleste’, dove ha contemplato le idee, che può quindi ricordare in Terra (per ‘reminiscenza’ o ‘anamnesi’) quando vi sia indotta dalla somiglianza delle cose sensibili. Da questa sostanziale indipendenza dell’anima rispetto al corpo deriva la forma più tipica della morale platonica, come etica dell’ascesi e della purità. L’imperfezione e l’errore sono infatti attribuiti esclusivamente al corpo, essendo l’anima in sé superiore a ogni passione, che possa distrarla dalla contemplazione ideale e dalla conseguente azione retta. Si tratta semplicemente di mantenerla immune dalla corporeità, nonostante la prigionia in essa, e di prepararla, con la meditatio mortis, alla liberazione. Ma questa p. rigorosamente ascetica non è esclusiva in Platone, poiché in lui si incontra anche una diversa p., secondo la quale il mondo delle passioni, e quindi il fondamento degli errori e dei vizi, non è affatto estraneo all’anima in quanto meramente corporeo, ma anzi a essa intrinseco, sia pure come suo costituente inferiore. È questa la p. che specialmente si presenta nella Repubblica (➔) e nel Fedro (➔), con la partizione dell’anima nelle due sfere del «razionale» (λογιστικόν) e dell’«irrazionale» (ἀλόγιστον), l’ultima delle quali distinta a sua volta nella sfera degli impeti (ϑυμοειδές) e in quella dei desideri (ἐπιϑυμητικόν), e con la corrispondente sua comparazione al cocchio, in cui la parte razionale è rappresentata dall’auriga e l’irrazionale dai due cavalli mordenti il suo freno. Aristotele dedica alla p. uno speciale trattato, in 3 libri, il De anima (trad. it. Sull’anima) (➔). Questo peraltro contiene soprattutto la forma più matura della sua p., indipendente, se si esclude la teoria dell’intelletto, dall’influsso platonico. Da questo è invece totalmente determinata la p. giovanile di Aristotele, espressa, per es., nel dialogo Eudemo. Qui egli partecipa ancora pienamente della persuasione platonica dell’immortalità, mentre la sua posteriore critica della trascendenza delle idee platoniche implica anche la rinuncia alla tesi dell’immortalità indipendente dell’anima. Come l’idea esiste solo in questa forma della materia, nella concretezza indissolubile della sostanza individua, così l’anima vive solo come forma della materia corporea, o come attualità (o «entelechia») della sua potenza, secondo il tipico aspetto dinamico della dualità fondamentale della metafisica aristotelica. Di qui la concezione (particolarmente espressa nel De anima) dell’anima come forma vitale e organica del corpo, principio quindi di vita vegetativa e sensitiva. Nell’uomo il potere dell’anima culmina nella funzione «dianoetica» o «pensante», a cui appartengono tutte le attività proprie dell’essere razionale. La suprema forma di questa attività pensante, quella dell’«intelletto», è d’altronde per un lato facoltà dell’anima, e per un altro trascendente rispetto all’anima, perché, se intrinseco a essa è l’«intelletto per cui tutto [l’anima] diviene», cioè la volontà d’intendere nella sua pura potenzialità, a essa superiore, in quanto universale e «divino» e «sopraggiungente dall’esterno», sembra essere l’«intelletto agente», cioè l’effettivo principio dell’intendere. Le dottrine platoniche e aristoteliche sono fondamentali per tutta la p. classica: il pensiero posteriore, infatti, o si limita a negarle, tendendo a dissolvere il concetto dell’anima e con ciò a eliminare il tema stesso della scienza, o ne compone ed elabora in vario modo i motivi. La prima tendenza è soprattutto rappresentata dall’epicureismo, che, rinnovando la concezione democritea, considera l’anima come anch’essa composta di atomi, per quanto di particolare rotondità e levigatezza, e quindi dissolubile per la morte al pari del corpo. Più decisa e consapevole è l’eredità platonico-aristotelica nella p. stoica (specialmente, com’è naturale, nel periodo eclettico rappresentato dalla ‘media stoa’) e in quella neoplatonica. Torna anzitutto nello stoicismo la concezione dell’anima cosmica: esso concepisce infatti la forma divina, che immanendo nel cosmo lo costituisce e governa secondo la sua razionale provvidenza, come πνεῦμα (spiritus) vivificante il corpo terrestre, e dà poi lo stesso nome all’anima del singolo individuo, comprendendo cioè l’una e l’altra sotto il medesimo antico concetto del respiro vitale. In sé, poi, l’anima si divide in una parte razionale, o «dirigente» (ἡγεμονικόν: a cui peraltro appartiene non solo la conoscenza teorica, ma anche il regno delle tendenze e della volontà), nelle cinque facoltà sensibili, nella capacità del linguaggio e in quella della generazione. Si vede quindi come la p. stoica classica componga motivi rispondenti alla concezione etico-razionale dell’anima, propria di Platone, con altri riferentisi piuttosto all’idea aristotelica dell’anima quale principio di vita organica. Ma la sintesi ultima e maggiore della p. classica è data dal neoplatonismo. Motivo principale della sua concezione dell’anima è quello della sua funzione mediatrice tra l’ideale e il reale, già teorizzata da Platone. Così nel massimo pensatore neoplatonico, Plotino, l’anima, concepita come universale principio cosmico al pari di quella del Timeo (➔) e del πνεῦμα stoico, appare come ultima nella gerarchia, discendente verso il mondo della materia, delle tre ipostasi ideali. Dal supremo grado ontologico dell’Uno discende infatti il grado puramente gnoseologico dell’Intelletto e dell’intelligibile, e da questo quello dell’Anima (terza ipostasi): partecipe del divino e dell’ideale, l’anima ne condivide l’unità, ma, confinante con la materia terrena e principio animatore del cosmo, si riverbera negli esseri molteplici.

Le concezioni medioevali

Questa enciclopedica sintesi della p. classica, operata dal neoplatonismo, si riconnette d’altronde alle concezioni primitive del cristianesimo, la cui evoluzione dogmatica è contemporanea a quella del neoplatonismo e legata a essa da reciproci influssi, soprattutto nell’elaborazione del dogma trinitario. La terza persona della Trinità, lo Πνεῦμα ῎Αγιον «Spirito Santo», ripete nel nome una delle più classiche designazioni dell’anima, o almeno della sua superiore facoltà intellettuale. S’intende quindi come l’interpretazione neoplatonizzante del dogma cristiano possa concepire la trinità cristiana in forma pressoché analoga alla trinità neoplatonica. D’altra parte, se questa interpretazione del dogma trinitario fa rientrare nella Trinità il principio dell’anima come momento singolo e inferiore, la p. di Agostino riflette nella stessa anima umana quella trinità nella sua interezza, considerando la psiche come costituita di un principio triadico, conformato a immagine e somiglianza di quello intrinseco alla natura divina. Ma i problemi maggiori della p. cristiana vengono in luce quando, nella filosofia scolastica, alla tradizione platonico-agostiniana, continuata dal misticismo e dal francescanesimo, si oppone la teologia domenicana, che, per opera principalmente di Tommaso d’Aquino, compie un grande sforzo per interpretare in senso cristiano l’insegnamento peripatetico. La dottrina tomistica accetta alcuni fondamentali principi dell’aristotelismo, anche la dottrina dell’individuazione tramite la «materia signata» ‒ il corpo per l’anima ‒, ma nello stesso tempo vuole garantirne l’immortalità in base all’autonomia dell’intendere. Tommaso combatte quindi l’interpretazione averroistica della dottrina aristotelica, secondo la quale l’intelletto, sia attivo sia potenziale, sarebbe del tutto separato rispetto all’anima individuale, priva, di conseguenza, anche di quell’elemento di divinità e d’immortalità che avrebbe potuto esserle attribuito in base alla problematica dottrina aristotelica. Così il problema dell’immortalità è risolto dalla p. tomistica in connessione con quello dell’intelletto. Avversaria di questa interpretazione è invece la p. di Sigieri di Brabante, che accetta l’interpretazione avverroistica della dottrina aristotelica. Nel Rinascimento, la scuola degli «alessandristi», principalmente rappresentati da Pomponazzi, dà il colpo di grazia alla dottrina aristotelico-tomistica dell’immortalità, seguendo l’interpretazione aristotelica di Alessandro di Afrodisiade.

L’età moderna

La p. moderna s’inizia propriamente con Cartesio e con il suo rinnovato metodo d’indagine filosofica della realtà. La ricerca psicologica non si riferisce più all’anima come a tema dato, spesso limitato a tentativi di conciliazione dei suoi predicati platonici e aristotelici con le esigenze religiose. Quel che anzitutto importa è l’accertamento stesso dell’esistenza dell’anima, al pari di quella di ogni altra realtà che pretenda a tale riconoscimento da parte del pensiero. Tale accertamento discende, e nel modo più diretto, dalla scoperta cartesiana, che valorizza il grande motivo, a cui già aveva accennato Agostino, della certezza di sé. Questa è infatti, anzitutto, certezza di sé come sostanza pensante, prima ancora che come sostanza estesa; quest’ultima, infatti, si conosce con certezza solo dopo la dimostrazione dell’esistenza di Dio e la conseguente garanzia della veridicità dei sensi esterni. Si è certi di essere anima più immediatamente di quanto si sia certi di essere corpo. D’altronde la contrapposizione dell’anima come res cogitans al corpo come res extensa toglie alla prima ogni carattere di corporeità, presentandola come pura funzione pensante. Di qui la concezione occasionalistica del suo rapporto con il corpo (➔ occasionalismo). Il fatale determinismo di questa concezione viene in massima luce nella filosofia di Spinoza, per cui l’anima, modo singolo dell’unica e infinita sostanza secondo l’attributo del pensiero, corrisponde del tutto al suo corpo, modo singolo della stessa sostanza secondo l’attributo dell’estensione, non essendone che la concreta consapevolezza (idea corporis). Se da un lato questa p., concependo l’accadere psichico come determinato da una necessità causale del tutto analoga a quella che si manifesta nel mondo dell’estensione, conduce a privare l’anima della sua libertà d’arbitrio, d’altro lato, considerando il mondo della sua cogitatio come praticamente illimitato perché non entra mai in urto contro l’ostacolo della realtà estesa, contribuisce alla risoluzione dell’intera realtà nell’esperienza pensante dell’anima. S’intende quindi come, per tale via, si possa giungere alla concezione di Leibniz, che riduce l’Universo al contenuto psichico, consapevole o inconsapevole, delle monadi. D’altra parte, questo stesso riconoscimento dell’intrinseca illimitatezza dell’anima in quanto centro di consapevolezza e di conoscenza conduce a poco a poco alla dissoluzione del suo classico carattere di oggettività sostanziale. Tale evoluzione si attua specialmente per opera della gnoseologia empiristica inglese. Locke combatte l’innatismo cartesiano, cioè la dottrina dell’esistenza nell’anima di idee innate, determinate da Dio prima di ogni esperienza sensibile, mostrando invece come ogni contenuto psichico derivi da quella esperienza tramite processi interiori di astrazione e di associazione; e dà così, proseguendo Hobbes e anticipando Hartley, il più vivo impulso alla p. dell’associazione. Ma la considerazione del mondo psichico come semplice processo associativo di conoscenze richiama in dubbio la stessa esistenza, e preesistenza, dell’anima come sostanza, la cui idea viene quindi ridotta da Locke a quella di un oscuro «non so che». Berkeley completa l’opera di Locke riducendo a contenuto di percezione ogni oggettiva realtà; egli, nella sua fede cristiana, sente il proprio mondo composto soltanto della divinità e degli spiriti senzienti come società religiosa di Dio e delle anime, anche se peraltro il termine anima non appare quasi mai nei suoi scritti. Più deciso, Hume allarga la negazione berkeleyana della «sostanza estesa» alla «sostanza pensante», dimostrata anch’essa semplice «fascio di sensazioni» interiori; e mette in luce come la gnoseologia moderna (in quanto teoria dell’attività pensante) concluda nella negazione di quella stessa p. classica (in quanto teoria della sostanzialità dell’anima) con cui essa aveva fatto corpo nel primo periodo del suo sviluppo. Lo scetticismo humiano, d’altronde, è negazione non soltanto della p. ma anche della gnoseologia, almeno in quanto scienza filosofica che possa stabilire leggi assolute oltre a quella della riduzione di ogni realtà a puntuale esperienza soggettiva. Kant, che restaura la gnoseologia su nuova base con il suo principio del trascendentale o dell’a priori, determina nello stesso tempo chiaramente il passaggio per cui dalla stessa crisi della p. classica, come dottrina filosofica dell’anima-sostanza, nasce la p. moderna, come analisi e classificazione empirica dei fenomeni psichici. Il terreno dogmatico, dal quale prende le mosse la critica di Kant, è costituito in questo caso dalla dottrina wolffiana, la cui p. razionale, da un lato, vorrebbe teorizzare le facoltà razionali dello spirito e, dall’altro, continuare a concepire questo nella vecchia forma oggettivistica dell’anima. Kant designa i suoi ideali momenti costitutivi con il nome di paralogismi della p. razionale: essi consistono nella traduzione dialettica di attributi trascendentali dell’esperienza pensante in qualità oggettive della sostanza psichica. Così, per es., dall’assoluta soggettività di tale esperienza si deduce la sua sostanzialità, essendo appunto la sostanza ciò che è sempre soggetto e mai predicato; dalla sua assoluta unità di coscienza, il suo carattere di sostanza semplice; e via dicendo. In ciascuno di tali paralogismi ciò che il pensiero avverte in sé medesimo come condizione trascendentale della sua attività viene illecitamente considerato come pertinente a una realtà, che di tale attività è invece soltanto l’oggetto. In tale critica e distinzione kantiana si può quindi vedere a buon diritto la fine della storia della p. quale scienza filosofica dello spirito. Vero è che pur dopo Kant si continua talora a parlare di anima e di p. anche in senso propriamente filosofico; e, per es., lo stesso Hegel serba a tali concetti un posto nel suo sistema dialettico della filosofia dello spirito. Considerata nei suoi motivi fondamentali, la filosofia idealistica, che più propriamente continua la tradizione kantiana, insiste sull’eliminazione della p. dall’ambito filosofico, sostituendo il concetto soggettivo dell’Io a quello oggettivo dell’anima. Così, la crociana «filosofia dello spirito» ha dato talvolta a sé stessa anche il nome di p. trascendentale, per dare maggior rilievo al principio per cui essa restringe l’intero campo della filosofia alla teorizzazione delle forme spirituali, che lo spirito stesso compie riflettendo su sé stesso: ma questa p. è appunto perciò cosa affatto diversa dalla p. descrittiva ed empirica. Allo stesso modo la gnoseologia gentiliana comporta la negazione del valore filosofico di ogni p., fatta rientrare nell’ambito esclusivo delle scienze positive, appunto in quanto la p. presuppone l’esistenza oggettiva, ossia come un fatto, della realtà psichica, mentre la filosofia, secondo la dottrina gentiliana, importa la considerazione della psiche come atto pensante o soggettività.

L’affermarsi della psicologia scientifica

La distinzione di una p. empirica o scientifica dalla p. filosofica o razionale risale a Wolff, il quale appunto distribuì in due opere distinte, Psychologia empirica (1732) e Psychologia rationalis (1734), la sua trattazione dei problemi della psicologia. Solo però nella seconda metà del sec. 19° la p. empirica ottenne sistemazione scientifica. La p. dell’inizio dell’Ottocento rimase invece legata a un’impostazione strettamente descrittiva nell’ambito di una filosofia empiristica. Notevoli contributi in questo senso furono apportati dalla scuola scozzese (Reid, Stewart, ecc.), in particolar modo da Brown, cui si deve una raffinata elaborazione delle tesi associazionistiche, da J. Mill e da J.S. Mill. Ma già si avvertono le prime influenze che porteranno la p. a costituirsi come disciplina scientifica. Gli scritti di p. di Bain, largamente diffusi, sembrano infatti ispirati piuttosto ai metodi della storia naturale che alle classiche posizioni associazionistiche; vi compaiono per la prima volta una trattazione sul cervello e il sistema nervoso e un preciso interesse per il comportamento animale. Di determinante importanza risulta inoltre, sempre all’inizio dell’Ottocento, l’apporto della ricerca fisiologica; la scoperta dell’esistenza di diversi tipi di nervi, rispettivamente sensori e motori (Ch. Bell, 1830), conduce a formulare l’ipotesi dell’energia specifica dei nervi, svolta poi da J. Müller, e le ricerche sulle funzioni specifiche di parti del cervello (P. Flourens) danno impulso alla teoria delle localizzazioni (P. Broca, G. Fritsch, E. Hitzig), sistematizzata infine autorevolmente da D. Ferrier (1876). Furono molti, sul finire del secolo, gli autori che sostennero la complementarietà di fisiologia e p. (per citare solo i più famosi, Wundt e James). Un ulteriore influsso esercitò poi nel campo della p. la teoria darwiniana dell’evoluzione; seguendo l’esempio di Darwin (The expression of the emotions in man and animals, 1872; trad. it. L’espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali), una serie di studiosi applicò la prospettiva evoluzionistica allo studio del comportamento, determinando la nascita di una p. comparata (D. Spalding, G.J. Romanes, C. Lloyd Morgan, Hobhouse). Né è da trascurare l’importanza delle ricerche psicopatologiche, specie in Francia nell’ambito della psichiatria (Ph. Pinel, B.A. Morel) e della neurologia (J.M. Charcot, A.A. Liebeault, H. Bernheim). In Germania l’opera di Herbart, pur negando ancora alla p. lo status di scienza naturale, aveva introdotto l’idea dell’applicabilità di strumenti matematici allo studio dei fenomeni psichici: i concetti di soglia di coscienza e di misurabilità deicontenuti psichici, teorizzati poi da G. Fechner, ne furono il logico sviluppo. Si creò su questa base una nuova disciplina, la psicofisica, influenzata dalle ricerche sulla fisiologia della sensazione di E.H. Weber, sulla scorta delle fondamentali acquisizioni di Müller; s’indagarono sistematicamente i rapporti tra stimolo e sensazione, nel tentativo di formulare leggi quantitative universalmente valide (secondo i metodi fechneriani rimasti classici: metodo dei limiti o delle minime differenze percettibili, metodo della costanza, metodo dell’errore medio). Fondamentale per i problemi suscitati dalla misurazione dei tempi di reazione fu la scoperta della velocità di trasmissione dell’impulso nervoso effettuata da Helmholtz intorno al 1880. L’uso della sperimentazione accoppiato all’utilizzazione di metodi statistici condurrà infine a quella p. delle differenze individuali che aveva trovato nell’opera di F. Galton in Inghilterra la sua prima caratterizzazione scientifica. Nel 1879 Wundt fondò il primo importante laboratorio sperimentale a Lipsia, impiegando sistematicamente l’introspezione onde accertare i processi psichici intercorrenti tra uno stimolo controllabile e misurabile (con i metodi della fisiologia sperimentale) presentato a un soggetto e la sua risposta; l’isolamento delle variabili sperimentali (stimolo e risposta) consentì d’indagare in modo rigorosamente obiettivo la correlazione tra variazione delle condizioni iniziali e variazione degli effetti finali. Nasceva la p. sperimentale (o p. fisiologica) propriamente detta. Si studiarono così il grado di percettibilità di uno stimolo in rapporto al variare intensivo dello stesso (metodo psicotecnico); la durata dell’intervallo tra stimolo e risposta (metodo psicocronometrico); le variazioni organiche connesse al decorso di determinati processi psichici (metodo psicofisiologico). Assiomi di questa nuova p. possono considerarsi i seguenti: oggetto di studio sono i processi e gli stati di coscienza; fra stati di coscienza e stimolazioni esterne sussiste una relazione costante; tutti i dati psichici sono riconducibili mediante analisi a elementi semplici, i contenuti complessi sorgono per associazione di elementi semplici. La storia della p. scientifica nel 20° sec. coincide in buona parte con il processo di dissoluzione di questi presupposti. In contrapposizione all’elementarismo delle posizioni associazionistiche s’imporrà, con W. Köhler, K. Koffka e M. Wertheimer, la p. della forma (Gestaltpsychologie), i cui precedenti possono ricondursi ai lavori di Ch. von Ehrenfels e alla p. della totalità di F. Krüger e dei suoi discepoli. Il presupposto che oggetto della p. dovessero essere solo i processi e gli stati della coscienza fu invece sottoposto a critica e respinto da cultori di p. comparata e in partic. di p. animale. Il risultato più cospicuo di questa revisione fu la fondazione del behaviorismo da parte dell’americano J.B. Watson: abbandonando le sterili, a suo parere, indagini su ciò che accade all’interno della coscienza, la p. doveva volgersi a studiare il «comportamento» dell’individuo, che solo può essere oggetto di osservazione oggettiva. Il behaviorismo ottenne un grande e duraturo successo negli Stati Uniti. Campo di lavoro preferito del behaviorismo, che esclude rigorosamente il ricorso all’introspezione e ai metodi fenomenologici, è la p. comparata. Sempre ai fini della costituzione di una p. obiettiva, furono di notevole rilievo alcune posizioni teoriche sorte in Russia a opera di W. Bechterev e riprese poi dal fisiologo I.P. Pavlov (1903) che, con le esperienze sui riflessi condizionati, dette origine alla riflessologia, una corrente che ha assunto un particolare sviluppo e una definitiva collocazione scientifica nella p. contemporanea. Su un altro piano, un superamento del soggettivismo in p. fu attuato dalla psicoanalisi (➔) di Freud, che, introducendo il concetto dell’inconscio, impose una radicale revisione della p. nei suoi concetti fondamentali. Per gli inizi degli studi di p. scientifica in Italia vanno ricordati Ardigò, E. Morselli, A. Tamburini, De Sarlo, G. Buccola, G. Sergi, A. Mosso e S. De Sanctis.

La psicologia scientifica

Nel linguaggio comune, con l’espressione p. di una persona, o di un popolo, o di una categoria di individui, uomini o animali, si indica l’insieme delle loro caratteristiche più intime e stabili, in rapporto solo mediato con le condizioni fisiche, economiche, culturali, ecc. Di conseguenza «essere psicologo» nel linguaggio corrente indica appunto la capacità di sapersi calare nei panni altrui, d’immedesimarsi nelle qualità più significative e intrinseche degli altri, così da poterne cogliere il nucleo essenziale, lo spirito, l’anima. Il ricorso a questi ultimi termini, che ancora riecheggia concezioni filosofiche classiche (tipico è il trattato di R. Göckel, 1590), considerando implicitamente la p. come un dono pressoché magico, ha ostacolato notevolmente l’avvento di un’immagine di essa con caratteri comuni alle altre scienze. Se di norma l’uso degli stessi termini nel linguaggio popolare e in quello scientifico frustra la loro definizione univoca e la corretta comunicazione fra gli uomini, ciò risulta particolarmente frequente nel caso delle scienze dell’uomo e della p. in partic. che, come riconobbe T. Ribot, «ha un lungo passato e una storia breve». Oltre a questo problema di comunicazione, un’altra più sostanziale difficoltà deriva dalle fonti primarie di conoscenze psicologiche; esse appaiono infatti viziate dalla loro duplice, antitetica natura: soggettiva e oggettiva. Informazioni sulla vita psichica possono infatti derivare o dallo stesso individuo che si osserva mediante un atto d’introspezione, i cui risultati non sono verificabili né obiettivabili, ovvero da un’osservazione simile a quella attuata nelle scienze empiriche, che cioè rileva e interpreta determinati aspetti del mondo esterno: generalmente il comportamento altrui, raramente il proprio. Ma questo oggetto di studio della p. può essere conosciuto solo mediante l’esperienza intima e personale del singolo osservatore, il quale ogni volta stabilisce una sorta di proporzione: quando io ho vissuto un certo stato d’animo, in una data situazione, mi stavo comportando in un dato modo; se nella stessa situazione riscontro gli stessi comportamenti tenuti da un’altra persona, posso ipotizzare che anch’essa stia vivendo quel mio stato d’animo. Questa è un’operazione tutt’altro che esente da rischi, nella misura in cui all’osservatore possono sfuggire aspetti rilevanti della situazione ambientale o del comportamento reattivo della persona. Inoltre l’interpretazione è radicalmente condizionata dall’esperienza dell’osservatore, che non può attribuire ad altri gli stati d’animo che non ha mai avuto occasione di vivere. La precarietà di ciascuna e l’interdipendenza delle due fonti basilari di conoscenze psicologiche hanno offerto un facile compito a molti critici. Per questo o si è adottato il provvedimento radicale di escludere la p. dal novero delle scienze, ovvero singole correnti di psicologi hanno optato per l’uno o per l’altro procedimento conoscitivo, con la conseguenza di definire in modo diverso la stessa psicologia. Chi ha scelto come fonte prevalente l’introspezione (per es., Wundt, O. Külpe e la sua Scuola di Würzburg) considera la p. come la scienza dell’esperienza soggettiva immediata, anche se, radicalizzando la posizione, dovrebbe rinunciare a una scienza generalizzabile e accontentarsi di un’occasionale raccolta di «fatti di coscienza» non comunicabili. Chi preferisce osservare il comportamento (per es., Watson e la scuola del behaviorismo, le scuole psicofisiologiche e riflessologiche) dovrebbe, d’altro canto, rinunciare a interpretarlo alla luce della propria esperienza, e farebbe della p. una scienza solo descrittiva di determinate condizioni del mondo fisico. Tuttavia, riconoscendo la necessità di soddisfare a un fondamentale bisogno conoscitivo dell’uomo, gli psicologi contemporanei si sono sforzati di realizzare la p. come un patrimonio trasmissibile e generalizzabile, almeno per determinati scopi pratici, superando con realismo alcuni sofismi pregiudiziali, affrontando altri ostacoli con ingegnosi espedienti, sanando volta a volta le carenze di un metodo con il ricorso ad altri più attendibili. Per es., la pregiudiziale che l’introspezione, se fosse realmente una conoscenza immediata, farebbe vedere all’uomo soltanto «sé stesso che guarda sé stesso», viene superata ammettendo che l’atto introspettivo può essere condotto sulle tracce di esperienze vissute, delle quali il soggetto riprende coscienza a qualche distanza di tempo. In campo psicologico si ritrova, in sostanza, il procedimento con il quale una persona può conoscere qualcosa della propria fisionomia grazie al proprio ritratto fotografico, che non la mostra quale è, ma quale è stata. È da rilevare al riguardo una curiosa inversione cronologica dei modi tenuti dall’umanità per conoscere, fin dai tempi mitici, la propria fisionomia attraverso lo specchio. Il ricorso a una sorta di «specchio psicologico» è invenzione assai recente (primi decenni del sec. 20°, con Freud e H. Rorschach), che utilizza un processo inconscio di proiezione, inattuabile a fini conoscitivi, da parte del singolo individuo. Come non era stato considerato dalla filosofia e dalle scuole psicologiche introspezioniste, l’atto introspettivo è risultato viceversa molto carente, perché incapace di cogliere l’enorme patrimonio dello psichismo inconscio, alla cui scoperta evidentemente potevano contribuire solo i procedimenti di osservazione dall’esterno. È dunque giustificato ormai considerare la p. come scienza matura per affrancarsi dalla soggezione al pensiero filosofico, perché «ricondurre gli attuali problemi della p. alle dottrine dei grandi filosofi del passato, come se le stesse parole si applicassero agli stessi problemi, confrontare il pensiero degli sperimentatori contemporanei con quello di Cartesio o di Kant, di Condillac o di Maine de Biran, come se questi pensieri fossero attuali, è un falsare la storia, prestando a tali dottrine un orientamento pragmatico che non è generalmente il loro, oppure, ciò che avviene più spesso, è un disconoscere lo spirito delle ricerche attuali, associando loro certe preoccupazioni metafisiche che sono loro estranee» (P. Guillaume). Partendo da un magma di intuizioni personali elevate a sistema, nel quale fin dalla filosofia greca i vari autori avevano concettualmente distinto facoltà e funzioni contrapposte (intelletto-passioni; istinti-volontà; sensazioni-percezione, ecc.), il patrimonio di conoscenze psicologiche si è arricchito e articolato con l’introduzione di nuovi metodi d’indagine, ciascuno dei quali fertile di risultati ottenuti applicandolo a situazioni e per scopi diversi. Il continuo intreccio fra scopi conoscitivi ed eventualmente, in secondo tempo, applicativi e i mezzi per conseguirli scelti dai vari studiosi porta a distinguere molteplici rami, scuole, correnti, e spiega i nomi e gli attributi diversi dati ai vari capitoli di una medesima e unitaria scienza psicologica. Benché sia scontato che le conoscenze scientifiche tendono a riprodurre con la maggiore fedeltà possibile i modelli dei fenomeni che loro competono, questa aspirazione può essere variamente soddisfatta da definizioni qualificate in parole (per es., una diagnosi della p. clinica), o quantificate in valori numerici (per es., il quoziente intellettuale calcolato dalla psicometria). Come in altre scienze, con l’espressione numerica si vogliono facilitare le manipolazioni e i confronti fra i fenomeni reali e i loro eventuali modelli astratti presenti, passati o futuri, favorendo lo studioso col supporto di operazioni già ben codificate e sicure come sono quelle adottate dal pensiero matematico. Condizione fondamentale delle conoscenze scientifiche è infatti quella di essere verificabili, cioè ripetibili nel tempo nelle stesse condizioni e anche, com’è ambizione di tutte le scienze, prevedibili nel futuro. È proprio grazie a questa prevedibilità che la conoscenza, tendente solo ad appagare un bisogno astratto, può diventare utile per determinati scopi operativi. Le conoscenze possono privilegiare, secondo i bisogni, l’aspetto relativamente più generale e dinamico dei fenomeni, per es., il loro modo di evolversi nel tempo, unica dimensione del mondo fisico in cui esistono i fenomeni psichici. Lo studio psicologico longitudinale o diacronico tende appunto a soddisfare tale programma, per es. rilevando gli effetti di un processo di apprendimento. Viceversa una conoscenza più contingente e particolareggiata di fenomeni considerati all’istante (per es., un’illusione percettiva) viene meglio soddisfatta dall’impiego di metodi trasversali o sincronici. Le conoscenze possono rivolgersi di preferenza o verso le caratteristiche proprie ed esclusive di un determinato fenomeno (del quale tendono a dare un’immagine idiografica), oppure a identificare le caratteristiche di un dato fenomeno comuni e comparabili con quelle di altri relativamente simili (con un approccio nomotetico): a seconda dei casi si viene a costituire il bagaglio di una p. differenziale o di una p. generale. Secondo le specifiche necessità conoscitive o applicative, varie combinazioni vengono adottate per la scelta del metodo più adatto. L’impiego di tali metodi è evidentemente condizionato dal grado di sviluppo scientifico e tecnologico del luogo e del momento in cui si svolge la ricerca di tale conoscenza. Per la particolare natura dell’oggetto di studio della p. in genere, l’attuazione di qualsiasi ricerca non può prescindere da un operatore umano più o meno direttamente coinvolto nel contenuto dell’indagine, ma protagonista di ogni sua fase. Perciò molte conoscenze acquisite sono fortemente ipotecate dalle caratteristiche non solo tecniche ma anche etiche dello psicologo. Se questa interferenza è enorme nell’applicazione del metodo introspettivo, è pur sempre rilevante nell’ambito di qualsiasi altro metodo, come accade peraltro in tutte le scienze, dove l’obiettività resta sempre una meta da perseguire, anche se irraggiungibile. Rispetto ad altri, lo studioso di scienze umane è solo avvantaggiato dal fatto che egli si rende conto di questa ineluttabile tara. Lo stesso psicologo è dunque da considerare parte dello strumentario, concettuale e operativo, con il quale si applicano i procedimenti d’indagine. La sua formazione culturale, a parità di ogni altra condizione, lo induce a preferire l’uno o l’altro procedimento, così da realizzare patrimoni conoscitivi anche radicalmente diversi che già portarono Wolff a illustrare una p. empirica (1732) e una p. razionale o filosofica (1734). Molteplici implicazioni derivano da questi due modi di fare p., addirittura con una sorta di capovolgimento del valore tradizionale dei termini. La p. razionale o filosofica è considerata ormai una materia prescientifica, perché largamente poggiata su intuizioni non sempre controllabili, forse vicine a manifestazioni artistiche di comprensione empatica. Dilthey (1894), e con maggiore precisione Spranger (1924) con la sua verstehende Psychologie, pur essendo sostanzialmente aperti alla p. come scienza empirica (una concezione che lo stesso Kant aveva incoraggiato, mostrando l’insostenibilità di una p. filosofica in senso stretto), furono esponenti di questo orientamento, che gli storici della p. di lingua inglese ironicamente chiamarono armchair psychology («p. della poltrona»). La p. empirica, viceversa, è quella di gran lunga più affermata, tanto che il suo aggettivo è, di norma, sottinteso e perfino sostituito da scientifica. Il suo strumentario concettuale s’identifica sostanzialmente con quello delle scienze fisiche e biologiche, ma per l’ostentazione deteriore delle attrezzature di laboratorio fu soprannominata brass psychology («p. degli ottoni»). Il suo procedere, soprattutto induttivo, tende a una precisa descrizione e a una spiegazione logica delle conoscenze raccolte, secondo una strategia adottata dallo stesso fondatore della p. moderna, Wundt. L’aggettivo più usato per indicare il carattere della p. moderna è quello di sperimentale, volendosi in tal modo connotare la materia attraverso il metodo delle sue acquisizioni. Il metodo sperimentale galileiano, che C. Bernard aveva applicato da pioniere (1865) in fisiologia e in medicina, fu introdotto nello studio dei processi psico-fisiologici da Wundt quando, nel primo laboratorio di p. aperto presso l’univ. di Lipsia (1879), sviluppò un tipo d’indagine che, nella stessa città, era stato delineato da Weber e definito nel 1860 da Fechner con il nome di psicofisica. Quest’ultimo autore si riprometteva l’ambizioso obiettivo di una psychophysische Massformel, cioè una «formula di misura psicofisica» atta a esprimere matematicamente i rapporti fra mondo psichico e mondo fisico attraverso il confronto sistematico dell’intensità degli stimoli e delle sensazioni da essi indotti. Lo schema del metodo sperimentale prevede una variabile indipendente (cioè un oggetto-stimolo) controllata dallo sperimentatore, che agisce sul soggetto e determina in lui reazioni che vengono attentamente e fedelmente osservate, registrate, misurate in quelle dimensioni che lo sperimentatore ritenga rilevanti. Questi deve aver curato che sul soggetto nel frattempo non intervengano variabili accidentali atte a falsare il rapporto di causa-effetto fra le altre due categorie di variabili. Lo studio dei rapporti fra le caratteristiche quantitative e qualitative dello stimolo (per es., rumori improvvisi di varia intensità e tonalità) e quello delle reazioni umane, soggettive, cioè ricavate per introspezione (per es., sentimenti di maggiore o minore disagio), o oggettive, cioè ricavate dal comportamento controllabile (per es., mimico) o incontrollabile (per es., conducibilità elettrica della cute), avrebbe consentito allo sperimentatore di precisare alcune leggi sul modo con il quale il soggetto come intermediario ‘trasforma’ lo stimolo in reazione, ossia di scoprire alcune costanti sul modo di essere dell’uomo. Questo nuovo procedimento per attuare la ricerca psicologica, la sua complessità e i margini d’incertezza che esso comportava destarono resistenze notevoli al confronto con l’illusoria linearità del semplice studio introspettivo. Ma viceversa la possibilità di riprodurre in laboratorio l’essenziale di situazioni difficilmente osservabili per accadimento spontaneo e quindi l’occasione di affrontare lo studio sistematico o ripetuto di determinati processi psichici (eventualmente riproducendoli con sufficiente approssimazione su animali quando l’opportunità pratica o etica non consentiva lo studio sull’uomo) hanno favorito il successo del metodo. La precarietà dei risultati di un singolo esperimento, la massa di variabili che fatalmente sfuggiva al controllo dello sperimentatore, hanno stimolato l’ampio ricorso ad accorgimenti strumentali e concettuali. Accanto cioè all’affinamento tecnologico di attrezzature stimolatrici, registratrici e metriche, ha preso notevole sviluppo l’impiego di elaborate tecniche statistiche. Queste sono risultate atte non soltanto a rilevare l’andamento caratteristico dei fenomeni, mascherato da aberrazioni contingenti, e le loro correlazioni con altri, ma, più di recente, anche a guidare la progettazione degli esperimenti e stabilire il grado di attendibilità dei loro risultati. Questi sviluppi metodologici, applicabili sia ai dati di laboratorio sia a quelli di estensive rilevazioni «sul campo», sono talvolta indicati con l’espressione impropria di p. statistica o, peggio, di psicostatistica. L’indagine sperimentale tende soprattutto ad accertare l’andamento tipico e costante dei fenomeni, cioè un’astrazione di come essi avvengono, in genere, in un utopistico individuo «normale» (adulto, asessuato, «civile» ma estraneo a qualsiasi determinata cultura). In questo modo si costituisce una p. generale, che tuttavia lascia insoddisfatte molte esigenze pratiche, che riguardano individui concreti, con peculiari qualità, più o meno oscillanti intorno ai tipici valori medi o, al limite, francamente anormali o patologici. Con la p. differenziale si vuole appunto soddisfare a queste esigenze. A complemento dello studio nomotetico svolto dalla p. generale e differenziale, può essere invocato quello della p. clinica, tipicamente diretto allo studio idiopatico dei singoli casi, come risultanti da un irripetibile insieme di condizioni. Anche se, in pratica, il maggiore impiego della p. clinica riguarda individui di rilievo patologico, uno studio del genere può essere diretto a casi (persone, gruppi) del tutto normali, essendo ciascuno di essi esclusivo per l’insieme delle condizioni che lo hanno determinato. L’esempio più tipico di una p. clinica può essere offerto dalla psicoanalisi freudiana, o dai suoi derivati dissidenti, fra i quali primeggiano la p. analitica di Jung e la p. individuale di A. Adler. Per il valore preminente che queste tre correnti del pensiero psicologico riconoscono ai processi inconsci, sottostanti cioè al livello di consapevolezza e di controllo volontario del comportamento del soggetto, esse vengono anche classificate nell’ambito della p. del profondo. Le stesse correnti, in partic. quella freudiana, con l’aggiunta di qualche scuola non propriamente psicanalitica (come la p. topologica di K. Lewin, la personologia di H. Murray e, in minor grado, la teoria fattoriale di R.B. Cattell e la teoria bio-sociale di G. Murphy, ecc.) vengono a far parte di una p. dinamica, interessata soprattutto ai processi inconsci d’interazione e di conflitto che si realizzano fra i singoli aspetti più elementari identificabili, secondo i vari autori, nella persona. Con queste ultime due si sono citati esempi di teorie denominabili sulla base della categoria dei fenomeni psichici ritenuti, dai loro cultori, preminenti nel caratterizzare tutta la vita psichica. Come tende a fare anche l’uomo della strada, al limite si possono denominare tante p. quanti sono gli aspetti e le funzioni della vita psichica, eventualmente considerati in una certa prospettiva o secondo una data metodologia. Esistono esempi classici e illustri, come la p. della memoria di H. Ebbinghaus, la p. dell’intelligenza di J. Piaget, la p. dell’apprendimento di B.F. Skinner, la p. della forma (o Gestaltpsychologie) inizialmente interessata, con M. Wertheimer, all’attività percettiva e poi ad altri settori quali, con Lewin, le dinamiche intra- e interpersonali. Si potrebbero al riguardo ricordare anche le varie p. della personalità (per es., di G.W. Allport, Murray), ma in tale ultimo caso si tratta soprattutto di un modo particolare di teorizzare sulla interazione fra tutte le strutture e funzioni della personalità. Una visuale diversa adottano invece alcune correnti del pensiero psicologico propense a descrivere i fatti psichici nel quadro di una p. genetica, cioè non tanto quali essi appaiono, ma secondo criteri onto- o filogenetici. Vanno ricordati al riguardo, da un lato, i contributi di Freud e di vari psicanalisti, di Piaget e di altri cultori della p. dell’età evolutiva; dall’altro, le concezioni biologistiche interessate all’eredità e all’evoluzione di caratteristiche psicologiche, nonché, in certo senso opposte ma complementari alle precedenti, le concezioni socio-psicologiche delle influenze culturali ambientali. Un’altra vasta fonte di terminologia deriva dalle occasioni d’impiego delle conoscenze psicologiche generali o settoriali, attinenti a singole persone o a categorie omogenee di individui. In aggiunta alle basilari conoscenze acquisite dalla p. generale, differenziale, clinica, sociale, ecc., quasi ogni campo di applicazione può offrire arricchimenti e specificazioni dei metodi e delle conoscenze in materia.

Sviluppi della psicologia contemporanea

Le prospettive che si aprono alla p. del 21° sec. sono radicalmente mutate rispetto alla fine dell’Ottocento, quando nei laboratori di fisiologia e scienze naturali fu dato l’avvio al progetto di una p. come scienza. L’autonomia della p. dalle altre scienze, sia sul versante biologico sia su quello sociologico, non è più perseguita o comunque rispettata. La varietà e la coesistenza delle impostazioni teoriche e metodologiche non sono più ritenute un aspetto problematico della p. (come era accaduto negli anni Trenta del Novecento, quando si parlò di crisi della p. dovuta allo sviluppo di teorie psicologiche tra loro contrapposte). Si vanno anzi affermando, soprattutto in ambito applicativo, e in partic. nel settore della psicoterapia, correnti ibride o eclettiche che cercano di conciliare impostazioni un tempo ritenute contrapposte: per es., la prospettiva psicoanalitica combinata con quella fenomenologica, la prospettiva comportamentista con quella cognitivista. Gran parte della ricerca sperimentale relativa ai processi psichici di base (dalla percezione alla memoria alle pulsioni e alle emozioni) è condotta nell’ambito delle neuroscienze con tecnologie che indagano direttamente le operazioni cerebrali in corso. Le risposte manifeste del soggetto, che un tempo costituivano la modalità di accesso ai processi interni alla mente (considerata una black box), sono ritenute un correlato o una conferma di quanto viene determinato dalle neuroscienze. A queste ultime sembra che sia ormai destinato lo studio dell’architettura funzionale della mente umana: non solo nelle condizioni normali, ma anche in quelle patologiche, considerato il crescente sviluppo delle ricerche sulle basi genetiche e biologiche di vari disturbi del comportamento. Il ruolo della p., come hanno indicato gli orientamenti più recenti talvolta ricompresi complessivamente sotto l’espressione p. postmoderna, sarebbe invece quello di studiare come la mente umana si sviluppa in specifici contesti storici, culturali e sociali. La mente umana non adotta schemi fissi di comportamento o regole prefissate, ma modula sé stessa in relazione alle mutevoli condizioni contestuali. Più che una mente concepita come un computer i cui programmi sono rigidi, prefissati geneticamente, molte correnti della p. contemporanea insistono sulla compresenza di modalità diverse attraverso le quali la mente umana opera. Non può essere quindi più applicato il modello naturalistico della situazione di laboratorio in cui si studiano i processi psichici astraendoli dalla varietà dei contesti in cui, in modo altrettanto vario, essi si manifestano. Lo psicologo considera la mente umana come una sorta di ‘testo’ che si offre a letture diverse perché è la stessa mente che è capace di svolgere di volta in volta, da situazione a situazione, ‘narrazioni’ e ‘discorsi’ diversi (p. discorsiva). L’intercettazione di questo intreccio di narrazioni che un individuo umano sviluppa nel corso della propria vita rappresenta per molti psicologi contemporanei il fine della propria ricerca. Ritornano, in questa prospettiva, alcuni concetti che la p. ottocentesca o del primo Novecento aveva rifiutato perché richiamavano impostazioni filosofiche di tipo soggettivistico, come il concetto di persona o di Sé. Psicologi come R. Harré, M. Billig e altri hanno sviluppato nei quindici anni a cavallo tra il 20° e il 21° sec. una corrente, spesso denominata p. discorsiva, nella quale si sottolinea il ruolo del discorso e della narrazione nella costruzione della propria personalità. In questo orientamento vengono abbandonati i principi di certa p. tradizionale, che sono fondati sull’idea di un soggetto universale, con caratteristiche normative di derivazione filosofica (la res cogitans cartesiana e l’Io trascendentale kantiano), e vengono valorizzati i percorsi individuali, impiantati in precisi contesti storico-culturali, finalizzati alla realizzazione della propria personalità. Le metodologie impiegate per studiare questa dinamica personale non sono quelle quantitative, proprie dei laboratori di p. sperimentali, ma si fondano su procedure qualitative, sull’etnometodologia, sull’analisi della conversazione, ecc. Inoltre si ritiene che, per comprendere la complessità dei processi psichici umani, non sia adeguata un’impostazione ‘universalistica’ secondo la quale le caratteristiche di questi stessi processi sarebbero uniformi e omogenee nella specie umana sia nel corso della sua storia sia nelle varie culture presenti in un dato momento storico. La p. culturale (cultural psychology), che tra la fine del Novecento e i primi anni del 21° sec. ha avuto una crescente diffusione, rifiuta l’idea dell’universalità dei processi psichici: i processi cognitivi, dalla percezione al pensiero, e i processi dinamici, dalle emozioni alle relazioni interpersonali e sociali, assumono modalità strutturali e funzionali che sarebbero proprie di ciascuna cultura e, quindi, difficilmente traducibili e comparabili da cultura a cultura. Da un punto di vista teorico viene messo in risalto come il rapporto tra processi cognitivi e dinamici assuma forme e dimensioni diverse nelle varie culture. Un altro settore sviluppato dalla seconda metà degli anni Ottanta del 20° sec. nell’ambito della p. di orientamento cognitivista è l’ergonomia cognitiva, che affronta i problemi relativi ai processi cognitivi implicati nell’elaborazione di informazione veicolata o mediata da strumenti. La relazione operatore-computer è stata quindi la condizione più studiata.