Psicologia sociale

Enciclopedia delle scienze sociali (1997)

Psicologia sociale

Willem Doise

Introduzione

La psicologia sociale può essere definita come la scienza che ricollega l'analisi dei processi psichici negli individui con l'analisi delle dinamiche sociali a cui questi partecipano: essa studia cioè il modo in cui le esperienze psicologiche sono interconnesse con l'ambiente sociale. Nella prima parte del presente articolo, destinata a fissare alcuni punti di riferimento storici, mostreremo brevemente come questo genere di articolazione sia stato descritto con chiarezza, prima ancora che nascesse una psicologia sociale scientifica, da Carlo Cattaneo. Illustreremo poi, mediante esempi tratti dalla psicologia sociale dello sviluppo e da quella degli atteggiamenti, come il problema di questa articolazione abbia orientato fin dall'inizio alcuni indirizzi di ricerca che sono tuttora importanti e che continuano a evolversi nell'ambito della psicologia sociale contemporanea. Nella seconda parte analizzeremo l'approccio sperimentale, oggi prevalente, e soprattutto mostreremo come sia possibile arricchirlo articolando tra loro più livelli di analisi. Esempi di tale articolazione saranno tratti dagli studi sull'influenza sociale, sulla dissonanza cognitiva, sull'attribuzione e sulla categorizzazione. Come conclusione, sosterremo la validità di un orientamento teorico eclettico.

Riferimenti storici

La psicologia della socializzazione: l'opera pioneristica di Carlo Cattaneo

Cattaneo può essere considerato un pioniere che ha aperto una via di collegamento tra filosofia e psicologia. Le cinque lezioni di psicologia da lui tenute tra il 1859 e il 1866 al Regio istituto lombardo di scienze, lettere e arti sono interessanti sotto vari aspetti. Egli mette in rilievo, con molto anticipo sui tempi, la natura fondamentalmente socioculturale della psicologia individuale, e in una lezione descrive più in particolare un processo in cui si manifesta l'articolazione tra l'individuale e il socioculturale. Si tratta di una nuova formulazione psicosociale del concetto filosofico di antitesi: il titolo della lezione, tenuta nel 1863 e pubblicata l'anno seguente, è appunto Dell'antitesi come metodo di psicologia sociale.

Cattaneo definisce la psicologia sociale come una "psicologia delle menti associate". Confutando il concetto di idea innata, egli afferma che "tutte le più alte prove della scienza e della virtù si svolgono negli accordi e disaccordi degli uomini posti tra loro in intima relazione", e assegna alla psicologia sociale il vasto compito di indagare "per quali altri modi, oltre al linguaggio, le menti associate nelle famiglie, nelle classi, nei popoli, nel genere umano, potessero collaborare alla commune intelligenza, ovvero contrariarla; e come venissero ad operare con metodi ed effetti che sarebbero impossibili alle menti solitarie" (v. Cattaneo, 1864, p. 264).

Il principale meccanismo che Cattaneo vede agire nell'elaborazione collettiva di nuove idee è l'antitesi o il conflitto: "Ed ora [...] traccerò in breve la reciproca azione che hanno più menti, poste fra loro in antitesi, attuate cioè da contrarie idee". Ciò che caratterizza una nuova idea "è ch'ella nasce dal conflitto di più menti, e che fra le menti concordi, o in una mente solitaria, non sarebbe nata" (ibid., p. 265).

Cattaneo spiega che "un individuo solo può ben oscillare debolmente nel dubbio fra due idee non ancora ben certe; ma perciò appunto il conflitto vitale non può esser mai così risoluto e potente come quando si scontrano due individui, due sette, due popoli, mossi da contrarie persuasioni, da vanaglorie, da offese, da odii che un uomo non può mai concepire contro se stesso. Poiché le antitesi entrano spesso nell'intelletto quasi di furto, inspirate dagli interessi e dalle passioni". Il solo fatto che qualcuno proponga un'idea suscita già delle opposizioni; e anche se il conflitto deve spesso ritenersi emotivo, esso implica ugualmente delle coordinazioni cognitive: "Ogni obiezione comanda una risposta; ogni ragionamento comanda un ragionamento logicamente correlativo, che stringe in amplesso inseparabile le opposte idee. I ragionatori, al cospetto della passione, sono combattenti; al cospetto dell'idea, sono fabbri che martellano uno stesso ferro; sono ciechi strumenti di un'opera commune. Ogni nuovo sforzo aggiunge un anello alla catena che trascina ambe le parti nel vortice della verità" (ibid., p. 268).

Anche lo sviluppo delle idee dei 'grandi' come Cartesio, Locke e Kant è avvenuto tra aspre opposizioni: "E se ognuno di essi fosse vissuto qualche anno ancora, avrebb'egli potuto porsi in guerra contro se stesso? condannar come un sogno l'idea che aveva per tanti anni contemplata? spezzar la lapide del suo sepolcro? No: a quell'opera di nemico era necessario un altro intelletto, un'altra volontà, un'altra vita. È perciò che i grandi pensatori, i quali ruppero il circolo della tradizione e fecero fare all'idea un gran viaggio, si mostrano quasi sempre accinti con tutte le forze loro come ad un'impresa di guerra. Solamente dopo il corso di più generazioni scientifiche, i posteri s'avvedono come ognuno di quei pensatori avesse studiato da un nuovo aspetto un medesimo problema; che quella catena d'antitesi era una serie di analisi parziali; che le diverse scuole, senza volerlo e senza saperlo, si erano divise le parti dell'analisi commune, tutte aspirando a conquistare d'un primo abbraccio il circuito della sintesi universale" (ibid., p. 269).

Beninteso, queste riflessioni sul ruolo del conflitto nell'elaborazione delle idee sono state proposte inizialmente per spiegare il loro sviluppo storico; ma i processi interindividuali descritti sono anche costitutivi dello sviluppo cognitivo individuale. Essi sono indicati oggi col nome di conflitto socio-cognitivo.

La psicologia sociale dello sviluppoBaldwin

- Simile alla proposta di psicologia socioculturale avanzata da Cattaneo è quella di James M. Baldwin, che tende a superare la speculazione filosofica integrando lo studio dello sviluppo individuale in un'analisi psicosociale.

Nella sua History of psychology (1913) Baldwin fa risalire ai grandi filosofi idealisti (Fichte, Schelling, Hegel) le nozioni fondamentali della psicologia funzionalista: la cognizione, la volizione, l'affettività. Egli, però, rifiuta la concezione hegeliana della conoscenza: dal momento che essa spiega lo sviluppo del pensiero con leggi immanenti ad esso, ogni spiegazione diventa plausibile. "Una volta ammesso che, qualunque cosa accada, il pensiero si realizza mediante una legge dialettica interna sui generis, può accadere qualsiasi cosa!" (v. Baldwin, 1913, p. 42). Per evitare queste difficoltà, il precursore della psicologia genetica è ricorso appunto alla psicologia sociale: "Nello sviluppo dell'individuo l'idea di un Sé personale separato è un risultato tardivo della riflessione. I primi stadi del pensiero dualistico sono interamente sociali. Il dualismo mente-corpo è un'astrazione in entrambi i suoi termini: 'mente' significa una pluralità di menti, e 'corpo' una pluralità di corpi. Il Sé è originariamente collettivo, non individuale. Il bambino inizialmente concepisce il Sé come un termine di una situazione sociale, come parte di un tutto più vasto. Se così è, la scienza della mente dev'essere una scienza in cui il concetto di vita mentale individuale isolata è usato come un'astrazione logica, come uno strumento metodologico, e non come una realtà di analisi e di spiegazione. La psicologia dovrà essere una scienza il cui contenuto è, per così dire, sociale piuttosto che individuale" (ibid., p. 35). Queste idee riappariranno più volte, ovviamente rielaborate, nella storia della psicologia dello sviluppo: ad esempio nella teoria di Vygotskij (v., 1934) dell'"interiorizzazione del linguaggio" e del duplice manifestarsi - prima sociale e poi individuale - dei processi psichici superiori, o nel tentativo di Mead (v., 1934) di ricercare nella conversazione gestuale la genesi del pensiero simbolico.

La psicologia sociale di Baldwin è una psicologia socioculturale: "La società in cui il bambino è nato non va dunque concepita come un semplice aggregato di individui biologici. Essa è piuttosto un insieme di prodotti mentali, una rete consolidata di relazioni psichiche, per mezzo della quale la nuova persona viene plasmata fino a raggiungere la maturità. L'individuo entra in questa rete come una nuova cellula del tessuto sociale, seguendone il movimento, manifestandone la natura e contribuendo alla sua crescita. Si tratta letteralmente di un tessuto, di natura psicologica, nel cui sviluppo il nuovo individuo si differenzia. Egli non vi entra come individuo: al contrario, è tale solo quando ne esce, attraverso un processo - per rimanere nell'analogia fisiologica - di 'gemmazione' o di 'divisione cellulare'. La società è un insieme di stati e di valori mentali e morali che si perpetua negli individui; nel Sé personale il sociale si individualizza" (v. Baldwin, 1913, pp. 107 ss.).Con le sue ricerche empiriche Baldwin (v., 1896) ha contribuito allo studio di questa individualizzazione del sociale. Gran parte della sua opera consiste nella descrizione e nell'illustrazione sperimentale di varie forme di suggestione e di imitazione, che egli considera come meccanismi specifici di fissazione di abitudini e di adattamento all'ambiente, nel quadro generale di una teoria dell'evoluzione. Egli dedica ampio spazio a un gran numero di osservazioni su varie forme di imitazione, di suggestione, di abitudine e di adattamento, mediante le quali il bambino s'inserisce in una tradizione culturale, perpetuandola e al tempo stesso intervenendo nella sua evoluzione.

Piaget. - Nei suoi primi scritti di psicologia Jean Piaget insiste molto sull'importanza della cooperazione e della coordinazione tra più individui come fattori dello sviluppo cognitivo individuale. Sotto questo riguardo sono notevoli soprattuto Le jugement moral chez l'enfant (1932) e altri scritti dello stesso periodo. Questi lavori possono essere visti (v. Doise, 1991) come una trasposizione dell'ideale democratico sul piano della psicologia sociale. L'idea di base è che né il pensiero egocentrico degli individui (il loro autismo), né la loro sottomissione a un'autorità (la costrizione sociale) possono avere come risultato una razionalità di portata universale. La ragione può nascere solo da una cooperazione tra uguali, definita come "ogni rapporto tra due o più individui uguali o che tali si ritengono, ossia ogni rapporto sociale in cui non intervenga alcun elemento di autorità o di prestigio" (v. Piaget, 1976, p. 67). Questa cooperazione 'democratica' è considerata una condizione necessaria perché nell'individuo si sviluppino la razionalità e il pensiero logico propriamente detto. In seguito Piaget, pur conservando le nozioni di assimilazione e di adattamento ispirate a Baldwin, si concentra quasi esclusivamente sul modo in cui l'individuo elabora strumenti cognitivi sempre più complessi: egli prescinde dalle condizioni sociali di tali elaborazioni: e in questo senso nel suo famoso "soggetto epistemico" riappare l'"astrazione logica" denunziata da Baldwin. Come Piaget, molti altri psicologi dell'infanzia sono stati portati a limitare drasticamente alla sfera dell'individuo le competenze e le disposizioni che sono all'origine del suo sviluppo cognitivo e sociale. In breve, la psicologia dello sviluppo non ha assolto, nelle sue correnti dominanti, il compito che Baldwin le aveva assegnato: specificare le varie forme di interazione sociale che permettono a un individuo di svilupparsi e di partecipare a interazioni sempre più complesse, capaci di causare ulteriori progressi. Del resto già in Baldwin, come nel sociologo Gabriel Tarde (v. 1890 e 1898), il concentrarsi sui meccanismi di imitazione aveva creato una specie di scarto tra una concezione teorica fortemente socioculturale e una prassi di ricerca sostanzialmente compatibile con spiegazioni centrate sull'individuo, nelle quali il sociale si riduce a un insieme di modelli da imitare.

Vygotskij. - Paradossalmente, un autore che ha insistito molto sul ruolo dell'imitazione, Lev S. Vygotskij, è diventato da qualche anno un punto di riferimento ineludibile della psicologia sociale dello sviluppo. L'idea importante da lui proposta, quella di "area prossimale di sviluppo", implica una revisione delle concezioni troppo individualistiche su cui si basano le usuali misurazioni dell'intelligenza: "Un principio incrollabile della psicologia classica è che il livello di sviluppo mentale del bambino è indicato solo dalla sua attività indipendente e non da quella imitativa. Questo principio trova espressione in tutti i sistemi di misurazione in uso: nel valutare lo sviluppo mentale si prendono in considerazione solo quelle soluzioni dei problemi proposti alle quali il bambino perviene senza l'aiuto di altri, senza dimostrazioni e senza domande-guida" (v. Vygotskij, 1978, pp. 87-88).

Contemporaneamente a Piaget, Vygotskij ha messo in risalto la genesi sociale delle funzioni psicologiche superiori: "Un processo interpersonale si trasforma in un processo intrapersonale. Nello sviluppo culturale del bambino ogni funzione appare due volte: prima a livello sociale e poi a livello individuale; prima nei rapporti interpersonali (livello interpsicologico) e poi all'interno del bambino (livello intrapsicologico). Ciò vale per l'attenzione volontaria, per la memoria logica e per la formazione dei concetti. Tutte le funzioni superiori nascono come relazioni concrete tra individui" (ibid., p. 56).

Per illustrare questo processo di trasformazione Vygotskij esamina l'atto simbolico dell'additare un oggetto dopo un tentativo mancato di afferrarlo: "Il tentativo fallito del bambino suscita una reazione da parte non dell'oggetto da lui cercato, ma di un'altra persona; di conseguenza il significato primario di questo fallimento è stabilito da altri. Solo in seguito, quando il bambino è in grado di collegare il suo movimento non riuscito alla situazione oggettiva d'insieme, egli comincia a intendere quel movimento come un additare. A questo punto la funzione del movimento cambia: da atto orientato verso l'oggetto esso diventa un atto diretto a un'altra persona, un modo di stabilire un rapporto. Il movimento per afferrare si trasforma nell'atto dell'additare. Come risultato di questo cambiamento, il movimento stesso si semplifica fisicamente, dando origine a quello che possiamo chiamare un vero e proprio gesto. Il movimento in questione diventa gesto solo dopo aver manifestato oggettivamente tutte le funzioni dell'additare ad altri e dopo essere stato inteso dagli altri come tale. Il suo significato e le sue funzioni hanno origine prima da una situazione oggettiva e poi dalle persone che circondano il bambino" (ibid.).

Una recente teoria psicosociale dello sviluppo cognitivo. - Esporremo ora una recente teoria sul progressivo costituirsi degli strumenti cognitivi nel bambino durante la sua partecipazione alle interazioni sociali. Per spiegare lo sviluppo cognitivo individuale è necessario richiamarsi a una prestrutturazione dell'ambiente sociale, corrispondente a norme, rappresentazioni e regole - o, per usare nozioni più recenti, a sceneggiature o a copioni collettivi - che organizzano le interazioni sociali a cui i bambini si trovano a partecipare. Queste regolazioni di natura sociale inducono l'individuo a regolare sull'ambiente le proprie attività di ragionamento.

L'interdipendenza tra regolazioni sociali e individuali può essere spiegata con una concezione di causalità a spirale. L'idea di base di questa concezione sociogenetica è che in ogni momento dello sviluppo di un individuo certe competenze specifiche gli permettono di partecipare a interazioni sociali relativamente complesse, che possono creare nuove competenze individuali, capaci a loro volta di arricchirsi ulteriormente quando l'individuo prende parte ad altre interazioni. È difficile definire esattamente le competenze individuali di partenza, che non sarebbero di origine sociale, bensì innate (su questo punto v. Mehler e Dupoux, 1990); ma una simile ricerca non è molto importante per una teoria che riguarda la costruzione sociale di operazioni mentali complesse a partire da organizzazioni individuali più elementari. Beninteso, la concezione qui accennata è evolutiva, il che non significa che ogni interazione sociale sia fonte di sviluppo individuale (alcune interazioni possono anzi risultare d'ostacolo); ma perché vi sia uno sviluppo cognitivo nell'individuo occorre che le sue competenze siano sostenute a più riprese da costruzioni sociali.

Lo studio specifico dell'intervento di queste coordinazioni può essere svolto mediante ricerche empiriche. Le idee di Durkheim sulla preminenza del sociale e quelle di Piaget sull'interazione cooperativa come fattore dello sviluppo cognitivo rientrano nel campo della macroteoria: esse forniscono degli orientamenti generali e sollecitano la costruzione di paradigmi di ricerca utili per descrivere meccanismi e nessi di causalità più specifici. Questi paradigmi non possono valersi del solo metodo d'indagine 'clinico', ma richiedono il ricorso al metodo sperimentale classico: le modalità d'interazione sociale vengono manipolate come variabili indipendenti per studiarne gli effetti sullo sviluppo cognitivo, considerato come variabile dipendente. Una visione sistemica complessa o una concezione di causalità a spirale non dispensano dallo studio di certi meccanismi, di certi effetti che procedono in un senso determinato, ma che possono prodursi anche nel senso opposto: per chiarire i vari aspetti di dinamiche più complesse è necessario ricorrere a esperimenti di portata più limitata. Illustrare empiricamente la tesi che le coordinazioni cognitive individuali si costituiscono a partire da coordinazioni tra individui richiede dunque l'elaborazione di assunti di portata più limitata. Quelli proposti dall'équipe ginevrina di psicologi sociali sono i seguenti.

1. Coordinando le proprie azioni con quelle degli altri il bambino è portato a elaborare coordinazioni cognitive di cui individualmente non sarebbe ancora capace.

2. I bambini che hanno partecipato a certe coordinazioni sociali diventano in seguito capaci di attuarle autonomamente.

3. Certe operazioni cognitive che si attuano su un dato materiale e in una specifica situazione sociale hanno un carattere di stabilità e di generalità e sono in una certa misura trasferibili ad altri materiali e ad altre situazioni.

4. L'interazione sociale diviene fonte di progresso cognitivo mediante i conflitti socio-cognitivi che suscita. È il confronto simultaneo, nel corso di un'interazione sociale, tra vari approcci o soluzioni individuali a rendere necessaria e a produrre la loro integrazione in una nuova organizzazione.

5. Perché possa nascere un conflitto socio-cognitivo occorre che i partecipanti a un'interazione dispongano già di certi strumenti cognitivi; analogamente, il bambino trae profitto dall'interazione solo se è in grado di stabilire una differenza tra il proprio approccio e quello degli altri. Il possesso di questa competenza preacquisita consente ad alcuni bambini, a differenza di quelli che ne sono ancora privi, di trarre profitto dall'interazione.

6. Le regolazioni di natura sociale (norme, rappresentazioni) che presiedono a una data interazione possono essere un fattore importante nell'istituzione di nuove coordinazioni cognitive. L'intervento di tali rappresentazioni o significati sociali nel corso delle coordinazioni cognitive effettuate in vista di un compito specifico viene studiato empiricamente mediante la nozione di marcatura sociale. Essa si riferisce alle possibili corrispondenze tra le regolazioni sociali che caratterizzano i rapporti tra i protagonisti (reali o simbolici) di una situazione specifica e le operazioni cognitive riguardanti certe proprietà degli oggetti che fungono da mediatori di tali rapporti.

Dagli atteggiamenti alle rappresentazioni sociali

Lo studio degli atteggiamenti sociali costituisce un settore importante della psicologia sociale, a partire dalla ricerca di William I. Thomas e Florian Znaniecki (v., 1918) sul contadino polacco in Europa e negli Stati Uniti. La problematica di questi due pionieri riguardava un'articolazione tra l'individuale e il collettivo: essi collegavano gli elementi 'oggettivi' di un modo di vita collettiva e sociale - elementi che essi chiamavano "valori sociali" - con le caratteristiche, altrettanto oggettive, osservate nei componenti di un gruppo sociale e indicate col nome di "atteggiamenti". Un alimento, una moneta, un diploma possono costituire un valore sociale; esiste allora negli individui una tendenza ad agire, un atteggiamento nei riguardi di tale valore. Gli atteggiamenti costituiscono il versante psicologico di una realtà il cui versante sociologico è il valore: "L'atteggiamento è un meccanismo psicologico studiato soprattutto nella sua azione rispetto al mondo sociale e nella sua connessione con i valori sociali" (v. Thomas e Znaniecki, 1918, p. 23). Le alterazioni e i mutamenti subiti dagli atteggiamenti degli immigrati polacchi vengono dunque studiati nel quadro di un incontro (o piuttosto di uno scontro) tra due culture, e non come un problema di variazioni interindividuali.

Negli anni venti e trenta i metodi usati per misurare gli atteggiamenti li hanno in qualche modo individualizzati, in quanto le misurazioni riguardavano soprattutto le diposizioni individuali: nella costruzione delle scale di atteggiamenti (come quelle di Thurstone e Chave: v., 1929) l'attenzione si focalizzava sulla variabilità interindividuale piuttosto che sui riflessi che una data realtà culturale o sociale poteva avere a livello degli individui.

Negli anni cinquanta e sessanta gli studiosi americani cercarono soprattutto di identificare le condizioni ottimali che permettevano di modificare gli atteggiamenti, allo scopo di contribuire alla formazione e alla diffusione di atteggiamenti democratici e antirazzisti. Il quadro teorico di questi programmi era inizialmente molto eclettico: si trattava di "gettare una vasta rete teorica per catturare il maggior numero possibile di variabili indipendenti, applicando in maniera convergente le nozioni esplicative più svariate" (v. McGuire, 1986, p. 99). Tipica di questo periodo è l'opera di Muzafer e Carolyn W. Sherif (v., 1964) sui gruppi di riferimento negli adolescenti: in essa il pluralismo metodologico è associato a un'apertura teorica di tipo propriamente psicosociologico.Lo stile di ricerca subì un'inversione quando si studiarono sperimentalmente alcuni modelli teorici molto specifici, come quelli dell'equilibrio o della dissonanza. In seguito questi modelli sono stati notevolmente arricchiti, specialmente da autori come Ajzen e Fishbein (v., 1980), che hanno integrato lo studio delle norme sociali con quello delle valutazioni individuali e dei programmi di comportamento, o da autori interessati soprattutto ai meccanismi che possono intervenire nella persuasione (v. Petty e Cacioppo, 1986; v. Eagly e Chaiken, 1992). Vedremo in seguito come questi modelli, originariamente di tipo individuale, siano stati poi risocializzati.

Attualmente prevale nell'analisi degli atteggiamenti una prospettiva più sistemica, in quanto lo studio dei sistemi a livello degli individui è interconnesso con lo studio del loro inserimento nei sistemi relazionali e sociali; ciò avviene specialmente nelle ricerche sulle rappresentazioni sociali. Serge Moscovici (v., 1988), e con lui altri autori, sostiene che le rappresentazioni collettive descritte da Durkheim vanno studiate come entità dinamiche preesistenti in qualche modo all'individuo. Pur cercando nella natura dei rapporti sociali la genesi e le cause del mutamento di tali rappresentazioni, Durkheim attribuiva loro una notevole autonomia: "Esse hanno il potere di richiamarsi, di respingersi, di formare sintesi di ogni genere, determinate dalle loro naturali affinità e non dalle condizioni dell'ambiente in cui si evolvono. Le nuove rappresentazioni prodotte da queste sintesi hanno quindi la stessa natura: esse hanno come cause prossime altre rappresentazioni collettive, e non questo o quel carattere della struttura sociale" (v. Durkheim, 1967, p. 34). Il sociologo francese mette in risalto l'opposizione tra l'individuale e il collettivo allo scopo di studiare il secondo termine, in un certo senso a scapito del primo. La sua posizione è così riassunta da Moscovici (v., 1988, p. 132): "Durkheim interpreta il risultato esterno unitario di numerosi processi psichici soggettivi come risultato di un processo psichico unitario che si svolge nella coscienza collettiva oggettiva. Si tratta di due realtà diverse, in quanto la seconda sembra agire dall'esterno e in maniera coercitiva sulla prima. [...] Possiamo così constatare che Durkheim contrappone decisamente la sociologia alla psicologia individuale". Moscovici (ibid., p. 134) dimostra poi, con un'analisi minuziosa dell'opera di Durkheim, come in realtà questi abbia fatto costantemente ricorso a una psicologia individuale di carattere sociale: "In ogni caso, la psicologia sembra essere un efficace fluidificante per le sue teorie della religione, della coesione sociale e della morale".

Questa concezione della psicologia sociale (o piuttosto della psicologia socioculturale) è sempre presente anche in Moscovici fin dalle sue ricerche sulla rappresentazione sociale della psicanalisi (v. Moscovici, 1976²). A suo avviso spetterebbe proprio alla psicologia sociale superare l'opposizione tra l'individuale e il collettivo introdotta da Durkheim, dimostrando anche che le entità delle rappresentazioni collettive sono in effetti molto meno unitarie e uniformi di quanto non lasci supporre il sociologo francese. L'abbandono del termine 'rappresentazione collettiva' non è dunque casuale, ma corrisponde a un cambiamento di prospettiva. Studiare le rappresentazioni sociali significa articolare lo studio delle dinamiche dei rapporti simbolici tra gli attori sociali con lo studio dei processi cognitivi sottesi alla loro comunicazione. Per cogliere la specificità dell'aspetto sociale delle rappresentazioni è necessario studiare quale sia la loro funzione nel plasmare le comunicazioni e i rapporti sociali: "In altre parole, per cogliere il senso dell'aggettivo 'sociale' è preferibile mettere l'accento sulla funzione a cui esso corrisponde, anziché sulle circostanze e sulle entità che esso rispecchia. Quella funzione gli è propria, nella misura in cui la rappresentazione contribuisce esclusivamente ai processi di formazione dei comportamenti e di orientamento delle comunicazioni sociali" (v. Moscovici, 1976², p. 75). Questa interconnessione tra dinamiche relazionali e dinamiche rappresentazionali costituisce il nocciolo della seguente definizione, che si ricollega al concetto di habitus o di disposizione proposto da Bourdieu: "Le rappresentazioni sociali sono principî che generano prese di posizione connesse con specifici inserimenti in un insieme di rapporti sociali e che organizzano i processi simbolici che intervengono in tali rapporti" (v. Doise, 1986, p. 85).

La seconda parte del saggio di Moscovici (v., 1976²) sulla rappresentazione sociale della psicanalisi contiene il miglior esempio di analisi dell'inserimento delle rappresentazioni nell'organizzazione dei rapporti simbolici fra attori sociali. In generale l'opera si propone di studiare la trasformazione di una teoria scientifica in 'senso comune', ossia di un sistema concettuale in un sistema di rappresentazioni; la seconda parte si occupa del modo in cui la psicanalisi è stata vista da varie categorie di periodici francesi sul finire degli anni cinquanta.

L'organizzazione cognitiva dell'insieme dei messaggi sulla psicanalisi è diversa a seconda delle modalità di comunicazione. Nella stampa di larga diffusione, caratterizzata dalla mancanza di una differenziazione tra emittente e destinatario della comunicazione, lo scopo principale è di creare un sapere comune e al tempo stesso di adattarsi agli interessi del pubblico. I temi sono quindi scarsamente organizzati tra loro e i punti di vista espressi possono essere contraddittori; secondo i casi, la psicanalisi è trattata seriamente, con riserva o addirittura con ironia, e viene associata ad altri argomenti in voga. Un'organizzazione più complessa dei temi affrontati si manifesta nella stampa che mira a propagare una visione del mondo ben definita, fondata su un credo, pur sforzandosi di adattarla ad altre concezioni (per esempio, quella cattolica). La propaganda, invece, è una forma di comunicazione che si inscrive in una situazione sociale di conflitto. Essa ha lo scopo di contrapporre il 'vero' al 'falso', mira a rifiutare in blocco una concezione rivale, presentandone con inflessibile coerenza uno stereotipo denigratorio. Così al tempo della guerra fredda la stampa comunista vedeva nella psicanalisi una pseudoscienza importata dagli Stati Uniti; un'opposizione sistematica connessa con la lotta di classe investiva, collegandole tra loro, politica e psicologia.

Moscovici distingue tra opinioni, atteggiamenti e stereotipi, legati a condizioni di produzione sociale differenti: "Considerati dal punto di vista della struttura dei messaggi, dell'elaborazione dei modelli sociali, delle connessioni tra mittenti e destinatari, del comportamento esaminato, i tre sistemi di comunicazione conservano una notevole individualità; ed è appunto questa particolarità a consentirci di far corrispondere la diffusione, la propagazione e la propaganda rispettivamente all'opinione, all'atteggiamento e allo stereotipo". Questa conclusione è importante, perché implica che ogni definizione delle rappresentazioni sociali in termini di consenso è inadeguata. Solo gli stereotipi, infatti, sono oggetto di consenso all'interno di un dato gruppo o sottogruppo, mentre gli atteggiamenti richiedono un lavoro di assimilazione a un sistema già vario e complesso (lavoro che dà origine a nuove variazioni), e le opinioni sono mutevoli e seguono mode passeggere. Le rappresentazioni sociali non sono dunque opinioni consensuali, ma prese di posizione di natura diversa, anche se talvolta utilizzano punti di riferimento comuni. Nello studio delle rappresentazioni sociali proposto da Moscovici occorre che i sistemi complessi a livello degli individui siano messi in relazione con i sistemi di rapporti simbolici fra attori sociali: "vediamo in azione due sistemi cognitivi: il primo, che effettua associazioni, inclusioni, discriminazioni, deduzioni, è un sistema operativo; l'altro, che controlla, verifica, seleziona mediante regole (logiche o non logiche), è una sorta di metasistema che rielabora il materiale prodotto dal primo" (v. Moscovici, 1976², p. 254).

Questo metasistema è costituito da regolazioni sociali, "regolazioni normative che controllano, verificano, dirigono" (ibid.) le operazioni cognitive. Nei vari campi del pensiero adulto i principî organizzativi del metasistema differiscono: può essere necessario applicare rigorosamente dei principî logici, come nel campo delle scienze, o mirare soprattutto a una coerenza di natura sociale, come nelle controversie di ogni genere. "Il pensiero naturale è centrato sulla comunicazione, è direzionale e 'controversiale'" (ibid.); una posizione particolare può essere difesa con forme di argomentazione che sarebbero giudicate inammissibili in un dibattito scientifico. Gli stessi individui possono servirsi di metasistemi diversi secondo le circostanze.Spetta agli psicologi sociali studiare le connessioni tra le regolazioni sociali e i processi cognitivi che esse attualizzano in determinati contesti specifici. L'analisi delle regolazioni che il metasistema sociale effettua nel sistema cognitivo costituisce appunto lo studio propriamente detto delle rappresentazioni sociali, nella misura in cui siano esplicitate le loro connessioni con certe posizioni specifiche in un insieme di rapporti sociali.

L'approccio sperimentale

I livelli di analisi

Il metodo sperimentale è stato utilizzato nella psicologia sociale fin dalle origini (v. Triplett, 1898), ma non senza contrasti. Esso è quasi per definizione un metodo riduzionista, in quanto tende a prescindere dal contesto socioculturale per studiare soprattutto ciò che in una data situazione è facilmente manipolabile. A questa naturale tendenza degli sperimentalisti è necessario contrapporre un costante impegno ad articolare lo studio dei processi in questione con quello del contesto socioculturale.

Solo trasformando, sia pure temporaneamente, la realtà riusciamo a conoscerla meglio. Si presume che le condizioni sperimentali favoriscano lo svolgimento di certi processi, mentre altre condizioni lo ostacolerebbero. I processi avvengono sempre tra individui inseriti in un contesto sociologico, nel quale occupano posizioni specifiche; la sperimentazione crea, almeno provvisoriamente, situazioni che esaltano o attenuano gli effetti di queste posizioni e valori sociologicamente determinati, allo scopo di valutarne meglio l'incidenza su certe situazioni e interazioni.

Una sperimentazione così concepita può attuarsi solo mediante una procedura appropriata. Lungi dal privare i soggetti sperimentali di ogni determinazione esterna alla situazione sperimentale, il metodo dell'articolazione dei livelli di analisi porta a lavorare su un materiale di base costituito dalle norme di comportamento e dalle rappresentazioni che gli individui recano con sé nella situazione sperimentale.

Lo studio dell'influenza sociale

Descriveremo ora i livelli di analisi correntemente utilizzati nella psicologia sociale sperimentale facendo riferimento agli studi sull'influenza sociale (v. Mugny e Doise, 1979): un campo che ha costantemente attratto i ricercatori, a partire dagli studi sulla suggestione condotti da Binet (v., 1900).

Un primo livello di analisi è centrato sullo studio dei processi intraindividuali: i modelli adoperati riguardano il modo in cui gli individui organizzano la propria esperienza dell'ambiente. Negli studi sull'influenza sociale che si riferiscono a questo livello l'individuo è considerato come elaboratore di informazioni. In queste analisi non ha molta importanza se le informazioni sono raccolte dall'individuo stesso o provengono da altri: l'individuo ne terrà conto e modificherà eventualmente i suoi giudizi sulla realtà. Questa concezione è stata alla base delle classiche ricerche di Muzafer Sherif sulla normalizzazione (v., 1936). Di fronte a informazioni ambigue, l'individuo le organizza, anche quando provengono da altri; modificare le proprie risposte in funzione di quelle altrui è soltanto un modo individuale di trattare l'informazione, e la convergenza tra più individui deriva dal fatto che i vari membri di un gruppo trattano l'informazione in modo simile.

Un secondo livello di analisi riguarda i processi interindividuali e situazionali. Qui gli individui sono considerati intercambiabili e i principî esplicativi sono forniti dai loro sistemi d'interazione; i fenomeni d'influenza sociale sono studiati come risultati di un'ottimizzazione delle concessioni reciproche tra gli individui. A questo livello si spiega anche il fenomeno, spesso osservato (v. Allport, 1924), dell'attenuazione dei giudizi individuali in presenza di altre persone: esso corrisponderebbe a un tentativo di ridurre l'insicurezza derivante dal rischio di un disaccordo con gli altri, disaccordo che ha maggiori probabilità di essere importante quando si esprimono opinioni estreme.

Un terzo livello tiene conto della diversità delle posizioni occupate dai vari attori sociali nel contesto dei rapporti che caratterizzano una società. Negli studi sull'influenza sociale vengono così analizzati i rapporti di status maggioritario o minoritario, di potere o di marginalità esistenti tra chi esercita e chi subisce l'influenza o tra gruppi che interagiscono. Le ricerche di Serge Moscovici (v., 1980), di Gabriel Mugny (v., 1982) e di Charlan Nemeth (v., 1986) sull'influenza minoritaria sono esempi classici di analisi degli effetti posizionali in questo tipo di fenomeni.

Un quarto livello, infine, fa riferimento ai sistemi di credenze, di rappresentazioni, di valutazioni e di norme sociali. Sono le produzioni culturali e ideologiche caratteristiche di una società o di un gruppo a dare un senso ai comportamenti degli individui e a creare o ad alimentare, in nome di principî generali, certe differenziazioni sociali. Ad esempio, gli studi più recenti sull'influenza sociale (v. Perez e Mugny, 1993) attribuiscono grande importanza alle eventuali aspettative di consenso veicolate in certe situazioni specifiche in relazione ai compiti di giudizio proposti. Nel campo dell'influenza sociale, come in altri campi, non sembra possibile studiare i processi intraindividuali, interindividuali o posizionali senza ricorrere ad analisi relative a credenze generali e a gerarchie di valori.La distinzione tra i quattro livelli di analisi non serve solo a scopi classificatori, ma è utile soprattutto per articolare i diversi tipi di analisi. In un approccio che prescinde da fattori eterogenei e che studia certi processi specifici mantenendo costanti le altre variabili o controllandole con le leggi della probabilità, l'articolazione tra modelli di diverso livello rimane spesso implicita. Tuttavia le analisi che fanno ricorso a vari livelli teorici sono più complete: esse descrivono meglio un processo concettualizzato ad uno dei quattro livelli di analisi, precisando quali siano le condizioni della sua attualizzazione riferibili ad altri livelli. Moscovici e Mugny hanno dato in tal modo un contributo decisivo allo sviluppo degli studi sull'influenza sociale, esplicitando il ruolo delle dinamiche di ricerca d'identità, di oggettività, di confronto sociale o di conversione in funzione delle posizioni occupate nei rapporti di potere o di status dai soggetti che esercitano o che subiscono l'influenza.

L'evoluzione di alcuni paradigmi classici

Nelle analisi della psicologia sociale, come pure in quelle sociologiche, l'individuale e il sociale sembrano spesso costituire due poli opposti, aventi un peso diverso a seconda dei contesti storici e sociali. Si tratta di una contrapposizione non soltanto scientifica, ma anche ideologica. Da un lato le nostre società hanno bisogno di diffondere l'idea di un individuo autonomo, padrone delle proprie azioni e capace di impegnarsi in rapporti contrattuali di ogni genere; dall'altro è evidente che esistono entità collettive - le nazioni, le culture, le organizzazioni, le famiglie - delimitate da confini che servono a far rispettare le distanze e a salvaguardare molteplici interessi. Il superamento di questa contrapposizione costituisce l'obiettivo della psicologia sociale: essa dimostra che una spiegazione esauriente a un dato livello deve necessariamente far intervenire nell'analisi anche spiegazioni pertinenti a un altro livello. Articolazioni di questo genere vengono spesso attuate in vari campi della psicologia sociale sperimentale: ne diamo qui di seguito tre esempi.

La dissonanza cognitiva. - Il modello esplicativo della dissonanza cognitiva proposto da Léon Festinger (v., 1957) riguarda tipicamente il primo livello di analisi, perché in esso la riduzione delle contraddizioni tra elementi cognitivi incompatibili è studiata soprattutto come un processo di organizzazione dell'esperienza individuale. Tuttavia la necessità di conservare la propria autoimmagine nei confronti degli altri e il rispetto delle specificità connesse con le appartenenze di categoria influiscono sul funzionamento di questo processo e inducono a ricorrere ad analisi di livello interindividuale e posizionale. Analogamente, sono portati a proporre delle articolazioni con il livello ideologico sia gli autori che studiano i processi di riduzione della dissonanza come elementi costitutivi dei funzionamenti ideologici, sia quelli che vedono in tale riduzione l'effetto dell'adesione a un'ideologia in grado di veicolare l'immagine di un individuo autonomo e coerente.

Alcuni autori non hanno esitato a giudicare troppo riduzionistico il modello della dissonanza, in quanto riferito a un processo intraindividuale; ma questo giudizio non tiene conto della possibilità che un modello intraindividuale venga ripreso in analisi capaci di articolarlo ad altri livelli. Un approccio più fecondo sembra essere quello di Robert Joule e Jean-Léon Beauvois (v., 1987), che mirano a definire meglio le condizioni di applicazione del modello della dissonanza. Sotto questo aspetto i loro lavori sono esemplari: anziché voler dimostrare a ogni costo la superiorità di una teoria rispetto a un'altra - ad esempio della teoria della dissonanza rispetto a quella dell'impegno -, essi hanno cercato soprattutto di arricchire ciascuna teoria con gli apporti dell'altra. Da queste articolazioni tra più modelli esplicativi hanno tratto vantaggio non solo le ricerche sulla dissonanza, ma anche quelle sull'impegno e altre ancora.

Sia le ricerche sugli effetti delle rappresentazioni di autonomia o dell'impegno, sia quelle sull'intervento dei vari contesti intergruppo riguardano condizioni specifiche di attualizzazione dei processi di riduzione della dissonanza. In alcune situazioni intergruppo tale riduzione può avvenire secondo varie modalità, relative a contenuti connessi direttamente o indirettamente con i comportamenti che provocano la dissonanza; l'individuo può così rimanere coerente, almeno in un certa misura, con la posizione da lui assunta e al tempo stesso con quella, diversa, del proprio gruppo (v. Clémence, 1991).

Nelle ricerche sulla dissonanza è apparsa dunque evidente l'insufficienza di un unico modello cognitivo di razionalità o di razionalizzazione; il meno che si possa dire è che vi sono numerose condizioni sociali di attualizzazione che modificano notevolmente le dinamiche descritte da un modello o ne innescano altre.

L'attribuzione. - L'attribuzione di causalità o di responsabilità per azioni intraprese costituisce un campo d'indagine in cui i ricercatori sperimentali hanno proposto inizialmente un modello razionale, per non dire razionalistico, del ragionamento. Come principali riferimenti si possono assumere il modello di Edward E. Jones e Keith E. Davis (v., 1965) e quello di Harold H. Kelley (v., 1967). Il primo presume che l'osservatore, avendo di fronte un attore capace di scegliere tra più azioni possibili, cominci con l'identificare gli effetti dell'azione intrapresa per confrontarli con quelli delle altre azioni possibili non compiute (si suppone che gli effetti specifici dell'azione intrapresa corrispondano all'intenzione dell'attore). Il modello di Kelley presume invece che l'individuo, disponendo di più informazioni, le organizzi secondo un programma di analisi della varianza per scoprire eventuali nessi tra cause ed effetti. Si tratta evidentemente di modelli relativi soprattutto all'organizzazione dell'informazione da parte dell'individuo, anche se tale informazione riguarda l'ambiente sociale.

Questi modelli intraindividuali si sono dimostrati insufficienti a spiegare l'intervento di variabili implicanti analisi di diverso livello. Come ha fatto notare anche Miles Hewstone (v., 1989), la distinzione tra i quattro livelli di analisi consente di introdurre una sistematicità negli studi sull'attribuzione.Le analisi di tipo situazionale mettono in luce l'intervento di un particolare meccanismo il quale consiste, secondo Edward E. Jones e Richard E. Nisbett (v., 1972, p. 80), nella "costante tendenza degli attori a far risalire i propri atti alle esigenze della situazione, laddove gli osservatori li attribuiscono a disposizioni personali stabili".

Alcune analisi di tipo posizionale o intergruppo interpretavano in modo diverso anche il funzionamento dei processi di attribuzione. Così, certi comportamenti desiderabili sono attribuiti a cause interne se si tratta dell'ingroup ('gruppo del noi') e a cause esterne se si tratta dell'outgroup ('gruppo degli altri'), mentre nel caso dei comportamenti indesiderabili le attribuzioni s'invertono. Sono possibili peraltro delle variazioni di questo meccanismo generale: ad esempio, da una ricerca di Kay Deaux e Tim Emswiller (v., 1974) risulta che i membri di un gruppo relativamente dominante non esitano a spiegare con le proprie capacità gli esiti positivi conseguiti in compiti che sono invece propri di un gruppo meno dominante. Al contrario, i membri di quest'ultimo non ricorrono a una simile spiegazione quando a loro volta riescono in compiti propri del gruppo più dominante.

Infine, ricerche più recenti inquadrano l'insieme degli studi sull'attribuzione interna ed esterna in un contesto generale di norme e di credenze. Tali ricerche si richiamano all'idea, ampiamente illustrata da Nicole Dubois (v., 1987), secondo cui nel nostro tipo di società esiste e opera una norma generale d'internalità: si preferisce cioè ricorrere alle spiegazioni fondate sulle disposizioni anziché a quelle fondate sulle situazioni.

La categorizzazione. - Da una rapida rassegna di quarant'anni di ricerche sperimentali sull'incidenza della categorizzazione nelle rappresentazioni intergruppo emerge anzitutto un processo, ampiamente descritto fa Henri Tajfel (v., 1981), che spiegherebbe certi fenomeni percettivi di accentuazione dei contrasti tra stimoli appartenenti a categorie diverse, nonché delle somiglianze tra stimoli appartenenti a una stessa categoria. Su questi studi si è innestata una teoria secondo cui l'identità sociale si realizza preferibilmente mediante l'accentuazione delle differenze positive tra il gruppo di appartenenza e gli altri gruppi. Questa teoria dell'identità sociale, proposta inizialmente da Tajfel e sviluppata poi da John Turner (v., 1987), si richiama sempre all'intervento di un processo di categorizzazione consistente in una omogeneizzazione intragruppo e in una differenziazione intergruppo.

Esperimenti sempre più numerosi hanno poi dimostrato che vi è anche una certa sistematicità nelle condizioni grazie alle quali l'introduzione di categorie in una situazione sociale non è necessariamente accompagnata da un'accentuazione delle somiglianze intracategoriali e delle differenze intercategoriali. Ciò è emerso specialmente dallo studio delle situazioni di appartenenza incrociata: spesso infatti le appartenenze categoriali s'incrociano, cosicché gli stessi individui appartengono a categorie differenti in base a un certo criterio e alla stessa categoria in base a un altro. In queste situazioni gli effetti di accentuazione delle differenze intercategoriali si attenuano, o addirittura scompaiono; Jean-Claude Deschamps (v., 1984) ha osservato anzi alcuni fenomeni in cui l'accentuazione delle differenze intercategoriali è covariante con quella delle differenze intracategoriali.

Per rendere conto di questi fenomeni, difficilmente spiegabili col modello della categorizzazione, Fabio Lorenzi-Cioldi (v., 1988) ha distinto nella nozione di gruppo sociale due accezioni tipico-ideali, che egli chiama "gruppo-raccolta" (groupe collection) e "gruppo aggregato" (groupe agrégat). Il gruppo dominante sarebbe visto più come una pluralità di individui dotati ciascuno di una propria specificità, definiti da qualità personali apparentemente extracategoriali; il gruppo subalterno sarebbe visto invece più come un aggregato di individui relativamente indifferenziati, definiti da caratteristiche attribuite al gruppo nel suo insieme. L'appartenenza a un gruppo-raccolta avrebbe anche un effetto non previsto dal modello della categorizzazione, quello cioè di far covariare la differenziazione intragruppo e quella intergruppo; l'appartenenza a un gruppo-aggregato avrebbe invece effetti in accordo col processo di categorizzazione, perché in essa l'accentuazione delle differenze intergruppo andrebbe di pari passo con quella delle somiglianze intragruppo. I complessi legami tra i gruppi-raccolta, i gruppi-aggregato, i gruppi sessuali e la differenziazione intragruppo e intergruppo, su dimensioni viste come generiche o come specifiche dei gruppi, sono ampiamente illustrati da una serie di ricerche di Lorenzi-Cioldi. Esse corroborano l'ipotesi di un'omologia tra gruppi aventi contenuti e significati eterogenei: da un lato gruppi di ragazzi, gruppi competitivi o dominanti e gruppi di diversi, dall'altro gruppi di ragazze, gruppi cooperativi o subalterni e gruppi di simili si associano tra loro in modo preferenziale. L'emergere del principio di categorizzazione sociale (e sessuale, nel caso dei gruppi di ragazzi e ragazze) dipende dunque contemporaneamente dal sesso dei soggetti, dalle situazioni d'interazione intergruppo e dalle dimensioni su cui si osserva il fenomeno.

Come spiega Lorenzi-Cioldi (v., 1994), le teorie sull'identità sessuale, che in passato avevano insistito sulle differenze tra uomini e donne e sulle regolarità dei rispettivi comportamenti, in seguito hanno messo l'accento sulle differenze tra gli individui, prendendo in esame aspetti più personali e caratteristici della loro identità. I riferimenti ai gruppi di appartenenza sessuale in quanto fonti di variazioni dell'identità sono diventati meno frequenti, perché oggi si tende piuttosto a partire dal presupposto che uomini e donne hanno le stesse potenzialità d'azione e che i loro comportamenti differiscono essenzialmente in relazione alle loro scelte personali, ai comportamenti altrui nei loro confronti e alle forme concrete d'interazione. Di rado le appartenenze sociali corrispondono a uno schema del tipo 'tutto o niente': occorre piuttosto pensare che esistano dei gradi di appartenenza a una data categoria, in quanto si ritiene che alcuni dei suoi membri la rappresentino meglio di altri. Il modello della prototipia proposto da Eleanor Rosch (v., 1975) tiene conto di queste differenze di grado e stabilisce che vi è una categoria quando le differenze all'interno di un dato insieme sono meno importanti di quelle tra diversi insiemi: i prototipi propriamente detti sono quei membri di una categoria che la rappresentano meglio degli altri.

Quanto all'uso di questo modello da parte degli psicologi sociali, si direbbe che attualmente le loro ricerche si trovino in una situazione analoga a quella in cui erano gli studi sulla categorizzazione e sull'accentuazione dei contrasti sul finire degli anni cinquanta e all'inizio degli anni sessanta. Anche in questo caso le ricerche hanno mostrato in un primo tempo che alcuni modelli originariamente elaborati nella psicologia percettiva o cognitiva sono applicabili allo studio dei nessi tra divisioni e rappresentazioni sociali. In psicologia sociale costituisce un'innovazione il tener conto del fatto che gli attributi categoriali e i criteri di appartenenza sono molteplici e non riducibili a uno schema del tipo 'tutto o niente'; che cioè esistono in qualche modo vari gradi di appartenenza a una categoria. Più specificamente, alcune ricerche hanno già dimostrato l'utilità del concetto di struttura interna nello studio dell'organizzazione cognitiva delle rappresentazioni di categorie sociali come le professioni, le situazioni sociali, i tipi di personalità (v. Arcuri, 1985; v. Doise, 1990). A questo proposito è importante notare che nell'ultima compilazione dell'elenco ufficiale delle categorie socio-professionali in Francia due specialisti in materia, Alain Desrosières e Laurent Thévenot (v., 1988), si sono richiamati direttamente alle idee della Rosch.

Questi pochi esempi, tratti dalla storia più che quarantennale delle ricerche sulla categorizzazione, sono già sufficienti a provare la validità di parecchie ipotesi riguardanti l'articolazione tra i modelli abitualmente usati nella psicologia cognitiva e quelli relativi a dinamiche di differenziazione sociale. Tali ipotesi sono di vario genere: la loro stessa molteplicità permette di spiegare i numerosi nessi che collegano i vari metasistemi di rapporti sociali con l'organizzazione dei processi cognitivi che intervengono di continuo nelle nostre riflessioni sull'ambiente sociale. Alcuni rapporti sociali, ad esempio quelli di competizione o di conflitto intergruppo, richiedono l'intervento di processi di categorizzazione implicanti rigide dicotomie; altri rapporti, come quelli di cooperazione o di contatto senza percezione d'interdipendenza negativa, sono più facilmente rappresentabili con altri modelli, come quelli delle appartenenze categoriali incrociate o della prototipia.

Tenendo conto anche dei nessi tra gli aspetti comportamentali, affettivi e rappresentazionali - che spesso sono covarianti, cosicché divergenze o convergenze nei riguardi di uno di tali aspetti provocano divergenze o convergenze nei riguardi di altri aspetti -, le ricerche sulle relazioni tra gruppi sono forse quelle che meglio illustrano l'approccio basato sull'articolazione di più livelli di analisi (v. Doise, 1984). In ogni caso esse dimostrano che alcuni processi studiati dalla psicologia cognitiva e considerati come processi di organizzazione individuale possono essere meglio compresi quando siano analizzati come interconnessi con le dinamiche dell'interazione e dei rapporti sociali. Sotto quest'aspetto il complesso delle ricerche sulla categorizzazione sociale è esemplare: attualmente pochi processi vengono come questo studiati in funzione delle modifiche che essi subiscono allorché vengono inseriti nelle dinamiche sociali.

Conclusione

Lo studio della spiegazione nella psicologia sociale può essere affrontato da un altro punto di vista, partendo da un problema applicativo. Una parte notevole dell'educazione, soprattutto scolastica, mira a sviluppare negli individui varie competenze cognitive: quali conoscenze possono fornire a coloro che intervengono in questo sviluppo le scienze sociali, e in particolare la psicologia sociale?

Non si può negare - tanto per richiamarsi a esempi notissimi - che la ricerca psicologica di Jean Piaget e quella sociologica di Pierre Bourdieu siano ugualmente importanti come ispiratrici di una prassi pedagogica; tuttavia i due approcci non hanno niente in comune. Vi sono prassi pedagogiche che si richiamano esplicitamente a Piaget, così come le opere di alcuni sociologi hanno suggerito riforme scolastiche tendenti a 'pareggiare le opportunità' o a 'compensare gli handicaps socioculturali'. Talvolta queste innovazioni pedagogiche di diversa origine convergono, ma altre volte sembrano ignorarsi completamente. Così, un atteggiamento 'spontaneistico' ispirato a Piaget può benissimo non avvertire il peso dei condizionamenti sociologici esistenti nella scuola, e può per ciò stesso favorirli e aggravarli; viceversa, i sostenitori di certe teorie sociologiche caldeggiano spesso l'introduzione nel sistema scolastico di innovazioni strutturali intese a facilitare l'accesso all'istruzione di bambini appartenenti a gruppi socioeconomici svantaggiati, senza peraltro affrontare il problema teorico dell'appropriazione individuale della conoscenza.

Nessuna delle due teorie, psicologica e sociologica, in sé ugualmente indispensabili, ci informa però sulle dinamiche studiate dall'altra, anche se è chiaro che ogni intervento sulla scuola deve avere la possibilità di richiamarsi ad entrambe; da qui la necessità di adottare un metodo eclettico. Resta naturalmente invariata la difficoltà di elaborare una prassi pedagogica che tenga conto contemporaneamente delle problematiche psicologiche e di quelle sociologiche. Finora nessuna teoria è riuscita a integrare in modo davvero soddisfacente queste due problematiche nel campo della scuola: ma ciò non esonera i responsabili dal dovere di agire in modo illuminato, tenendo conto delle acquisizioni di entrambe le discipline. Questa formulazione estremamente semplice del problema applicativo - che nasce dalla presenza di due sistemi esplicativi di livello molto diverso, entrambi di vasta portata, ma insufficienti a indirizzare da soli la prassi - fa apparire naturale e anzi indispensabile il metodo eclettico.

Spesso una ricerca fondata su un'unica teoria interpretativa di una situazione sociale ha ben poche probabilità di riuscita: per risolvere un problema può essere necessario tutto un complesso di conoscenze, che una sola teoria non basta a fornire. Per organizzare queste conoscenze occorre ideare approcci che tengano conto degli insegnamenti di più teorie, capaci di spiegare l'insieme delle dinamiche che caratterizzano una situazione. Siamo così ricondotti al problema della spiegazione nella psicologia sociale e alla necessità di articolare diversi livelli di analisi.

Concludiamo. Per quanto possa essere utile il metodo eclettico, col suo stimolo a porre in atto più tipi di analisi, riteniamo che il suo ruolo nella psicologia sociale sia assimilabile a quello delle grandi teorie: anche l'eclettismo si limita a indicare un orientamento generale, senza precisare in che modo si possa lavorare con più teorie contemporaneamente. Per far ciò è necessario disporre di principî organizzativi più specifici, che sono alla base della distinzione tra i quattro livelli di analisi e delle loro articolazioni. Il valore euristico di un simile procedimento è stato messo in luce a proposito delle ricerche sperimentali riguardanti l'influenza sociale, la dissonanza cognitiva, l'attribuzione e la categorizzazione: in ogni campo della psicologia sociale il ricorso ad analisi intraindividuali, interindividuali, posizionali e ideologiche dà rapidamente i suoi frutti. È appunto esplorando tali vie che la psicologia sociale contemporanea può continuare l'opera avviata dai suoi padri fondatori. (V. anche Atteggiamento; Cognitivi, processi; Comportamentismo; Intelligenza; Interazione sociale; Personalità e società; Pregiudizio; Socializzazione).

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