Psicologia clinica

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Psicologia clinica

Massimo Grasso

L'area disciplinare che delinea la p. c. si presenta come un territorio complesso e variamente articolato, di difficile e controversa definizione quanto ai suoi fondamenti epistemologici e ai suoi orientamenti applicativi.

Già la qualificazione usata per designare questo campo della psicologia - l'aggettivazione clinica - appare in prima istanza fuorviante: essa rimanda infatti, se non altro per il potere di connotazione legato a una tradizione culturalmente più forte, al modello medico di intervento. Tuttavia gli psicologi, almeno alcuni, hanno rivendicato la proprietà per la psicologia, nel suo versante applicativo, di una simile aggettivazione che, a ben guardare, può in realtà essere ricondotta ad almeno tre significati, tutti di particolare pregnanza per un orientamento dichiaratamente psicologico.

È stato quindi osservato (Pinkus 1975) come il termine clinico possa essere riferibile a: 1) un approccio alla realtà basato sul rapporto interpersonale; 2) una metodologia di studio della realtà medesima fondata sull'osservazione diretta e sistematica di vari individui con l'obiettivo di isolare elementi comuni e quindi tipici o, all'opposto, differenziali, attraverso un lavoro sul campo e mediante l'utilizzazione di una prospettiva storica; 3) un sistema di formazione basato sull'esperienza diretta di una realtà piuttosto che sull'uso di modelli artificiali.

Come si vede, tutte le dimensioni cui si è fatto riferimento - importanza prevalente del rapporto interpersonale, dell'osservazione del comportamento degli individui, dell'esperienza diretta - a buon diritto possono essere ascritte al campo teorico della psicologia.

Da un punto di vista storico è stato sostenuto (Korchin 1976) che la p. c. nasce dalla confluenza di due tradizioni culturali: quella psicometrica, individuabile nel crescente interesse sviluppatosi sul finire del secolo scorso e all'inizio dell'attuale per i test mentali e per la conseguente possibilità di misurare e diagnosticare dimensioni psicologiche e comportamentali, e quella dinamica, riferita ai contributi forniti più o meno negli stessi anni soprattutto dalle scuole psicoanalitiche legate alle ipotesi teoriche di S. Freud e C.G. Jung.

Per un verso, è quindi riconoscibile, alla base della p. c., una tendenza verso la conoscenza e la misurazione degli elementi che differenziano gli individui tra loro; per un altro, un'attenzione ai problemi connessi con lo sviluppo della personalità e con il tentativo di definire un modello sufficientemente comprensivo e coerente dell'organizzazione e del funzionamento psichici, anche in relazione a un'azione di recupero o terapeutica. Per ambedue le anime della p. c. è comunque rintracciabile un cospicuo interesse per una caratterizzazione della psicologia come disciplina legata a una prassi, definendo tale prassi come prevalentemente orientata alla valutazione della personalità degli individui, o alla terapia di disturbi psichici con strumenti psicologici, oppure alla ricerca scientifica nei suddetti ambiti.

In questa luce, la p. c. appare per un verso ancorata a presupposti basici della psicologia, per l'altro impegnata sul terreno dell'intervento. Le due prospettive principali, non mutuamente escludentisi ma anzi in continua reciproca connessione, appaiono così essere quella che riconosce alla p. c. il compito di definire e/o controllare leggi generali del funzionamento psichico e quella che la individua come applicazione di conoscenze già acquisite su casi individuali.

L'oggetto di studio della p. c. è unanimemente riconosciuto nell'individuo e, in particolare, nelle sue manifestazioni psichiche e comportamentali, riferendo queste ultime ai processi cognitivi e alle dinamiche emozionali, sulla base di criteri di adeguatezza o inadeguatezza della condotta generale, o, se si preferisce, sulla base di parametri di funzionalità/disfunzionalità o di normalità/patologia. Il riferimento prevalente all'individuo e soprattutto all'individuo problematico ha comunque posto progressivamente in maggiore risalto, anche sotto il profilo di come si è andata costituendo la professionalità psicologico-clinica, l'aspetto del recupero di situazioni di difficoltà e/o disfunzionalità psichiche, soggettivamente esperite come 'disturbo', 'disagio', o simili. Le finalità conoscitive e di intervento della p. c. sono così state progressivamente assimilate, per mimesi con il modello medico di cui si è già detto, alle pratiche di diagnosi e terapia, con una particolare accentuazione su quest'ultima fino al punto di giungere in tempi non lontani a una sostanziale identificazione della p. c. con l'attività della psicoterapia.

Ma tale "concezione ristretta" (Cimino 1995) della p. c. si è progressivamente rivelata inadeguata rispetto alle possibilità di intervento e alla multiformità delle richieste che attualmente vengono avanzate agli psicologi clinici professionisti. Una consultazione psicologico-clinica, in realtà, non è necessariamente rivolta sempre e soltanto a un individuo, né sempre e soltanto è finalizzata a un successivo trattamento psicoterapeutico. Nel senso che non sono sempre e soltanto individui a porre una domanda di intervento a uno psicologo clinico, né la domanda è comunque volta a ottenere una psicoterapia. Tali situazioni, infatti, rappresentano soltanto una evenienza rispetto alla gamma dei possibili richiedenti. Gli esempi di tali potenziali utenti, 'altri' rispetto al singolo individuo in cerca di psicoterapia, desumibili dalla sempre più ampia articolazione della concreta prassi degli psicologi clinici, sono al proposito numerosi: scuole, università, organizzazioni produttive o sanitarie, carceri, enti locali, strutture sociali e, sul piano individuale, richieste di consulenza intorno a tematiche quali gravidanza, aborto, adolescenza, sessualità, o intorno alle problematiche poste dalla tossicodipendenza o, infine, a quelle proprie delle malattie terminali. È evidente che in tutti questi casi e in molti altri ancora la mimesi del modello medico di intervento secondo la tradizionale configurazione diagnosi-terapia non è perseguibile: ciò che viene chiesto non è infatti esattamente sovrapponibile a una domanda di cura. Sorge tuttavia, di fronte a una tale pluralità di richieste, un'ulteriore questione: se sia cioè opportuno riferirsi a 'una' p. c., o se non si debba invece parlare di 'tante', diverse p. c. per quanti sono gli ambiti del possibile intervento o le varie categorie di utenti.

Le situazioni sopra delineate sembrano definire diverse tipologie di psicologia clinica. È tuttavia possibile porre in risalto almeno tre elementi, per così dire comuni, di particolare rilevanza: la 'relazione', il 'contesto', la 'richiesta' (Carli 1995).

In ogni caso, si tratta infatti, in primo luogo, di relazioni tra due (o più) persone, che hanno luogo in contesti specifici e sono orientate da specifiche richieste.

Anche una tale considerazione può comunque condurre a pensare che vi siano tante distinte funzioni della prassi psicologico-clinica e, di conseguenza, a ritenere che tali funzioni o non abbiano alcun rapporto tra loro oppure che siano in qualche modo unificate in quanto, pur nella diversità ed eterogeneità delle situazioni proposte, presuppongono un minimo comune denominatore; rimandano cioè, per es., a una modalità conoscitiva riferita comunque sempre a un unico elemento base, a un medesimo oggetto, riconoscendosi tale oggetto nell'individuo, o meglio, come già detto, nel suo comportamento e nel suo funzionamento psichico.

Tale ultima strada è stata già percorsa, con risultati, a dire il vero, che non sembrano molto confortanti per la psicologia clinica. L'impostazione che sostiene una simile opzione metodologica rimanda a quello che è stato definito il "pregiudizio individualistico" (Carli 1995).

È possibile tuttavia intravedere un'altra possibilità oltre a quelle proposte: le variabili che abbiamo ricordato - relazione, contesto, richiesta - o, meglio, la considerazione di esse in termini di analizzabilità del loro reciproco rapporto può infatti essere assunta come quel minimo comune denominatore di cui si è detto e, quindi, come criterio fondante la competenza dello psicologo clinico. Competenza che, in questa prospettiva, si esplica appunto nell'orientare un processo di significazione di specifiche relazioni in specifici contesti, in funzione di specifiche domande avanzate da specifici richiedenti l'intervento psicologico (ai quali, con un termine volutamente generico e non peculiarmente connotativo come invece paziente o simili, ci si riferirà d'ora in poi con termini come consultante/consultanti), al fine di produrre conoscenza e, in virtù di essa, cambiamento.

In questo senso si può quindi apprezzare un'ulteriore differenziazione rispetto al già ricordato modello medico di intervento: in p. c. non si tratta tanto di identificare un'area psicopatologica o di delimitare comunque un'area problematica in vista di un successivo intervento terapeutico, circoscrivendo e separando in maniera netta il momento diagnostico da quello del trattamento e del recupero. L'obiettivo non è quello di connotare l'operazione diagnostico-conoscitiva in senso statico-descrittivo, demandando la responsabilità del processo di modifica alla qualificazione dinamica ed evolutiva della successiva fase di terapia, quanto quello di concepire valutazione e terapia come momenti diversi di un processo di significazione dell'esperienza sostenuto da una comune teoria del cambiamento.

Si tratta ora di definire degli strumenti, una metodologia di analisi e un contesto organizzativo che renda attuabile la competenza di cui si è detto. Gli strumenti che tradizionalmente si riconoscono come propri della p. c. sono il colloquio e i reattivi psicodiagnostici o test psicologici. Sul piano dell'intervento riabilitativo o di recupero, poi, lo psicologo clinico ha ovviamente a disposizione diversi modelli di trattamento o di psicoterapia che richiedono comunque, oltre a quello di base, ulteriori specifici percorsi formativi.

I test consentono di analizzare un determinato campione di comportamento in più individui oppure più campioni di comportamento in un singolo individuo, permettendo quindi di ottenere dati che possono essere confrontati. È possibile così raffrontare, oltre che le stesse performances di diversi individui, anche diverse performances in uno stesso individuo. Dal momento che teoricamente esiste una tale comparabilità, è possibile attuare una quantificazione dei dati, il che si rivela particolarmente utile soprattutto ai fini della ricerca. L'alterna fortuna che i test hanno conosciuto nella pratica psicologico-clinica è direttamente in connessione con lo sviluppo e l'articolazione progressiva della disciplina. Si è infatti gradualmente passati da una prassi clinica in cui lo psicologo si riconosceva sostanzialmente nel ruolo di testista, ad attività sempre più differenziate che vedono lo psicologo clinico occupato nella psicoterapia, nell'insegnamento, nella ricerca, nell'attività di consulenza, nell'attività peritale e che, quindi, comportano un ridimensionamento della centralità originariamente attribuita ai test.

Numerosi sono i test che vengono utilizzati in p. c.: principalmente si fa riferimento ai reattivi proiettivi, agli inventari di personalità e ai test di livello. Oltre ai test possono essere impiegati ancora alcuni tipi di questionario, di misurazioni psico-fisiologiche o alcune tecniche di osservazione. Normalmente in p. c., una volta definito l'obiettivo di un intervento, non viene utilizzato unicamente un test, per quanto ricco di informazioni possa essere: si preferisce piuttosto ricorrere a un insieme o 'batteria' di test che consenta di ottenere, attraverso una convergenza di indici, una maggiore attendibilità dei risultati.

Tuttavia, tra gli strumenti utilizzati in p. c., il colloquio occupa sicuramente il posto di maggiore importanza. Questa la ragione che ha spinto molti autori a occuparsene estesamente, pur se da prospettive molto diverse. L'ambito del colloquio viene solitamente delimitato rispetto a un altro metodo largamente in uso in p. c.: l'intervista. La distinzione tra colloquio e intervista riposa sulla dinamica motivazionale. Se nella situazione di colloquio, focalizzata maggiormente sull'interazione tra consultante e consulente, prevale una motivazione di tipo conoscitivo, fondata sulla presenza di un interesse reciproco all'incontro, nel processo dell'intervista prevale invece una unilaterale accentuazione dell'interesse dello psicologo clinico per la raccolta di informazioni. Oltre a ciò, per il colloquio è di norma prevista una strutturazione minore di quanto non lo sia per l'intervista, che segue invece uno schema precostituito.

Al colloquio, in p. c., è possibile riconoscere alcune specifiche finalità. Le principali sono:

a) stabilire e delimitare una relazione interpersonale, analizzando la qualità della domanda portata dal consultante;

b) raccogliere informazioni circa l'esperienza e/o la vita del consultante (indagine anamnestica);

c) offrire informazioni circa le modalità e le caratteristiche dell'incontro clinico e circa le sue finalità;

d) stabilire un'alleanza di lavoro, sostenendo la motivazione del consultante al cambiamento;

e) identificare la problematica psicologica espressa dal consultante e il suo contesto di riferimento;

f) definire le modalità caratteristiche che il consultante utilizza per far fronte a tale problematica;

g) focalizzare le principali resistenze del consultante all'incontro con lo psicologo clinico e al lavoro da svolgere con lui;

h) elaborare l'atteggiamento e le fantasie del consultante relative allo psicologo clinico, all'incontro clinico e al contesto in cui si svolge, preesistenti all'incontro medesimo.

Sia il colloquio sia i test per quanto attiene lo psicologo clinico, sia la richiesta di consulenza psicologica per quanto riguarda il consultante, hanno ovviamente necessità di alcune coordinate di tipo organizzativo in cui essere collocati: l'insieme di tali coordinate fa sostanzialmente riferimento a unità spaziali e temporali ed è definito setting. Lo psicologo clinico istituisce, cioè, uno spazio in cui porre la relazione di consulenza, che tendenzialmente non cambia ed è stabilmente uguale a se stesso, e un tempo finito che scandisce e contiene lo svolgersi del processo relazionale. La definizione di tali confini è di estrema importanza per un'attenta ricognizione delle motivazioni che spingono il consultante alla richiesta di intervento psicologico. È necessario infatti ricordare che l'istituzione di uno spazio-tempo finito si configura come delimitazione di un 'territorio': un territorio che segna i limiti dell'interazione, contiene la relazione e quindi in un certo senso le conferisce un'identità. Anche il modo di reagire all'istituzione del setting, quindi, può essere in grado di segnalare specifiche modalità di funzionamento psichico, o, meglio, specifiche qualità della relazione che viene a stabilirsi tra il consultante e lo psicologo, evidenziabili proprio attraverso le possibili oscillazioni rispetto all'istituzione di tale dimensione organizzativa.

La motivazione che presiede alla richiesta di consulenza psicologico-clinica può, come si è detto, assumere diversissime connotazioni peculiari. Tuttavia, è possibile tentare di definire una sorta di motivazione di fondo rintracciabile alla base di qualsivoglia domanda di intervento psicologico-clinico. Si può avanzare l'ipotesi che tale motivazione scaturisca per lo più da una crisi di decisionalità e si basi essenzialmente sul meccanismo della delega (Grasso, Salvatore 1997).

In altri termini, secondo questa ipotesi, chi richiede un intervento, sia esso un individuo o un'organizzazione - potremmo dire, comunque, un soggetto sociale - avverte uno iato tra la propria capacità di azione e lo scopo verso il quale l'azione stessa è orientata. Tale difficoltà può, anche se non necessariamente, accompagnarsi a una condizione di sofferenza o, comunque, di insoddisfazione.

L'azione di cui si parla può riguardare, per es., la funzione educativa di una coppia genitoriale nei confronti di un figlio, la dimensione di affermazione e crescita di un individuo all'interno del suo contesto familiare e/o sociale, la realizzazione da parte di un servizio socio-sanitario territoriale di programmi di prevenzione della tossicodipendenza. Nei confronti della conseguente incapacità di scegliere le strategie più opportune per uscire dall'impasse, il soggetto sociale di cui stiamo parlando può rivolgersi a uno psicologo clinico delegando a lui il recupero della decisionalità perduta o comunque messa in crisi.

Proprio la considerazione di queste problematiche ha consentito di sviluppare in questi ultimi anni, nel nostro paese, alcune riflessioni teorico-cliniche attorno al tema della richiesta di intervento psicologico. Secondo questa ottica, la professionalità dello psicologo clinico trova il suo fondamento precisamente nella competenza ad analizzare tale richiesta: l'operatività psicologico-clinica è quindi qualificabile essenzialmente come attività di "analisi della domanda" (Carli 1987).

L'assunto di base è che tale domanda contenga in sé una rappresentazione del rapporto con lo psicologo clinico che, essendo inscritta all'interno delle basiche categorie relazionali di chi ne è il portatore, per ciò stesso illustri le peculiari caratteristiche di tali categorie e, quindi, i vissuti emozionali che le sostengono, secondo una modalità che necessita di una elaborazione perché tali vissuti possano essere riconosciuti, resi consapevoli e integrati in una più articolata sintesi cognitivo-emozionale.

Il rapporto tra psicologo e utente rappresenta, infatti, la dimensione specifica al cui interno si dispiega, come si è detto, la dinamica motivazionale che è alla base della richiesta di intervento, e in cui si riproduce la realtà emozionale del consultante, la sua problematica affettiva: la valutazione del disagio o, comunque, della difficoltà o disfunzionalità di ordine psicologico non può, in questa ottica, prescindere da un'analisi della situazione relazionale in cui tende a riprodursi.

Ciò significa che tutte le azioni professionali dello psicologo clinico consistenti nell'operazione di inquadrare la problematica psicologica di un individuo, di un gruppo, di un'organizzazione sociale, all'interno di un modello valutativo-conoscitivo prima e, successivamente, eventualmente terapeutico o riabilitativo o comunque trasformativo, non acquistano compiutamente significato e spessore psicologico se non sono in qualche modo inserite in un'esplorazione e ridefinizione continua delle modalità, reciprocamente influenzantisi, di rapporto e comunicazione tra utente e psicologo clinico: la relazione stessa che si stabilisce fra i due attori dell'interazione sostanzia il bisogno di aiuto dell'uno e la prestazione professionale dell'altro.

Questa prospettiva enfatizza l'importanza di almeno tre elementi che sembrano convergere nel delimitare l'area psicologico clinica: 1) l'aderenza dell'intervento psicologico alla qualità dei problemi che vengono sottoposti allo psicologo; 2) l'attenzione alla dimensione contestuale che contiene l'intervento; 3) la necessità di verificare di continuo l'adeguatezza e l'efficacia dell'intervento medesimo.

Il crescente sviluppo della disciplina in Italia, soprattutto negli ultimi anni, ha contribuito a sollecitare frequenti occasioni di scambio fra risultati della ricerca e dell'elaborazione teorica, da un lato, ed esigenze operative della prassi clinica, dall'altro. Da tali confronti sembrano scaturire alcune interessanti puntualizzazioni, che spaziano dalle possibilità di intervento della p. c., come già detto, al di là dell'attività strettamente psicoterapeutica, alla riflessione sui modelli teorici e di teoria della tecnica utilizzati, alla considerazione del ruolo assunto dal lavoro svolto dagli psicologi clinici nelle strutture pubbliche, alla precisazione di ambiti e applicazioni della p. c. medesima, anche in considerazione del carattere innovativo che l'introduzione della prassi psicologico-clinica nei servizi socio-sanitari ha determinato nella cultura dell'assistenza al disagio psichico. Ancora, si sottolinea la funzione 'preventiva' dell'intervento psicologico-clinico: lo spazio intermedio tra malattia e salute (sarebbe meglio dire tra funzionalità e disfunzionalità) sembra porsi come luogo privilegiato per l'articolazione di numerose problematiche psicologiche relative al rapporto individuo-società. Esse si estendono dalla possibilità di individuare le implicazioni di rischio psicologico di talune situazioni socio-ambientali, alla ricerca delle condizioni psicosociali che possono compromettere un equilibrato sviluppo, all'approfondimento di conoscenze nell'ambito dell'interazione tra individui e specifici contesti, nel tentativo di delineare progressivamente nuovi campi di applicazione della p. c. all'interno dei sistemi sociali di appartenenza.

Prospettive, queste, che hanno evidentemente acquistato nuovi contorni, sotto il profilo sia della professionalità sia della ricerca e della formazione, per le consistenti modifiche istituzionali che si sono prodotte negli ultimi anni in Italia nel campo della psicologia: la promulgazione e la conseguente prima applicazione della l. 56/1989 che disciplina attività e competenze degli psicologi, istituendo albo e ordine professionale per tali professionisti, e la formalizzazione di uno specifico iter formativo universitario per lo psicologo clinico con l'istituzione dell'indirizzo di psicologia clinica e di comunità nelle facoltà e corsi di laurea in Psicologia e delle scuole di specializzazione universitarie in psicologia clinica.

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