Psicofarmacologia

Enciclopedia del Novecento (1980)

Psicofarmacologia

Giancarlo Pepeu

di Giancarlo Pepeu

sommario: 1. Introduzione: a) le origini della psicofarmacologia; b) definizione di psicofarmacologia. 2. Classificazione degli psicofarmaci. 3. Scoperta dei primi psicofarmaci e sviluppo della psicofarmacologia. 4. I principi generali dell'azione degli psicofarmaci: a) la neurotrasmissione; b) i neurotrasmettitori; c) i neuromodulatori; d) i neuroregolatori: importanza del loro studio per la psicofarmacologia. 5. I meccanismi d'azione degli psicofarmaci e le loro principali azioni farmacologiche, terapeutiche e tossiche: a) i farmaci antischizofrenici; b) i farmaci antidepressivi; c) i farmaci usati nel trattamento della sindrome maniaco-depressiva; d) i farmaci usati nel trattamento dell'ansia; e) gli allucinogeni o psicotomimetici; f) psicofarmaci usati prevalentemente a scopo voluttuario. 6. Importanza sociale della psicofarmacologia. 7. Critiche alla psicofarmacologia. 8. Influenza della psicofarmacologia sulle altre neuroscienze. □ Bibliografia.

1. Introduzione

a) Le origini della psicofarmacologia

‟Il desiderio di un paradiso immediato è antico quanto l'uomo stesso. Attraverso i tempi, gli uomini hanno cercato mezzi artificiali per migliorare la loro condizione e i farmaci hanno avuto un ruolo preminente in questa ricerca" (J. P. Smith, The false illusion, in ‟U. S. Food and Drugs Administration papers", 1967, I).

In tutte le epoche e in tutti i paesi l'uomo ha fatto uso di sostanze capaci di modificare le sue condizioni psichiche e di alterare, influendo sul pensiero e sulla percezione, il suo rapporto con la realtà. L'etnofarmacologia ci fornisce molti esempi: le bevande alcoliche nella cultura occidentale, le preparazioni derivate dalla Cannabis sativa nel Medio Oriente, l'oppio nell'Estremo Oriente, il peyotl nel Messico settentrionale.

L'uso di queste sostanze ha avuto e ha ancora uno scopo non terapeutico, in quanto non sono impiegate per curare malattie, ma per rendere più tollerabili le prove e gli affanni dell'esistenza: definiremo quest'uso come ‛voluttuario'. Talvolta queste sostanze hanno avuto e hanno un impiego rituale in una istintiva ricerca di aprire ‟le porte della percezione", per usare l'espressione resa celebre dal libro di Huxley (v., 1954). L'uso del vino, ad esempio, è stato associato a manifestazioni religiose fin dall'antichità classica, come è testimoniato dai misteri dionisiaci e dal profondo e misterioso significato che ha assunto nelle religioni cristiane; possiamo ricordare, poi, che in alcune tribù indiane del Messico settentrionale e del sud-ovest degli Stati Uniti, mangiare il sacro peyotl significa assorbire lo spirito divino la cui presenza si manifesta con le allucinazioni indotte dalla mescalina contenuta in questo cactus.

L'uomo ha sempre saputo trovare nell'ambiente che lo circonda sostanze attive sulla psiche e ne è sempre stato affascinato. Tuttavia, raramente nel passato ha tentato di usarle anche a scopo terapeutico. Forse solo l'oppio è stato usato nell'antichità per le sue proprietà analgesiche. All'oppio potremmo anche aggiungere la Rauwolfia serpentina, le cui proprietà terapeutiche in alcune malattie mentali sembra fossero note anche alla medicina popolare indiana e forse anche a Dioscoride, chirurgo militare dell'epoca di Nerone, che curava la ‛mania' con una radice a forma di serpente. Tale è infatti l'apparenza della radice della Rauwolfia dalla quale si ottiene la droga.

Possiamo porre attorno al 1950 la data di nascita della psicofarmacologia moderna con i primi successi terapeutici ottenuti con la reserpina, un alcaloide estratto dalla Rauwolfia, e con la clorpromazina, la prima sostanza chimica di sintesi che è stata usata nel trattamento della schizofrenia.

b) Definizione di psicofarmacologia

Possiamo definire la psicofarmacologia come quella parte della farmacologia che tratta dei farmaci che hanno effetti terapeutici nelle malattie mentali. Tuttavia, poiché molte sostanze allucinogene o stupefacenti possono produrre profonde alterazioni psichiche e sintomi, ad esempio le allucinazioni, simili a quelli che insorgono nelle malattie mentali, la definizione della psicofarmacologia può essere estesa a comprendere tutte le sostanze che influenzano il pensiero, le percezioni, l'umore, senza alterare profondamente lo stato di coscienza.

La parola ‛neurofarmacologia' è stata spesso usata al posto di psicofarmacologia. Tuttavia, preferiamo riservare il primo termine alla trattazione di tutti quei farmaci che agiscono sul sistema nervoso, quali gli ipnotici e gli antiepilettici, che non modificano primariamente le funzioni psichiche. Un sinonimo di psicofarmacologia è ‛chemioterapia delle malattie mentali'. Questa locuzione esprimeva l'ottimismo indotto nella classe medica e nel pubblico dai primi successi terapeutici nel trattamento della schizofrenia e la speranza che i farmaci per le malattie mentali avessero una specificità d'azione paragonabile a quella dei chemioterapici antibatterici. Tuttavia, l'esperienza derivata dalla ricerca sperimentale e dall'impiego terapeutico ha insegnato che la specificità degli psicofarmaci nei riguardi delle malattie mentali è relativa e che le azioni collaterali e indesiderate sono molto numerose.

2. Classificazione degli psicofarmaci

Sono passati circa trent'anni da quando l'uso della clorpromazina e della reserpina è stato introdotto in psichiatria. Come ha scritto M. Tobino, psichiatra e letterato, l'introduzione di quelle ‟pasticche", gli psicofarmaci, ha ‟talmente cambiato i manicomi che in certi giorni non si riconoscono più, le urla sono taciute, i deliri rotti [...]".

In questo trentennio gli psicofarmaci si sono moltiplicati, i loro meccanismi d'azione sono stati esplorati, gli impieghi terapeutici definiti. Nella tab. I è presentata una classificazione degli psicofarmaci basata sulle prevalenti azioni farmacologiche da essi esercitate. Prevalenti perché nella pratica le divisioni non sono così nette, e talvolta farmaci qui classificati come antischizofrenici possono essere usati nella psicosi che può accompagnare una sindrome depressiva. La classificazione tiene conto dei numerosi nomi che sono stati dati ai diversi gruppi di farmaci e che hanno valore di sinonimi. Nell'ambito di ciascun gruppo i farmaci sono divisi in base alla loro struttura chimica; solo i principali psicofarmaci reperibili in Italia sono stati inclusi nella tabella.

Tabella 1

Una posizione molto particolare in questa classificazione è quella dell'anfetammina. Essa è stata infatti usata in passato, con scarsi risultati, nel trattamento della depressione e in molti trattati è quindi elencata fra gli antidepressivi. A parte il suo limitato uso medico, giustificato solo nel trattamento delle ipersonnie, l'anfetammina è usata soprattutto per le sue proprietà psicostimolanti. Tuttavia l'assunzione di alte dosi di anfetammina induce una vera e propria psicosi caratterizzata da allucinazioni, spersonalizzazione e profonde alterazioni del pensiero. Pertanto, l'anfetammina può essere considerata anche un vero psicotomimetico.

È importante ricordare che, con la sola esclusione dell'alcool etilico, il cui consumo è ammesso in pratica senza limitazioni in Italia ed è assoggettato a limitati controlli in altri paesi occidentali, tutte le sostanze appartenenti al gruppo degli ‛allucinogeni e psicotomimetici' e a quello degli ‛psicofarmaci usati a scopo voluttuario' devono essere considerate stupefacenti da un punto di vista medico legale. Esse infatti sono comprese nella tabella 7 (intitolata ‛Elenco delle sostanze ad azione stupefacente') della Farmacopea Italiana (VIII edizione).

3. Scoperta dei primi psicofarmaci e sviluppo della psicofarmacologia

La scoperta di quasi tutti i prototipi degli psicofarmaci attualmente usati in terapia è stata dovuta al caso o a presupposti teorici erronei, ma sempre nell'ambito delle ricerche di neurobiologia sperimentale e clinica condotte da molte decine d'anni in molti paesi. Il caso ha sempre agito in un contesto culturale preparato ad afferrare il significato delle osservazioni scientifiche accidentali e a sfruttarle.

La straordinaria efficacia terapeutica della clorpromazina nella schizofrenia è stata scoperta da A. Sigwald e C. Bouttier alla fine del 1951 e da J. Delay e P. Deniker nel 1952, sperimentando in clinica questo composto introdotto in terapia un anno prima come antistaminico.

L'imipramina è stata sintetizzata con lo scopo di ottenere un farmaco antischizofrenico analogo alla clorpromazina. Le sue proprietà antidepressive sono emerse nel corso di un'accurata sperimentazione clinica condotta da Kuhn nel 1957.

Le benzodiazepine erano state sintetizzate da Sternbach senza un obiettivo particolare e le loro proprietà farmacologiche sono state scoperte durante un normale lavoro di screening farmacologico.

Una delle tappe fondamentali della psicofarmacologia, la scoperta nel 1943 delle proprietà allucinogene dell'LSD, è così descritta dal suo autore: ‟Venerdì scorso 16 aprile a metà del mio lavoro pomeridiano in laboratorio dovetti smettere. Dovetti andare a casa perché provavo un'inquietudine molto particolare associata a lievi vertigini. A casa andai a letto e caddi in un non sgradevole stato di ebbrezza che era caratterizzato da fantasie estremamente stimolanti. Quando chiudevo gli occhi (la luce del giorno mi era molto sgradevole) vedevo immagini fantastiche di straordinaria plasticità. Esse erano associate ad un intenso, caleidoscopico gioco di colori. Dopo circa due ore questa condizione scomparve" (A. Hofmann, Psychotomimetic agents, in Drugs affecting the central nervous system, a cura di A. Burger, vol. II, New York 1968, pp. 184-185). Il giorno dopo Hofmann identificò la causa di questi sintomi straordinari nell'ingestione accidentale di una minima quantità del derivato della segale cornuta che aveva appena sintetizzato e al quale aveva dato la sigla LSD 25.

Apparentemente paradossali sono anche le vicende che hanno portato all'introduzione in terapia dei sali di litio o degli antidepressivi inibitori delle monoamminossidasi il cui prototipo, l'iproniazide, fu sintetizzato come antitubercolare.

Solo l'impiego in terapia psichiatrica della Rauwolfia serpentina deriva, come abbiamo già ricordato, dalla medicina popolare indiana, ma il suo alcaloide più attivo sul comportamento, la reserpina, è stato isolato e studiato in Occidente.

Tuttavia, potremmo forse dire che la psicofarmacologia, una volta sviluppatasi, ha fatto proprie anche sostanze come l'alcool, l'oppio, la Cannabis, che erano divenute di uso corrente nei diversi paesi. Questo non impedisce che si debba considerare la psicofarmacologia una disciplina che si è sviluppata ed è fiorita dal tronco delle ricerche chimiche e farmacologiche iniziate nel XVIII e XIX secolo, in una visione prevalentemente organicistica delle malattie mentali.

4. I principi generali dell'azione degli psicofarmaci

a) La neuro trasmissione

Un imponente numero di ricerche sperimentali, pubblicate nel corso di un trentennio, permette oggi di descrivere in modo esauriente anche se non completo il meccanismo di azione di molti psicofarmaci. Tuttavia, quanto esporremo nei prossimi paragrafi non deve essere considerato un punto di arrivo definitivo. Le conoscenze accettate oggi sono infatti destinate a essere superate, talvolta a essere riconosciute come errori, più spesso a essere incorporate in un quadro sempre più articolato e complesso.

Lo studio dei meccanismi di azione degli psicofarmaci è iniziato con la loro introduzione in terapia negli anni cinquanta, in un momento in cui le ricerche di istologia e di elettrofisiologia avevano fornito le definitive basi sperimentali alla teoria neuronale di S. Ramón y Cajal, formulata cinquant'anni prima. In base a questa teoria il sistema nervoso centrale è concepito come una complessa rete di neuroni separati fra di loro ma i cui prolungamenti, assoni e dendriti, si toccano in punti chiamati sinapsi (v. sinapsi).

Nello stesso periodo erano estrapolati al sistema nervoso centrale i principi della teoria di O. Loewi secondo la quale gli impulsi nervosi superano le sinapsi mediante un meccanismo elettrochimico. Negli anni dal 1930 al 1950 era stato infatti definitivamente dimostrato che, a livello del sistema nervoso autonomo e della giunzione neuromuscolare, gli impulsi nervosi superano l'interruzione di continuità fra i neuroni (o spazio intersinaptico), o fra neuroni e cellule effettrici, muscolari o ghiandolari, mediante la liberazione di acetilcolina (ACh), di noradrenalina (NA) o di adrenalina (AD) (v. sistema nervoso autonomo).

In base a questo complesso meccanismo elettrochimico, gli stimoli elettrici che percorrono le fibre nervose determinano la liberazione di una sostanza chimica accumulata nella terminazione nervosa. Questa sostanza chimica diffonde nello spazio intersinaptico e si fissa su appositi siti specifici, chiamati recettori, della membrana postsinaptica, causando una modificazione chimico-fisica della membrana stessa che si traduce in una variazione di permeabilità a uno o più ioni e di conseguenza in una depolarizzazione o iperpolarizzazione. A ciò fa seguito una eccitazione o una inibizione della cellula postsinaptica (v. neurone e impulso nervoso; v. neurosecrezione; v. recettori).

All'inizio degli anni cinquanta i neurotrasmettitori identificati nel sistema nervoso periferico erano ACh, NA e AD. Le prime due sostanze erano state ritrovate anche nel cervello di molti vertebrati ed era pertanto possibile supporre che anche in questo organo fungessero da neurotrasmettitori. A esse si aggiunsero presto anche la serotonina o 5-idrossitriptammina (5-HT) e la dopammina (DA).

Erano stati inoltre identificati numerosi farmaci, quali l'atropina e i suoi derivati, i ganghoplegici, l'ergotammina, la fisostigmina, che agivano modificando la funzione dei neurotrasmettitori. L'ipotesi, prospettata alla luce di queste conoscenze, che gli psicofarmaci potessero esercitare le loro azioni sul comportamento mediante un'interazione con uno o più neurotrasmettitori nel sistema nervoso centrale trovava una prima conferma nell'osservazione, fatta da B. B. Brodie nel 1958, che la sedazione causata dalla reserpina nel ratto era accompagnata da una diminuzione dei livelli di 5-HT nel cervello. Da questa osservazione, presto seguita da quella che anche i livelli di ACh e DA nel cervello potevano essere modificati da psicofarmaci, nasceva quello studio delle interazioni fra psicofarmaci e neurotrasmettitori che, spinto dallo sviluppo della biochimica e dell'elettrofisiologia, ha portato al grado odierno di conoscenza dei meccanismi d'azione degli psicofarmaci.

Uno psicofarmaco può modificare l'azione di un neurotrasmettitore nei modi seguenti: a) stimolando o inibendo la sintesi; b) ostacolando l'accumulo del neurotrasmettitore nelle terminazioni nervose; c) ostacolando o facilitando la liberazione; d) inibendo l'inattivazione; e) bloccando i recettori specifici (farmaci antagonisti); f) imitando l'azione del neurotrasmettitore sui recettori (farmaci agonisti); g) interferendo con le modificazioni chimicofisiche della membrana neuronale che conseguono all'occupazione del recettore da parte di un neurotrasmettitore.

b) I neurotrasmettitori

A dieci anni dall'inizio della psicofarmacologia, le sostanze identificate nel cervello per le quali era stato ipotizzato il ruolo di neurotrasmettitore erano ancora un numero limitato: ACh, NA, AD, DA, 5-HT e l'acido γ-amminobutirrico (GABA). Per nessuna di esse, tuttavia, era stata raggiunta una dimostrazione definitiva, ma erano state raccolte numerose prove indirette. Erano stati inoltre stabiliti i criteri generali che permettono di definire un neurotrasmettitore. Essi possono essere così riassunti: 1) l'ipotetico neurotrasmettitore deve essere presente nel cervello ed essere distribuito in maniera non uniforme in nuclei e aree diverse; 2) nel cervello devono essere presenti gli enzimi deputati alla sua sintesi e alla sua inattivazione; 3) la stimolazione di definite vie nervose deve indurre la liberazione della sostanza in qualche area cerebrale; 4) devono esistere nel cervello recettori specifici cui il neurotrasmettitore si deve legare per esercitare la sua azione; 5) l'applicazione della sostanza, ritenuta un neurotrasmettitore, sui singoli neuroni (microionoforesi) o in zone ristrette del cervello deve indurre risposte simili a quelle evocate dalla stimolazione di ben definite vie nervose; 6) farmaci e ioni devono modificare in ugual misura sia le azioni indotte dall'applicazione esogena del neurotrasmettitore, sia quelle causate dalla sua liberazione da vie nervose.

L'indagine neurochimica e quella elettrofisiologica hanno permesso di identificare numerose altre sostanze, oltre a quelle già ricordate, che rispondono a tutti o ad alcuni dei criteri sopraelencati. Esse sono riassunte nella tab. II.

Tabella 2

Le tecniche istochimiche e immunoistochimiche hanno permesso di preparare delle mappe molto precise e ormai definitive delle vie neuronali a mediazione dopamminergica, noradrenergica e serotoninergica. Sono state inoltre identificate nel cervello numerose vie a mediazione colinergica e GABAergica e sono già in parte definite alcune vie nervose contenenti endorfine o sostanza P.

c) I neuromodulatori

Molte delle sostanze elencate nella tab. II devono essere considerate neuromodulatori piuttosto che veri neurotrasmettitori. Infatti, pur modificando l'attività elettrica neuronale, esse non sono liberate dalle terminazioni presinaptiche per effetto degli stimoli nervosi e non agiscono transinapticamente. Esse raggiungono i neuroni attraverso il plasma, il liquido cefalorachidiano e i liquidi pericellulari. In molti casi la loro sintesi avviene fuori dal sistema nervoso centrale: per citare alcuni esempi, secondo G. Burnstock l'adenosina modulerebbe la sintesi di ACh nei neuroni colinergici; in base alle ricerche di G. R. Elliott, le triptoline modulerebbero l'attività delle fibre che liberano 5-HT inibendo la sua inattivazione.

Nel cervello sono stati identificati recettori specifici per numerosi ormoni, quali l'ACTH, il cortisolo, gli estrogeni. Inoltre, sono ben noti gli effetti psichici e sul comportamento causati dagli ormoni: basti ricordare gli stati confusionali e paranoidei causati in alcuni soggetti dal trattamento con corticosteroidi.

Sostanze quali la 5-metossidimetiltriptammina e la 5-idrossimetiltriptammina sono di particolare interesse, in quanto sono dotate di proprietà allucinogene. Per quanto i risultati delle ricerche fatte per accertare la loro presenza nel cervello e nei liquidi biologici di pazienti schizofrenici non siano tutti concordi, esistono nell'organismo enzimi che possono formare queste sostanze per le quali è stato proposto il nome di psicotomimetici endogeni. L'ipotesi che sostanze di questo tipo possano essere presenti nel cervello umano in conseguenza di un'alterazione del metabolismo delle ammine nel cervello o nei tessuti periferici e che possano essere una causa della schizofrenia è oggetto di molte ricerche.

d) I neuroregolatori: importanza del loro studio per la psicofarmacologia

Seguendo la classificazione proposta da J. D. Barchas, possiamo raggruppare i neurotrasmettitori e i neuromodulatori sotto il termine più generale di neuroregolatori (v. neurosecrezione). Questa parola indica tutte le sostanze endogene all'organismo che sono in grado di modificare l'attività dei neuroni cerebrali o direttamente come i neurotrasmettitori, o indirettamente come i neuromodulatori, cioè alterando a livello preo postsinaptico l'azione dei neurotrasmettitori.

Le ricerche sui neuroregolatori e la comprensione della loro funzione sono parte fondamentale della psicofarmacologia. Infatti, da quanto è stato esposto nei precedenti paragrafi emergono due ipotesi di rilevante significato euristico e pratico: a) le malattie mentali potrebbero essere causate da alterazioni nella funzione dei neuroregolatori; b) gli psicofarmaci potrebbero agire modificando la funzione di uno o più neuroregolatori.

Ambedue le ipotesi sono sostenute da numerosi risultati sperimentali e sono al centro delle attuali ricerche sperimentali e cliniche nel campo della psicofarmacologia.

5. I meccanismi d'azione degli psicofarmaci e le loro principali azioni farmacologiche, terapeutiche e tossiche

a) I farmaci antischizofrenici

1. Fenotiazine, tioxanteni, butirrofenoni, dibenzossapine, dibenzotiazepine e benzammidi. - I farmaci appartenenti a questo eterogeneo gruppo di molecole possono essere trattati insieme in quanto il loro meccanismo d'azione e il loro impiego clinico sono, sotto numerosi punti di vista, simili. Essi sono usati nel trattamento delle psicosi endogene ed esogene acute, della schizofrenia, delle psicosi paranoidee e possono essere impiegati anche nelle manifestazioni psicotiche dei disturbi affettivi, quali la depressione.

Il profilo farmacologico di questi farmaci è complesso. Essi si differenziano fra loro per una maggiore o minore attività sedativa, per la durata di azione e per l'intensità di alcuni effetti collaterali. Tutti i farmaci antischizofrenici di questo gruppo hanno in comune la proprietà di bloccare i recettori per la DA. Questo antagonismo è stato dimostrato con metodi elettrofisiologici, neurochimici, di farmacologia comportamentale e, più recentemente, marcando i recettori stessi con agonisti e antagonisti radioattivi. È stata dimostrata una correlazione statisticamente significativa fra l'affinità per i recettori e l'efficacia terapeutica di questi farmaci; infatti maggiore è l'affinità per i recettori dopamminergici, minore è la dose terapeutica.

Il blocco dei recettori riduce o sopprime l'attività delle tre vie dopamminergiche identificate nel cervello dei Mammiferi e precisamente: a) la via nigrostriatale, la cui inattivazione porta ai disturbi del movimento (discinesia, sindrome parkinsoniana) che accompagnano spesso, come effetti indesiderati, il trattamento con questi farmaci; b) la via mesolimbica-mesocorticale, la cui inattivazione spiegherebbe l'azione antipsicotica. Questa via origipa dalla substantia nigra e da aree limitrofe e raggiunge i nuclei del sistema limbico e le regioni corticali. Si ritiene che il sistema limbico sia coinvolto nel mantenimento del tono affettivo, e la corteccia nell'attività nervosa superiore, incluso il pensiero, la cui alterazione è una caratteristica della schizofrenia. Pertanto si può ritenere che l'azione terapeutica dei farmaci antischizofrenici sia dovuta soprattutto alla interferenza con questa via; c) la via tubero-infundibolare, che ha origine nel nucleo arcuato e raggiunge l'eminenza mediana, modula alcune funzioni endocrine. La DA liberata da questi neuroni inibisce la liberazione di prolattina dall'ipofisi. Il blocco dei recettori dopamminergici nell'eminenza mediana è responsabile dell'aumento dei livelli di prolattina nel sangue che accompagna il trattamento con farmaci antischizofrenici, soprattutto del gruppo delle benzammidi. L'aumento della prolattinemia è la causa di numerosi disturbi a carico del sistema riproduttivo maschile e femminile.

I farmaci antischizofrenici non hanno soltanto un effetto sui sistemi dopamminergici. Alcuni di essi, dotati di spiccata azione sedativa, bloccano anche i recettori per la NA. Inoltre, recenti ricerche hanno dimostrato un'interferenza anche con i sistemi GABAergici ed encefalinergici in alcune zone del cervello. Il significato funzionale di queste interazioni è oggetto di numerose ricerche.

2. Reserpina. - Questo alcaloide è ormai poco usato in terapia psichiatrica, perché le forti dosi necessarie per ottenere risultati terapeutici nella schizofrenia causano anche una profonda sedazione e gravi disturbi extrapiramidali. Piccole dosi di reserpina sono invece usate frequentemente nel trattamento dell'ipertensione.

La reserpina deve essere tuttavia ricordata per la sua importanza nello sviluppo della psicofarmacologia. Essa interferisce con il meccanismo di accumulo di NA, DA e 5-HT nei granuli di deposito presenti nelle terminazioni nervose. La struttura proteica di tali granuli viene alterata e le ammine, che rimangono libere nel citoplasma, sono inattivate dalle monoamminossidasi, enzimi deputati a controllare il livello delle ammine libere nel citoplasma, diffusibili e farmacologicamente attive. In conseguenza di questa azione, negli animali e nei pazienti trattati con reserpina gli stimoli nervosi non sono più in grado di liberare una sufficiente quantità di ammine dai terminali nervosi e ciò determina una ridotta funzionalità delle vie noradrenergiche, dopamminergiche e serotoninergiche. La reserpina si è rivelata un utile strumento per capire il funzionamento delle vie a trasmissione amminergica. Inoltre, l'osservazione che esiste un rapporto temporale fra la sedazione indotta dalla reserpina e la diminuzione dei livelli di 5-HT è stata la prima dimostrazione di un legame fra comportamento e neurotrasmettitori.

b) I farmaci antidepressivi

1. Gli inibitori delle monoamminossidasi (IMAO). - Gli IMAO sono usati oggi solo nel trattamento delle sindromi depressive resistenti ad altre terapie farmacologiche. Essi sono stati i primi psicofarmaci che si sono dimostrati utili in queste malattie psichiatriche, ma sono stati in larga misura soppiantati da altri antidepressivi a causa di alcuni rilevanti effetti tossici. Gli IMAO rimangono tuttavia farmaci importanti per almeno tre motivi. Primo, sono stati uno strumento per studiare e comprendere i meccanismi biochimici della trasmissione nervosa mediata da NA, DA e 5-HT. Secondo, sono ancora farmaci utili in terapia. Terzo, le più recenti ricerche sulle diverse forme molecolari di monoamminossidasi hanno aperto nuove prospettive per queste sostanze.

Le monoamminossidasi inattivano le ammine libere nel citoplasma delle terminazioni nervose in modo che non vi sia una loro fuoruscita continua ma che siano liberate solo quando gli stimoli nervosi depolarizzano la terminazione. Oltre che nelle terminazioni nervose, le monoamminossidasi sono presenti in molti tessuti dell'organismo, inclusi la mucosa intestinale e il fegato. In questi tessuti la loro funzione è quella di inattivare le ammine esogene ingerite con i cibi o le ammine endogene circolanti nel sangue. L'inibizione delle monoamminossidasi da parte degli IMAO causa un aumento dei livelli di NA, DA e 5-HT nel cervello e nei tessuti periferici. Tale aumento è dovuto a un accumulo di ammine nelle terminazioni nervose e determina una maggior disponibilità di neurotrasmettitori. In qual maniera, tuttavia, l'aumentata disponibilità di NA, DA e 5-HT nel cervello modifichi l'andamento della malattia depressiva non è stato ancora chiarito.

L'inibizione delle monoamminossidasi della mucosa intestinale e del fegato permette ad ammine ingerite con gli alimenti, ad esempio la tirammina, di essere assorbite, entrare in circolo ed esercitare effetti tossici, in particolare di indurre crisi ipertensive in quanto esse liberano NA dalle terminazioni nervose del sistema simpatico.

È stato dimostrato negli ultimi anni che le monoamminossidasi esistono in forme diverse, caratterizzate da differenze nell'affinità per i substrati e nella distribuzione nei tessuti. Nell'uomo le monoamminossidasi dell'intestino sono di tipo A, mentre quelle del cervello sono prevalentemente di tipo B. Inibitori selettivi delle monoamminossidasi di tipo B, quali il Deprenyl, possono esercitare effetti sul sistema nervoso centrale senza pericolo di crisi ipertensive, perché la tirammina degli alimenti viene normalmente inattivata dalle monoamminossidasi di tipo A della mucosa intestinale.

Lo studio delle differenze molecolari delle monoamminossidasi e la sintesi di nuovi inibitori selettivi sono alcune delle vie ancora aperte alla ricerca in questo campo.

2. Gli antidepressivi triciclici, tetraciclici e a struttura chimica diversa. - Queste sostanze presentano notevoli differenze nella struttura chimica e nelle azioni farmacologiche; esse possono tuttavia essere trattate in un unico gruppo perché recenti ricerche sembrano dimostrare che il meccanismo della loro azione antidepressiva è uguale per tutte.

L'effetto antidepressivo, che compare dopo almeno due settimane di trattamento, è accompagnato da numerosi effetti collaterali che, nel caso degli antidepressivi triciclici, vanno dalla sonnolenza dei primi giorni ai disturbi legati agli effetti anticolinergici di questi farmaci. Questi disturbi sono rappresentati soprattutto da una ridotta salivazione, da stipsi, disturbi della vista e talvolta, negli anziani, da confusione mentale. Proprio per evitare questi effetti collaterali e per ottenere una più rapida insorgenza degli effetti terapeutici, sono stati sintetizzati, sperimentati e introdotti in terapia numerosi altri antidepressivi: i principali sono elencati nella tab. I. In molti casi essi offrono un reale vantaggio rispetto agli antidepressivi triciclici.

Le conoscenze e le teorie derivate dallo studio degli antidepressivi inibitori delle monoamminossidasi avevano spinto a ritenere che il meccanismo d'azione di tutti gli antidepressivi fosse un potenziamento dell'azione delle catecolammine e della 5-HT. A ciò portava anche l'osservazione che, negli animali da esperimento, il pretrattamento con imipramina antagonizzava l'azione sedativa della reserpina, analogamente a quanto era stato visto pretrattando gli animali con gli IMAO. Tuttavia, questo antagonismo è dovuto all'interferenza degli antidepressivi con un secondo processo di inattivazione delle catecolammine e della 5-HT. Infatti gli antidepressivi triciclici bloccano, alle concentrazioni ottenibili con le dosi terapeutiche, la ricaptazione delle ammine da parte delle terminazioni nervose dalle quali sono state liberate: mediante il processo di ricaptazione le ammine sono rapidamente rimosse dallo spazio intersinaptico e riaccumulate nei terminali per essere nuovamente utilizzate. La ricaptazione determina pertanto l'allontanamento delle ammine dai recettori con la conseguente interruzione dell'effetto del neurotrasmettitore, e permette inoltre un recupero di molecole di ammine che può raggiungere anche l'80% della quantità liberata dalle terminazioni per effetto degli impulsi nervosi. Il blocco della ricaptazione prolunga la persistenza delle ammine nello spazio intersinaptico. Ciò può essere dimostrato anche nell'uomo; infatti l'aumento della pressione arteriosa indotto da una piccola dose di NA è potenziato dal pretrattamento con antidepressivi triciclici.

Tuttavia, che il blocco della ricaptazione delle ammine sia responsabile dell'azione antidepressiva è messo in dubbio da due osservazioni. Primo, il blocco insorge nel giro di pochi minuti dalla somministrazione, mentre la comparsa dell'effetto terapeutico richiede settimane; secondo, non tutti gli antidepressivi bloccano la ricaptazione delle ammine. Infatti la mianserina e l'iprindolo non hanno alcun effetto su questo processo.

Ricerche condotte negli ultimi due anni hanno dimostrato che tutti i trattamenti antidepressivi, inclusi gli IMAO e l'elettroshock, inducono nell'animale da esperimento una graduale riduzione della sensibilità dei recettori cerebrali per la NA accoppiati all'enzima adenilciclasi. Tale subsensitività recettoriale attenua la trasmissione dei segnali trasmessi dalle fibre noradrenergiche nel cervello. Questa osservazione, il cui significato deve essere ancora chiarito, ha il merito di proporre un meccanismo unitario per tutti i trattamenti antidepressivi e di offrire nuove ipotesi di ricerca anche sulla patogenesi della malattia depressiva.

c) I farmaci usati nel trattamento della sindrome maniaco-depressiva

La sindrome maniaco-depressiva è caratterizzata dal susseguirsi, con frequenza variabile da individuo a individuo, di episodi di depressione e di intensa eccitazione; l'eccitazione può divenire euforia e addirittura psicosi conclamata, che richiede l'intervento con farmaci antischizofrenici.

La somministrazione di sali di litio è l'unica terapia di tipo preventivo che, continuata per anni, può portare a una completa scomparsa degli episodi sia depressivi che eccitatori. L'introduzione in terapia dei sali di litio si deve a un medico australiano, J. F. J. Cade, e risale al 1949. Questa data è di poco anteriore a quella dell'introduzione della reserpina e della clorpromazina, e pertanto il litio può essere considerato il primo psicofarmaco usato con successo nelle malattie mentali. Tuttavia, l'uso di questo farmaco, diventato comune solo verso la fine degli anni sessanta, ha incontrato molti ostacoli dovuti al fatto che questa terapia non aveva basi sperimentali attendibili e che l'impiego dei sali di litio come sostituti del cloruro di sodio aveva causato negli Stati Uniti, pochi anni prima, molte gravi intossicazioni. Inoltre, per un prodotto di questo tipo mancava la spinta promozionale dell'industria farmaceutica.

Il litio si scambia nell'organismo con il sodio. Come il sodio, diffonde attraverso le pareti cellulari seguendo i gradienti di concentrazione, ma viene estruso dalle cellule con maggior difficoltà del sodio dalla pompa che scambia il sodio con il potassio ed è deputata a mantenere alte le concentrazioni di potassio all'interno delle cellule e basse quelle del sodio. Il litio tende quindi ad accumularsi all'interno delle cellule e la prima condizione per una corretta terapia è di contenere questo accumulo, che influisce sull'eccitabilità cellulare, entro limiti ridotti, in quanto le sue conseguenze sono molteplici e non del tutto note. I meccanismi della neurotrasmissione sembrano essere particolarmente sensibili all'azione del litio e sono state riscontrate, nell'animale da esperimento, alterazioni nel funzionamento dei meccanismi noradrenergici, serotoninergici, colinergici. Tuttavia manca per il momento una soddisfacente interpretazione di questi effetti e soprattutto va chiarito il loro ruolo nell'azione terapeutica del litio.

Il litio esercita numerosi effetti collaterali che possono diventare anche molto gravi o persino letali. Essi sono prevenuti quasi completamente da un suo accurato dosaggio e da un costante controllo dei suoi livelli ematici che non devono superare 1,5 milliequivalenti per litro. Il litio continua a essere oggetto di molte ricerche sperimentali volte a comprenderne il meccanismo d'azione.

d) I farmaci usati nel trattamento dell'ansia

L'ansia può essere definita in base a un gruppo di sintomi psichici e fisici valutabili con una attenta intervista psichiatrica. Lo stato d'ansia è una sensazione comune alla maggior parte degli uomini che si trovino di fronte a situazioni ambientali potenzialmente pericolose o rilevanti, ad esempio per il proprio lavoro. Un esame, la partenza per un viaggio, un incontro di lavoro, sono tipiche situazioni ansiogene. L'ansia indotta da esse è stata definita situazionale, e se è contenuta in limiti ‛normali' aumenta la capacità dell'individuo di affrontare l'ambiente. Questa reazione, che può essere considerata di carattere finalistico, si distingue dallo stato ansioso di tipo patologico per la sproporzione fra l'intensità dell'ansia e la causa immediata che la determina e che spesso perde i suoi confini precisi per diventare un indefinito timore dell'ignoto e della vita quotidiana in tutte le sue manifestazioni.

L'ansia può essere anche un sintomo di malattie organiche o di natura tossica. Spesso è associata a depressione e rabbia e si manifesta con insonnia, senso di fatica, perdita dell'attenzione e della memoria e con sintomi fisici quali la tensione muscolare, palpitazioni cardiache, disturbi gastrointestinali, ecc. L'ansia è dimostrabile anche negli animali da esperimento, che possono pertanto essere usati per identificare e studiare sostanze ad azione ansiolitica. L'uomo ha sempre cercato di attenuare questa complessa risposta psicomotoria, così strettamente legata alla vita di relazione, e si è servito a questo fine di numerose sostanze psicoattive. Prima fra esse l'alcool etilico, poi i barbiturici a piccole dosi e numerosi altri neurodeprimenti.

Ma gli ansiolitici più diffusi dal 1958 sono le benzodiazepine. Si calcola infatti che siano usate, più o meno saltuariamente, dal 10-20% della popolazione adulta dei paesi industrializzati e il loro costante consumo è diventato per molti la maniera più semplice per rendere accettabili le difficoltà quotidiane.

Se vogliamo riassumere il profilo di azione di questi farmaci, il cui numero va continuamente aumentando pur essendo tutti molto simili fra di loro, possiamo ricordare che, accanto all'azione ansiolitica, le benzodiazepine esercitano un'azione miorilassante, sono potenti anticonvulsivanti, possono facilitare il sonno o essere francamente ipnotiche.

Esula dallo scopo di questo articolo esaminare in dettaglio gli impieghi terapeutici di questi farmaci. Bisogna tuttavia rilevare che, anche se dotati di una bassa tossicità, essi possono esercitare subdoli effetti collaterali. La sonnolenza, la riduzione dell'attenzione e del tono muscolare da esse indotte sono causa di incidenti sul lavoro o alla guida. L'interruzione improvvisa del loro uso causa una sindrome di astinenza che può essere anche abbastanza grave.

Le benzodiazepine rappresentano un gruppo di farmaci di grande interesse sotto molti punti di vista. La loro indiscriminata accettazione da parte del pubblico e l'enorme consumo sono divenuti un fatto di costume che ha gravi implicazioni economiche e sociali. Non siamo forse lontani dal ‟soma", il farmaco ideale descritto da Huxley nel suo Brave new world: ‟quella [...] dose di ‛soma' aveva alzato un quasi impenetrabile muro fra il mondo reale e le loro menti".

D'altra parte, solo attualmente, a vent'anni dalla loro introduzione in terapia, comincia a essere compreso l'elusivo meccanismo d'azione delle benzodiazepine. Ciò che più colpisce è che, pur essendo di sintesi e non derivando da alcun modello naturale, queste sostanze agiscono su recettori specifici identificati nel 1978 in molte regioni del cervello di tutti i Vertebrati, uomo compreso. Viene spontaneo di chiedersi qual è il ruolo fisiologico di questi recettori, quale il loro ligante endogeno; ma questa domanda non ha ancora trovato una risposta.

Attraverso questo recettore le benzodiazepine potenziano i meccanismi inibitori centrali funzionanti mediante liberazione di GABA. Il potenziamento dell'azione di questo neurotrasmettitore è stato confermato da esperimenti di elettrofisiologia e neurochimica. L'interferenza con altri neurotrasmettitori, quali l'ACh, la NA, la 5-HT, sembra essere una conseguenza dell'azione sui meccanismi inibitori centrali.

e) Gli allucinogeni o psicotomimetici

Si tratta di un gruppo eterogeneo di sostanze chimiche, di origine sia naturale che di sintesi, la cui assunzione causa profonde alterazioni della percezione, fino alla comparsa di allucinazioni e modificazioni dell'umore, associate a disturbi neurovegetativi di varia intensità. Gli effetti allucinogeni di queste sostanze hanno suscitato uno straordinario interesse fra i ricercatori e anche nel grande pubblico. Essi sono stati oggetto di molte descrizioni: ricorderemo quella delle azioni dell'LSD fatta dal suo scopritore e in parte riportata nel cap. 3. Letteraria ed elegantissima è la descrizione degli effetti mentali della mescalina fatta da Huxley (v., 1954) nel suo libro The doors of perception.

La mescalina, contenuta in un cactus, il peyotl, è stata usata fin dal più lontano passato dalle popolazioni indigene del Messico e della parte sudorientale degli Stati Uniti nel corso di cerimonie religiose.

L'impiego di queste sostanze nella ricerca di esperienze religiose ha spinto H. Osmond a definirle ‛psichedeliche', sostanze cioè che rivelano o manifestano la mente (dal greco psyche e delo). Il nome di psicotomimetici allude invece alla loro capacità di indurre sintomi che ricordano la schizofrenia.

Le sostanze psicotomimetiche o psichedeliche possono essere suddivise in due classi: a) sostanze che producono condizioni simili a psicosi funzionali quali la schizofrenia e la mania, per esempio l'LSD e la mescalina; b) sostanze che inducono una sindrome simile alle psicosi organiche e al delirio, per esempio gli anticolinergici.

Gli allucinogeni possono essere anche suddivisi in base al meccanismo di azione. Quello dell'LSD è stato oggetto di numerose ricerche che hanno dimostrato che questo allucinogeno agisce sulla trasmissione serotoninergica e dopamminergica. Già nel 1953 J. H. Gaddum aveva dimostrato che l'LSD inibiva alcuni degli effetti periferici della 5-HT e aveva avanzato l'ipotesi che anche nel cervello l'LSD bloccasse i recettori per questa sostanza, l'esistenza della quale era stata appena dimostrata. La scoperta, qualche anno più tardi, che le fibre a mediazione serotoninergica originano dai neuroni situati nei nuclei del rafe nel tronco bulbo-mesencefalico ha permesso di dimostrare che l'LSD inibisce i neuroni del rafe, i quali hanno una funzione inibitrice. I sistemi neuronali normalmente inibiti dai neuroni serotoninergici sfuggono pertanto al loro controllo e la loro attività aumenta.

Più di recente è stato dimostrato che l'LSD stimola anche i recettori dopamminergici. La sua azione è quindi la risultante dell'interferenza in senso inibitorio ed eccitatorio con almeno due sistemi neuronali che utilizzano trasmettitori diversi. Tuttavia non è ancora stato chiarito in qual modo l'interazione con questi neurotrasmettitori dia origine alle allucinazioni e alle alterazioni comportamentali.

Il meccanismo d'azione della mescalina, estratta dal cactus peyotl (Anhalonium lewinii), della psilocibina, estratta da un fungo (Psylocibe mexicana), della dimetiltriptammina e della dimetossifenilanfetammina, queste ultime ottenute per sintesi, è stato studiato meno accuratamente di quello dell'LSD. Tuttavia sono state messe in evidenza analogie fra le strutture chimiche di tutti questi composti e l'LSD e pertanto i meccanismi d'azione sembrano essere, almeno in parte, simili.

Sono stati compiuti numerosi tentativi di utilizzare l'LSD in terapia psichiatrica. Riassumiamo brevemente quali possono essere le esperienze che accompagnano l'assunzione di pochi microgrammi di questa sostanza, come sono state descritte da A. Kurland e collaboratori: a) l'esperienza psichedelica psicotica, caratterizzata da un intenso terrore, da delirio di persecuzione o di grandezza, da stato confusionale, depersonalizzazione e disturbi neurovegetativi; b) l'esperienza psichedelica cognitiva, caratterizzata da lucidità e da una nuova prospettiva nel vedere i problemi personali, anche penosi, problemi che possono aver spinto il soggetto all'alcolismo o essere elementi di una sindrome depressiva; c) l'esperienza psichedelica estetica, caratterizzata da una intensificazione di tutte le percezioni sensoriali: gli oggetti sembrano acquistare vita, i suoni possono essere ‛visti', compaiono straordinarie visioni a occhi chiusi; d) l'esperienza psichedelica psicodinamica, nella quale vengono drammaticamente alla coscienza fatti rimossi a livello subconscio, che possono essere rivissuti con drammatica intensità; e) l'ultimo stadio sembra essere l'esperienza mistica o trascendente, nella quale il soggetto prova un senso di gioia, pace, amore, di perdita del proprio io e di trascendenza di spazio e tempo.

È comprensibile che il desiderio di partecipare a queste esperienze possa spingere all'abuso di questa sostanza, il cui uso non è più medico ma ormai appartiene solo al mondo della ‛droga'. L'LSD reperibile sul mercato clandestino è impuro e spesso tagliato con altre sostanze e permette in genere di raggiungere solo l'esperienza psicotica, il bad trip il cattivo viaggio - durante il quale il terrore può raggiungere un'intensità tale da portare al suicidio; le allucinazioni e la spersonalizzazione possono dare l'illusione di poter volare, con la prosaica ma drammatica conseguenza di cadere dalla finestra. Se a tutto questo aggiungiamo che sono stati descritti casi di psicosi irreversibile in soggetti che avevano usato ripetutamente l'LSD e il rischio, sia pure remoto, di un danno ai cromosomi, ci rendiamo conto come sia giustificato l'aver incluso questa sostanza fra gli stupefacenti, anche se essa non dà dipendenza e assuefazione (v. droga)

Al gruppo degli allucinogeni deliriogeni appartengono l'atropina e la scopolammina, se assunte ad alte dosi, e numerosi analoghi di sintesi, alcuni dei quali sono stati preparati per essere usati come armi chimiche. Tutte queste sostanze hanno la proprietà di bloccare i recettori muscarinici per l'ACh nel sistema nervoso centrale e nel sistema vegetativo periferico. Esse pertanto riducono o bloccano la funzione di una parte delle fibre a mediazione colinergica, lasciando tuttavia integra la funzione di quelle fibre colinergiche che agiscono, nei gangli, alle giunzioni neuromuscolari e in alcune zone del cervello tramite recettori nicotinici.

Atropina e scopolammina sono contenute in numerose piante della famiglia delle Solanacee. Di esse ricorderemo l'Atropa belladonna, i cui frutti sono chiamati in alcuni paesi ‛ciliege della pazzia', lo Hyosciamus niger, la Scopolia carniolica e le varie specie di Datura. Tutte queste piante sono diffuse anche in Europa. In questa breve trattazione non descriveremo né le proprietà terapeutiche né le azioni tossiche di questi alcaloidi e di alcuni composti analoghi di sintesi quali il ditran, ma solo i loro effetti psichici. Tutte queste sostanze causano, a dosi elevate, uno stato di confusione mentale che può assomigliare alla demenza senile, un delirio per lo più di tipo terrificante e perdita della memoria. Queste azioni sul sistema nervoso centrale sono accompagnate da spiccati effetti periferici, i più evidenti dei quali sono la midriasi, l'inibizione di tutte le secrezioni, la tachicardia e la febbre.

A differenza dell'LSD, mancano le drammatiche allucinazioni multicolori, e spesso una intensa sonnolenza precede e segue gli effetti mentali degli anticolinergici. Tuttavia essi hanno una storia altrettanto pittoresca e affascinante, essendo stati attraverso i secoli strumenti di magia sia in Europa che in Asia, tanto che le piante che contengono questi alcaloidi sono state anche chiamate in passato ‛erbe delle streghe' o ‛erbe del diavolo'.

La proprietà degli anticolinergici di cancellare la memoria dei fatti avvenuti immediatamente prima dell'assunzione del farmaco e durante la sua permanenza nel cervello ha offerto uno strumento di ricerca che ha permesso di dimostrare l'importanza delle vie colinergiche nei meccanismi dell'attenzione, dell'apprendimento e della memoria recente. Negli anni cinquanta negli Stati Uniti, e anche attualmente in alcuni paesi dell'Europa orientale, la somministrazione di alte dosi di atropina, in modo da indurre un profondo coma, è stata impiegata con qualche successo nel trattamento della schizofrenia. Il coma veniva bruscamente interrotto con una iniezione endovenosa di fisostigmina, farmaco che aumenta i livelli di ACh nel cervello.

f) Psicofarmaci usati prevalentemente a scopo voluttuario

L'invocazione di Th. de Quincey ‟oppio eloquente [...] tu susciti dal grembo delle tenebre, con le fantastiche immagini del cervello, templi e città che superano l'arte di Fidia e Prassitele [...] e dall'anarchia di un sonno pieno di sogni chiami alla luce del sole i volti di beltà da gran tempo sepolti [...] tu solo dai questi doni all'uomo e tu hai le chiavi del Paradiso, o giusto misterioso potente oppio" avvicina l'oppio ai farmaci psicotomimetici e giustifica la trattazione dei farmaci stupefacenti nell'ambito della psicofarmacologia. Tuttavia non è possibile descrivere in dettaglio gli effetti mentali, le azioni farmacologiche, i meccanismi di azione di questo grande gruppo di sostanze che comprende l'alcool etilico, i derivati dell'oppio, la cocaina, l'anfetammina, la Cannabis sativa (v. droga).

Le azioni psichiche dell'alcool etilico, consumato sotto forma di vino, birra, grappa, vodka, whisky, sakè, sono un'esperienza comune per una gran parte della popolazione del mondo. L'alcool in piccole dosi rimuove l'ansia - ‟il vino che rallegra il cuore dell'uomo" (Salmi, 104, 15) - e induce una moderata euforia; a dosi più alte causa confusione mentale, eccitazione, aggressività: ‟Schernitore è il vino, tumultuosa cosa la bevanda inebriante: chiunque se ne diletti non è saggio" (Proverbi, 20, 1). Quando le quantità ingerite sono ancora più alte, però, gli effetti del vino possono provocare un sonno profondo che può divenire coma. Numerosi sono i disturbi neurovegetativi, quali nausea, vomito, tachicardia: sono causati soprattutto dall'aldeide acetica che si sviluppa nel corso del metabolismo dell'alcool etilico.

Le azioni dell'alcool non sono dovute a un'interazione con recettori specifici, ma si ritiene che esso modifichi le caratteristiche chimico-fisiche delle membrane dei neuroni in modo simile a quello degli anestetici generali. Del resto l'etere e il protossido d'azoto, malati in piccole dosi, esercitano azioni eccitanti analoghe a quelle dell'alcool e sono stati in passato usati anche come psicofarmaci. Con meccanismo analogo agiscono anche alcuni solventi organici volatili, contenuti per esempio nelle colle, che vengono fiutati per ottenere un blando effetto psicostimolante.

Le modificazioni della permeabilità neuronale si ripercuotono sui meccanismi della neurotrasmissione, per cui in corso di trattamento acuto o cronico con alcool e durante la sindrome da astinenza sono state osservate modificazioni nei livelli, nella liberazione e nel metabolismo dell'ACh, della NA e DA. Inoltre alcuni dati sperimentali, che tuttavia richiedono conferma, suggeriscono la possibilità che l'aldeide acetica alteri il metabolismo della dopammina dando origine alla tetraidropapaverolina - che ha una formula chimica che ricorda quella della morfina - e a un derivato tetraidrochinolinico, il salsolinolo, che potrebbero avere un ruolo nella induzione della dipendenza e della sindrome da astinenza in corso di alcolismo cronico.

È in fondo sorprendente notare quanto poco si sappia ancora sull'alcool etilico che rappresenta indubbiamente lo psicofarmaco più usato nel mondo occidentale e il cui abuso, peraltro in costante aumento, crea rilevanti problemi sociali e medici. Accurate rassegne sull'alcolismo sono state pubblicate recentemente, e ricorderemo quelle di W. R. Martin (v., 1977), T. J. Cicero (v., 1978) e N. K. Mello (v., 1978).

I derivati naturali e di sintesi dell'oppio, ‛le droghe' per antonomasia, hanno stimolato un grandissimo numero di ricerche negli ultimi anni e il loro studio sembra veramente aprire nuove vie alla psicofarmacologia. Essi formano una numerosa famiglia di farmaci: tra questi ricorderemo, perché di più largo uso, la morfina, l'eroina, la codeina, la mefedina, il metadone e il levorfanolo. Tutti hanno in comune la proprietà di reagire con recettori specifici distribuiti in molte zone del sistema nervoso centrale e in alcuni tessuti periferici e di esercitare una potente azione analgesica. Pertanto queste sostanze hanno prima di tutto un ruolo insostituibile nella pratica medica, perché permettono al medico di raggiungere il primo obiettivo della sua professione: lenire il dolore.

L'azione analgesica è accompagnata da depressione del respiro, dall'azione costipante e da importanti azioni psichiche, descritte vividamente da de Quincey. La storia dell'oppio è molto antica. Forse già Elena di Troia aggiunse oppio al vino dei suoi ospiti quando ‟farmaco infuse contrario al pianto e all'ira e che l'oblio seco induceva di ogni travaglio e cura" (Odissea, IV, 283-286). Le limitazioni al consumo dell'oppio, il cui uso era diffusissimo nei secoli scorsi anche in Europa e in America, sono iniziate nella seconda metà del secolo scorso per molte ragioni: soprattutto per l'aumento del numero dei casi di intossicazione cronica e per la rilevante mortalità da intossicazione acuta.

A tutti è noto che gli oppiacei inducono assuefazione e dipendenza e che l'interruzione della loro somministrazione provoca una complessa e penosa sindrome da astinenza. È altresì noto che l'abuso di questi farmaci ha assunto il carattere di una malattia sociale endemica che negli ultimi anni in molti paesi, inclusa l'Italia, ha raggiunto una larga diffusione.

La trattazione dei molti aspetti dell'uso e dell'abuso degli oppiacei esula dallo scopo e dai limiti di questo articolo. Riassumeremo solo alcune informazioni che sembrano particolarmente rilevanti per il futuro della psicofarmacologia.

Nel 1973 l'ipotesi, formulata sulla base delle analogie strutturali fra questi composti e sull'esistenza di antagonisti, che i derivati dell'oppio agissero su specifici recettori, veniva confermata grazie all'uso di leganti radioattivi che permettevano di determinare la distribuzione di questi recettori. Se esistevano i recettori per gli oppioidi sorgeva anche la possibilità che esistessero leganti endogeni. Essi furono identificati alla fine del 1974 sotto forma di due pentapeptidi, la metionina-encefalina e la leucina-encefalina; a esse si aggiungeva pochi mesi dopo la fi-endorfina, un polipeptide di 31 amminoacidi che si trova nell'ipofisi, nel cervello e nel sistema nervoso autonomo periferico.

Queste scoperte furono seguite da un numero imponente di ricerche volte a definire il ruolo degli oppioidi endogeni, chiamati genericamente endorfine; esse possono essere considerate veri e propri neurotrasmettitori. Analogamente agli oppiacei esogeni modificano l'attività di molti altri neurotrasmettitori e in particolare dell'ACh, della 5-HT, della DA, della NA e della sostanza P, modulandone la liberazione dalle terminazioni nervose mediante un meccanismo di inibizione presinaptica. Le endorfine sembrano coinvolte non solo nella regolazione dei meccanismi di percezione del dolore, ma anche in molte funzioni fondamentali per l'omeostasi dell'individuo, quali il senso dell'appetito, la termoregolazione, la regolazione posturale, la regolazione pressoria. Le endorfine sembrano essere al crocevia di molte vie neuronali e si può ipotizzare che nel corso dell'evoluzione esse siano passate da sistemi relativamente primitivi, coinvolti nella regolazione del dolore e nella risposta agli stress, a sistemi coinvolti nella modulazione degli istinti, delle emozioni e dell'umore. Le più recenti ricerche suggeriscono che nelle malattie mentali vi possano essere modificazioni nei livelli e nel metabolismo delle endorfine. La somministrazione di endorfine a soggetti schizofrenici o depressi ha causato drammatici, anche se temporanei, cambiamenti della sintomatologia; più recentemente è stato dimostrato che un frammento dell'endorfina può esercitare un'azione antipsicotica.

Sembra quindi probabile che dalle ricerche su queste sostanze possano emergere nuovi importanti elementi non solo per comprendere la patogenesi delle malattie mentali, ma anche i meccanismi della tossicodipendenza dagli oppiacei. Inoltre, nessuna sostanza sembra dimostrare meglio delle endorfine gli inscindibili legami fra attività psichiche e funzioni dell'organismo.

La Cannabis sativa, diffondendosi dal subcontinente indiano in tutto il mondo, ha dato origine attraverso i secoli a molti prodotti dal nome diverso a seconda del metodo di preparazione. Faremo riferimento alle due preparazioni più diffuse nel mondo occidentale in questo momento, l'éashêsh, un miscuglio di materiale resinoso e infiorescenze, di origine araba, e la marijuana, un miscuglio di foglie e infiorescenze, di origine messicana. Il principio attivo della Cannabis è il delta-1-trans-tetraidrocannabinolo (∆1-THC), isolato nel 1965. Questo e l'alcool etilico sono indubbiamente le sostanze psicoattive più consumate nel mondo. L'éashêsh, usato per secoli in tutto il mondo arabo, è giunto verso la fine del secolo scorso in Inghilterra, e ancor prima in Francia dove fu introdotto dalle truppe napoleoniche al ritorno dalla campagna d'Egitto; la marijuana ha preso piede negli Stati Uniti negli anni trenta. Tuttavia è solo dall'inizio degli anni sessanta che la Cannabis si è diffusa negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale ed è diventata un problema sociale e medico. L'assunzione dell'éashêsh avviene per via orale o inalatoria, quella della marijuana per via inalatoria.

Anche la Cannabis ha, come l'alcool e l'oppio, una ricca storia letteraria. Le sue azioni sono state descritte con estrema eleganza da Dumas, da Gautier ma soprattutto da Baudelaire, che in Les paradis artificiels così ne definisce gli effetti: ‟all'inizio vi è come una assurda irresistibile ilarità che vi travolge [...] le più banali parole, le più triviali idee assumono un nuovo bizzarro aspetto [...] una nuova acutezza, una maggior percezione si manifesta in tutti i sensi [...] talvolta sembra che la propria individuale identità scompaia". Circa un secolo dopo Allen Ginsberg affermerà: ‟La marijuana è un catalizzatore utile alla percezione estetica".

La suggestiva cornice che la letteratura ha creato intorno a questa droga è stata una importante spinta alla sua diffusione; i suoi effetti psichici sono infatti in buona parte legati ai contenuti culturali e alle aspettative di chi ne fa uso.

Tuttavia già nel 1845, in Francia, J. J. Moreau sottolineava le analogie fra gli effetti della Cannabis e i sintomi delle malattie mentali: euforia inspiegabile, dissociazione delle idee, errori di tempo e spazio. Reazioni di panico e psicosi acute tossiche sono state descritte, ma non sono frequenti. L'aspetto più preoccupante di questa droga è rappresentato dal deterioramento mentale e fisico riscontrato, anche in recenti studi, nei suoi consumatori abituali. Nei più giovani la Cannabis compromette i processi di integrazione cerebrale e la strutturazione della personalità.

Tutte le preparazioni di Cannabis sono considerate stupefacenti dalla legge italiana. Si sta peraltro cominciando a discutere della possibilità di liberalizzarne l'uso e soprattutto dell'opportunità di evitare la criminalizzazione dei giovani che ne fanno uso.

Il meccanismo d'azione del ∆1-THC è ancora in gran parte ignoto. È stata dimostrata un'interferenza di questa sostanza con alcuni neurotrasmettitori, in particolare l'ACh, la DA e la 5-HT, ma siamo ancora ben lontani dal poter offrire una spiegazione delle sue complesse azioni psichiche, che sembrano essere sostenute da una interazione di moderata intensità con molti sistemi neuronali.

Se il meccanismo d'azione del ∆1-THC è oscuro, molto più chiaro è quello di un'altra importante sostanza psicoattiva, la cocaina. Questo alcaloide, estratto dalle foglie dell'Erythroxylon coca, deve molte delle sue numerose azioni sul sistema nervoso a un'interferenza con il metabolismo di NA, AD e DA. Essa impedisce quel processo di ricaptazione da parte dei terminali nervosi che, come abbiamo già detto, inattiva i neurotrasmettitori e ne permette la riutilizzazione. Le azioni di queste ammine sono fortemente potenziate.

Anche la cocaina ha una storia complessa e interessante, come quella delle altre droghe psicoattive. La sua lontana origine risale a una primitiva civiltà contadina. È stata scoperta dalla cultura europea nell'Ottocento, e ha avuto una diffusione non controllata per qualche decennio in una brillante cornice letteraria e intellettuale. Dall'immaginario Sherlock Holmes a Freud, che ne prendeva ‟piccole dosi contro la depressione e l'indigestione e con il più brillante successo", anche la cocaina è stata soggetto di pregevoli brani letterari. ‟Portato dalle ali di due foglie di coca volai nello spazio di 77.438 parole una più splendida dell'altra. Preferisco una vita di dieci anni con la coca che di centomila senza di lei" - scriveva Paolo Mantegazza nel 1859.

In seguito è venuta la scoperta degli effetti tossici esercitati da questa sostanza e la necessità di una limitazione del suo consumo. La sua assunzione non dà dipendenza fisica e tolleranza, ma solo dipendenza psichica. Il suo abuso causa tendenza alla violenza e una vera psicosi tossica, e si accompagna a insonnia, depressione e a un marcato deterioramento delle condizioni mentali. I danni causati dalla cocaina sono particolarmente evidenti nelle popolazioni delle Ande, dove l'uso di masticare le foglie di coca o di berne il tè è ancora molto diffuso.

Della cocaina non va dimenticata l'intensa azione anestetica locale che ne giustifica ancora un limitato uso in oculistica e otorinolaringoiatria.

Gli effetti della cocaina - euforia, eccitazione, garrulità, inquietudine, aumentate capacità per il lavoro, riduzione del senso di fame - sono simili a quelli indotti dall'anfetammina, un'ammina simpaticomimetica introdotta in terapia negli anni trenta e da pochi anni aggiunta alla lista degli stupefacenti, di cui abbiamo già parlato nel cap. 2. L'anfetammina può indurre psicosi tossiche simili alla schizofrenia. Come nel caso della cocaina, essa interagisce con i meccanismi dopamminergici e noradrenergici stimolando la liberazione di NA e DA dalle terminazioni nervose. Cocaina e anfetammina sono sostanze di estremo interesse teorico nello studio della patogenesi della schizofrenia.

6. Importanza sociale della psicofarmacologia

Molteplici sono le conseguenze sociali dell'uso degli psicofarmaci. Prima di tutto la possibilità di trattare con successo le malattie mentali attenuandone i sintomi se non rimuovendone la causa. Da un punto di vista pratico basti pensare che il numero dei ricoverati negli ospedali psichiatrici degli Stati Uniti è sceso da 558.900 nel 1955, anno di introduzione in terapia delle fenotiazine e della reserpina, a 338.600 nel 1970, anche se vi è stato nello stesso periodo un consistente aumento della popolazione. È stata la psicofarmacologia che ha permesso di aprire gli ospedali psichiatrici e, in alcuni paesi fra i quali l'Italia, ridurli a strutture per il trattamento acuto dei malati mentali che vengono poi affidati nuovamente alle famiglie e alla comunità attraverso i centri di igiene mentale. Ciò richiede tuttavia un uso molto attento degli psicofarmaci.

Accanto a questo aspetto positivo stanno aspetti dubbi o negativi della diffusione degli psicofarmaci: ad esempio, la diffusione indiscriminata delle benzodiazepine per evadere la realtà quotidiana. Si calcola che il 10-20% della popolazione adulta dei paesi occidentali faccia uso più o meno regolarmente di questi farmaci. D'altra parte si ritiene che avesse la stessa incidenza il consumo dei preparati a base di oppio nell'Inghilterra vittoriana, prima della sua limitazione. Forse questo consumo di farmaci psicoattivi è in realtà inevitabile se, come ha scritto Osler nel 1891, ‟il desiderio di prendere medicine è la grande caratteristica che distingue l'uomo dagli animali", o se accettiamo il punto di vista di Alice nel paese delle meraviglie: ‟So che qualcosa di interessante mi succede di certo se mangio o bevo qualcosa".

L'aspetto decisamente negativo della psicofarmacologia è la diffusione dei farmaci illegali, eroina, cocaina, LSD ecc., che ha gravi conseguenze per la salute dei cittadini e pesanti implicazioni per l'ordine pubblico. L'entità del problema è indicata dalla cifra di circa 65.000 drogati in Italia, secondo una valutazione del Ministero della Sanità pubblicata all'inizio del 1980. Si tratta di più dell'uno per mille della popolazione. Quest'uso illegale è stato oggetto di numerose analisi sociologiche e psichiatriche. In esso si innestano i più diversi elementi, quali la curiosità e il desiderio di nuove esperienze, espresso infantilmente nella frase di Alice appena citata, la ribellione verso la famiglia e la società, un inconscio desiderio di punizione e autodistruzione in un contesto sociale e familiare difficile e spesso ostile.

7. Critiche alla psicofarmacologia

Molte sono le ragioni delle numerose critiche che, soprattutto nel corso dell'ultimo decennio, sono state espresse nei confronti della psicofarmacologia. Del resto farmaci così efficaci nel modificare il pensiero e il comportamento non potevano non suscitare apprensioni e timore di essere usati impropriamente. È stata infatti posta la domanda se il medico abbia il diritto di intervenire con tanta facilità sull'attività psichica dei suoi pazienti; se l'uso indiscriminato degli ansiolitici non spenga l'essenza stessa della natura umana, la spinta a cambiare l'ambiente che la circonda, addormentandola in una supina accettazione di una realtà spesso ingiusta.

D'altra parte i farmaci antischizofrenici hanno sì offerto la possibilità di reinserire i malati nella comunità, ma anche quella di mantenerli negli ospedali psichiatrici in uno stato di assoluta passività, assistiti da scarso personale, con la certezza che ogni violenza e protesta sono impedite. Questa non è certo terapia e la pittoresca espressione ‛camicia di forza chimica' per definire questi psicofarmaci non è, in questo caso, del tutto impropria. E non è difficile capire come da questo scorretto uso medico dei farmaci antischizofrenici si possa passare anche a servirsene come strumento di oppressione. Del resto, le proprietà amnesiche della scopolammina e dei suoi analoghi sono state usate non raramente per facilitare interrogatori e ammissioni di colpevolezza.

Tuttavia in tutti questi casi le critiche non vanno appuntate sugli psicofarmaci o su chi li studia o produce, ma su chi li usa in maniera deontologicamente non corretta. Possiamo chiudere questo capitolo con il giudizio di Basaglia, che nel suo L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (Torino 1968, p. 146) così scrive: ‟Uno sguardo generale agli ospedali psichiatrici ci può dire che, grosso modo, la terapia farmacologica ha dato ovunque risultati sorprendenti e sconcertanti. I farmaci hanno un'indubbia azione di cui si sono visti i risultati [...] nella riduzione del numero dei malati associati all'ospedale. Ma a posteriori si può cominciare a vedere come questa azione si muova sia a livello del malato che del medico: poiché agisce contemporaneamente sia sull'ansia del malato come sull'ansia di chi lo cura". Il rischio è che il medico sedi ‟attraverso i farmaci che somministra la sua ansia di fronte ad un malato con cui non sa rapportarsi".

8. Influenza della psicofarmacologia sulle altre neuro scienze

Gli psicofarmaci hanno avuto grande importanza euristica in psichiatria; infatti lo studio dei loro meccanismi d'azione ha spinto a formulare numerose teorie sulla patogenesi delle malattie mentali. Ad esempio, la constatazione che i farmaci che potenziano l'azione della NA, quali gli inibitori delle monoamminossidasi e gli antidepressivi triciclici, sono efficaci nella depressione ha indotto J. J. Schildkraut a postulare che in questa malattia mentale vi possa essere una ridotta trasmissione noradrenergica. Anche se questa ipotesi si è dimostrata inadeguata nella sua formulazione iniziale, la possibilità che alla base della depressione vi sia un'alterazione dei meccanismi della neurotrasmissione monoamminergica continua a raccogliere molti consensi.

D'altra parte è anche possibile ritenere che un importante elemento patogenetico della schizofrenia sia un'iperattività delle vie dopamminergiche cerebrali, in particolare della via nigro-mesocorticale. Infatti i farmaci antischizofrenici bloccano i recettori della DA e i farmaci dopamminomimetici, ad esempio l'anfetammina, possono causare psicosi.

Queste osservazioni e la constatazione che alcune sostanze, quali l'LSD, esercitano una marcata attività psicotomimetica, hanno fornito molti elementi alle teorie organicistiche delle malattie mentali. La psicofarmacologia ha insegnato che l'attività nervosa superiore, il pensiero, l'affettività, sono profondamente modificate da piccole molecole e dipendono dall'integrità dei complessi meccanismi biochimici della neurotrasmissione.

Le cause delle malattie mentali rimangono ancora oscure, ma alcuni anelli patogenetici hanno cominciato ad aprirsi. D'altro canto, numerosi esperimenti dimostrano che l'ambiente può influenzare i meccanismi neurochimici. Ricordiamo le alterazioni dei meccanismi serotoninergici osservate in topolini tenuti in prolungato isolamento o la liberazione di endorfine indotta dal semplice timore di un evento doloroso in ratti condizionati.

Gli psicofarmaci si sono dimostrati strumenti utilissimi per esplorare il sistema nervoso centrale. Per esempio, le conoscenze sul funzionamento del sistema simpatico e delle fibre a mediazione dopamminergica e noradrenergica nel cervello sono in gran parte dovute alla scoperta della reserpina, degli inibitori delle monoamminossidasi e alle ricerche sulla cocaina.

Lo studio degli psicofarmaci ha richiesto da un lato modelli comportamentali semplici, e dall'altro mezzi per valutare in maniera quantitativa gli effetti terapeutici. Queste necessità hanno spinto ad approfondire le conoscenze sul comportamento degli animali e a mettere a punto accurate scale di valutazione dei sintomi clinici nell'uomo.

Ricorderemo che la psicofarmacologia deve molto alla ricerca sugli animali da laboratorio, senza la quale nessuno dei farmaci oggi in uso sarebbe stato realizzato. Nonostante l'immensa diversità esistente fra l'attività mentale dell'uomo e quella degli animali, i meccanismi fondamentali della neurotrasmissione sono uguali, per lo meno in tutti i Vertebrati, così come attenzione, apprendimento, ma anche ansia e alcune risposte affettive sono uguali almeno attraverso tutta la parte più alta della scala filogenetica.

Possiamo concludere questo articolo affermando che la psicofarmacologia ha portato un decisivo contributo alla terapia delle malattie mentali e, se anche non ha permesso di ‟allargare le porte della percezione" verso il mondo esterno, ha certamente reso agli uomini ‟più facile l'accesso alle scatole misteriose dentro di loro" (Kurt Vonnegut).

bibliografia

Barchas, J. D., Akil, H., Elliott, G. R., Holman, R. B., Watson, S. J., Behavioral neurochemistry: neuroregulators and behavioral states, in ‟Science", 1978, CC, pp. 964-973.

Barchas, J. D., Berger, P. A., Ciaranello, R. D., Elliott, G. R. (a cura di), Psychopharmacology from theory to practice, New York 1977.

Berger, P. A., Medical treatment of mental illness. Pharmacotherapies revolutionize psychiatric care and present scientific and ethical challenges to society, in ‟Science", 1978, CC, pp. 974-981.

Cicero, T. J., Tolerance to and physical dependence on alcohol: behavioral and neurobiological mechanisms, in Psychopharmacology. A generation of progress (a cura di M. A. Lipton, A. Di Mascio e K. F. Killam), New York 1978, pp. 1603-1617.

De Ropp, R. S., Drugs and the mind, New York 1957.

Diaz, J. L., Ethnopharmacology of sacred psychoactive plants used by the Indians of Mexico, in ‟Annual review of pharmacology and toxicology", 1977, XVII, pp. 647-675.

Evans, W. O., Kline, N. S., Psychotropic drugs in the year 2000. Use by normal humans, Springfield, Ill., 1971.

Fielding, S., Effland, R. (a cura di), New frontiers in psychotropic drug research, Mount Kisko, N. Y., 1979.

Gay, G. R., Inaba, D. S., Sheppard, M. D., Newmeyer, J. A., Cocaine: history, epidemiology, human pharmacology and treatment. A perspective on a new debut for an old girl, in ‟Clinical toxicology", 1975, VIII, pp. 149-178.

Huxley, A., The doors of perception. Heaven and Hell, New York 1954 (tr. it.: Le porte della percezione. Paradiso e inferno, Verona 1958).

Lipton, M. A., Di Mascio, A., Killam, K. F. (a cura di), Psychopharmacology. A generation of progress, New York 1978.

Martin, W. R. (a cura di), Drug addiction, voll. I-II, Berlin 1977.

Mello, N. K., Alcoholism and the behavioral pharmacology of alcohol: 1967-1977, in Psychopharmacology. A generation of progress (a cura di M. A. Lipton, A. Di Mascio e K. F. Killam), New York 1978, pp. 1619-1637.

Nahas, G. G., Marihuana-deceptive weed, New York-Amsterdam 1973.

Oakley, S. R., Drugs, society and human behavior, St. Louis 1972.

Pepeu, G., Moroni, F., Le basi biologiche dell'azione degli psicofarmaci, in Le basi biologiche della medicina moderna (a cura di G. Cavallo e A. Beretta Anguissola), Torino 19802, pp. 801-832.

Usdin, E., Hamburg, D. A., Barchas, J. D., Neuroregulators and psychiatric disorders, New York 1977.

CATEGORIE
TAG

Sistema nervoso periferico

Antidepressivi triciclici

Sistema nervoso centrale

Liquido cefalorachidiano

Giunzione neuromuscolare