Psicologia, psichiatria e psicoanalisi

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Scienze (2013)

Psicologia, psichiatria e psicoanalisi

Luciano Mecacci

La psicologia

Le opere più accreditate di storia della psicologia individuano una scissura tra le analisi dei processi psicologici svolte nel lungo corso, oltre due millenni, della filosofia occidentale e la nascita, a metà circa dell’Ottocento, di una disciplina che si è proposta l’indagine dello stesso tema in una prospettiva autonoma sul piano teorico e metodologico. La data di riferimento è comunemente il 1879, quando il fisiologo tedesco Wilhelm Wundt fondò il primo Laboratorio di psicologia sperimentale presso l’Università di Lipsia. Negli ultimi decenni del secolo si diffuse quindi l’espressione psicologia scientifica per ribadire la distinzione tra una psicologia propria della tradizione filosofica e una psicologia che si ispirava alla scienza moderna, fondata sul metodo sperimentale e sulla misurazione e la quantificazione dei dati. Anche lo studio e la cura dei disturbi psichici si consolidarono come l’oggetto di una disciplina specifica, la psichiatria, insegnata nelle facoltà di Medicina e praticata in istituzioni pubbliche come i manicomi o in cliniche private per la terapia delle «malattie nervose e mentali».

Sempre alla fine dell’Ottocento, nel contesto delle indagini neurologiche e psichiatriche, ebbe origine un particolare orientamento teorico e metodologico, la psicoanalisi, che per la complessa articolazione del suo sviluppo e l’ampiezza della sua diffusione acquista una rilevanza storica indipendente. Questo quadro vale per quasi tutti i Paesi dell’Europa e per gli Stati Uniti, e anche per l’Italia, seppure vi si rilevi nell’avvio dell’autonomia disciplinare un ritardo di almeno due decenni. Infatti il contesto sociale, culturale e politico del nostro Paese ha frenato, e talvolta ostacolato, la nascita e l’evoluzione della disciplina della mente, normale e patologica. Da una parte, vi sono ragioni di carattere storico più generale (il lento processo di unificazione della nazione, le forti discrepanze socioeconomiche tra il Nord e il Sud e la conseguente problematica relativa alla realizzazione di progetti sistematici e omogenei nei settori in cui la psicologia e la psichiatria erano applicate, dalla scuola alle istituzioni manicomiali), dall’altra, motivi di carattere filosofico e ideologico (dovuti all’influenza sulla vita sociale e culturale del Paese svolta dallo spiritualismo cristiano nell’Ottocento e dal neotomismo, il neoidealismo e il marxismo nel Novecento; su questi aspetti, non trattati in questa sede, cfr. Mecacci 1998).

La seconda metà dell’Ottocento

La distinzione introdotta agli inizi del Settecento da Christian Wolff (1679-1754) tra «psicologia filosofica» (teoria generale dei processi psichici) e «psicologia empirica» (studio empirico di questi stessi processi) rifletteva l’esigenza di affiancare alla tradizionale trattazione puramente speculativa un’analisi sistematica dei dati raccolti attraverso l’osservazione del comportamento altrui nella vita quotidiana, oppure l’esecuzione di esperimenti, all’epoca ancora non pienamente rigorosi dal punto di vista metodologico, condotti su se stessi e altre persone. In Italia, nell’Ottocento, l’impostazione filosofica fu sostenuta da filosofi spiritualisti come Antonio Rosmini (1797-1855), autore di Psicologia (2 voll., 1846-1848), e Francesco Bonatelli (1830-1911), autore di Pensiero e conoscenza (1864) e La coscienza e il meccanismo interiore (1872). In queste opere si affermava il fondamento trascendente della psiche (l’anima come sostanza immateriale e immortale), il primato dell’introspezione nell’indagine psichica e l’irriducibilità dei processi psichici a processi cerebrali. Invece fu proprio la possibilità di studiare il funzionamento della psiche secondo i principi e i metodi della fisiologia ciò che fu richiamato dai filosofi italiani promotori di una psicologia empirica ispirata alle teorie materialiste (per le quali la psiche è il prodotto dell’attività complessa del cervello), già proposte dagli idéologues francesi agli inizi del secolo (Mecacci 2003).

Al rafforzamento dell’orientamento empirico tra i filosofi e gli scienziati italiani concorse la diffusione prima del positivismo e poi dell’evoluzionismo. Tra i primi esponenti del positivismo italiano, Carlo Cattaneo (1801-1869) sostenne la necessità di completare l’indagine sulle varie facoltà psichiche di un individuo con lo studio delle «facoltà associate di più individui e di più nazioni», per inquadrare propriamente la «psicologia della mente individuale e solitaria» in una più ampia e comprensiva «psicologia delle menti associate» (C. Cattaneo, Psicologia delle menti associate, 1859-1866, a cura di G. de Liguori, 2000, pp. 53-54). Si veniva così profilando una corrente di ricerche che sarebbe stata molto attiva alla fine del secolo sui temi di psicologia sociale e culturale e soprattutto sulle dinamiche psicologiche che si attivano in una folla. Le opere di Pasquale Rossi (1867-1905) su L’animo della folla (1898) e La psicologia collettiva (1899) e quelle di Scipio Sighele (1868-1913) su La folla delinquente (1891) e L’intelligenza della folla (1903) ebbero una vasta risonanza internazionale in relazione anche all’attenzione che vi veniva rivolta agli emergenti movimenti di massa, con la nascita dei partiti politici e delle formazioni sindacali.

La priorità del dato fattuale (del ‘positivo’ nel senso specifico del positivismo) rispetto al dato soggettivo fu affermata più risolutamente dai biologi, fisiologi e medici che – sempre nella prospettiva di tale teoria filosofica – aderirono all’evoluzionismo non solo nella formulazione darwiniana (Sull’origine delle specie, di Charles S. Darwin, pubblicato nel 1859, fu tradotto in italiano da Giovanni Canestrini e Leonardo Salimbeni nel 1864), ma anche nella versione più filosofica proposta da Herbert Spencer (1820-1903), secondo la quale vi era un processo continuo nell’evoluzione degli organismi viventi, dalle forme più semplici a quelle più complesse di attività finalizzate all’adattamento all’ambiente, da attività riflesse presenti nella vita animale elementari alle forme di intelligenza superiore che si manifestano nei primati e nella specie umana. Questa idea di una permanente e progressiva trasformazione della materia fu sostenuta dal maggiore esponente del positivismo italiano, Roberto Ardigò (1928-1920), professore di filosofia a Padova dal 1881. Come scriveva Ardigò nel suo libro La psicologia come scienza positiva (1870):

[L’evoluzione procede] per gradi; fino al punto culminante dell’esistenza, all’uomo; dove ciò, che, negli stadi inferiori dell’essere, chiamavasi la materia, diventa la persona o lo spirito. La persona o lo spirito, che è lo stromento più nobile della attività della natura. Lo stromento, pel quale tale attività si converte in intelligenza, ossia in facoltà creatrice. Per gradi, come dico, la forza si converte in intelligenza, ossia in facoltà creatrice (cit. in Marhaba 1981, p. 123).

Per Ardigò la «psicologia positiva» non costituiva soltanto un modo nuovo, empirico e oggettivo, di studiare i processi e i fenomeni psichici, ma rappresentava anche la base per la spiegazione dei prodotti della mente umana, culturali e sociali, studiati da quelle che Ardigò denominava «dottrine morali» e che in seguito sarebbero poi state definite «scienze dello spirito» e poi «scienze umane». Questo riduzionismo psicologistico, o psicologismo, sostenuto da altri psicologi italiani nei primi decenni del secolo successivo, avrebbe costituito l’oggetto di un vivace dibattito con i filosofi neoidealisti.

L’orientamento positivistico in psicologia ebbe due ramificazioni principali. La prima era costituita da studi di impronta evoluzionistica che mettevano in evidenza il ruolo del comportamento «intelligente» nell’adattamento degli animali all’ambiente, come nel libro di Tito Vignoli (1829-1914) Della legge fondamentale dell’intelligenza nel regno animale (1877). Altre ricerche furono rivolte alla relazione, nella specie umana, tra caratteristiche fisiche come la struttura del corpo, in particolare del cranio e della faccia, e il comportamento (l’area di ricerca denominata antropologia fisica, una disciplina che ebbe una notevole influenza – nella versione criminologica – anche sulla psichiatria italiana dell’epoca, come si noterà più avanti). L’integrazione più sistematica e originale tra biologia, fisiologia, antropologia fisica e psicologia nello studio della mente venne proposta da Giuseppe Sergi (1841-1936), professore di antropologia nell’Università di Roma dal 1883 al 1916, autore di numerose monografie tra cui i Principi di psicologia sulla base delle scienze sperimentali (1873).

La seconda era legata all’istituzione dei primi laboratori di psicologia sperimentale. Ardigò, nel 1876 a Padova, fu probabilmente il primo studioso italiano ad acquisire degli apparecchi per condurre esperimenti sulla sensazione e la percezione, e anche Sergi organizzò un laboratorio di psicologia a Roma nel 1889. Tuttavia le prime ricerche sperimentali di rilievo furono svolte da Gabriele Buccola (1854-1885) che, dopo essersi laureato in medicina nel 1879, lavorò dapprima nel Frenocomio di San Lazzaro a Reggio Emilia e poi nell’Istituto psichiatrico di Torino, seppure per pochi anni essendo egli morto giovanissimo. Il metodo impiegato da Buccola era basato sulla registrazione dei tempi di reazione durante l’esecuzione di compiti di percezione e discriminazione, associazione e categorizzazione. In base alle differenze nei tempi di reazione per i diversi tipi di compito, Buccola avanzò delle ipotesi su quale fosse l’organizzazione dei vari processi implicati (percezione, attenzione, memoria, giudizio ecc.). Un aspetto originale delle indagini di Buccola consisté nella comparazione dei tempi di reazione ottenuti in soggetti normali e in pazienti con disturbi psichiatrici al fine di determinare in modo oggettivo quali fossero i processi psichici alterati nelle varie sindromi considerate. I risultati ottenuti da Buccola furono discussi nel suo libro La legge del tempo nei fenomeni del pensiero. Saggio di psicologia sperimentale (1883), considerato il maggiore contributo della psicologia italiana della fine dell’Ottocento.

Il primo Novecento

Alla fine dell’Ottocento, la psicologia aveva conquistato in Europa e negli Stati Uniti una propria autonomia rispetto alla filosofia e alle scienze biomediche, sia sul fronte della ricerca e della didattica, con l’istituzione di numerosi laboratori e l’istituzione di cattedre universitarie per l’insegnamento della psicologia, sia su quello della diffusione delle conoscenze acquisite dalla nuova disciplina attraverso la pubblicazione di monografie e periodici specializzati. Bisogna arrivare ai primi anni del nuovo secolo per riscontrare in Italia un’analoga concretizzazione delle aspirazioni dei filosofi e degli scienziati positivisti alla fondazione di una psicologia scientifica. Un evento molto importante per la diffusione dell’idea di una psicologia autonoma fu nel 1905 lo svolgimento del V Congresso internazionale di psicologia a Roma, al quale parteciparono alcuni dei maggiori psicologi del tempo come William James. Sempre nel 1905 furono istituite le prime tre cattedre di psicologia nelle Università di Torino, Roma e Napoli, con il sostegno del neurologo e psichiatra Leonardo Bianchi (1848-1927), in quell’anno ministro della Pubblica istruzione, interessato alla ricerca psicologica sperimentale (La meccanica del cervello e la funzione dei lobi frontali, 1920). Nello stesso 1905 fu fondata la «Rivista di psicologia», il primo periodico italiano dedicato esclusivamente a temi psicologici. Il panorama della psicologia italiana che si delineò nei primi due decenni del Novecento, dopo questa svolta del 1905, può essere caratterizzato sotto due aspetti principali: la rivendicazione di uno statuto scientifico indipendente dalla filosofia e il tipo di settori di ricerca privilegiati.

La discussione tra psicologi e filosofi ebbe origine soprattutto nella prospettiva avanzata dai primi per cui la psicologia era una scienza propedeutica all’indagine filosofica, per es. nel tentativo di ridurre le forme a priori kantiane o lo sviluppo dello spirito nell’accezione hegeliana a strutture e meccanismi psichici. Questa impostazione psicologistica era sostenuta sia da psicologi di provenienza positivistica sia da psicologi che si erano avvicinati alle nuove correnti filosofiche, in particolare la fenomenologia. Su questo terreno ebbe origine la polemica avviata nel 1907, e a tratti molto accesa, tra lo psicologo Francesco De Sarlo (1864-1937) e il filosofo Benedetto Croce (1866-1952). De Sarlo, medico, aveva anche lui lavorato nel Frenocomio di Reggio Emilia, passando poi agli studi filosofici, fino a divenire nel 1900 il titolare della cattedra di filosofia teoretica all’Istituto di studi superiori di Firenze. Nel 1903 De Sarlo fondò il primo vero e proprio laboratorio di psicologia sperimentale e pubblicò la sua opera principale, I dati dell’esperienza psichica. La scuola fiorentina produsse ricerche di rilievo, illustrate nelle monografie La misura in psicologia sperimentale (1905) di Antonio Aliotta (1881-1964), Il problema psicologico del tempo (1929) di Enzo Bonaventura (1891-1948) e Psicologia e tecnica industriale (1942) di Alberto Marzi (1907-1983).

Per Croce e Giovanni Gentile – l’altro esponente principale dell’idealismo italiano – la psicologia aveva un ruolo conoscitivo subalterno rispetto alla filosofia, al pari delle altre scienze empiriche, e la pretesa di alcuni psicologi, precedentemente i positivisti e ora i fenomenologi alla De Sarlo, di affidare alla psicologia la soluzione dei tradizionali problemi della filosofia (per es., quelli della gnoseologia o dell’etica) rifletteva un’insufficiente consapevolezza teorica della complessità della tematica trattata. In base alla riforma della scuola del 1923 (la ‘riforma Gentile’), fu abolito l’insegnamento della psicologia nei licei. Sebbene Gentile mirasse alla eliminazione della psicologia come materia di studio inclusa, assieme alla logica e all’etica, nell’insegnamento liceale della filosofia, di fatto la riforma espresse il misconoscimento da parte della cultura idealistica della psicologia come scienza autonoma. Questa impostazione si ripercosse anche al livello universitario con l’istituzione di un numero limitatissimo di nuove cattedre di psicologia (nel 1925 le cattedre erano dieci, riducendosi a una sola nel 1945). Fu intorno a queste poche cattedre universitarie che si formarono dei gruppi di ricerca sperimentale che conseguirono risultati originali, spesso di livello internazionale: oltre al già menzionato gruppo di Firenze, vanno ricordati quelli attivi presso le Università statali di Torino, Padova, Roma e Napoli e presso l’Università cattolica di Milano.

A Torino, sotto la guida di Federico Kiesow (1858-1940), allievo di Wundt a Lipsia e poi vincitore della prima cattedra di psicologia nel 1905, si formò una scuola che si dedicò principalmente allo studio della sensazione e della percezione. Anche a Padova, le ricerche avviate da Vittorio Benussi (1878-1927) e poi proseguite dal suo allievo Cesare Ludovico Musatti, e successivamente dagli allievi di quest’ultimo, Gaetano Kanizsa (1913-1993) e Fabio Metelli (1907-1987), si concentrarono sui processi della percezione, ma in un’ottica teorica e metodologica innovativa. Benussi aveva conseguito il dottorato nel 1904 a Graz con il filosofo e psicologo Alexius von Meinong (1853- 1920), aderendo alla sua «teoria degli oggetti» (Gegenstandtheorie) relativa alle componenti sensoriali e percettive necessarie alla produzione dell’oggetto percepito. Dopo essersi trasferito a Padova nel 1919, Benussi cominciò a interessarsi di nuovi temi di ricerca, dall’ipnosi alla suggestione e alla psicoanalisi. Tra gli anni Venti e Trenta Musatti sviluppò le ricerche del maestro nel campo della percezione introducendo però i nuovi principi della «teoria della forma» (Gestalttheorie) che si stava affermando in quegli anni come una delle principali scuole psicologiche contemporanee (il saggio più importante di Musatti in questo ambito fu Forma e assimilazione del 1931). A Roma, l’indirizzo scientifico in psicologia fu rappresentato da Sante De Sanctis (1862-1935), che occupò la prima cattedra istituita nel 1905 fino al 1931 quando gli successe Mario Ponzo (1882-1960), già allievo di Kiesow. Neurologo e neuropsichiatra infantile di notevole spessore, autore di libri molto noti anche all’estero (I sogni, 1899; La mimica del pensiero, 1904; La conversione religiosa, 1924), De Sanctis scrisse anche un ampio trattato di Psicologia sperimentale (1929-1930).

A Napoli, la prima cattedra di psicologia istituita nel 1905 fu occupata dallo psichiatra Cesare Colucci (1865-1942) fino al 1937. Colucci, che dirigeva anche l’Ospedale psichiatrico provinciale di Napoli, si interessò di psicofisiologia e psicologia applicata.

Infine, un cenno particolare merita il Laboratorio di psicologia che Agostino Gemelli istituì nell’Università cattolica da lui fondata nel 1921 a Milano. Di formazione biologica, poi passato agli studi filosofici e psicologici, con una rigorosa esperienza scientifica maturata in vari laboratori europei, Gemelli formò un consistente nucleo di ricerca che – oltre a occuparsi dei processi psichici di base dalla percezione al pensiero e al linguaggio – svolse numerose indagini di psicologia sociale e psicologia del lavoro. Fu proprio grazie a tale espansione della ricerca psicologica a questioni di natura sociale che fu possibile garantire la sopravvivenza dei ristretti gruppi di psicologi esistenti negli anni Trenta e Quaranta. Nel 1939, per impulso di Gemelli, fu istituita presso il Consiglio nazionale delle ricerche una Commissione permanente per le applicazioni della psicologia che si trasformò un anno dopo nel Centro sperimentale di psicologia applicata. Le aree di applicazione erano la scuola, il lavoro, le forze armate e la comunicazione. Dal 1940 al 1952 il direttore del Centro fu Ferruccio Banissoni (1888-1952), allievo di De Sanctis. Il Centro divenne nel 1950 l’Istituto di psicologia del CNR che, diretto prima da Leandro Canestrelli (1908-1997) e poi da Luigi Meschieri (1919-1985), continuò sino agli ultimi anni Sessanta a occuparsi prevalentemente di psicologia applicata, per poi divenire – sotto la direzione di Raffaello Misiti (1925-1986) tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta – uno dei centri più avanzati per la ricerca di base sui processi cognitivi e il loro sviluppo.

Nel corso del primo Novecento la produzione scientifica fu documentata su tre principali riviste: la «Rivista di psicologia» fondata nel 1905 da Giulio Cesare Ferrari (1868-1932), direttore dell’ospedale psichiatrico di Imola e poi di quello di Bologna, autore di ricerche di psichiatria, psicodiagnostica e igiene mentale, noto per la sua traduzione italiana nel 1901 dei Principi di psicologia di William James; l’«Archivio italiano di psicologia» fondato nel 1920 da Kiesow e Gemelli; e l’«Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria» fondato nel 1939 da Gemelli.

La comunità degli psicologi italiani si organizzò nel 1911 nella Società italiana di psicologia, riunendosi periodicamente per presentare e discutere le ricerche in corso. I primi convegni della Società si tennero a Torino (1911), Roma (1913), Napoli (1922), Firenze (1923), Bologna (1927), Torino (1929) e Roma (1936).

Il secondo Novecento

Negli anni Cinquanta e Sessanta il panorama della psicologia italiana fu caratterizzato dalla istituzione di nuove cattedre universitarie e dall’organizzazione di varie iniziative per promuovere la disciplina. Dopo una lunga interruzione causata dalla situazione politica e bellica, nel 1951 si tenne a Roma il Convegno della Società italiana di psicologia inaugurando una serie periodica di incontri nazionali in cui cominciarono a manifestarsi nuovi interessi teorici e metodologici. Inoltre sorsero presso diverse case editrici (Astrolabio, Editrice Universitaria poi Giunti Barbèra ecc.) collane specializzate in testi psicologici, in buona parte traduzioni di psicologi stranieri.

Sul piano della ricerca di base, la percezione continuò a costituire l’oggetto di indagine privilegiato. L’orientamento di riferimento in questa sperimentazione fu la teoria della forma, rappresentata principalmente dagli psicologi (in particolare i già ricordati Kanizsa e Metelli) che insegnavano nelle Università di Padova e Trieste. Tuttavia furono proposte anche nuove teorie, il funzionalismo dell’indirizzo noto come New look e il transazionalismo, nelle quali erano messe in evidenza le componenti soggettive e ambientali intervenienti nella percezione. Gemelli sostenne, in una discussione con Kanizsa, che la percezione poteva essere un processo scomponibile in fasi distinte a differenza di quanto sosteneva la teoria della forma sul carattere «immediato» del fenomeno percettivo, mentre Renzo Canestrari (n. 1925), futuro professore all’Università di Bologna (sulla cattedra che vi fu istituita nel 1960), oppose la prospettiva gestaltista alle posizioni transazionaliste affermate da Angiola Massucco Costa (1902-2001), allieva di Kiesow a Torino.

Al di fuori della ricerca di laboratorio, un settore in forte espansione nello stesso periodo fu rappresentato dalla psicologia dello sviluppo. La teoria di Jean Piaget (1896-1980) dello sviluppo cognitivo del bambino, diffusa grazie all’opera di Guido Petter (1927-2011), professore all’Università di Padova, ebbe una larga applicazione in campo psicopedagogico. Nel settore della psicologia dello sviluppo altri contributi di rilievo furono dati da Marco Walter Battacchi (1930-2006) e Ada Fonzi (n. 1927). Invece la fase involutiva del funzionamento mentale fu indagata in particolare da Marcello Cesa Bianchi (n. 1926), allievo di Gemelli, e professore nella facoltà di Medicina dell’Università di Milano. Anche la psicologia della personalità, la psicologia sociale e la psicologia del lavoro furono aree di indagine di crescente interesse per gli psicologi italiani. Si ricordano in questi settori i lavori di Leonardo Ancona (1922-2008), Eraldo De Grada (n. 1925), Assunto Quadrio (n. 1929), Vincenzo (Enzo) Spaltro (n. 1929) e Augusto Palmonari (n. 1935).

Negli anni Settanta ebbe luogo una radicale trasformazione dell’assetto istituzionale della psicologia italiana. Nel 1971 furono istituiti i primi corsi di laurea in psicologia a Padova e a Roma. Vi si iscrissero subito migliaia di studenti dimostrando così che la psicologia rappresentava una disciplina che, autonomamente rispetto alla filosofia o alla medicina (le discipline dalle quali in genere erano provenuti sino allora gli psicologi, accademici e non), rispondeva alle domande conoscitive e professionali delle nuove generazioni. Se questo era un aspetto positivo per l’immagine pubblica della psicologia italiana, presto sorsero problemi che erano apparentemente solo organizzativi (aule sovraffollate e assenza di moderni laboratori per la didattica e la ricerca). Infatti le competenze necessarie per la formazione professionale di uno psicologo esperto soprattutto nei settori per i quali vi era la maggiore domanda degli studenti (in particolare, psicologia clinica e psicologia del lavoro) erano difficilmente reperibili tra gli psicologi che, pur operando egregiamente dal punto di vista professionale in questo settore, non avevano esperienza di didattica universitaria.

Inoltre, si venne a creare una situazione paradossale per cui i nuovi laureati in psicologia non vedevano riconosciuta e garantita la loro formazione rispetto ad altre categorie protette dai relativi albi e ordini professionali. Mentre, a partire dal 1985, si aprivano nuovi corsi di laurea in tutta la penisola, cominciò il lungo iter parlamentare per il riconoscimento della professione di psicologo praticabile solo da coloro che erano in possesso del diploma di laurea in psicologia. La legge, nota come legge Ossicini dal nome dello psicologo e senatore Adriano Ossicini (n. 1920) che la promosse, venne finalmente approvata nel 1989. Successivamente i corsi di laurea in psicologia si staccarono dalle facoltà nelle quali erano stati aperti (in genere le facoltà di Magistero) e si costituirono in facoltà autonome. La prima facoltà di Psicologia nacque a Roma nel 1991, seguita subito dopo dalla facoltà di Psicologia di Padova e in altre sedi.

Il principale effetto positivo che hanno avuto la nascita e le continue riorganizzazioni dei corsi di laurea in psicologia è stato quello di fissare un sistematico percorso formativo nei vari settori di indagine e applicazione, con la distinzione di materie psicologiche propedeutiche e avanzate e la presenza di insegnamenti nei campi delle scienze biomediche e delle scienze umane. Inoltre l’istituzione dei dottorati di psicologia a metà degli anni Ottanta permise l’acquisizione di alte competenze scientifiche e la realizzazione di studi e di ricerche di livello internazionale, spesso compiute in collaborazione con laboratori europei e statunitensi.

La nuova stagione della ricerca psicologica italiana si espresse anche nell’esigenza di dotare la comunità scientifica di un periodico specializzato. Nacque così l’«Italian journal of psychology» in lingua inglese per una maggiore diffusione dei contributi italiani. La rivista si divise in due serie, una in italiano e l’altra in inglese, per poi comparire dal 1979 solo nella serie italiana come «Giornale italiano di psicologia». Il «Giornale italiano di psicologia», oltre a ospitare lavori di ricerca originali, ha promosso da allora la discussione su molti nodi problematici della psicologia italiana (da argomenti teorici e metodologici a quelli della formazione e della professione).

A metà anni Settanta il cognitivismo si impose come l’orientamento teorico della generazione più giovane degli psicologi italiani. Il modello dell’«elaborazione umana dell’informazione» (human information processing) divenne il riferimento di numerose indagini sulla percezione, l’attenzione, la memoria, il pensiero e il linguaggio. La tecnica di laboratorio tipica di queste ricerche fu la registrazione dei tempi di reazione durante compiti eseguiti dal soggetto su materiale presentato dapprima nei tradizionali tachistoscopi e in seguito su schermi di calcolatori, con una programmazione elettronica dei compiti da eseguire. Il confronto tra la nuova corrente del cognitivismo e la tradizionale scuola gestaltista fu approfondito in due importanti convegni tenutisi a Roma nel 1975 e a Bologna nel 1987. Tra gli psicologi che innovarono l’impostazione gestaltista, pur rimanendo fedeli alla sua impostazione fenomenologica, vanno ricordati Gianfranco Minguzzi (1927-1987) e Paolo Bozzi (1930-2003).

L’impostazione cognitivista fu seguita anche nelle ricerche di neuropsicologia, lo studio degli effetti delle lesioni cerebrali sui processi psichici. Il nucleo originario dei neuropsicologi italiani si costituì negli anni Sessanta attorno al neurologo Ennio De Renzi (n. 1924), dal 1974 professore all’Università di Modena. Alla neuropsicologia cosiddetta clinica, relativa ai disturbi nei pazienti cerebrolesi, si affiancò la neuropsicologia sperimentale che si proponeva la verifica in soggetti normali dei meccanismi cerebrali alla base dei processi psichici. I principali risultati in questo ambito furono ottenuti, negli anni Settanta, sulla specializzazione funzionale dei due emisferi cerebrali nell’elaborazione di informazione verbale e visuospaziale. Gradualmente la neuropsicologia è confluita nell’ambito più vasto delle neuroscienze, in una prospettiva che ha incorporato progressivamente nel proprio ambito concettuale e metodologico le ricerche di psicologia generale sui processi cognitivi e le emozioni.

Negli ultimi due decenni del Novecento il dibattito sullo statuto epistemologico della psicologia è stato caratterizzato dall’attenzione posta alla psicologia discorsiva e alla psicologia culturale, aree nelle quali si mette in evidenza l’importanza del contesto socioculturale sulla strutturazione dei processi psichici, negando la possibilità di universalizzare i risultati delle indagini di laboratorio secondo l’originario progetto della psicologia scientifica originatasi alla fine dell’Ottocento. All’interno di questa prospettiva, l’autore di riferimento è stato lo psicologo russo Lev S. Vygotskij (1896-1934), la cui teoria storico-culturale dello sviluppo dei processi cognitivi ha influenzato anche le più recenti tendenze della psicologia dell’educazione.

La psichiatria

Per tutto l’Ottocento e la prima metà del Novecento, la psichiatria italiana ha seguito sostanzialmente un’impostazione organicistica, riassumibile nella famosa affermazione dello psichiatra tedesco Wilhelm Griesinger (1817-1869): le «malattie mentali sono malattie cerebrali». In questa prospettiva, lo studio del disturbo psichico era ricondotto all’indagine anatomopatologica (ricerca di specifiche alterazioni o lesioni del cervello associate alle diverse sindromi psicopatologiche). La psichiatria organistica italiana si era innestata in una solida tradizione di studi sul sistema nervoso, normale e patologico, che spaziavano dalla conduzione dell’impulso nervoso alle localizzazioni cerebrali a una varietà di sindromi neurologiche. Il premio Nobel per la fisiologia e medicina, assegnato nel 1906 a Camillo Golgi per i suoi lavori sulla struttura del tessuto nervoso, fu allo stesso tempo il riconoscimento del valore scientifico della scuola neurologica italiana.

Un principio che permetteva di spiegare la patologia mentale in termini neurologici e in senso più lato biologici fu quello di «degenerazione» esposto nelle opere dei neurologi francesi Bénédict Augustin Morel (1809-1873) e Valentin Magnan (1835-1916): la malattia mentale riscontrata in un paziente era il risultato di una degenerazione progressiva delle funzioni del sistema nervoso trasmesse per via ereditaria dalle generazioni precedenti. La teoria della degenerazione implicava quindi anche una concezione, detta atavismo, delle funzioni cerebrali e dei corrispondenti processi psichici, secondo la quale il comportamento psicopatico, aggressivo e violento, l’ipersessualità, le ridotte capacità intellettive e così via, avrebbero caratterizzato gli esseri umani dell’età preistorica. Allorché queste modalità di comportamento e attività intellettiva riaffioravano in un individuo dell’età moderna, si trattava quindi di un retaggio degli avi.

Questi principi furono ripresi in modo sistematico da Cesare Lombroso (1835-1909), professore di clinica delle malattie mentali a Pavia dal 1867 al 1896, poi professore a Torino dove insegnò medicina legale e antropologia criminale. L’interpretazione organicistica del comportamento deviante e delinquenziale metteva in discussione il concetto di responsabilità penale: se il criminale era di fatto un malato mentale, l’intervento doveva essere quello di un recupero fondato su cure mediche e sulla riabilitazione sociale all’interno di una istituzione psichiatrica (L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza e alla psichiatria, 1876).

La psichiatria italiana si costituì come comunità scientifica nel 1873 con la nascita della Società freniatrica italiana che perseguì con determinazione la triplice articolata finalità della disciplina: studiare il malato di mente (l’«alienato»), curarlo e garantire con il suo internamento che questi non fosse pericoloso fisicamente e socialmente. Tale scopo trovò la sua espressione più compiuta nella legge nr. 36 del 1904 relativa alle «Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati» e alle funzioni del manicomio. L’art. 1 stabiliva che

Debbono essere custodite nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché in manicomio (cit. in Babini 2009, p. 625).

Questo progetto di stampo positivistico, in cui si intrecciavano ideali scientifici, umanitari e sociali, si scontrò con la realtà socioeconomica dell’Italia postunitaria caratterizzata da penuria delle risorse economiche e inadeguatezza delle strutture manicomiali. Si trattava di problemi non meno impegnativi di quelli strettamente medici che si posero con la loro urgenza e gravità agli psichiatri italiani dei primi decenni del Novecento. L’impostazione continuò a essere quella organicistica, rappresentata nel maggiore manuale dell’epoca, il Trattato delle malattie mentali (1904; ed. successive in collaborazione con E. Lugaro), opera di Eugenio Tanzi (1856-1934), dal 1895 soprintendente del manicomio di San Salvi a Firenze.

Il principale manicomio, in cui la ricerca scientifica non fu disgiunta dalla cura e dalla riabilitazione del malato, fu il Frenocomio di San Lazzaro, già ricordato per le ricerche di psicologia sperimentale che vi furono condotte. Con la direzione di Carlo Livi (1823-1877) e in particolare di Augusto Tamburini (1848-1919), San Lazzaro divenne il modello di un’istituzione manicomiale concepita non solo come luogo di cura e custodia dei pazienti, ma come opportunità di formazione per i giovani psichiatri e la loro assimilazione di un approccio scientifico alla malattia mentale.

Nel 1875 Livi, con la collaborazione dei suoi assistenti Enrico Morselli (1852-1929) e Tamburini, fece nascere la «Rivista sperimentale di freniatria e di medicina legale in relazione con l’antropologia e le scienze giuridiche», divenuta subito la sede più accreditata per la pubblicazione delle ricerche di psichiatria. Mentre Tamburini, poi succeduto a Livi nella direzione del Frenocomio, restò fermo in una concezione organicistica dei disturbi psichici, Morselli, divenuto poi direttore del manicomio di Torino, dimostrò una più attenta considerazione del ruolo dei fattori psicologici sia nella genesi dei disturbi sia nella terapia (Manuale di semejotica delle malattie mentali, 2 voll., 1885-1894).

Nel 1885 era uscita la traduzione italiana del Compendio di psichiatria di Emil Kraepelin (1856-1926), futuro direttore della clinica psichiatrica di Monaco dal 1903 al 1926. A questa traduzione seguì anche quella dell’opera più estesa Trattato delle malattie mentali (2 voll., 1906-1907). Kraepelin aveva introdotto una classificazione delle malattie mentali che ebbe una notevole influenza sulla teoria e la prassi psichiatrica. Inoltre vari psichiatri italiani soggiornarono presso la clinica di Kraepelin e furono influenzati dal suo approccio clinico che ridimensionava fortemente il ruolo dei fattori anatomopatologici nella genesi dei disturbi mentali. Tuttavia, la posizione clinica di Morselli o dei cosiddetti kraepeliniani non divenne mai predominante nelle cliniche psichiatriche e nei manicomi, nei quali fino a oltre la metà del Novecento prevalse un approccio organicistico.

La priorità dei fattori organici o di quelli psicologici si era riproposta come un problema urgente che aveva serie implicazioni non solo mediche, ma anche militari in relazione ai numerosi casi di nevrosi di guerra che si verificarono durante il primo conflitto mondiale: al deperimento fisico e a disturbi organici si associavano allucinazioni, incubi notturni, stati depressivi, espressione catatonica e così via. Reparti psichiatrici, sotto il coordinamento di Tamburini, furono predisposti in varie zone del fronte e nella retrovia per curare i soldati che manifestavano tali sintomi e spesso chiedevano di non essere destinati di nuovo alle prime linee. Sebbene alcuni psichiatri, soprattutto coloro che ebbero l’esperienza diretta dell’orrore dei combattimenti in trincea, riconoscessero l’effetto traumatico della guerra, prevalse la tesi che le reazioni nevrotiche si manifestavano nei soldati che costituzionalmente vi erano predisposti (Gibelli 1991; Babini 2009, pp. 49-58).

La fiducia nell’approccio organicistico fu rinforzata dall’introduzione dell’elettroshock (consistente in una scarica di corrente alternata che, fatta passare tra due elettrodi applicati alle tempie, produce un accesso convulsivo epilettico) a opera di Ugo Cerletti (1877-1963) e Lucio Bini (1908-1964) nel 1938. Cerletti, dopo aver lavorato in importanti centri e laboratori tedeschi, era divenuto nel 1935 il direttore della Clinica delle malattie nervose e mentali di Roma. Questo tipo di intervento risultò più efficace e meno costoso di altre terapie di shock allora impiegate nel trattamento di gravi sindromi psichiatriche e fu presto adottato in tutto il mondo, fino al suo declino segnato negli anni Cinquanta dall’avvento delle terapie farmacologiche.

Nel 1932 la Società freniatrica italiana assunse il nome di Società italiana di psichiatria e nel 1933 gli insegnamenti di neurologia e psichiatria furono accorpati sotto il titolo di Clinica delle malattie nervose e mentali.

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta un settore della psichiatria organicistica, spinto anche da motivazioni ideologiche e politiche, cominciò ad aderire alla teoria pavloviana dell’attività nervosa superiore che in Unione Sovietica era stata proclamata come l’unica teoria delle basi cerebrali dei processi psichici compatibile con il materialismo dialettico, la dottrina filosofica ufficiale di quello stato. Il fisiologo russo Ivan P. Pavlov (1849-1936) aveva esteso i risultati delle sue ricerche sulla formazione dei riflessi condizionati alla spiegazione dell’origine dei disturbi psichiatrici, ideando anche situazioni di laboratorio in cui erano prodotte negli animali condizioni psicopatologiche (in particolare, le cosiddette nevrosi sperimentali) simili a quelle rilevate negli esseri umani. Tra i più noti esponenti di questo indirizzo pavloviano vi fu Carlo Lorenzo Cazzullo (1915-2010), che nel 1959 avrebbe occupato a Milano la prima cattedra di psichiatria attivata in Italia dopo la scissione dalla neurologia. Cazzullo avrebbe poi sviluppato un orientamento teorico e terapeutico più attento alle dimensioni relazionali. Meno noto, ma notevole per il rigore dell’informazione sulla psichiatria pavloviana, fu il libro di Ugo Marzuoli, Psiche e condizionamento. Problemi di psichiatria neurodinamica (1961). Il culmine del pavlovismo italiano fu raggiunto nel 1965 in occasione del XV Congresso internazionale della Società italiana di neurologia con l’organizzazione di un simposio dedicato al tema I riflessi condizionati, mentre già nel 1968 nel congresso del Collegio internazionale dell’attività nervosa superiore era presentato un modello di intervento terapeutico in cui alla rigida e riduttiva impostazione pavloviana subentrava la terapia del comportamento su tecniche di decondizionamento e desensibilizzazione, sviluppata dalla scuola inglese di Hans J. Eysenck (1916-1997) in una aggiornata versione della psichiatria organicistica, ora denominata psichiatria biologica.

Con fondamenti filosofici del tutto diversi e con un’impostazione teorica e terapeutica opposta a quanto era proposto dalla psichiatria biologica, si diffuse negli stessi anni l’indirizzo noto come analisi esistenziale o psichiatria fenomenologica. Il quadro di riferimento filosofico era costituito dalla fenomenologia e dall’esistenzialismo, dal pensiero dei filosofi Edmund Husserl (1859-1938) e Martin Heidegger (1889-1976), dello psichiatra e filosofo Karl Jaspers (1883-1969) e degli psichiatri Ludwig Binswanger (1881-1966) e Eugène Minkowski (1885-1972). Contraria al riduzionismo organicista, alla schematica classificazione delle malattie mentali e alla netta differenzazione tra normale e patologico, l’analisi esistenziale metteva in evidenza la centralità della persona nel suo specifico essere nel mondo (l’«esserci» di Heidegger), nella ricerca di un senso della propria esistenza anche lungo esiti considerati patologici dalla psichiatria tradizionale.

Un primo esempio di approccio fenomenologico, originale nella sua formulazione, ma che ebbe scarsa risonanza nell’ambiente psichiatrico italiano era già stato dato nei lavori di Giovanni Enrico Morselli (1900-1973), autore nel 1930 dell’articolo Sulla dissociazione mentale (nel quale era descritto il «caso Elena») apprezzato solo in tempi recenti. Per la conoscenza di questo orientamento nell’ambiente psichiatrico italiano fu fondamentale, nel 1966, la traduzione italiana di Psicopatologia generale (1913) di Karl Jaspers. I principali esponenti italiani della psichiatria fenomenologica sono stati Danilo Cargnello (1911-1998), autore del volume Alterità e alienità (1966) e Bruno Callieri (1923-2012), autore di Lineamenti di una psicologia fenomenologica (1972).

L’impostazione fenomenologica rappresentò anche lo sfondo teorico su cui Franco Basaglia (1924-1980) elaborò il suo progetto di rinnovamento delle pratiche terapeutiche della psichiatria, nell’esigenza prioritaria di riscattare la dimensione umana del paziente dall’emarginazione e esclusione personale, sociale e civile cui lo destinava il manicomio. Basaglia, divenuto direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia nel 1959, introdusse drasticamente una serie di provvedimenti (abolizione dei mezzi di contenzione, riqualificazione del personale medico e infermieristico, rapporti paritari tra il personale e i pazienti ecc.) finalizzati a quella che egli chiamò «la distruzione dell’ospedale come luogo di istituzionalizzazione» (titolo della relazione al I Congresso internazionale di psichiatria sociale, Londra 1964). Solo apparentemente il manicomio era finalizzato, nell’analisi basagliana, alla cura e riabilitazione del malato, ma di fatto ne aggravava – attraverso la segregazione e la coercizione – le condizioni patologiche fino al punto che era l’istituzione psichiatrica stessa a costruire la malattia nella sua forma compiuta. Nel 1969 Basaglia divenne direttore dell’ospedale psichiatrico di Parma, per poi passare nel 1971 a dirigere l’ospedale psichiatrico di Trieste. Basaglia poté allora concretizzare ulteriormente il suo progetto di un modello di comunità terapeutica, aperta al mondo esterno e coinvolgente direttamente la cittadinanza e le istituzioni pubbliche. Non si trattava solo di abbattere i cancelli e far uscire i «matti» dal manicomio, come fu spesso sintetizzata in modo riduttivo l’opera di Basaglia, ma di costruire un nuovo tessuto sociale e politico entro il quale restituire alla persona sofferente la sua dignità di persona. Allo stesso tempo era messo in evidenza che il manicomio, come altre istituzioni, assolveva alla funzione politica di controllo delle forme di devianza sociale e di contestazione del potere (siamo appunto negli anni della contestazione studentesca e delle lotte sindacali più incisive nella società italiana) configurandole come segni di sofferenza psichica piuttosto che di disagio sociale (l’esempio più netto di questo uso istituzionale della psichiatria in quegli anni fu l’uso repressivo dell’ospedalizzazione psichiatrica dei dissidenti politici in Unione Sovietica).

Per quanto Basaglia avesse tenuto presenti le iniziative di riforma psichiatrica avviate in Europa e negli Stati Uniti a partire dagli anni Cinquanta, la sua impostazione politica fu l’aspetto distintivo e caratterizzante. Basaglia espose le sue idee e illustrò i risultati conseguiti in numerosi articoli e libri, tra i quali L’istituzione negata (1968) e La maggioranza deviante (1971), scritto assieme alla moglie Franca Ongaro (1928-2005). La proposta basagliana si diffuse rapidamente, pur ostacolata dall’ambiente psichiatrico tradizionale, in varie altre strutture ospedaliere italiane, grazie anche alla costituzione nel 1973 di Psichiatria democratica, un gruppo di operatori psichiatrici che approfondì le problematiche teoriche e operative del rinnovamento della psichiatria manicomiale italiana. Tra gli esponenti di questo movimento vanno ricordati, anche per i loro contributi scientifici originali, lo psicologo Gianfranco Minguzzi (1927-1987), lo psichiatra Sergio Piro (1927-2009) e il neurologo Hrayr Terzian (1926-1989).

Negli anni Sessanta e Settanta l’esigenza di un cambiamento nelle concezioni della malattia mentale si espresse anche nel fiorire di una vasta serie di iniziative editoriali, tra cui quelle dovute a Pier Francesco Galli (n. 1931), come la nascita nel 1961 dell’importante collana Biblioteca di psichiatria e psicologia clinica presso l’editore Feltrinelli e nel 1967 della rivista «Psicoterapia e scienze umane».

Il movimento antipsichiatrico fu l’asse portante della battaglia per la formulazione e l’approvazione di una legge che modificasse radicalmente tutto il complesso istituzionale relativo al ricovero e alla cura dei pazienti affetti da disturbi psichici. Critiche e proteste all’istituzionalizzazione del paziente psichiatrico erano state mosse anche in ambito politico, a cominciare da una nota denuncia nel 1965 da parte del ministro socialista Luigi Mariotti sui manicomi come lager, sulla esigenza di «introdurre in questo mondo degli elementi che stabiliscano un rapporto nuovo tra malato e medico e tra società civile e individuo» (cit. in Babini 2009, p. 207). Il 10 maggio 1978 fu infine approvata la legge nr. 180 Accertamenti e trattamenti sanitari e obbligatori. Il relatore del disegno di legge proposto dalla Commissione della sanità fu lo psichiatra e deputato democristiano Bruno Orsini (n. 1929), ma la legge divenne nota come ‘legge Basaglia’ o per riconoscere la centralità dell’opera di questo psichiatra nel processo che l’aveva fatta realizzare o per connotarla negativamente, assimilandola ai movimenti di estrema contestazione politica allora in atto.

La legge, inserita pochi mesi dopo nel nuovo sistema del Servizio nazionale italiano introdotto nel quadro della riforma sanitaria varata alla fine del 1978, fu accolta con entusiasmo dalle forze progressiste del Paese e apprezzata all’estero dagli ambienti psichiatrici più avanzati. L’attuazione della legge incontrò presto seri ostacoli nella disponibilità politica e finanziaria del territorio a rispondere nei tempi dovuti al «graduale superamento degli ospedali psichiatrici o neuro-psichiatrici» (art. 64) e all’istituzione di «servizi a struttura dipartimentale che svolgono funzioni preventive, curative e riabilitative relative alla salute mentale» (art. 34). All’inerzia territoriale si associarono l’irrigidimento di alcune componenti del movimento antipsichiatrico in rivendicazioni velleitarie e l’assenza di un adeguato approfondimento teorico e metodologico degli sviluppi internazionali della psichiatria. Questi aspetti critici furono analizzati criticamente dallo psichiatra e psicologo Giovanni Jervis (1933-2009), che aveva aderito in una prima fase del suo percorso scientifico e professionale a quello stesso movimento (era stato collaboratore di Basaglia a Gorizia e poi direttore dell’Ospedale psichiatrico S. Lazzaro di Reggio Emilia) per poi distaccarsene, dedicandosi a un’indagine rigorosa dei nodi teorici problematici delle scienze della mente (Manuale di psichiatria, 1975; Il buon rieducatore, 1977; Fondamenti di psicologia dinamica, 1993).

Negli anni Ottanta cominciò a delinearsi un ritorno alla psichiatria di impianto organicistico, a una psichiatria biologica nella quale fossero valorizzati i risultati della biologia, delle neuroscienze e della farmacologia. Promotori di questo orientamento sono stati in particolare lo psichiatra e farmacologo Gian Luigi Gessa (n. 1932), lo psichiatra Paolo Pancheri (1938-2007) e lo psichiatra Giovanni Battista Cassano (n. 1936). Il Trattato italiano di psichiatria, curato da Pancheri e Cassano, offrì un panorama aggiornato dello stato delle conoscenze della psichiatria italiana alla fine del Novecento.

La classica impostazione organicistica è sempre stata meno marcata nelle ricerche sui disturbi psichici nell’infanzia e nell’adolescenza e nelle relative proposte terapeutiche e riabilitative. Il tratto caratteristico iniziale dell’area che sarebbe stata denominata neuropsichiatria infantile è stata l’attenzione prestata dal punto di vista assistenziale ed educativo a quella che era un tempo denominata infanzia anormale. In questa ottica nacque nel 1899 la Lega nazionale per la protezione dei bambini deficienti, che ebbe come sua sostenitrice Maria Montessori (1870-1952). Dopo aver lavorato nella Clinica psichiatrica di Roma sui bambini con grave ritardo mentale, la Montessori si dedicò alla fondazione di un nuovo metodo pedagogico che mise in pratica nella Casa dei bambini fondata nel quartiere emarginato di San Lorenzo a Roma nel 1907. Alla scuola romana di psichiatria si formarono anche Sante De Sanctis e Giuseppe Ferruccio Montesano (1868-1961). Già ricordato come studioso di psicologia, De Sanctis fondò nel 1899 gli Asili-scuola per l’assistenza e il recupero di bambini e adolescenti poveri, minorati o anormali psichici. Nel 1930, De Sanctis, lasciata la cattedra di psicologia, passò a quella di neuropsichiatria infantile, area alla quale aveva già dato notevoli contributi scientifici (Neuropsichiatria infantile, 1925). Montesano curò invece soprattutto il settore dell’educazione del recupero dei minorati psichici. Nel 1900 fondò la Scuola magistrale ortofrenica di Roma per la preparazione di insegnanti specializzati in questo settore.

Nel secondo Novecento la figura più rappresentativa della neuropsichiatria infantile italiana è stato Giovanni Bollea (1913-2011). Dopo aver lavorato con Cerletti e con Mario Gozzano (1898-1986), successore di quest’ultimo nella direzione della Clinica delle malattie nervose e mentali di Roma dal 1951, Bollea fondò nel 1948, assieme ad Adriano Ossicini, il primo Centro medico psicopedagogico caratterizzato da una impostazione multidisciplinare e dal lavoro di squadra di medici, psichiatri, psicologi e assistenti sociali. Nell’Istituto di neuropsichiatria infantile di Roma, Bollea formò un gruppo di psichiatri e psicoterapeuti aperti a tutti gli indirizzi più innovativi della ricerca e terapia nel campo dello sviluppo psicopatologico. La rivista «Infanzia anormale», fondata nel 1913, denominata «Neuropsichiatria infantile» nel 1969 e infine «Psichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza» nel 1984, è stata il principale periodico in questo settore per tutto il Novecento.

La psicoanalisi

L’introduzione e la diffusione della psicoanalisi in Italia sono state ostacolate da una serie di riserve di natura ideologica, in particolare a causa sia della centralità assegnata allo sviluppo psicosessuale nella formazione della personalità, sia dell’interpretazione, fondata su meccanismi inconsci e sulla dinamica delle pulsioni, di fenomeni artistici, sociali e politici (dalla creatività di Leonardo da Vinci alla genesi del fascismo). Questo atteggiamento critico nei confronti della psicoanalisi è stato espresso da parte delle principali componenti ideologiche che hanno orientato la cultura italiana del primo Novecento, in ambito cattolico, idealista e marxista. Solo intorno agli anni Sessanta la psicoanalisi (David 1966, 19903) e gli altri indirizzi da essa derivati (come la psicologia analitica; Carotenuto 1977) hanno suscitato un reale interesse, ma più nei settori della letteratura e del cinema che nell’area della ricerca psicologica e psichiatrica (Mecacci 1998). Dalla metà degli anni Settanta in poi, è maturato un processo di integrazione tra la psicoanalisi e le altre correnti teoriche e terapeutiche.

Nel 1908 comparvero le prime due esposizioni scritte da autori italiani della teoria freudiana. Gli autori furono lo psichiatra Gustavo Modena (1876-1958) con l’articolo Psicopatologia ed etiologia dei fenomeni psiconevrotici: contributo alla dottrina di Freud, pubblicato sulla «Rivista sperimentale di freniatria», e lo psichiatra Luigi Baroncini (1878-1939), assistente di Giulio Cesare Ferrari a Imola, con l’articolo Il fondamento e il meccanismo della psicoanalisi, pubblicato sulla «Rivista di psicologia». Il primo scritto di Sigmund Freud tradotto in italiano comparve nel 1912 nella rivista «Psiche», fondata dal medico Roberto G. Assagioli (1988-1974), seguito nel 1915 dal libro Sulla psicoanalisi. Cinque conferenze, primo volume della Biblioteca psichiatrica [poi psicoanalitica] italiana, fondata e diretta dallo psichiatra Marco Levi Bianchini (1875-1961), direttore del manicomio di Nocera Inferiore e poi dal 1925 di quello di Teramo e di nuovo a Nocera Inferiore dal 1931.

Nel 1925 Levi Bianchini fondò la Società italiana di psicoanalisi, di fatto divenuta operante solo nel 1932 grazie all’opera di Edoardo Weiss e altri psicoanalisti. La società fu riconosciuta dall’International psychoanalytical association nel 1936. Weiss fu l’esponente principale della psicoanalisi italiana fino a quando nel 1939 emigrò negli Stati Uniti a seguito delle leggi razziali dell’anno prima. Weiss si era laureato in medicina a Vienna nel 1914, ma era già entrato nella Società psicoanalitica viennese fin dal 1913, dopo essere stato in analisi con Paul Federn (1871-1950). Le principali opere di questo periodo furono gli Elementi di psicoanalisi (1931), con l’autorevole prefazione di Freud, e Agorafobia, isterismo d’angoscia (1936). Nel 1932 Weiss fondò anche la «Rivista di psicoanalisi», la cui pubblicazione però fu soppressa due anni dopo dalle autorità fasciste. Lo stesso destino fu subito dalla Società psicoanalitica disciolta nel 1938. Weiss aveva lavorato a Trieste fino al 1931, quando si trasferì a Roma dove, oltre a contribuire alla diffusione e allo sviluppo della psicoanalisi, con le iniziative della rivista e della Società, formò un piccolo, ma attivo gruppo di psicoanalisti, tra i quali Emilio Servadio (1904-1995) e Nicola Perrotti (1897-1970).

Un’altra componente del movimento psicoanalitico italiano fu costituita da Musatti e dagli psicoanalisti che si formarono con lui, soprattutto dopo il suo trasferimento a Milano nel primo dopoguerra. Musatti aveva derivato l’interesse per la psicoanalisi da Benussi e ne aveva trattato gli aspetti teorici nei corsi universitari tenuti a Padova tra il 1933 e il 1935. Questo materiale fu alla base del grande Trattato di psicoanalisi (2 voll., 1948) che uscì dopo la tragica parentesi della guerra e l’allontanamento dall’insegnamento universitario in ottemperanza alle leggi razziali. Un’esposizione sintetica ma completa della psicoanalisi era stata scritta anche da Bonaventura (La psicoanalisi, 1938), anche lui colpito dagli stessi provvedimenti che decimarono la comunità psicoanalitica italiana durante gli ultimi anni del fascismo.

Nel dopoguerra la ripresa della psicoanalisi fu rapida e dinamica. Nel 1948 nacque la rivista «Psiche», diretta da Perrotti, e nel 1955 la «Rivista di psicoanalisi», diretta da Musatti, e organo della Società psicoanalitica italiana ricostituitasi nel 1946 durante il I Congresso nazionale di psicoanalisi. Prese avvio anche una vasta attività editoriale con la traduzione di opere di Freud e dei principali esponenti della sua scuola. Gli editori più attivi furono Astrolabio di Roma, Einaudi e Boringhieri di Torino, Editrice Universitaria e Giunti Barbèra di Firenze. L’iniziativa più importante fu realizzata dalla Boringhieri negli anni Sessanta con l’avvio della traduzione delle opere complete di Freud e Carl Gustav Jung. Tra i contributi più importanti della psicoanalisi italiana tra gli anni Sessanta e Settanta vanno ricordati i lavori di Franco Fornari (1921-1985), allievo di Musatti, studioso della teoria di Melanie Klein (1882-1960), autore di opere molto diffuse (tra le quali La vita affettiva originaria del bambino, 1963; Psicoanalisi della guerra atomica, 1979; Coinema e icona, 1979); e quelli di Eugenio Gaddini (1916-1985), i cui lavori furono influenzati dalla teoria di Donald W. Winnicott (1896-1971). Nel quadro della cultura psicoanalitica italiana di quel periodo va incluso anche Ignacio Matte Blanco, psicoanalista cileno trasferitosi in Italia nel 1966, autore del libro L’inconscio come insiemi infiniti (1975), la cui proposta dell’esistenza di due logiche operanti nella psiche, una per le operazioni consce e l’altra per l’attività inconscia, suscitò un ampio dibattito anche in campo filosofico.

Negli anni Sessanta la diffusione della psicoanalisi nella cultura italiana, ma anche nell’opinione pubblica (tanto da identificare spesso lo psicologo con lo psicoanalista) fu favorita dalla letteratura e dal cinema che ricorsero ai suoi principi per rappresentare e interpretare la realtà psichica di donne e uomini tormentati da uno stato di angoscia e depressione, da ciò che Cesare Pavese aveva denominato le «malattie dell’anima». Nella letteratura spiccarono i romanzi di Alberto Moravia, La noia (1960), di Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore (pubblicato su rivista tra il 1939 e il 1941; ma riedito in volume nel 1963), di Giuseppe Berto, Il male oscuro (1964), di Ottiero Ottieri, L’irrealtà quotidiana (1966). Nel cinema la traduzione più netta di tale rappresentazione dell’esistenza umana fu resa nei film di Michelangelo Antonioni. Anche nell’opera cinematografica di Federico Fellini fu esplicita l’assimilazione della psicologia del profondo, ma nella versione junghiana derivata dall’assidua frequentazione del regista con Ernst Bernhard (1896-1965). Studioso di origine tedesca, trasferitosi a Roma nel 1936, Bernhard fu il caposcuola dello junghismo italiano. Nel 1962 fondò l’Associazione italiana di psicologia analitica. Per la diffusione della teoria di Jung fu molto importante anche l’opera di Roberto (Bobi) Bazlen (1902-1965), che era stato in analisi da Weiss. Bernhard e Bazlen furono gli ideatori della collana Psiche e coscienza della casa editrice Astrolabio di Roma, nella quale furono pubblicate molte opere di psicoanalisi (il primo volume fu un libro di Jung). Tra gli esponenti della psicologia analitica italiana vanno ricordati in particolare Mario Trevi (1924-2011), dedicatosi a una revisione dei fondamenti teorici di questo orientamento (Per uno junghismo critico, 1987), e Aldo Carotenuto (1933-2004), autore di numerose opere tra le quali ebbe risonanza internazionale il suo studio storico sulla relazione tra Jung e Sabina Spielrein (Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Freud e Jung, 1980).

Nell’ultimo decennio del secolo la psicoanalisi italiana ha affrontato in modo sistematico il problema dello statuto epistemologico dei propri principi teorici e della efficacia della loro applicazione terapeutica, anche all’interno di un confronto e una integrazione con le nuove acquisizioni scientifiche delle neuroscienze sul funzionamento della mente umana.

Opere

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