DIONIGI Areopagita, Pseudo

Enciclopedia Italiana (1931)

DIONIGI Areopagita, Pseudo

Giuseppe Saitta

Gli scritti che vanno sotto il nome di Dionigi Areopagita, primo vescovo di Atene e discepolo di S. Paolo, a cui si accenna negli Atti (XVII, 34), dal Rinascimento in poi hanno dato luogo a laboriose discussioni. Essi sono ricordati la prima volta verso il 532 da Innocenzo, vescovo di Maronia, ma in occasione della grande conferenza religiosa tenutasi a Costantinopoli (533) per appianare la lotta fra ortodossi e severiani si cominciò a dubitare della loro autenticità per opera di Ipazio di Efeso. Invece papa Martino I li difese strenuamente come autentici e li introdusse in Occidente, e la loro fama si diffuse così rapidamente e stabilmente che specialmente per il commento che ne fece Massimo il Confessore, non si dubitò affatto, per tutto il Medioevo, del loro carattere apocrifo. Attribuiti a Dionigi sono i quattro trattati: De divinis nominibus, De theologia mystica, De caelesti hierarchia, De ecclesiastica hierarchia, e inoltre dieci lettere.

L'Erdmann (Gesch. d. Philos., I, p. 235) avanzò l'ipotesi che gli scritti dello pseudo Dionigi siano da attribuire a un Sinesio, cristiano, ma educato nella scuola di Proclo. Secondo l'Ueberweg essi furono composti verso la fine del sec. V, perché contengono espressioni adoperate nel Concilio di Calcedonia (451) e nell'Henotikon dell'imperatore Zenone promulgato nel 483. Maggior ampiezza di ricerche rigorosamente scientifiche dimostrano i lavori di H. Koch e J. Stiglmayr, i quali hanno esaurientemente dimostrato che gli scritti pseudo-areopagitici furono composti in Siria verso l'anno 500 e dipendono in gran parte dal neoplatonico Proclo. Difatti il pseudo Dionigi distingue una teologia affermativa (καταϕατική), la quale da Dio discende alle cose finite, e una teologia negativa (ἀποϕατική), che, mediante un processo di negazioni, dalle cose finite sale a Dio. Così l'uomo sciolto e libero da tutte le cose di quaggiù entra in quella caligine veramente mistica dell'inconoscibilità, dove egli fuori di ogni apprensione scientifica non esiste più per sé, ma aderisce assolutamente a colui che è al di sopra di tutto (De myst. theol., I, 3). Di qui l'esaltazione dell'ignoranza mistica come la più alta conoscenza che si possa avere di Dio. Per comprendere quindi Dio occorre prescindere da tutte le determinazioni positive e negative: solo a questa condizione Dio ci si può svelare come l'Essere in sé e si può realizzare la divinizzazione dell'uomo. Questa deificazione, per la quale la creatura ritorna al suo principio, a cui tende, non è propria soltanto dell'uomo, ma di ogni essere: ed è una mistica la quale ha un fondo naturalistico e non è dissimile da quella di Proclo. Il simbolismo e l'allegorismo in cui l'Areopagita si avvolge, come anche le dottrine sugli stati e le vie mistiche, sulla preghiera e sull'estasi, ricordano sempre quelli dei mistici alessandrini, sebbene a colorire cristianamente il suo neo-platonismo egli parli continuamente della grazia. Ma la caratteristica fondamentale del pensiero dell'Areopagita si rileva dalla sua opera più importante, che è quella sui Nomi divini. Qui cerca di dimostrare che non è possibile la conoscenza delle scienze spirituali, e tanto meno di Dio, movendo dalle cose sensibili. La dottrina su Dio è da ricercare nella Scrittura, la quale, peraltro, ci fornisce una conoscenza di Dio che si adatta soltanto alla nostra capacità intellettuale. Ma Dio in sé stesso è imperscrutabile, tanto vero che a Lui possono convenire tutti i nomi e nessun nome. La divinità è dunque superiore a tutto, ed essa non è solo unità (monade) ma anche trinità (triade), ma non può essere da noi conosciuta, perché le stesse categorie di unità e trinità non sono capaci di esprimerla: Dio è il sopraente, il sopraunificante, il sopraessenziale. Nessuna monade o triade, nessun numero, nessuna unità, nessuna esistenza può adeguare in qualche modo l'ineffabile natura di Dio.

In tal modo, la trascendenza di Dio è posta in grande rilievo, né a turbarla influisce ciò che egli dice sulla Trinità, nella quale da un lato sono gli attributi essenziali, che convengono a tutte e tre le divine persone, la cui natura è una e identica, dall'altro le emanazioni ad extra, che sono vere e proprie distinzioni, e come tali hanno un significato cristiano più che neoplatonico. Né soltanto la trascendenza, ma anche l'unità di Dio è riaffermata vigorosamente sulle tracce neoplatoniche. Dio è assolutamente perfetto e come tale non è suscettibile di aumento o di diminuizione, giacché la perfezione arguisce l'unità, la quale spiega tutto, tutto partecipando dell'uno. Ma l'uno che è Dio, causa di tutte le cose, è anteriore a ogni uno e a ogni molteplicità, anzi definisce ogni uno e molteplice: senza l'uno non vi è molteplicità, ma senza la molteplicità può esistere l'uno (De div. nom., XIII, 2). Questo motivo dell'uno come causa trascendente di tutte le cose ricorre tanto spesso nel pensiero dell'Areopagita da porre quasi nella penombra il concetto trinitario di Dio. A volte si è indotti a ritenere che la dottrina cristiana sia in lui un semplice appicco per l'esposizione di teorie neoplatoniche. Così è naturale che la raffigurazione che egli ci offre di Dio non sia dissimile da quella di Proclo. Il primo attributo di Dio, affatto essenziale e originario, è la bontà. Da essa derivano gli ordini e le funzioni degli angeli, le anime e le loro facoltà e anche le cose animate e inanimate, in un sistema gerarchico degli esseri, che ha avuto un'enorme efficacia nella determinazione di taluni dogmi cattolici. La creazione divina è racchiusa dentro i limiti di una gerarchia fantasticamente architettata, ma dentro cui è però visibile il distendersi dell'unico principio divino, che contiene in sé tutti gli esseri. Giacché il fine della gerarchia propriamente consiste nell'assimilazione e nella congiunzione, per quanto è possibile, con Dio (De cael. hier., III, 2). Gesù è al centro di questa deificazione, perché è posto in mezzo fra Dio trascendente e gli altri esseri. Le gerarchie, che costituiscono gli ordini degli esseri superiori all'uomo, sono distribuite in tre gruppi: Troni, Cherubini, Serafini; Signorie, Potenze, Autorità; Principati, Arcangeli, Angeli. Alla gerarchia celeste, di cui si tratta nell'opera De caelesti hierarchia, corrisponde la gerarchia ecclesiastica, che forma argomento dell'altra opera De ecclesiastica hierarchia, e che è costituita dalla Chiesa fondata da Gesù. Per attuare l'unione con Dio bisogna attraversare tre stadî: la purificazione, l'illuminazione e la consumazione, che sono simboleggiate nelle funzioni del diacono, del presbitero e del vescovo. Le due prime sono di natura intellettuale, la terza invece è l'estasi in cui al di là del senso e della ragione l'uomo entra nell'oscurità mistica (ἀγνωσία), che, come sappiamo, è la deificazione. Ma per mostrare tutta la sublimità dell'estasi, che è il termine ultimo a cui mira l'Areopagita, egli sente il bisogno di definire la sua teodicea.

Tutti gli esseri non sono che effusioni della bontà divina, come la luce è un'effusione del sole che è un'immagine della divina bontà (De div. nom., IV, 1-4). Ma Dio non è soltanto bontà: ha anche altri attributi, come la bellezza e l'amore. Per la bontà e la bellezza tutte le cose si conservano: perciò l'una e l'altra sono desiderabili e amabili da tutti gli esseri, e per esse ogni essere ama e conserva sé e gli altri. Ora se è così di tutti gli esseri, a maggior ragione è di colui che è la causa di tutte le cose e che per l'eccellenza della sua bontà ama tutto, fa tutto, perfeziona tutto, contiene tutto, e converte tutto a sé (De div. nom., IV, 10). Qui è delineato il processo dell'amore divino come un processo ciclico che l'Areopagita mutua da Proclo. Difatti l'amore divino è forza motrice, manifestazione di sé e conversione a sé, vale a dire un circolo sempiterno, che per il bene, dal bene, nel bene e al bene movendosi con conversione indeclinabile in esso e secondo esso procede sempre e permane e ritorna (De div. nom., IV, 14). In tal modo è ovvio che l'Areopagita sotto il nome di bene rappresenti la totalità dell'emanazione divina come causa di tutte le cose. E però Dio non contiene soltanto in sé tutte le immagini delle cose esistenti, cioè le idee che la Scrittura chiama προορισμούς, ma è in grado eminente il bene, che abbraccia tutto e si estende a tutto, all'essere e al non essere, perché è superiore a entrambi. Ecco perché l'Areopagita esalta continuamente la bontà e l'"essenza sopraessenziale della sopraessenziale divinità", e la vita e la sapienza divina che è sopra ogni bontà e divinità ed essenza e sapienza e vita (De div. nom., V, 2), ma confessa a un tempo di non poter svelare il fitto e sacro mistero che circonda Dio. Pure, posto il concetto che Dio è tutto e abbraccia tutto e che la sua vera essenza s'esprime nel Bene, il quale per natura sua è diffusivo, l'Areopagita doveva arrivare alla conclusione assai notevole che in Dio sono uniti anche tutti i contrarî (ibid., V, 7). Di qui facilmente deriva la nuova soluzione che egli dà del problema del male. Se Dio è tutto bene, e come tale abbraccia tutto, il male in quanto male non esiste. L'Areopagita approfondisce il concetto della negatività del male, già messo in giusta luce dalla patristica, osservando fra l'altro che la stessa cosa non può essere buona e cattiva né la medesima potenza può essere sotto lo stesso rispetto corruzione e generazione. Sicché "tutte le cose, in quanto sono, sono bene e dal bene; in quanto sono prive del bene, non sono bene, né esistono" (ibid., Iv, 20). Dunque il male non si può dire che sia nelle cose o nella materia prima o nel corpo umano: la sua realtà, se di realtà si può parlare, è nella nostra volontà, la quale accidentalmente opera il male, ma in grazia del bene, cioè con la coscienza di compiere una cosa giusta (ibid., IV, 32). Questa conclusione profonda chiarisce la soluzione di altri problemi teologici sulla provvidenza divina e sulla malvagità dei demoni. Dio conosce il male come difetto del bene o bene difettoso, e i demoni non sono cattivi per natura, ma sono cattivi per quello che non sono (De divin. nom., IV, 19, e 23). Pure il bene, come lo stesso Dio, nell'Areopagita è un bene intellettualizzato. Onde il suo misticismo, come presso i Greci, più che sul sentimento o sull'immediato, si fonda sull'intelletto. Difatti l'amore per Dio è destato dalla contemplazione delle perfezioni di Dio.

L'influsso dell'Areopagita è stato grandissimo non solo su Giov. Eriugena e sui mistici medievali ma anche sulla scolastica e perfino su S. Tommaso e sui tomisti, come può rilevarsi dai numerosi commentarî che furono scritti sulle opere di lui da Ugo da S. Vittore, Roberto Grossatesta, Alberto Magno, Tommaso d'Aquino, Dionigi il Certosino, e dalle traduzioni che ne furono fatte dall'Eriugena fino al Ficino.

Delle opere dell'A. v. l'edizione del Corderius, riprodotta dal Migne nei volumi III-IV della Patrologia graeca.

Bibl.: H. Koch, Pseudo-Dionysius Areopagita in seinen Beziehungen zum Neuplatonismus und Mysterienwesen, Magonza 1900; J. Stilgmayr, Das Aufkommen der pseudo-dionysischen Schriften und ihr Eindringen in die christliche Literatur bis zum Laterankonzil 649, Feldkirch 1895; E. Krüger, Wer war Pseudo-Dionysius? in Byz. Zeitschr., VIII (1899), pp. 302-305; M. Grabmann, Ps.-Dionysius Aeropagita in lateinischen Übersetzungen des Mittelalt., in Festgabe für A. Erhard, 1922, pp. 180-199; O. Siebert, Die Metaphysik u. Ethik d. Pseudo-Dionysius Aerop., Jena 1894. Per una più ampia bibl. cfr. Ueberweg, Grundriss d. Gsch. d. phil., 11ª ed., Berlino, 1928, pp. 667-668.

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