PROVERBIO

Enciclopedia Italiana (1935)

PROVERBIO (dal lat., secondo alcuni, probatum verbum, secondo āltri pro e verbum; ted. Sprichwort)

Raffaele CORSO
Camillo CESSI

Sotto questo nome si comprendono comunemente detti di varia forma e origine, come massime, sentenze, modi di dire e perfino parabole ed enigmi (cfr. l'ebraico mašal); ma il proverbio è propriamente una locuzione popolare che formula un pensiero o un avvertimento come risultato dell'esperienza.

Elaborati nel lungo corso dell'esperienza collettiva, i proverbî hanno forma breve e concettosa, che risponde al bisogno di conservare e tramandare i precetti e gli avvertimenti degli antichi, di cui i proverbî spesso invocano l'autorità. In quanto alla brevità, il proverbio può variare dal semplice binomio alle preposizioni agglomerate in due o più versi (proverbî bimembri, trimembri, ecc.). Rari sono i proverbî lunghi (alcuni contano fino a 35 versi), noti col nome di litanie proverbiali; ma essi sono quasi sempre la combinazione di più motti alquanto omogenei nel contenuto o nella forma. Sebbene in molti casi siano aritmici, pure i proverbî tendono generalmente ad assumere forma metrica, ricorrendo anche alla rima o all'assonanza, all'allitterazione, ecc.

Etnografia. - Per i primitivi, i proverbî rappresentano il mezzo più facile e idoneo per fissare i precetti tradizionali, che passano in siffatta maniera di generazione in generazione. Come tali, mentre partecipano, per la forma ritmica e per il linguaggio figurato, dei caratteri del canto, si vedono associati a tutte le manifestazioni della vita collettiva, in quanto compendiano tabu, formule di magia e d'incantesimo, avvertimenti per la caccia, la pesca, l'agricoltura, consuetudini religiose e giuridiche.

Molti proverbî contengono verità banali; altri sono di carattere criptico; altri servono a richiamare alla memoria avvenimenti e racconti. Quest'ultima categoria (proverbî-conti, proverbî-storie, proverbî-novelle) è molto diffusa nelle società inferiori, tra cui l'affabulazione è considerata dai paremiologi come la forma tipica, specialmente quando gli adagi hanno carattere didascalico ed educativo. Molti sono i detti che riescono per noi inintelligibili perché compendiano fatti, aneddoti e racconti che ignoriamo.

Presso gli Ewe della Costa d'Oro il proverbio: "se va dal padre, ha finito di andar dalla madre" compendia la norma per cui, in regime poliginico (vedi matrimonio), i figli quando raggiungono tale sviluppo fisico da potersi recare dalla casa materna alla paterna, passano a convivere col padre. Per i Tuāreg sahariani l'adagio: "il ventre tiene il figlio", enuncia un'importante disposizione di diritto consuetudinario, secondo cui il figlio segue la condizione della madre o della genealogia materna. Nel Tigrè si dice "al figlio l'eredità, alla figlia la dote": e infatti le figlie hanno diritto alla sola dote, mentre l'eredità è devoluta ai maschi. Tra i Malesi del Minang-Kabau, per avvisare sulle conseguenze che colpiscono chi non ha i mezzi per pagare la composizione prevista dalle loro costumanze penali, si dice: "se si ha oro, si resta vivi; se non si ha oro, bisogna morire".

Talvolta accanto al proverbio affabulativo (compendio del racconto), esiste quello che dal racconto deriva, e ne costituisce la formula etica. Nel Madagascar il proverbio comparisce di solito alla fine della narrazione, quasi "morale della favola" (per es.: "ciascuno ha la ricompensa o la punizione che merita"); così pure nei racconti della Somalia (per es.: "chi scava la fossa per il fratello, vi cade").

Frequenti i motti di dileggio o di scherno fra tribù e tribù, villaggio e villaggio, simili a quelli del nostro "blasone popolare" (v. sotto, e blasone: Blasone popolare). Un motto dei Ruratonga chiama mangiatori di topi i Mangaia dell'Arcipelago Cook, perché ritenuti colpevoli della violazione di un tabu alimentare. Gli abitanti dell'India meridionale dicono proverbialmente, a chi opera da sciocco: "ha fatto come un Karavan, che mangia assa fetida quando la moglie sgrava", volendo significare che presso questo popolo, il rimedio, anziché alla puerpera, è somministrato al marito.

Riflessi degli usi e delle costumanze, delle idee e delle credenze relative agli esseri naturali e soprannaturali, ai feticci, alla magia, ecc., i proverbî hanno presso i primitivi importanza maggiore di quella che hanno nelle società evolute, per quanto si ritenga che raramente menzionino divini personaggi e significhino materie religiose. In quanto alla forma, essi partecipano del carattere dei proverbî dei popoli civili (v. appresso), per il linguaggio figurato, le cadenze ritmiche, la rima, l'assonanza, l'allitterazione e per altri elementi. Comunissimi i paragoni, che rispondono a un bisogno della mentalità inferiore, la quale nel ragionamento si appoggia a fatti concreti, per meglio rendere, con immagini sensibili, la verità d'un fatto o d'una idea.

Per es., un proverbio abissino, per indicare l'indispensabilità del garante nelle contrattazioni, ricorre al paragone con la pastoia senza la quale il pastore non può mungere il latte ("chi non ha il garante, la questione è perduta; chi non ha la pastoia, il latte è versato"). Un altro, a indicare l'imparzialità del giudice, si serve dell'immagine del pilastro ("il pilastro sta nel mezzo, il giudice dev'essere comune").

Oriente. - La grandissima fortuna che la letteratura sapienziale ha avuto in tutto l'antico Oriente si riflette in quel genere di essa che è il proverbio. Tuttavia le caratteristiche per cui si suole distinguerlo dalla sentenza (γνώμη), e cioè la sua concisione e la sua origine e diffusione schiettamente popolari fanno sì che non si possano ricordare qui come appartenenti alla vera e propria paremiografia le copiose opere e parti di opere sentenziose così abbondanti in tutte le letterature orientali, dagli egiziani "Insegnamenti di Amenemiope" alle sentenze indiane del Pañcatantra e alle gnome pansemitiche di Ahīqar. Elementi di veri proverbî possiamo piuttosto additare, accanto alle sentenze, nei mišle ebraici, di cui ci dà un cospicuo esempio il libro biblico detto appunto dei Proverbî e, in epoca postbiblica, il Talmūd, la Mišnah (trattato dei Pirqē Ābōth). L'altro popolo di lingua semitica presso cui il proverbio ha avuto singolare fortuna è l'arabo, presso il quale già in epoca preislamica si spiegò ricchissima l'attitudine alla stringata osservazione sentenziosa, in genere sotto forma di comparazione con la vita della natura e degli animali e spesso anche in relazione a fatti della vita beduina, a leggende e aneddoti locali che ebbero ben presto bisogno di esplicazione; donde il lavoro dei dotti d'epoca musulmana (al-Mufaḍḍal ibn Salamah, Hamzah al Jsfahānī, al-‛Askarī e il sistematore della paremiografia araba al-Maidānī) per raccogliere e commentare in opere importantissime per la lingua, il folklore e le antichità arabe, questo enorme materiale letterario.

Grecia e Roma. - Anche presso i Greci ebbe largo sviluppo la letteratura proverbiale sia popolare sia dotta; le sentenze, affini nel loro vario contenuto a quelle che si trovano presso tutti gli altri popoli, in genere brevi e facili a ricordarsi e di pratica e diretta applicazione, sono anche qui spesso rivestite della forma poetica (in generale nel verso detto appunto paremiaco: dimetro anapestico catalettico). Il popolo ne usò nella propria vita giornaliera; gli artisti le ridussero a forme d'arte. Continuo, vivo fu lo scambio fra l'opera anonima del popolo e quella degli artisti e pensatori. Tracce di formule proverbiali si trovano già in Omero: se ne serve di frequente Esiodo (Opere e giorni) tanto che a lui furono attribuiti anche i Precetti di Chirone, antichissime formule mediche morali. Ai famosi sette sapienti il popolo ellenico fa risalire le più antiche norme proverbiali della vita civile, facendole sancire anche dall'autorità religiosa degli oracoli. Fioriscono i proverbî sulla bocca del popolo a scherno o a lode delle città o stirpi avversarie o amiche. Ornano i canti dei poeti lirici, elegiaci (gnomici e filosofici), bucolici (Teocrito), i dialoghi tragici, le invettive comiche.

Anche i Romani ebbero i loro proverbî popolari di cui si trovano tracce presso quasi tutti gli scrittori e in qualche precetto georgico o medicale; ma essi non fecero sentire con altrettanta forza che in Grecia il loro influsso sulla letteratura dotta, benché molti proverbî popolari si debbano trovare di certo nelle Sentenze di Publilio Siro, così come si risentono nelle commedie di Plauto e di Terenzio.

Medioevo ed età moderna. - La popolarità è si può dire l'essenza stessa del proverbio. Ma essa è a sua volta strettamente congiunta alla tradizione, onde il proverbio s'identifica con la voce degli antiquiores homines, e dei vecchi. Da qui l'appellativo popolare di "detti" o "motti dell'antico" e la formula "così dice l'antico" (o anche "così dice il contadino") che ne rafforza l'autorità, ed è posta talora all'inizio del proverbio, talora alla fine, o anche al mezzo. Talvolta il vecchio, l'antico, il sapiente viene indicato con un nome storico, leggendario o simbolico (Salomone, Marcolfo, Marco Catone, ecc., nei proverbî medievali). Si è notata la tendenza generale dei proverbî ad assumere andamento ritmico. Negli adagi latini medievali prevale, tanto da potersi ritenere caratteristico, l'esametro leonino: "Auri natura, non sunt splendentia pura. - Quod male lucratur, male perditur et nihilatur". Nei proverbî popolari moderni l'uso dei. metri procede irregolarmente.

I proverbî ritmici sono ora monometri, ora polimetri; e in questo caso le fogge più disparate e diverse vanno insieme. Come il metro, anche la rima è a servizio della memoria, a meglio imprimere nella mente la formula che contiene o enuncia l'avvertimento. E la rima non sempre è un elemento originario, cioè nata col proverbio, perché in molti casi perviene a essa il popolo gradualmente, sotto l'influsso di circostanze diverse, per quel desiderio che esso ha di vivificare i suoi motti o quelli che fa suoi. Così si spiega perché alcuni adagi privi di rima presso un popolo, passando in un altro, se ne adornano, come il tedesco: "Die Toten haben immer Unrecht", che ulteriormente comparisce rimato nella Francia e nell'Italia: "Les morts ont toujours tort"; "Il morto ha sempre torto". Così pure si spiega perché vecchie, prosaiche formule entrando a fare parte del patrimonio del volgo e delle sue tradizioni, si riplasmano, acquistando forma ritmica e rimata, come nel caso dell'espressione: "Fortis ut mors dilectio", che allorquando si trasforma in proverbio, suona: "Amour et mort rien n'est plus fort". Come si vede, la rima può essere finale, ma di frequente è interna. Lo stesso accade dell'assonanza, in cui spesso si estrinseca la tendenza alla rima. I proverbî assonanti sono comunissimi nei paesi di lingue neolatine ma anche in quelli germanici. Accompagna l'assonanza, o la sostituisce, l'allitterazione, cioè l'uso di ripetere una o più lettere iniziali della prima sillaba come richiamo o legame mnemonico della sillaba che segue (donna, danno - sposa, spesa - moglie, meglio). Si è creduto che l'allitterazione fosse una caratteristica dei proverbî tedeschi e specialmente di quelli antichi; ma invero le forme allitterative ricorrono negli adagi popolari di diversi paesi, dove più, dove meno, senza costituire la peculiarità di alcuno.

La popolarità del proverbio si desume inoltre dal linguaggio, che procede di figura in figura, attingendo immagini e colori alla vita naturale nelle sue molteplici manifestazioni. Fra le figure, la metafora, che diviene talvolta una vera e propria allegoria, ricorre con maggiore frequenza, onde un proverbio comparisce spesso con due significati, l'uno letterale e l'altro traslato ("Aquila non capit muscas"). L'idea che l'uomo tentando imprese pericolose finisce una volta o l'altra con l'incappare in disgrazie, è espressa proverbialmente in maniera diversa, pur essendo uno solo il pensiero. Ora è la mosca attratta dall'odor del miele; ora è la gatta attratta dal lardo; ora è la secchia che discende nel pozzo e che "rilascia il manico e l'orecchia".

Tenendo conto dell'elemento morfologico, "stile", e di quello psicologico, "contenuto", i proverbî possono essere ripartiti in nove classi, cioè: 1. proverbî-enigmi; 2. proverbî-conti o novelle; 3. proverbî-canti; 4. proverbî-epigrammi; 5. proverbî dialogati; 6. proverbî-blasoni; 7. proverbî profetici; 8. proverbî antitetici 9. proverbî-canoni.

Il proverbio-enigma rappresenta, per l'oscura allegoria, una specie d'indovinello, come dimostra il seguente esempio siciliano, il quale a simboleggiare le tre età della vita: l'infanzia proclive al giuoco; la gioventù che va in cerca di avventure; la vecchiaia che si dà alle pratiche di devozione, si serve di tre formule e di altrettante figure, l'una meno chiara dell'altra: "Nasci bambinu, campa rapinu, e mori cappuccinu".

I proverbî-conti sono così denominati perché compendiano favole, storie, novelle. Si è già osservato come l'affabulazione sia diffusa tra i primitivi; si può soggiungere che anche tra i popoli civili i proverbî-conti hanno carattere arcaico e che si trovano presso quasi tutti i popoli dell'antichità, dove spesso il medesimo termine designa e il proverbio e la favola. Così il primitivo significato dell'espressione: "Qui fuit rana, nunc est rex", va ricercato nel racconto del principe-ranocchio, che per forza d'incantesimo acquista la forma umana.

I proverbî-canti consistono in frammenti di canzoni, che si ripetono proverbialmente; o in ritornelli, che si dicono in forma di cantilena. Del canto ha il verso endecasillabo, la strofa e la rima incrociata il seguente proverbio calabrese:

Genti, sentiti a mia, ca sugnu vecchiu:

Cu' litica no' fa 'na bona 'mprisa:

Si perdi, resta comu nu finocchiu,

Si vinci, resta cu a sula cammisa.

I proverbî-epigrammi hanno struttura ora semplice, ora complessa, a seconda che la loro asserzione riguardi un solo obietto ("Stare a tavola e non mangiare, è una cosa da crepare"), o più obietti (Stare a tavola e non mangiare, stare a letto e non dormire, aspettare e non venire, son tre cose da morire"). In generale i proverbî di quest'ultima specie formano il complesso raggruppando due, tre, quattro o più fatti diversi e attribuendo ad essi un solo identico effetto. La serie più comune è quella del tre; meno comune quella del quattro ("A quattro cose credito non dare: Chiarìa d'inverno, nuvole d'estate, Amor di donna, carità di frate"); ancora più rara la serie dei numeri superiori.

I proverbî dialogati consistono in domande e risposte brevi e rapide. Questa specie che è molto diffusa nell'Oriente prossimo, è in stretta relazione con i proverbî-conti, di cui ripete il motivo dialogico più significativo, riducendolo talvolta a una sola espressione proverbiale (Dammi tempu, ca ti perciu, dissi lu surici a la nuci; "Dammi il tempo e ti bucherò, disse il topo alla noce").

I proverbî-blasoni sono motti ora in lode, ora a scherno degli abitanti dei varî luoghi di una provincia, di una regione, ecc. Quelli in lode magnificano i caratteri fisici o morali, le imprese storiche delle genti di un paese, le bellezze naturali e panoramiche di una città ("Pan padoàn, vin visentin, tripe trevisane e done veneziane"). Gli altri che sono molto più comuni e numerosi, dileggiano i vizî e i difetti presunti o reali dei varî abitanti, e spesso suonano ironie feroci e sanguinose. In qualche caso si hanno lode per alcuni e scherno per altri ("Veneziani gran signori, Padoani gran dotori, Veronesi tuti mati, Visentini magnagati"). Anche questi proverbî variano per la forma, dal semplice motto allo strambotto, nonché alla litania e alla filastrocca. Di quest'ultima è tipico esempio la litania o cantilena dei nomi e cognomi delle città e provincie, che corre tuttavia in forma frammentaria sulla bocca del popolo in varie regioni.

I proverbi profetici che predicono avvenimenti o vicende di carattere politico, militare o vario sono piuttosto rari.

I proverbî antitetici ricotrono al contrasto per rilevare qualche verità. Anche questi possono variare dalla forma semplice, che si ha quando sono posti a fronte due soli fatti ("molto fumo, poco arrosto") alla forma complessa, che si ottiene quando si stabiliscono dei rapporti di antitesi d'intere proposizioni.

I proverbî-canoni contengono norme e regole riferentisi a consuetudini, a leggi, a pratiche svariate. Appartengono a questa classe i proverbî relativi al diritto, all'agricoltura, alla caccia, alla pesca, al commercio, all'economia, al calendario, all'igiene, alla medicina e via dicendo. La maggior parte di questi si riportano a usi e abitudini di altri tempi, epperò hanno spesso un valore storico; altri si riferiscono ai tempi e alle modalità dei lavori dei campi: "Per Sant'Andrea (30 novembre) il buon massaro seminato avea", oppure alla caccia e alle sue differenti pratiche: "A San Roco (16 agosto) le quaje le va de troto; A la Madona (8 settembre) le quaje le ne sbandona"; o anche alla pesca (come questo della Puglia: "La sarde de scennare e la vope de marze"). Norme meteorologiche e calendaristiche contengono gli adagi relativi al variare delle condizioni meteoriche, al succedersi delle stagioni e delle feste che contraddistinguono i differenti periodi di tempo. Infine, numerosissimi sono i proverbî igienici e salutari ("Aria di fessura, manda in sepoltura"), molti dei quali sono rifacimenti di vecchi aforismi scolastici e dottrinali, (p. es. l'inglese: "After dinner rest a while, After supper walk a mile", che ripete il principio del Regimen Sanitatis Salernitanum: "Post coenam stabis, Vel passus mille meabis"; del quale rimane l'eco nell'adagio calabrese: "Si voi campari a lu mundu sanizzu, Doppu mangiari ti curchi 'nu morzu").

Da Samuel Weller, personaggio di C. Dickens, prese il nome di wellerismo, nella paremiografia, quel singolare genere di proverbio proveniente da favole o da apologhi e spesso di carattere ironico. Per quanto oscure ne siano le origini, non mancano indizî che permettono di risalire nella storia del genere oltre il Dickens; se ne ha un esempio in Teocrito (XV, 77). Il tipo è ritenuto caratteristico dei paesi dell'Europa nordoccidentale (Germania settentrionale, Svezia, Norvegia, Islanda, Inghilterra), ma non può dirsi ignoto ai popoli latini ("Saran quest'anno di molte pere, diceva l'orso, n'avrebbe volute").

I proverbî sono universali. Abbiamo accennato alla loro "traslazione" da un luogo a un altro o da una popolazione a un'altra. Tuttavia ciascun popolo li riplasma secondo i proprî sentimenti e costumi; l'universalità, insomma, non sempre annulla i caratteri locali, storici ed etnici. Molti adagi non sono che rifacimenti di vecchi modelli o variazioni di detti che si vennero a cambiare sotto l'influenza delle mutate condizioni sociali, non solo nella veste esteriore, ma anche nell'idea. Notevole, nell'antichità classica, è il trapasso di proverbî dal mondo greco nel latino; ma il fatto assume forme caratteristiche nel Rinascimento. L'aforisma. "Aurora musis amica" che si legge per la prima volta in una lettera d'Erasmo da Rotterdam, del 1497, compare in forma di proverbio vernacolo tra la fine del sec. XVI e il principio del XVII: "Die Morgenstunde hat Gold im Munde". Ma oltre che di massime dell'antichità classica, molti proverbî sono rifacimenti di detti biblici o di precetti ecclesiastici che il popolo ha fatto suoi rivestendoli secondo l'indole morale propria. Così la pena del pellegrinaggio perpetuo, che sostituì quella del digiuno comminata dai più antichi penitenziali, p. es. per chi avesse offeso i genitori, è rimasta nel proverbio calabrese "Cu' non rispetta mamma e tata, Èrramu vaci strata strata".

Distinguere, come alcuni fanno, tra proverbî dotti e plebei, non è facile, giacché quelli potranno prendere il nome di proverbi solo quando, lasciata l'impronta elevata e solenne di sentenze e di apoftegmi, siano divenuti patrimonio della tradizione popolare, che li adorna d' immagini e v' infonde spesso un nuovo spirito. La questione, però, è utile dal punto di vista della ricerca delle origini, in quanto attraverso la comparazione delle differenti forme d'un motto proverbiale si può giungere a rintracciare il proverbio tipo, che è un elemento prezioso per ricostruire la storia e risalire di secolo in secolo alla scaturigine prima e talvolta alla paternità di detti e di motti che sono divenuti celebri e sono passati nel complesso delle tradizioni proverbiali.

La letteratura paremiografica. - Per l'Oriente, v. sopra.

Grecia e Roma. - In Grecia, raccolte di proverbî furono fatte con le sentenze di Menandro e di Filemone; Antifane scrisse una commedia I proverbî. Nell'età ellenistica la paremiografia divenne oggetto di studî particolari con Aristotele, che vi riconobbe il tesoro della sapienza antica (Sines., Enc. calv., XXII). Dopo di lui, filosofi, grammatici ed eruditi ne trattarono in studî speciali: Teofrasto, Demetrio di Falero, il peripatetico Clearco, lo stoico Crisippo, Cleante di Asso, Cleandro (almeno in due libri), Demone l'attidografo, Callimaco, Aristofane di Bisanzio (2 libri per i proverbî in versi, quattro per quelli in prosa), Aristide di Mileto, Seleuco d'Alessandria cui forse debbono essere assegnati i Proverbî alessandrini creduti di Plutarco, Eschilo di Alessandria, Demetrio Issione, Plutarco con le raccolte dei detti dei re e capitani, e dei Laconi e sopra tutto Lucillo di Tarra e Didimo (dell'età di Cicerone) con l'opera sua monumentale in tredici libri. Dalle raccolte di Lucillo e Didimo, epitomate da Zenobio (età di Adriano) deriva tutto il materiale che insieme con i tre libri di Zenobio, con i Proverbî alessandrini dello Pseudo Plutarco e con un più vasto lessico attribuito falsamente a Diogeniano formò il Corpus paroemiographorum che fu base e fonte della tradizione medievale. Dalle fonti ellenistiche derivano anche Esichio e Suida e i lessicografi atticisti Pausania, Elio Dionisio, Elladio, ecc., mentre i sofisti (Luciano, Libanio, ecc.) ne usano come artificio retorico. Nell'età bizantina la paremiografia offre materiale alla catechesi (Macario Egizio, sec. IV; Giovanni Climaco (sec. VII). Psello ne fa una nuova raccolta. Ma i nuovi proverbî si adattano alle condizioni della vita bizantina, all'esegesi teologica, mutando anche il verso (giambico o trocaico di 15 sillabe, trimetri giambici, ecc.); hanno bisogno quindi di nuova interpretazione quale dà Michele Glica (secolo XII) in versi politici o in prosa. Nuove raccolte fanno Gregorio di Cipro (sec. XIII), Teodoro Irtaceno (XIII-XIV) e in particolare Massimo Planude (sec. XIII), Macario Crisocefalo lsec. XIV), Michele Apostolio (sec. XV) e Arsenio. Le nuove raccolte accolgono anche materiale dai popoli vicini, Bulgari, Slavi, ecc., e anche Romani. Opera complessiva di raccolta e commento tentò Erasmo con gli Adagia seguendo l'antica divisione in libri, cui A. Schottus sostituì quella in centurie, mentre i più recenti studî tendono a ricercare l'originaria disposizione (pare) per materia.

Quanto a Roma, abbiamo ricordato Publilio Siro, Plauto e Terenzio. È invece da escludere la raccolta varroniana, perché non si tratta di veri e proprî proverbî, così come non sono tali i Disticha Catonis (sec. II d. C.) attribuiti falsamente al vecchio Catone, o i Monosticha.

Medioevo ed età moderna. - Grandissima diffusione ebbero per tutto il Medioevo, presso popoli romanzi, germanici e slavi, le raccolte latine menzionate e, accanto a queste, altre collezioni di sentenze, come quelle che andavano sotto il nome di Seneca. Si tratta di un ricco materiale, la cui posizione non è rigorosamente definibile tramezzando esso tra la letteratura dotta e quella popolare, dall'una all'altra delle quali avvengono scambî continui; e si hanno così proverbî volgari ridotti a forma latina (p. es., la Fecunda ratis di Egberto di Liegi), proverbî latini raccolti insieme con il loro equivalente volgare, che può essere, o no, la forma originale (p. es., i Proverbia magistri Serlonis) e proverbî volgari raccolti come tali. E come la sentenza di uno scrittore antico, tratta fuori dal contesto, può passare a proverbio, così il proverbio d'origine volgare entra nelle artes dictandi, a fornire materiale per citazioni a fianco della sentenza di provenienza letteraria. S'incominciano a trovare, p. es., in Egberto di Liegi anche proverbî seguiti da narrazioni di carattere storico che servono a dimostrare la verità del proverbio medesimo: "genere" letterario che ha avuto varia fortuna, e che si può in qualche modo collegare con il "proverbio drammatico" (v.); a questo proposito F. Novati ha ricordato anche le novelle del Sacchetti.

Ad esso si ricollega anche, nel Cinquecento italiano, il Libro della origine delli volgari proverbi del medico veneziano Aloise Cinzio dei Fabrizii, nel quale per ogni proverbio è narrata una breve storia in terzine. Ma il Fabrizii stesso ha attinto a raccolte precedenti, tra le quali quella di A. Cornazzano di Piacenza, De proverbiorum origine, scritta nel 1455 e pubblicata nel 1503. Sono da ricordare altresì le cosiddette Dieci tavole, circa 150 proverbî per la maggior parte veneti, ma anche in altri dialetti italiani e pure francesi (2) e spagnoli (2): così chiamate perché stampate in dieci grandi fogli nei primi del sec. XVI e poi sovente ristampate in volume; e si ricordano anche i nomi del Cieco da Ferrara e di altri come di autori di novelle dichiarative di proverbî.

Non meno ricehe e numerose furono le raccolte di proverbî latini e in genere classici, tra le quali ricordiamo quelle di Polidoro Virgilio (1498), di P. F. Andrelini (Epistolae proverbiales) e via via fino alla Gnomologia graeco-latina di M. Neander, raccoglitore anche di proverbî tedeschi, sulle orme di H. Bebel, di J. Agricola, dello stesso Lutero e di S. Franck.

Ma un posto assolutamente a parte, tra le raccolte di proverbî classici dell'età del Rinascimento, meritano gli Adagia di Erasmo da Rotterdam, sia per la ricchezza del materiale raccolto e per la copiosa erudizione del commento, sia per avere profittato di questo per esporre opinioni sue di umanista e teologo. Né il proverbio interessò soltanto sotto l'aspetto erudito o per il suo valore di sentenza; l'uso di proverbî, messi opportunamente in bocca a determinati personaggi, servì anche a ottenere mirabili effetti artistici: meritano particolare menzione per questo riguardo lo Shakespeare (che non rifuggì da titoli proverbiali: All's well that ends well), e il Cervantes, che con proverbî ama esprimere l'esperienza concreta di Sancio Panza.

Meno vivo, benché non spento, fu l'interesse generale per i proverbî nel corso del sec. XVII, almeno se dobbiamo giudicare dal numero e dal carattere delle raccolte: tra cui sembrano prevalere ormai le bilingui, con carattere scolastico (p. es., i Proverbi italiani e latini di O. Pescetti, e altre). Un certo ravvivarsi di tale interesse si incomincia invece a notare sullo scorcio del sec. XVIII, in Italia e in Germania soprattutto: manifestazione, indubbiamente, dello spirito romantico, che nel corso del sec. XIX darà luogo alle ricerche di novellistica comparata e di folklore. E appunto di questo secolo sono la maggior parte delle raccolte di proverbî, di tutti i paesi, in tutte le lingue. In Italia, grande impulso a questi studî diede N. Tommaseo; vi si aggiunse (come nella raccolta dei Proverbi toscani del Giusti, pubblicata postuma da G. Capponi e poi ancora accresciuta da A. Gotti) anche l'interesse per la "lingua viva" del popolo, in mezzo alle discussioni provocate dalla "questione della lingua".

Ma sempre più si è venuto affermando in questo campo l'interesse più propriamente etnografico e folkloristico, seguendo un indirizzo che mira alla raccolta sistematica, alla comparazione, alla determinazione dei "motivi" e delle origini dei proverbî. Conseguenza di questo interesse più scientificamente determinato sono le varie classificazioni proposte: l'alfabetica, l'oggettiva, la mista. Nella prima si prende come punto di partenza la lettera o la sillaba iniziale o la parola dominante dell'adagio; nella seconda l'affinità del contenuto e nella terza l'uno e l'altro criterio si vedono integrati seguendo come principio informatore la classificazione oggettiva e distribuendo la materia delle differenti rubriche secondo l'ordine alfabetico. Il sistema oggettivo presenta non pochi vantaggi rispetto al sistema alfabetico, che è elementare e vocabolaristico (cfr. Dejardin, Dictionnaire des spots ou proverbes Wallons, Liegi 1891), sebbene per la formazione delle rubriche non esistano norme precise e sicure, ma criterî variabili da autore ad autore. Il Leroux de Lincy raggruppa i proverbî francesi in 14 serie; il Pitrè i proverbî siciliani in 96 rubriche. Sistemi meno persomli e oscillanti sono stati proposti di recente, come quello del Long, che, adottato per la classificazione delle raccolte russe, ripartisce la materia in quattro sezioni generali: 1. proverbî antropologici; 2. politici e giuridici; 3. fisici; 4. storici. Ogni sezione, poi, è suddivisa in rubriche speciali secondo gli argomenti e le loro affinità. Così la sezione antropologica abbraccia tre gruppi: a) proverbî relativi alle caratteristiche naturali e morali dei differenti popoli; b) proverbî riferentisi al linguaggio, alla fede, alla superstizione, ai costumi; c) proverbî concernenti la morale. La sezione politica e giuridica abbraccia quattro gruppi: a) proverbî relativi all'ordinamento costituzionale; b) proverbî relativi alle leggi; c) proverbî riflettenti delitti e pene; d) proverbî relativi a pratiche e cerimonie giudiziarie. La sezione fisica comprende: a) proverbî meteorologici e astrologici; b) rurali; c) medicinali. La sezione storica: a) proverbî cronologici; b) topografici; c) etnografici; d) personali.

Queste e altre classificazioni si fondano sul contenuto del proverbio, ma prescindono dall'elemento morfologico, che invece non va trascurato. Perciò riteniamo preferibile la classificazione indicata sopra.

Numerosissime sono le raccolte di proverbî, frasi proverbiali e modi di dire. Citeremo soltanto quella, ormai antiquata ma pur sempre utile, di G. Strafforello (Dizionario universale dei proverbi, Torino 1883, voll. 3). Per limitarci al campo più propriamente etnografico, J. Bernstein, che ha raccolto a Varsavia una speciale biblioteca paremiologica, registra, per l'Oceania, 23 raccolte, per l'Africa 187, tra abissine, egiziane, arabe, ecc.; per l'Asia 248, tra annamite, tartare, indiane, ecc. Una notevole raccolta paremiologica ma meno importante di quella del Bernstein, e limitata nei soggetti, si trova in Roma, nella biblioteca della fondazione Marco Besso.

Bibl.: Fonti bibl. e trattazioni: P. G. Duplessis, Bibliogr. parémiologique, Parigi 1847; G. Fumagalli, Bibliogr. paremiologica italiana, Palermo 1887; id., (aggiunte), in Arch. tradizioni pop., X (1887-1901); G. Pitrè, in Bibiogr. delle tradizioni popolari, Torino 1894; R. Corso, in Folklore, Roma 1923; W. Bonser, Proverb literature, Londra 1930; A. Taylor, An introductory biblography of the study of proverbs, in Modern Philology, 1932; id., The proverb, Oxford 1932. Per l'antichità: T. Gaisford, Paroemiographia graeca, Oxford 1836; M. Warnkross, De paroemiographis, Greifswald 1881; O. Crusius, Paroemiograph., in Sitzungsb. d. bayer. Akad., Monaco 1910; A. Todesco, Il proverbio, la Paroimia e il Corpus paroemiograph. Graecorum, in Athenaeum, 1916; C. Pascal, Paremiografia Catulliana e Virgiliana, ibid., 1917. Per alcune principali e speciali raccolte italiane: G. Pitrè, Proverbi siciliani messi a raffronto con quelli dei dialetti d'Italia, Palermo 1879-81, voll. 4; G. Zanazzo, Proverbi romaneschi, Roma 1886; G. Bianchi, Proverbi e modi proverbiali veneti, Milano 1901; G Giusti, Raccolta di proverbi toscani, nuova ediz., Firenze 1911; R. Corso, Proverbi giuridici italiani, in Rivista it. di soc., XX (1916); G. Arthaber, Dizionario comparato di proverbi ital., latini, ecc., Milano 1929; Altre principali raccolte: E. Margalits, Florilegium proverbiorum universae latinitatis, Budapest 1895-1910, voll. 2; E. Teza, Deiproverbi popolari in Grecia raccolti da N. Polites, Venezia 1988; I. v. Düringsfeld e O. Reingsberg-Düringsfeld, Sprichwörter d. germanischen u. romanischen Sprachen, vergleichend zusammengestellt, Lipsia 1872-1975, voll. 2; N. Decotter, Les proverbes français expliqués, Parigi 1920; H. Gressmann, Israels Spruchweisheit in Zusammenhang der Weltliteratur, Berlino 1925; G. L. Apperson, English Proverbs: a historical dictionary, Londra 1929; G. Olafsson, Gudmundi Olaui thesaurus adagioru linguae septentrionalis antiquae et modernae, Lund 1930; Antike Weisheit für moderne Menschen. 600 lateinische und griechische Sprüche mit Übersetzung, Monaco 1932; vedi inoltre la "Bi-lingual Series" che raccoglie proverbî di molte nazioni europee, dandone la corrispondente trad. inglese, Londra 1920 segg. Per i popoli extraeuropei: G. Ragusa-Moleti, I proverbi dei popoli barbari, Palermo 1893; A. P. Singer, Arabic proverbs, Cairo 1913; R. Corso, Proverbi giuridici abissini, Napoli 1927.