PROSPETTIVA

Enciclopedia Italiana (1935)

PROSPETTIVA

Attilio FRAJESE
Goffredo BENDINELLI
Pietro TOESCA

. Generalità. -1. La prospettiva ha il compito di fornire, di qualsiasi oggetto reale, un'immagine che corrisponda a quella data dalla visione diretta.

Generalmente tale immagine si deve disegnare su una superficie piana, e a quest'ultima si riserva di solito il nome di quadro della prospettiva: non è escluso tuttavia che il quadro possa essere una superficie curva (caso che si presenta nell'affrescare vòlte e cupole), o che possa essere costituito da più strisce piane anche in piani diversi (caso che si presenta, talvolta, insieme col precedente, nella scenografia).

La prospettiva si divide in lineare o geometrica ed aerea. La prima si limita a rappresentare sul quadro la struttura geometrica delle figure ed è una diretta applicazione dei metodi della geometria descrittiva (v. descrittiva, geometria). La seconda ricerca le variazioni di intensità luminosa e di gradazione dei toni in rapporto alle distanze, allo spessore dello strato d'aria interposto, alla posizione della sorgente luminosa. Il fatto più saliente sul quale si fonda è che gli oggetti della stessa forza di tono o di valore impallidiscono nell'allontanarsi in ragione diretta della distanza. Ciò è dovuto all'aumento della quantità di atmosfera interposta fra essi e l'occhio. L'impallidimento è aumentato naturalmente dall'umidità dell'atmosfera medesima. Con la distanza, i toni van perdendo il loro splendore, uniformandosi in grigi per lo più azzurrognoli, anche in dipendenza dell'effetto luminoso. Ma si tratta di fenomeni di luce assai complessi e dipendenti da un cumulo di cause talmente aggrovigliate, che la loro determinazione non può farsi sulla scorta delle leggi fisiche; ma va lasciata alla diretta osservazione. Sicché questo ramo della prospettiva sfugge in gran parte alla scienza, ed è di natura squisitamente artistica.

La prima parte dell'articolo tratterà esclusivamente della prospettiva lineare. Nella seconda parte verrà dato un rapido cenno dei problemi fondamentali della teoria delle ombre, che della prospettiva aerea costituisce il capitolo suscettibile di una trattazione geometrica.

Prospettiva lineare. - 2. La nostra visione normale è binoculare: ed è noto che appunto a tale sua qualità dobbiamo la percezione del rilievo. Ma la prospettiva si limita a costruire immagini, quali risulterebbero dalla visione ottenuta con un solo occhio, ossia quali si avrebbero, osservando da un unico centro di vista.

La fig. 1 permetterà di capire in qual modo la prospettiva imposti il suo problema. Sia MNP una figura, comunque situata nello spazio: sia C il centro di vista, π una superficie piana trasparente interposta tra la figura e il centro di vista.

I raggi visuali uscenti da C e diretti a M, N, P, attraversano il piano rispettivamente nei punti M′, N′, P′. La figura MNP′ costituisce l'immagine della figura MNP sul piano π, nel senso che se supponessimo di disegnare la figura MNP′ su π e di sopprimere la figura MNP, il nostro occhio avrebbe in certo modo l'illusione di vedere ancora questa.

L'immagine MNP′ si dice prospettiva della figura MNP dal centro di vista C sul quadro π.

Essa s'ottiene proiettando dal centro C la figura vera (o, come suol dirsi, la figura obiettiva) e segando poi col piano che costituisce il quadro: in altre parole la prospettiva F′ d'una figura F è la proiezione (v.) di F dal centro C sul quadro.

Si sarebbe ottenuta la stessa prospettiva MNP′ se la figura obiettiva, anziché essere quel certo triangolo MNP, fosse stata uno qualsiasi tra gli infiniti triangoli aventi i vertici rispettivamente sulle semirette CM', CN′, CP′. Perciò, mentre data la figura obiettiva, la prospettiva (su un dato quadro e da un dato centro) risulta univocamente determinata, non altrettanto può dirsi per il problema inverso. La prospettiva non ci offre quindi un metodo di rappresentazione nel senso della geometria descrittiva (v. descrittiva, geometria, n. 1); essa non ci permette infatti di passare senza ambiguità dalla rappresentazione piana alla figura obiettiva.

3. Questo problema inverso (restituzione prospettica delle figure) diventa determinato, quando, oltre a una prospettiva F′ della figura F da restituire, si conoscano altri elementi. Spesso si parte da due prospettive F′, F″, della stessa figura F, ottenute da due centri diversi, e (in base ad altri dati necessarî) si cerca d'ottenere la restituzione prospettica; tale sistema è usato nella fotogrammetria (v.), la quale permette di eseguire rilevamenti topografici ritraendo fotografie della zona da rilevare: la fotografia d'una figura costituisce infatti (approssimativamente) una sua prospettiva.

4. Se (conformemente alla realtà delle cose) si pone il centro di vista a distanza finita dalla figura obiettiva (e quindi dal quadro) si ha la prospettiva conica o centrale.

Ma, se la figura da rappresentare è di piccole dimensioni rispetto alla distanza media dei suoi punti dal centro, le rette proiettanti formano tra loro angoli piccolissimi, cosicché si possono ritenere, per semplicità, parallele. Si ha così la prospettiva parallela o rapida, in cui si suppone il centro di vista a distanza infinita.

Prospettiva conica. - 5. Supposto il centro di vista a distanza finita dal quadro, si ricade nelle stesse ipotesi del metodo della proiezione centrale della geometria descrittiva (v. descrittiva, geometria, n. 10). Questo metodo naturalmente non si limita a stabilire le proiezioni delle figure su π, ma aggiunge gli elementi necessari per la soluzione univoca del problema inverso. Così, per rappresentare un punto P in prospettiva, basta determinare l'intersezione della retta CP col piano π, mentre nel metodo della proiezione centrale occorre anche dare una retta, o un piano, su cui giaccia P.

Similmente, per una retta, la prospettiva è costituita dalla sua proiezione, mentre nel metodo della proiezione centrale occorre indicare su quella due punti: l'intersezione T col quadro (traccia) e l'intersezione I' col quadro della parallela per il centro di proiezione alla retta considerata (punto di fuga o, semplicemente, fuga). Tuttavia anche in prospettiva interessa spesso conoscere traccia e fuga delle rette, ma solo come elementi determinatori della proiezione; e qui va avvertito che i disegnatori generalmente usano per i punti di fuga il nome di punti di concorso.

6. La prospettiva introduce ipotesi sue proprie circa la posizione del centro e del quadro, e introduce anche enti ausiliari, con relativa nomenclatura.

Il quadro viene supposto di regola verticale, e interposto tra il centro di proiezione e la figura da rappresentare. Il centro di proiezione prende il nome di centro di vista e s'indica di solito con V. La distanza tra V e il quadro s'indica con d (distanza). La semiretta per V perpendicolare al quadro si dice raggio visuale principale e il suo punto d'intersezione V0 col quadro si chiama punto principale della prospettiva. Il circolo di centro V e raggio d, giacente sul quadro, prende il nome di circolo di distanza (fig.2).

Il piano orizzontale condotto per V. si chiama piano d'orizzonte: la sua retta d'intersezione col quadro, la quale contiene V0, si dice orizzonte e s'indica in genere con o.

I due punti d'intersezione dell'orizzonte col circolo di distanza si chiamano punti (principali) di distanza; rispettivamente sinistro (D) e destro (Dd). Le intersezioni del circolo di distanza col diametro verticale si dicono pure punti (principali) di distanza: superiore (Ds) e inferiore (D1).

7. Fissare il valore della distanza d (e il punto principale V0) significa fissare la posizione del centro V rispetto al quadro. Sulla scelta di questo punto V, occorre tener presenti alcuni dati, che ci vengono forniti dall'ottica fisiologica. Se noi guardiamo in una certa direzione VV0, e teniamo immobile l'occhio, percepiamo distintamente non solo in quella direzione, ma entro un cono di rotazione avente per asse VV0 e una certa apertura. Come valore dell'angolo d'apertura occorrerebbe tenere all'incirca 20°, se l'occhio restasse effettivamente immobile; tuttavia nella prospettiva lineare, supponendo una certa mobilità dell'occhio, si giunge fino a 60°, e in casi eccezionali fino a 90°.

Indicando in genere con a l'angolo d'apertura del cono (cioè l'angolo AVB della fig. 3), si ha dal triangolo rettangolo VV0B la relazione:

ossia, per α = 60° e per α = 90°, rispettivamente, V0B = d tg30° ~ d/2, e V0B = d tg45° = d.

La distanza d si deve dunque scegliere generalmente almeno doppia di V0B, e solo in casi eccezionali uguale a V0B, quando V0B sia la massima distanza dei punti dell'immagine della figura F dal centro di vista V0.

Soddisfatte queste condizioni, la prospettiva di qualsiasi figura F risulta in ogni caso interna al circolo di distanza.

S'introduce poi un ulteriore piano di riferimento π1 orizzontale, situato sotto la figura da rappresentare, la quale s'immagina anzi, se è il caso, appoggiata su di esso. Tale piano prende il nome di piano stazione o geometrale. La sua intersezione col quadro si dice linea di terra, o fondamentale della prospettiva, e s'indica con f.

Per determinare la posizione del geometrale si suol dare il segmento (che si chiama altezza) h = VV1, dove V1 è il piede della perpendicolare abbassata da V sul geometrale (fig. 2), sicché conducendo da V1 la perpendicolare V1Vf alla fondamentale si ha in V1Vf la distanza d.

8. Esponiamo ora il metodo dei due punti di fuga (o, come sogliono dire i pittori, dei due punti di concorso), il quale permette di determinare la prospettiva P′ d'un punto P del geometrale: esso si presta quindi alla costruzione della prospettiva di piante, ossia di figure piane giacenti sul geometrale.

Per avere la figura obiettiva e la prospettiva sullo stesso foglio del disegno, ma ben distinte tra loro, si immagina ribaltato il geometrale sul quadro, in modo che il semipiano posteriore del geometrale (su cui, di regola, giace la figura obiettiva) vada a coincidere col semipiano inferiore del quadro. In tal modo il ribaltamento della figura obiettiva resta sotto la fondamentale, la prospettiva sopra.

Sia P1 il ribaltamento del punto P del geometrale, da rappresentare in prospettiva (fig. 4). Il punto V1 (piede della perpendicolare abbassata da V: sul geometrale) viene ribaltato in V1*. Naturalmente si ha:

VfV1* = VfV1 = d = V0Ds.

Per determinare la prospettiva P′ di P si costruiscono le prospettive a′, b′ di due rette a, b del geometrale, passanti per P; dopo di che si ha:

P′ = ab′.

Ora le rette a, b, si ribaltano in a*, b*; le loro tracce Ta, Tb. (giacenti sulla fondamentale, intorno a cui avviene il ribaltamento) restano ferme e sono anche le tracce delle prospettive a′, b′. Basta dunque determinare i punti di fuga delle due rette. Per costruirli, occorrerebbe condurre da V le parallele ad a, b, e considerarne le intersezioni col quadro, le quali si trovano certamente sull'orizzonte, in quanto le a, b sono orizzontali. Ma si può anche condurre le parallele ad a, b da V1, determinarne le intersezioni con f e poi innalzare le perpendicolari alla f sul quadro, fino a tagliare l'orizzonte. Ciò si può fare facilmente anche sulla figura ribaltata: si conducono per V1* le parallele alle a*, b*, e, determinatene le intersezioni con la f, si innalzano da questi punti le perpendicolari alla f fino a tagliare l'orizzonte o. Restano così determinati i punti di fuga Qa′. e Qb′. delle due rette a, b. La prospettiva a′ si ottiene congiungendo Ta con Qa′+. e così la b′ congiungendo Tb con Qb′. Il punto comune ad a′, b′ è la prospettiva P′ del punto P.

Questo metodo si semplifica notevolmente osservando che i punti Qa′, Qb′ si possono ottenere anche conducendo per il punto principale superiore di distanza Ds le parallele alle a', b*, fino a tagliare l'orizzonte (come si dimostra facilmente, osservando la fig. 4).

Ciò vale per il ribaltamento indiretto, qual'è quello considerato. Il ribaltamento si dice invece diretto se porta a sovrapporre il semipiano posteriore del geometrale col semipiano superiore del quadro. In tal caso l'ufficio, che dianzi era compiuto dal punto principale di distanza superiore, viene assunto da quello inferiore.

Si noti che il ribaltamento sul quadro d'una figura piana giacente sul geometrale e la sua prospettiva si corrispondono in un'omologia avente per asse la fondamentale, per centro il punto principale di distanza inferiore o superiore (secondoché il ribaltamento è diretto o indiretto) e per retta limite sul piano del quadro l'orizzonte.

9. Il metodo dei due punti di fuga si semplifica scegliendo le due rette per P nel seguente modo: una d'esse perpendicolare al quadro, l'altra l'inclinata a 45° sul quadro stesso (fig. 5). In tal caso uno dei punti di fuga è V0; l'altro è D oppure Dd, come è facile vedere con riferimento alla fig. 2. Indicata con a la perpendicolare al quadro per P, e quindi con Ta la sua traccia, la traccia Tb della retta b a 45° si ottiene portando sulla fondamentale f, a partire da Ta (e da una conveniente parte rispetto a questa traccia) il segmento TaTb = P* Ta. Un ulteriore avvedimento d'ordine pratico consiste nel considerare, anziché i veri punti principali di distanza D e Dd, i cosiddetti punti principali di distanza ridotti D/n e Dd/n, i quali distano da V0 di 1/n della distanza d. Occorre però in tal caso riportare sulla fondamentale non già la vera distanza P* Ta ma il suo ennesimo. Questa variante ha grande. valore pratico, poiché spesso i veri punti principali di distanza cadrebbero fuori del foglio.

10. Siamo ora in arado di costruire facilmente la prospettiva d'una figura come quella indicata nella fig. 6, cioè d'un quadrato MNPQ (o, più in generale, d'un rettangolo) giacente sul geometrale (e appoggiato con un suo lato MN alla fondamentale), i cui lati siano divisi in un certo numero di parti uguali, così da avervi una quadrettatura.

Anzitutto la prospettiva delle semirette MQ, NP perpendicolari alla fondamentale è data dai segmenti MV0, NV0. Le prospettive dei punti di divisione 1, 2, 3 di MQ si trovano intersecando la MV0 mediante i segmenti congiungenti il punto principale di distanza D coi corrispondenti punti di divisione di MN: similmente la prospettiva Q′ di Q s'ottiene intersecando la MV0 con la DN. Tale costruzione è l'applicazione del metodo semplificato dei due punti di. fuga, esposto nel n. 9: i segmenti congiungenti D coi punti di divisione di MN sono infatti le prospettive delle rette inclinate a 45° sul quadro, condotte per i punti di divisione corrispondenti di MQ. I lati paralleli alla fondamentale, appartenendo a rette orizzontali di fronte (cioè parallele al quadro), hanno immagini parallele all'orizzonte e si ha così in MNPQ′ la prospettiva del quadrato dato. Inoltre sulla prospettiva è riportata anche la quadrettatura, cioè si hanno su di essa due scale di lunghezze già tracciate. La graduazione M123.Q′ costituisce la scala fuggente, o delle projondità, relativa al punto M, mentre i segmenti staccati sulle parallele alla fondamentale dànno le scale delle larglhezze, in corrispondenza alle varie profondità. Qualunque figura piana (giacente sul geometrale) si debba rappresentare in prospettiva, l'operazione si compie facilmente, riferendo la figura a una quadrettatura del genere, e usando poi lo stesso riferimento anche sulla prospettiva.

11. Questi metodi si estendono facilmente al caso di figure comunque situate nello spazio. Nel metodo di Desargues si costruisce in sostanza la prospettiva d'un cubo (avente una faccia sul geometrale e una sul quadro) diviso in tanti cubetti mediante piani paralleli alle sue facce.

Oltre alle costruzioni già vedute per il quadrato giacente sul geometrale, occorre considerare in questo caso un piano di profilo (ossia perpendicolare alla fondamentale), su cui giaccia una delle facce del cubo. Sia z l'intersezione di tale piano col quadro, x la sua traccia sul geometrale (fig. 7). La z, giacendo sul quadro coincide con la sua prospettiva; e quindi la scala delle lunghezze 01234 si riporterà su di essa in vera grandezza.

Le rette del piano di profilo perpendicolari alla sua traccia x sul geometrale nei suoi punti di divisione, hanno le prospettive perpendicolari alla f (trattandosi di rette verticali) passanti rispettivamente per i punti 1′, 2., 3′, 4′ di OV0. Le rette del piano di profilo parallele alla x sono perpendicolari al quadro; le loro prospettive passano tutte per V0 e si costruiscono subito. Risulta così individuata una scala su ciascuna delle verticali per i punti di divisione di OV0: si tratta delle scale delle altezze alle diverse profondità. E la costruzione della prospettiva d'un punto P dello spazio, di cui sian date le coordinate cartesiane ortogonali, è immediata: basta staccare i segmenti corrispondenti in prospettiva, usando ciascuna delle tre scale.

Oltre al metodo di Desargues, basterà ricordare quello delle altezze, che serve a determinare la prospettiva d'un punto dello spazio, dato mediante la rappresentazione di Monge, e non differisce essenzialmente dal precedente. La pratica suggerisce poi, caso per caso, la via più comoda da seguire.

Prospettiva assonometrica ortogonale. - 12. Passiamo ora allo studio della prospettiva parallela, cioè supponiamo che il centro di vista sia a distanza infinita dal quadro. Se esso si trova in direzione ortogonale al quadro la prospettiva parallela si dice ortogonale, altrimenti si dice ob liqua.

Una risoluzione semplice del problema della prospettiva parallela ci viene fornita dall'assonometria, ortogonale od obliqua in corrispondenza al genere di prospettiva parallela che si desidera (v. descrittiva, geometria, n. 20).

Cominciamo con l'occuparci della prospettiva assonometrica ortogonale. Sia data una figura F, riferita a una terna di assi cartesiani ortogonali x, y, z, di origine O. Come quadro si assume un piano non parallelo ad alcuno dei tre assi. Proiettando perpendicolarmente sul quadro i tre assi, si hanno su questo tre rette x′, y′, z′ (assi assonometrici), che si tagliano in un punto O. (origine assonometrica), proiezione dell'origine O. Notiamo che in proiezione parallela a segmenti uguali e di ugual verso di una stessa retta corrispondono segmenti d'una stessa retta, pure tra loro uguali e di ugual verso. Alle scale di misura sui tre assi obiettivi x, y, z, di unità comune u, corrisponderanno dunque sul quadro tre scale, di unità ux, uy, uz. Vediamo ora come si costruirà la prospettiva (assonometrica ortogonale) d'un punto qualunque dello spazio P, dato mediante le sue coordinate cartesiane ortogonali rispetto alla terna x, y, z, oppure dato mediante la sua rappresentazione nel sistema di Monge (si considerario allora i due piani di proiezione come piani xy e xz, mentre, come piano coordinato yz, si assumerà un piano di profilo). La fig. 8 mostra come s'ottiene P′; tale punto è il secondo estremo d'una spezzata trilatera costruita sul quadro a partire da O′, coi tre lati paralleli ai tre assi assonometrici e aventi lunghezze espresse dagli stessi numeri che dànno rispettivamente le coordinate di P, ma rispetto alle unità di misura ux, uy, uz rispettivamente.

Occorre dunque saper tracciare sul quadro nel modo dovuto le proiezioni x., y′, z′ e saper determinare corrispondentemente le tre unità ridotte (o unità assonometriche) ux, uy, uz.

13. Poiché il quadro s'è supposto non parallelo ad alcuno degli assi coordinati, esso viene tagliato da ciascuno di questi rispettivamente in tre punti X, Y, Z, tracce degli assi sul quadro. Si dimostra facilmente che il triangolo XXZ (detto triangolo delle tracce) è sempre acutangolo e che le sue tre altezze sono le prospettive x′, y′, z′, dei tre assi, cosicché il suo ortocentro O′ è la prospettiva di O e cade sempre nell'interno del triangolo (fig. 9).

L'asse z si suppone di solito verticale, e la sua prospettiva z′ si disegna (come si suol fare rappresentando rette verticali) parallelamente agli orli laterali del foglio. Basta dunque, per disegnare i tre assi assonometrici x′, y, z′, conoscere gli angoli ξ, η, ζ, che essi formano a due a due. Dal fatto che il triangolo delle tracce è acutangolo risulta che ciascuno degli angoli ξ, η, ζ è ottuso.

In base alla conoscenza dei tre angoli ξ, η, ζ, è possibile determinare i valori dei tre angoli α, β, γ, che gli assi obiettivi x, y, z, formano col quadro (angoli d'inclinazione degli assi). Ci interessano in modo particolare i coseni degli angoli α, β, γ; essi s'indicano con λ, μ, ν e prendono il nome di rapporti d'accorciamento. Infatti essi esprimono i rapporti tra ciascuna delle unità assonometriche e l'unità obiettiva u, avendosi:

λ = ux/u , μ = uy/u , ν = uz/u.

Gli angoli α, β, γ sono acuti, e la somma di due di essi, comunque presi, forma ancora un angolo acuto. Ciò si può dedurre dalla seguente relazione (equazione caratteristica), a cui soddisfano i coseni λ, μ, ν:

λ2 + μ2 + ν2 = 2 ,

e che costituisce la condizione necessaria e sufficiente affinché tre numeri λ, μ, ν positivi e minori dell'unità siano i rapporti d'accorciamento d'una terna di assi ortogonali. Nota l'unità obiettiva u, e noti i rapporti d'accorciamento, si determinano facilmente le unità assonometriche ux, uy, uz, i tre angoli α, β, γ, e quelli ξ, η, ζ. In genere, anzi, non vengono dati direttamente λ, μ, ν, ma tre numeri l, m, n, a essi proporzionali (coefficienti di assonometria).

Se l, m, n, si scelgono tutt'e tre disuguali tra loro, tali risultano anche le unità assonometriche, gli angoli α, β, γ e gli angoli ξ, η, ζ: il triangolo delle tracce risulta scaleno e il sistema assonometrico si dice trimetrico.

Se due dei coefficienti di assonometria sono uguali tra loro, altrettanto avviene per le unità assonometriche e gli angoli sopra nominati (sicché il triangolo delle tracce risulta isoscele); e il sistema è detto dimetrico.

Infine se l, m, n, sono uguali tra loro, tali risultano le unità assonometriche e gli angoli: il sistema (avente il triangolo delle tracce equilatero) si dice monometrico o isometrico.

14. S'è già detto che l'asse obiettivo z si suppone verticale: tale non risulterà dunque il quadro. Ma noi, nel guardare il disegno, lo immaginiamo inconsciamente in posizione verticale (ad es., appeso a un muro). Segue che le verticali obiettive (supposte ricostruite) ci appaiono come inclinate verso di noi. Ciò si ha del resto tutte le volte che osserviamo un oggetto un po' dall'alto o dal basso: per lunga abitudine tendiamo a raddrizzare le rette verticali, che in verità non ci apparirebbero tali. Ciò a patto che l'angolo di strapiombamento non superi un certo limite, che si aggira intorno ai 20°. Perciò (almeno come regola generale) tale valore non deve essere superato dall'angolo γ, che l'asse z forma col quadro.

Nella pratica, una volta fissati i coefficienti d'assonometria e l'unità obiettiva, non si determinano direttamente gli altri elementi, ma si ricorre a tabelle pratiche, contenute nei manuali per ingegneri e similii le quali forniscono senz'altro i valori cercati.

Come esempio di sistema trimetrico, daremo quello di uso frequente, in cui è:

l : m : n = 9 : 5 : 10.

Si ricava (direttamente, o con le tabelle) in prima approssimazione:

La condizione γ ≤ 20° risulta dunque ampiamente osservata.

La conoscenza di ξ, η, ξ ci permette di costruire facilmente la terna di assi assonometrici (v. fig. 10). Per fissare le unità assonometriche, notiamo che si ha:

uz = 0,98 u , uy = 0,49 u ~ 1/2 u , ux = 0,89 u ~ 9/10 uz.

Praticamente si suol porre uz = u (e s'ingrandiscono proporzionalmente ux e uy); il che equivale a costruire, anziché la prospettiva della figura data, quella d'una figura leggermente ingrandita (e il rapporto 1/0,98 ~ 1,02 dicesi ingrandimento convenzionale).

Nella figura 10 è data la prospettiva assonometrica ortogonale d'un cubo, ottenuta col detto sistema trimetrico. Si tratta d'una prospettiva dall'alto: in essa risulta cioè visibile la faccia superiore del piano xy. La figura 11 mostra invece, nel medesimo sistema trimetrico, una prospettiva dal basso: essa s'ottiene prendendo come assi x′, y′ le semirette simmetriche delle x′, y′ della fig. 10 rispetto alla perpendicolare per O′ alla z.

Come esempio di sistema dimetrico si può considerare quello di coefficienti d'assonometria 2:1:2, per il quale risulta:

V'è poi un unico sistema isometrico (1:1:1), per il quale dall'equazione caratteristica dei rapporti di accorciamento risulta:

Non è dunque soddisfatta in quest'ultimo caso la condizione γ 〈 20° e quindi il sistema isometrico non dà immagini molto soddisfacenti per l'occhio; tuttavia trova frequente impiego nella rappresentazione di particolari costruttivi o di elementi di macchine.

Prospettiva assonometrica obliqua. - 15. I limiti imposti a questo articolo non consentono che un breve cenno. In virtù del teorema del Pohlke (v. descrittiva, geometria, n. 20) si possono scegliere a piacere sul quadro, per un punto O′, i tre semiassi assonometrici positivi (purché due almeno distinti) e le tre unità assonometriehe (purché almeno due non nulle). Naturalmente l'arbitrio di tale scelta va convenientemente limitato se si vogliono ottenere rappresentazioni otticamente soddisfacenti.

Un sistema spesso usato è quello monometrico (ux = uy = uz) in cui il quadro è parallelo all'asse z (quindi uz = u). I semiassi positivi x′, y′ formano con l'asse z′ angoli (uguali tra loro) di 90° ± 7°, il segno superiore valendo per la prospettiva dall'alto, quello inferiore per la prospettiva dal basso.

Va infine ricordato il sistema, cui si dà il nome di prospettiva cavahera; si tratta di un sistema dimetrico (uy = uz = u, e, per lo più, ux = u/2, oppure ux = u/3), in cui il quadro si prende parallelo al piano yz, o addirittura coincidente con questo, sicché il semiasse y′ risulta perpendicolare a quello z′, mentre l'asse x′ si assume in modo che sia zx′ = 90° ± 45° (con la solita convenzione per il segno).

Elementi della teoria delle ombre.

16. Generalità. - La sensazione visiva che noi ritraiamo da un qualsiasi oggetto è dovuta al complesso di numerosi fattori. Tra questi, uno dei più importanti risiede nella modalità d'illuminazione: è chiaro infatti che, a meno che non si tratti d'una sorgente luminosa, noi vediamo un oggetto in quanto è illuminato. L'oggetto presenta sempre degli effetti di luce, dovuti al fatto che non tutte le sue parti risultano ugualmente illuminate. Il rappresentare questi effetti di luce in base a considerazioni geometriche (prescindendo cioè dall'aspetto artistico della questione) è problema di natura assai complessa. Soltanto introducendo varie ipotesi semplificatrici si riesce a risolverlo in modo soddisfacente.

Ci si può poi proporre, in questo campo, un triplice ordine di problemi. Data una sorgente luminosa puntiforme, essa non riesce a illuminare la totalità dell'oggetto: una parte di questo resta oscura, o (come suol dirsi) in ombra. Determinare quale sia la zona in luce e quale quella in ombra, per un dato oggetto e per una data sorgente puntiforme, costituisce un primo problema (determinazione dell'ombra propria). Inoltre, se supponiamo che l'oggetto sia opaco, esso formerà come uno schermo, che impedirà alla luce di propagarsi liberamente: anche una parte dello spazio (dietro l'oggetto) resterà cioè in ombra. Se dietro l'oggetto si trova una superficie, resterà pure in ombra una parte di questa. La determinazione della parte che resta in ombra, su una superficie qualsiasi situata dietro l'oggetto, costituisce un secondo problema (determinazione dell'ombra portata d'un oggetto su una superficie). E di questi due primi problemi s'occupa la teoria delle ombre propriamente detta.

Ma fin qui non si esce da una trattazione puramente geometrica, la quale corrisponde alla realtà soltanto in prima approssimazione. Si osservi, infatti, che realmente non si ha una separazione netta tra parte illuminata e parte in ombra, e che inoltre, sia nelle parti in luce, sia in quelle in ombra, si hanno variazioni d'intensità (nella luce o nell'ombra) da punto a punto. Il problema che ci si propone in quest'ordine d'idee, cioè quello di tener conto, nella rappresentazione, di tali effetti di luce, costituisce l'argomento di ricerca della teoria del chiaroscuro.

17. Luce impiegata. - Vediamo ora quali ipotesi semplificatrici s'introducano nella teoria delle ombre per ridurre a forma schematica i problemi da risolvere (v. anche: descrittiva, geometria, n. 18). Anzitutto si ammette che la luce si propaghi sempre in linea retta: si prescinde cioè dai fenomeni di diffrazione. In secondo luogo si ammette che si abbia un'unica sorgente luminosa, e che questa sia puntiforme. I raggi luminosi vengono cioè concepiti come gli elementi d'una stella di rette (insieme delle rette dello spazio aventi un punto comune). Se la sorgente luminosa si suppone a distanza finita dall'oggetto, la stella dei raggi luminosi è propria e si ha la cosiddetta luce centrale.

Generalmente però (esclusi quei casi particolari in cui necessariamente si debba ammettere il contrario) si suppone che la sorgente luminosa si trovi a distanza infinitamente grande dall'oggetto: i raggi luminosi costituiscono in tale ipotesi una stella impropria, cioè risultano paralleli tra loro. Si ha allora la cosiddetta luce parallela, o luce solare. Tale ultimo nome è dovuto al fatto che i raggi del Sole, provenendo da distanza estremamente grande, rispetto alle dimensioni degli oggetti illuminati che comunemente si considerano, sono da ritenere praticamente paralleli.

Se ci si riferisce al metodo del Monge (v. descrittiva, geometria, n. 3), la direzione della luce parallela si determina, assegnando le due proiezioni l1, l2 d'un raggio luminoso l qualsiasi, contrassegnandoli con una freccia, che indichi il senso di progressione della luce.

E il sistema più in uso è appunto quello che assume come prima e seconda proiezione del raggio luminoso due semirette formanti con una stessa semiretta della linea di terra angoli di 45° (v. fig. 12), situate da bande opposte rispetto alla linea di terra stessa, e con le frecce rivolte verso di essa (e di solito si adotta il senso da sinistra verso destra rispetto a chi guardi il foglio). Si ha così la "luce a 45°", che viene usata, quasi senza eccezione nel disegno di architettura e in quello di macchine.

Si osservi tuttavia che tale nomenclatura (di "luce a 45°") è impropria se ci si riferisce ai raggi luminosi obiettivi anziché alle loro proiezioni. Infatti se le proiezioni d'un raggio luminoso sono l1, l2, il raggio stesso l è diretto in realtà secondo una diagonale d'un parallelepipedo retto, quale è disegnato nella figura 13, e se l1, l2 formano con la linea di terra angoli di 45°, quel parallelepipedo retto è un cubo. L'angolo α che la direzione obiettiva l forma in tal caso col piano orizzontale è tale che si ha

onde risulta α = 35°16′8″.

La ragione del gran favore incontrato dal sistema della "luce a 45°" sta nella grande semplicità delle costruzioni a cui esso dà luogo. Infatti per costruire le proiezioni d'un raggio luminoso passante per un punto qualsiasi P (P1, P2) basta servirsi due volte della squadretta isoscele, come nostra la figura 14 (disponendo cioè un cateto lungo la linea di terra e l'altro cateto lungo la P1P2).

18. Ombre di punti e di rette. - Data una figura solida F, e stabilita la direzione dei raggi luminosi, questi raggi si dividono in tre categorie: esterni, secanti, tangenti (o radenti) rispetto a F. I raggi luminosi radenti s'appoggiano alla superficie di F, in generale, nei punti di una linea, che vien detta separatrice, poiché separa la regione di F che si trova in luce da quella che si trova in ombra. Questa seconda parte di F (che si trova in ombra) si chiama ombra propria di F. Il luogo dei raggi luminosi radenti è una superficie cilindrica avente per direttrice la linea separatrice, e per generatrici i raggi luminosi stessi: essa si chiama involvente di F, o anche cilindro (o cono, se si tratta di luce centrale) d'illuminazione di F. L'involvente di F sega una superficie qualsiasi S secondo una linea chiusa, che delimita (nel suo interno) l'ombra portata di F su S.

Prima di passare alla determinazione effettiva delle ombre (propria e portata) di date figure, conviene imparare a trovare le ombre (portate) di punti e di rette.

Sia dato un punto P, avente le proiezioni P1, P2 in un dato sistema del Monge. Per P si faccia passare un raggio luminoso, e di questo si consideri la semiretta che, a partire da P, procede nel senso di propagazione della luce. Tale semiretta r si dice raggio d'ombra del punto P. Essa taglia i due piani di proiezione in due punti. La prima delle due intersezioni (P0) si dice ombra del punto P, mentre la seconda (P*) si dice ombra virtuale. Ciò perché, se i piani di proiezione si suppongono opachi, la vera ombra di P è P0, mentre P* resta invisibile, anzi non si forma in realtà. Nel caso della fig. 15, P0 sta sul piano verticale π2: si dice allora che il punto P ha ombra verticale. Ma naturalmente si può verificare anche il caso opposto, in cui il raggio d'ombra incontri prima il piano orizzontale e poi quello verticale. Soltanto nel caso in cui il raggio d'ombra sia incidente alla linea di terra, l'ombra P0 coincide con quella virtuale P*.

Per vedere come si possano determinare graficamente P0 e P* si pensi la figura nello spazio e s'immagini di proiettare (fig. 15) il segmento P P0 P*, ortogonalmente, sui due piani di proiezione. Proiettando su π1 i tre punti P, P0, P* del detto segmento, s'ottengono i tre punti P1, P10i P*: questi risultano dunque allineati. Proiettando su π2 si vede che risultano allineati i tre punti P2, P0, P2*. D'altra parte, la direzione dei raggi luminosi è quella di PP0P*: quindi i due segmenti-proiezione P1 P10 P*, P2 P0 P2* hanno le direzioni di l1, l2.

Si giunge così alla costruzione indicata nella fig. 16, in cui P1 P10 e P2 P2* sono condotte parallele rispettivamente a l1, l2. Si osservi che la costruzione della fig. 16 può anche essere usata per trovare P*' dato P0 e che nel caso particolare della luce a 45° il quadrilatero P0P10P2* P* è un quadrato.

Determiniamo ora le ombre portate d'una retta qualsiasi sui due piani di proiezione. Data una retta, i raggi d'ombra dei suoi punti giacciono tutti su un semipiano, detto semipiano d'ombra. Le intersezioni di questo con i due piani di proiezione costituiscono le ombre portate della retta su tali piani: naturalmente occorrerà indicare sul disegno le parti visibili di dette ombre, supposti, come al solito, opachi i piani di proiezione. Data una retta a di tracce S, T (v. fig. 17, in cui entrambe le tracce sono visibili), si osservi che per disegnare la sua ombra portata su π1 (ombra che è anch'essa una retta) basta determinarne due punti. Uno di tali punti è la stessa traccia S, che, giacendo su π1, coincide con la sua ombra: come secondo punto conviene prendere l'intersezione del raggio d'ombra per T col piano π1, ossia l'ombra virtuale T* di T. La congiungente ST* è l'ombra portata di a su π1: la parte visibile è naturalmente quella compresa tra S e il punto R, intersezione di ST* con la linea di terra. Quanto all'ombra portata di a su π2, si osservi che uno dei suoi punti è la traccia T, che coincide con la propria ombra, e che un altro suo punto è R, che, giacendo su π2 coincide anch'esso con la propria ombra. Il segmento TR è dunque la (parte visibile dell') ombra portata di a su π2. Nel disegno, si ha così la costruzione della fig. 18. Da T si passa a T* (come è indicato nella fig. 16 per passare dall'ombra P0 all'ombra virtuale P*): si congiunge poi S con T*, determinando l'intersezione R con la linea di terra: si congiunge finalmente R con T. L'ombra portata di a sui due piani di proiezione è costituita dall'insieme dei due segmenti SR, RT.

È immediata l'applicazione del procedimento a due casi particolari: quello delle rette orizzontali e quello delle rette di fronte (cioè parallele a π2). Nel primo caso, essendo impropria la traccia S, l'ombra orizzontale RS e la prima proiezione ai risultano parallele; mentre nel secondo caso, essendo impropria la traccia T, risultano parallele l'ombra verticale RT e la seconda proiezione a2.

Nessuna variazione si ha invece se la retta data è di profilo. Se poi la retta è proiettante in prima proiezione (ed è cioè rappresentata dalla traccia S e dalla seconda proiezione a2: v. fig. 19) l'ombra portata su π1 è il segmento SH, condotto parallelamente a l1, mentre l'ombra portata su π2 è la parallela ad a2 per H. Similmente si ha per rette proiettanti in seconda proiezione, fatte le debite variazioni.

19. I problemi già risolti (determinazione delle ombre di punti e di rette) permettono di determinare l'ombra portata sui piani di proiezione d'una curva qualsiasi, data mediante le sue due proiezioni. Tale ombra può infatti essere facilmente costruita per punti e per tangenti. Inoltre, in casi particolari, potranno intervenire elementi di facilitazione così, nel caso d'un cerchio, già si sa che l'ombra portata è un'ellisse (o un arco di ellisse su ciascun piano di proiezione). Secondo la posizionc del cerchio dato, l'ombra portata giacerà tutta su π1 o tutta su π2 (ellissi complete), o parte su π1, parte su π2. Si hanno in tale ultimo caso due archi d'ellisse, che si tagliano in due punti H, K della linea di terra. La determinazione di questi due punti si compie facilmente ricorrendo a un ribaltamento del cerchio obiettivo intorno alla traccia orizzontale del suo piano.

Se è data una figura solida F, occorre anzitutto determinare il contorno dell'ombra propria (linea separatrice): l'ombra portata è poi l'ombra (sui due piani di proiezione o su altra superficie) del detto contomo. Anche in questo caso s'applicano dunque le costruzioni fondamentali delle ombre di punti e di rette (n. 18). Il procedimento da seguire verrà chiarito mediante qualche esempio pratico.

Ombra d'un parallelepipedo rettangolo. - Supponiamo che esso abbia la base ABCD appoggiata su π1 (fig. 20). Considerando i raggi d'ombra DM, BN dei punti D, B, si vede che restano in ombra la base ABCD e le facce laterali CDDG, BCGF, mentre restano in luce la base superiore e le altre due facce laterali. Si vede, cioè, che il contorno dell'ombra propria è dato dalla spezzata sghemba DHGFBAD. Naturalmente non occorre occuparsi della base inferiore, che senz'altro è in ombra e, se si vuole dir così, fa parte dell'ombra portata su π1. Si dovrà, dunque, trovare soltanto l'ombra dei segmenti DH, HG, GF, FB. Per trovare l'ombra di DH, s'osservi che tale segmento appartiene a una retta proiettante in prima proiezione: ci si trova cioè nel caso delle fig. 19. L'ombra di DH su π1, è quindi il segmento DM parallelo a l1 mentre quella su π2 è il segmento MH0 perpendicolare alla linea di terra: il punto H0 (ombra di H) è stato trovato conducendo per H2 la parallela a l2. Nello stesso modo s'ottengono le ombre BN, NF0 dello spigolo BF. Per quanto riguarda gli spigoli HG e GF, tutto si riduce a trovare (con la solita costruzione) l'ombra G0 del loro punto comune G. Congiungendo poi G0 con H0 e F0 si hanno le ombre di HG e GF. Si conclude che l'ombra portata del parallelepipedo dato è costituita dalla parte ABNMD su π1 e dalla parte NF0G0H0M su π2.

Ombra d'un cono finito retto. - Consideriamo un cono finito retto, avente il cerchio di base appoggiato sul primo piano di rappresentazione: esso risulta rappresentato come mostra la fig. 21 (V1 e V2 sono le proiezioni del vertice V, mentre V2 A2 e V2 B2 costituiscono il contorno apparente su π2: v. anche descrittiva, geometria, n. 17).

Si comincia col determinare l'ombra V0, e quella virtuale V*, del vertice V: nel caso della fig. 21, V ha ombra verticale, sicché l'ombra portata del cono giacerà parte su π1, parte su π2. Il raggio luminoso passante per il vertice è l'asse d'un fascio di piani, alcuni dei quali sono esterni al cono (cioè hanno comune con esso soltanto il vertice), altri sono secanti (ossia lo tagliano lungo due generatrici) e due sono tangenti al cono (cioè hanno comune con esso soltanto una generatrice per ciascuno). Tali due piani contengono tutti i raggi luminosi tangenti al cono, quindi essi determinano sulla superficie di questo la linea separatrice (ossia il contorno dell'ombra propria). Per avere le prime tracce di questi due piani tangenti, si osservi che tali tracce debbono contenere il punto V*, che è comune a π1 e all'asse del fascio di piani. Di più, essendo i detti piani tangenti al cono, le loro intersezioni con π1 debbono essere tangenti al cerchio di base: otteniamo quindi le prime tracce dei due piani tangenti conducendo per V* le rette tangenti V*H, V*K al cerchio di centro V1. I due segmenti VH, VK (rappresentati da V1 H, V2 H2 e da V1 K, V2 K2) ci dànno la linea separatrice (contorno dell'ombra propria). La determinazione dell'ombra portata su π1 è con ciò già eseguita: essa è limitata superiormente dalla linea di terra y. E per avere l'ombra portata su π2, basta congiungere i due punti, in cui HV*, KV* segano la y, con V0 che è l'ombra portata del vertice su π2 stesso.

Analogamente si tratta il caso del cilindro circolare retto: naturalmente occorre determinare (per la base superiore) l'ombra d'un semicircolo, e s'ottiene così una semiellisse (orizzontale o verticale, secondo i casi), che potrà anche spezzarsi in due archi: uno su π1 e uno su π2.

20. Ombre portate di punti e. di rette su un cilindro retto. - Fin qui si è trattato della determinazione delle ombre portate sui due piani di proiezione: per mostrare come si proceda nel caso di superficie qualisivogliano può servire l'esempio della determinazione di ombre portate su un cilindro circolare retto, con le generatrici verticali. Anche qui basterà considerare ombre di punti e di rette, poiché i risultati ottenuti potranno essere applicati a casi più complessi. L'importanza pratica del problema si rileva pensando all'ombra portata da un capitello o da una trabeazione sul fusto d'una colonna (in questo caso l'ombra si dice autoportata, in quanto anche la colonna fa parte del sistema che si considera).

Siano dati un punto P (P1, P2), e un cilindro in rappresentazione del Monge (v. fig. 22). Conducendo per P1 la parallela a l1 fino a tagliare in P01, la circonferenza di base del cilindro, s'ottiene in P01 la prima proiezione dell'ombra cercata P0: la seconda proiezione s'ottiene come intersezione della perpendicolare alla linea di terra per P01 e della parallela a l2 per P2.

Ripetendo più volte la stessa costruzione, si riesce a determinare per punti l'ombra d'una retta sul cilindro: s'osservi che detta ombra essendo l'intersezione della superficie cilindrica col semipiano d'ombra della retta, è in generale una ellisse, anzi una semiellisse, dato che si deve considerare solo la metà in luce del cilindro.

Tutte queste costruzioni si sempl¡ficano notevolmente quando si consideri luce a 45° in tal caso si ha il fatto importantissimo che l'ombra P0 d'un punto su una superficie qualsiasi ha le sue tre quote rispetto a P (di profondità, d'altezza e di fronte) uguali tra loro in valore assoluto: a tale valore comune si dà il nome di aggetto del punto P rispetto alla superficie considerata.

21. Ombre delle cornici architettoniche. - Le cornici architettoniche costituiscono delle superficie cilindriche, la cui curva direttrice è la cosiddetta sagoma, o profilo. Il problema che, sulle ombre portate delle cornici, si presenta più frequentemente in pratica è quello di determinare l'ombra portata su un piano di fronte d'una cornice architettonica, le cui generatrici siano per un certo tratto rette orizzontali di fronte, e poi (per un ripiegamento ad angolo retto della cornice) diventino rette orizzontali di profilo. La prima proiezione (o pianta) fa in questo caso vedere chiaramente i mutamenti di orientazione della cornice, mentre la seconda proiezione ci dà la sagoma (come proiezione dell'intersezione dei due tratti di cornice).

La determinazione dell'ombra portata in luce a 45°, si fa, come mostra la fig. 23, conducendo per Bz una retta a 45° e fissando B0 in base all'aggetto A1 B1. Il segmento B0 C0 risulta uguale e parallelo a B2 C2: il punto D0 s'individua conducendo per D2 una retta a 45° e in base all'aggetto D1P. Il punto D2, a sua volta, s'individua come quel punto dell'ovulo in cui la tangente è inclinata a 45°.

Per l'ombra propria si conducono le rette a 45° tangenti e radenti al profilo, facendole provenire da destra, anziché da sinistra. Questa regola pratica d'uso comune si giustifica ribaltando la sagoma (disegnata su π2) su un piano di profilo π3, e osservando che in luce a 45° anche le proiezioni (dei raggi luminosi) su piani di profilo sono inclinate a 45°.

23. Ombre in prospettiva. - Si consideri anzitutto la prospettiva assonometrica. Se si vuol determinare la prospettiva d'una figura F e della sua ombra (ad es. sul piano xy), si può rappresentare F con la sua ombra nel disegno descrittivo, e poi riportare in prospettiva assonometrica F e l'ombra stessa. Ma questo sarebbe un metodo indiretto. Si raggiunge più semplicemente lo scopo, osservando che l'ombra P0 sul piano xy d'un dato punto P è l'intersezione del raggio luminoso per P con la sua proiezione ortogonale P1 P0 sul piano (fig. 24). Si noti che al variare della posizione del punto P variano in generale la posizione di P1 e quella di P0, e variano quindi anche di posizione le rette PP0 e P1 P0. Resta tuttavia invariata la loro direzione, che per le rette come PP0 è quella costante dei raggi luminosi, mentre per le rette P1 P0 è determinata come quella dell'intersezione di due piani: uno fisso (piano xy) e uno di giacitura fissa (piano perpendicolare a xy e parallelo ai raggi luminosi). Passando alla prospettiva assonometrica, e ricordando che in prospettiva parallela si conserva il parallelismo, si vede che anche le prospettive di tutte le rette come PP0 risulteranno parallele, e che altrettanto si potrà dire per le prospettive di tutte le rette come P1P0. Basterà cioè determinare sul quadro assonometrico la direzione della prospettiva l′ d'un qualsiasi raggio luminoso e quella della prospettiva l1′ della proiezione ortogonale l1 di l su xy. Una volta determinate tali direzioni, per trovare la prospettiva P0′ dell'ombra P0 d'un punto P basterà condurre per P′ e P1′ (prospettive di P e della sua proiezione ortogonale P1 su xy) le rette parallele rispettivamente a l′, l1. La loro intersezione ci darà P0′, prospettiva dell'ombra di P.

Per segnare sul quadro assonometrico le direzioni l′, l1′ cui s'è accennato, occorre in sostanza rappresentare in prospettiva assonometrica il triangolo PP1P0 della fig. 24. Siccome si parte dalla rappresentazione d'un punto P in proiezione del Monge, è possibile far sì che P1 rappresenti la prima proiezione e P stesso la seconda proiezione: basta per questo supporre che il punto P giaccia sul secondo piano di proiezione. Conviene anzi, per una più facile rappresentazione sul quadro assonometrico, supporre P sull'asse z (figura 25). La rappresentazione di P0 in proiezione del Monge si ottiene subito osservando che P0 è da considerarsi ombra virtuale d'un punto, di cui P sia ombra reale: si esegue dunque la costruzione contenuta nella figura 16 (in cui si passava così da P0 a P*). Il passaggio al quadro assonometrico è ora immediato: basta costruire le prospettive P′, P0′ di P e di P0 (quella di O è l'origine O′). Ciò fatto, la PP0′. ci dà la direzione della prospettiva dei raggi luminosi, mentre la P1P0′ ci dà la direzione della prospettiva della proiezione ortogonale dei raggi luminosi su xy. Per vedere un'applicazione del procedimento, si riprenda in esame la rappresentazione assonometrica del cubo (fig. 20) e si ricerchi l'ombra portata del cubo stesso sul piano xy (in prospettiva). Si suppongano già determinate (come è stato spiegato) le direzioni l′ e l1′ delle prospettive dei raggi luminosi e delle loro proiezioni ortogonali sul piano xy (fig. 26). La prospettiva dell'ombra di D si determina conducendo per D′ la parallela a l′, e per A′ (che è la prospettiva della proiezione ortogonale di D sul piano xy) la parallela a l1′: la loro intersezione ci dà il punto D0′. Costruzioni analoghe ci darebbero i punti C0′ e F0′. Possiamo però farne a meno, costruendo D0C0′ parallelo e uguale a DC′, e C0F0′ parallelo e uguale a CF′. L'ultimo tratto visibile del contorno dell'ombra portata si costruisce conducendo per F0′ la parallela a l1′. (tale parallela passerebbe infatti per la prospettiva della proiezione ortogonale di F). Lo stesso metodo (con i necessarî mutamenti) si segue anche per determinare la prospettiva dell'ombra portata su altri piani.

Per risolvere lo stesso problema nella prospettiva conica (determinazione di ombre sul geometrale), si osservi anzitutto che si può usare lo stesso metodo indiretto già citato per la prospettiva assonometrica: costruire cioè sul disegno descrittivo l'ombra d'una figura F, e determinare le prospettive della figura e della sua ombra. È preferibile servirsi del metodo diretto, che è esattamente corrispondente a quello usato in prospettiva assonometrica. Si considera anche in questo caso (figura 24) l'ombra P0 come intersezione del raggio luminoso per P con la sua proiezione ortogonale sul geometrale. Ma questa volta le prospettive dei raggi luminosi e delle loro proiezioni ortogonali non sono parallele, bensì concorrono nei rispettivi punti di fuga Q e Q′. Dette P′ e P1′. le prospettive di P e P1, la prospettiva P0′ dell'ombra P0 di P si trova come intersezione di PQ con P1 Q′. Tutto si riduce dunque a saper determinare Q e Q′. Si vede anzi che, conoscendo Q, si trova subito Q′. Infatti quest'ultimo, come punto di fuga di rette orizzontali, si trova sull'orizzonte: di più, in quanto il raggio luminoso per P e la sua proiezione orizzontale determinano un piano perpendicolare al geometrale, la sua retta di fuga (che contiene Q e Q′) è perpendicolare all'orizzonte. Il punto Q′ si trova dunque come piede della perpendicolare condotta da Q sull'onzzonte. E Q, essendo la traccia sul quadro del raggio luminoso passante per il centro di vista V, si determina sul disegno descrittivo conducendo per V1 e V2 le parallele rispettivamente a l1, l2 (prima e seconda proiezione del raggio luminoso: v. fig. 27).

La prima proiezione Q1 è l'intersezione di f con la parallela a l1 per V1, dopo di che, con la retta di richiamo, si determina Q2. La conoscenza dei segmenti (orientati) V1 Q1 e HQ2 permette di costruire Q sul disegno prospettivo.

23. Cenno sulla teoria del chiaroscuro. - È stato già accennato al fatto che la teoria delle ombre propriamente detta, conducendo alla determinazione d'un netto contorno d'ombra (propria o portata), non corrisponde esattamente alla realtà delle cose.

La parte d'una superficie, che si trova in luce, non è in tutti i suoi punti ugualmente illuminata: si ha un graduale passaggio da zone in luce a zone in ombra, e di più la parte in ombra non è ugualmente oscura in tutti i suoi punti. La "teoria del chiaroscuro" si propone appunto di tener conto, sia pure in modo approssimato, di questi effetti di luce.

Si osservi anzitutto che su una superficie illuminata l'intensità d'illuminazione varia da punto a punto col variare dell'inclinazione della superficie rispetto ai raggi luminosi. Se si chiama "angolo d'incidenza della luce" in un punto l'angolo acuto che la normale alla superficie in quel punto forma col raggio luminoso, vale la legge: Nei singoli punti d'una superficie illuminata, l'intensità d'illuminazione è proporzionale al coseno del corrispondente angolo d'incidenza. Ora, data una superficie illuminata, si chiamano isòfote (o linee di uguale illuminazione) quelle linee, tracciate sulla superficie, lungo le quali l'intensità d'illuminazione è costante. Si suole indicare con 1 la massima intensità d'illuminazione (corrispondente all'orientazione ortogonale alla direzione della luce). L'isofota d'intensità i può anche mancare: non manca mai, invece, quella d'intensità o (coincidente col contorno d'ombra propria). È facile vedere che (tranne punti singolari della superficie) due isofote di diversa intensità non hanno punti comuni. Si segna sulla superficie un certo numero n + 1 d'isofote corrispondenti ai valori dell'intensità d'illuminazione:

La superficie risulta così divisa in zone, che vengono acquarellate (procedendo dall'isofota di massima intensità verso quella d'intensità nulla) con tinte sempre più scure, la cui intensità crescente si ottiene con "mani" successive: e alla fine si attenua, sfumando, il distacco tra una zona e l'altra, così da mostrare un passaggio graduale.

Per quanto riguarda i varî gradi d'ombreggiatura, si tenga presente che un corpo viene illuminato non soltanto direttamente dalla sorgente luminosa, bensì anche dalla luce riflessa da altri corpi illuminati, dal pulviscolo atmosferico e dall'aria stessa. Entro certi limiti di approssimazione, si può tener conto di questi fattori, considerando, oltre all'effettiva sorgente luminosa, e a distanza infinita ma in direzione opposta, una sorgente luminosa fittizia, la cui intensità si assume uguale a una frazione

di quella della sorgente effettiva. In tal modo, come si fa per le diverse gradazioni d'illuminazione della zona in luce, si possono rappresentare, mediante la considerazione di altre isofote (della regione d'ombra), le diverse gradazioni d'ombreggiatura di detta regione. Nei casi pratici occorre dunque saper determinare le isofote; così per la sfera si vede facilmente che esse sono le circonferenze lungo le quali la superficie sferica è segata da piani ortogonali alla direzione della luce (v. fig. 28).

Bibl.: In quasi tutti i trattati di geometria descrittiva (v.) si trovano i principî fondamentali della prospettiva lineare. Fra i trattati e manuali speciali, cfr. D. Tessari, Trattato teorico-pratico delle proiezioni assonometriche ortogonali e oblique, Torino 1882; E. Ciani, La prospettiva cavaliera a quarantacinque gradi, Milano 1903; C. Claudi, Manuale di prospettiva, ivi 1929; C. Chieas, Prospettiva. Elementi razionali per l'uso pratico, ivi 1931; J. Pillet, Traité de perspective linéaire, Parigi 1885; A. v. Oettingen, Elemente des perspektivischen Zeichnens, Lipsia 1901.

La prospettiva nelle arti figurative.

Sebbene l'arte di rappresentare figurativamente le cose in quelle proporzioni e in quei reciproci rapporti spaziali in cui si presentano all'occhio dell'osservatore riposi sulla conoscenza di leggi determinabili matematicamente, si può dire che dipenda dalla sensibilità, e quasi dall'istinto dell'artista, di realizzare correttamente la visione prospettica, anche indipendentemente da una precisa conoscenza teorica delle relative leggi. La prospettiva fondata su basi scientifiche è infatti una scoperta che non risale più indietro del sec. XV; mentre l'intuizione e l'osservanza, più o meno imperfetta, delle leggi prospettiche, si riscontrano nel mondo dell'arte a partire da tempi antichissimi.

Cenni storici. - Antichità. - La pittura egiziana, solita all'appiattimento delle figure in silhouette, tutte sopra un piano unico, sembra non di rado disconoscere di proposito ogni esigenza prospettica. Del suo mondo il pittore egiziano offre di regola una interpretazione assolutamente antiprospettica. Per un bisogno sentito, del resto, da tutte le arti primitive, egli non si preoccupa che di presentare alla vista i particolari delle cose e delle figure, arrivando sino all'assurda visione di prospettiva parallela e di prospettiva dall'alto, o a volo d'uccello. Dovendo però rappresentare un ammassamento di folla, quale un esercito in marcia, l'artefice egiziano, attraverso una concezione rudimentale delle leggi prospettiche, suggerisce l'immagine di massa allineando, sopra la prima fila di figure rappresentate per intero, delle teste di profilo, strette una all'altra, e in tante file una sull'altra: tutte delle medesime proporzioni. L' arte babilonese obbedisce supinamente ai medesimi convenzionalismi. Qualche tendenza novatrice pare invece si possa cogliere su rilievi di arte assira, di età non anteriore al sec. VIII a. C. L'arte minoica è più indipendente e spregiudicata, più strettamente a contatto con la natura. Su taluni affreschi decorativi di quello che si è denominato "il tempio", all'ala nord-ovest del grande palazzo cretese di Cnosso, appare ancora una volta, ma suggerita all'occhio con maggiore disinvoltura, l'impressione in prospettiva a volo d'uccello di folle di spettatori e spettatrici, mediante l'allineamento di sole teste, tutte di un unico modulo (A. Evans, The Palace of Minos at Knossos, vol. III, p. 45 segg.).

La prospettiva dall'alto è ancora quella che ci appare come l'unica accessibile alla fantasia degli artisti, così su monumenti di età micenea, come anche su monumenti (vasi dipinti) del periodo "geometrico" protoellenico e del periodo greco arcaico. Rinnovatore della pittura nel mondo greco, e rinnovatore, per l'influsso della pittura, di tutte le arti figurative nella Grecia classica, è Polignoto di Taso. La perdita completa e irrimediabile delle opere del più grande e celebrato pittore dell'antichità, c'impedisce di valutare adeguatamente il contributo originale dato da Polignoto alla soluzione del problema prospettico. Nelle sue grandi composizioni in Atene, Delfi, ecc., Polignoto certamente aspirò a realizzare la visione prospettica normale, in profondità, collocando su piani diversi figure unite da un'azione o soggetto comune, realizzando per il primo la funzione illusionistica spaziale della pittura. Testimonianza importante e non unica, per quanto, indiretta, di ciò, è il cratere orvietano detto "degli Argonauti" (Parigi, Louvre; v. V, tav. LXXVI). Sulle pareti di questo vaso, dipinto da un anonimo ceramografo guadagnato alle nuove correnti pittoriche, i personaggi, veduti per la maggior parte di tre quarti, con scorci arditissimi, si distribuiscono sopra ondulazioni di terreno esprimenti il digradare della scena verso la linea dell'orizzonte. Da qualche figura disegnata in scala minore, sembra potersi dedurre che Polignoto fosse anche arrivato a graduare le dimensioni in ragione delle distanze.

Le scoperte polignotee furono senza dubbio sviluppate da discepoli e seguaci, come Agatarco di Samo e Apollodoro di Atene. Problemi prospettici fondamentali dovettero di necessità venire risolti variamente dai più antichi pittori greci di scene teatrali, forse già in uso al tempo di Eschilo. Primo codificatore delle leggi prospettiche applicate alla scenografia sarebhe stato, secondo Vitruvio (De Arch., VII, praef.), lo stesso Agatarco. Una certa pratica della prospettiva artistica si riscontra nei ναῖσκοι (tempietti) dipinti su vasi dell'Italia meridionale. Appartiene forse all'ultimo secolo della repubblica quell'Apaturio di Alabanda (Caria) che, secondo Vitruvio (VIII, 17 segg.), fu aspramente criticato dal matemaiico Licinio per una sua troppo macchinosa scenografia nel teatro di Tralle.

Il problema prospettico in realtà non s'impone con tutto il suo peso se non al pittore che, abbandonati i tradizionali temi di figura, ardisca cimentarsi in composizioni architettoniche e di paesaggio. Si dicono appunto "prospettive" le composizioni pittoriche ornamentali a base di motivi architettonici. Il favore, di cui godeva tale genere di pittura nel mondo ellenistico-romano, diede origine, tra il sec. II e il I a. C., a quello che si chiama il "secondo stile" della pittura ellenistico-romana, detto altrimenti "architettonico". Considerando certe pitiure parietali proprie di codesto stile in Pompei e a Roma (Palatino), si vede come le nozioni pratiche di prospettiva fossero già molto evolute, risultando applicato il "punto di vista" centrale al quadro, e approssimativamente all'altezza dell'occhio dell'osservatore, insieme con una precisa idea dell'orizzonte prospettico. Chiara apparisce la conoscenza delle leggi ottiche, per cui tutte le linee dei piani normali alla persona dell'osservatore convergono ordinatamente verso il "punto di vista" centrale, in una linea di fuga, con il graduale sollevarsi e abbassarsi dei piani, rispettivamente più bassi o più alti riguardo alla linea dell'orizzonte. Tra i numerosi esempî del genere citiamo come i più illustri: le pitture decorative della villa di Fannio Sinistore, o di Boscoreale, le pitture della villa pompeiana detta "di Diomede", e ancora, quelle della villa famosa "dei Misteri". Su codeste e simili composizioni pittoriche è facile riscontrare qua e là errori di prospettiva più o meno gravi. Ma non si può non riconoscere che l'anonimo pittore decoratore possiede, in ogni caso, i fondamenti della prospettiva lineare, e spesso inoltre rivela una conoscenza non superficiale della prospettiva aerea, in quanto i piani e gli oggetti che si suppongono come più lontani dall'osservatore, sono in realtà presentati con toni di colore attenuati rispetto ai particolari e agli oggetti più vicini, in omaggio all'effetto ottico determinato dalla massa d'aria interposta. Il gusto per le composizioni architettoniche, o "prospettive", informa di sé variamente anche il "terzo" e il "quarto stile" della pittura pompeiana (fino al 79 d. C.). Nelle pitture del "terzo stile" appaiono frequenti le composizioni architettoniche, ma più o meno geometrizzate e irrigidite, cioè irreali. Nelle pitture del "quarto stile", come quelle della Casa dei Vettii, le architetture sono limitate a scomparti di pareti, come a finestre dalle quali si scorga parte dello scenario antistante.

Plinio espressamente c'informa che la pittura augustea si dilettava anche di "soggetti come promontorî, spiagge, fiumi, fonti, euripi, templi, boschi, monti, greggi e pastori": vale a dire di tutto ciò che costituisce ai nostri occhi la pittura "paesistica". Gli esempî che oggi si posseggono di tal genere di pittura (originario, come sembra, dal mondo alessandrino; v. ludio) poco aggiungono alle nostre conoscenze sulla prospettiva pittorica degli antichi: poiché mentre la prospettiva aerea è non di rado osservata, la prospettiva lineare invece, per mancanza di punti di riferimento sicuri, perde quella concretezza che è dato riscontrare altrove. Tutti i monumenti, poi, della pittura antica posteriori al sec. I d. C., lungi dal presentare avanzamenti, rivelano in materia un progressivo scadimento rispetto alle cognizioni acquisite.

Medioevo ed età moderna. - L'arte medievale nei suoi capolavori dimostra praticamente ad evidenza che la prospettiva, intesa come costruzione geometrica, illusiva della profondità dello spazio, non è necessaria all'opera d'arte; la quale può sempre giustificare, anzi richiedere, qualunque apparente aberrazione prospettica quando questa sia utile al proprio scopo, e consona al suo stile. Volendo dare visibile realtà nelle sue opere a un mondo creato dalla rivelazione mistica, dall'emozione religiosa, dall'intenzione simbolica, nel Medioevo l'arte (bizantina, preromanica e romanica) fu indifferente all'illusione della profondità e dei rapporti di spazio: alla prospettiva fisica sostituì quella morale, per cui le figure della divinità e dei santi grandeggiarono gigantesche in mezzo alle altre e i particolari dello sfondo - architetture, cenni di paesaggio - non ebbero più altra scala di proporzioni o di distanza con le figure che l'assoluto predominare di queste. E quando, su quelle più profonde, presero il sopravvento altre cause, di natura più edonistica, che pur sempre furono attive, cioè gl'intenti di stilizzazione decorativa, particolarmente nella pittura gotica oltremontana dei sec. XIII e XIV (v. gotica, arte) o nella miniatura musulmana, la prospettiva, come oggettiva costruzione geometrica, fu non meno violata o trascurata. Né i trattati medievali di ottica (di Ibn al-Aitham, o Alhazen; di Vitellione) dànno più importanza alla prospettiva pittorica che quelli di arte (di Teofilo; del Cennini). Ma nel Medioevo, fra tanti relitti dell'antichità, si ritrovano anche avanzi e riflessi dei modi in cui l'arte classica aveva composto i rapporti di spazio: non soltanto in dipinti dei secoli V e VI ("Virgilio Vaticano"; musaici della basilica liberiana, ecc.) nei quali si può vedere la continuità e il trasformarsi di quei modi, ma nella perenne corrente classicheggiante dell'arte bizantina, tra altro nei musaici (secolo VIII) della moschea di Walīd a Damasco, e in miniature di codici aulici nelle quali si ritrovano perfino accenni di prospettiva aerea, sebbene incerti come in copie di cose non del tutto comprese.

A Giotto, la cui pittura ebbe per sommo mezzo di espressione il rilievo, fu necessario lo spazio: egli lo limitò allo scenario dei primi piani, subordinandolo in tutto alle figure, sì che molte volte esso si può dire indicato idealmente piuttosto che attuato, ma riuscì a imporne forte il senso, ritrovando per intuizione d'arte un coordinamento di piani e di linee che non regge all'analisi della prospettiva geometrica ma a questa si avvicina, ed è corretto dal colore e dal chiaroscuro nei tratti aberranti (per es.: Visione di S. Anna negli affreschi dell'Arena di Padova).

Più lontana dalla prospettiva geometrica, talora studiatamente cercata, la rappresentazione dello spazio nelle opere dei maggiori maestri senesi del Trecento, spesso inferiore a quella raggiunta da Duccio, come si vede nella Presentazione al tempio di A. Lorenzetti (Firenze, Uffizî) malgrado l'evidenza data alle linee convergenti: bene è vero che ciò conveniva allo stile intimamente gotico di Simone Martini e dei Lorenzetti, e che negli affreschi degli Effetti del Buon Governo nel Palazzo pubblico di Siena la prospettiva arbitraria accentua altamente la suggestione della visione panoramica, ma frazionata.

La prospettiva lineare, rappresentazione geometrica delle forme e delle distanze che tutto coordini nell'unità di un punto di vista, atta a produrre in una superficie l'illusione della profondità e del rilievo, fu prima ricercata dall'arte fiorentina del Quattrocento. Essa venne allora sempre meglio definita in norme assai precise, quantunque non assolutamente esatte perché, tra altro, non poterono tener conto della comune visione binoculare, e perciò stereoscopica in altro grado. Quelle norme, che poi venute in dominio universale poterono essere applicate da tutti in freddi esercizî scolastici, furono allora ritrovate da artisti i quali, come poi sempre ogni vero artista, nel praticarle ne corressero col proprio senso visivo i tratti aberranti. La prospettiva lineare è uno dei caratteri più materiali ma più chiari dell'arte del Rinascimento nel sec. XV: segna la liberazione dalle astrazioni idealistiche medievali, che avevano annullata la profondità atmosferica, ridotti o trascritti convenzionalmente il rilievo e le distanze; fu l'affermata coscienza di un aspetto del visibile, i rapporti di spazio, necessario all'arte che si rinnovava temprando l'individualità creatrice con una volontà di conoscenza oggettiva di cui le ricerche prospettiche sono uno dei lati più evidenti. E seguire il diffondersi delle dottrine fiorentine sulla prospettiva lineare è tener dietro al propagarsi del Rinascimento nell'arte come anche nei rapporti dell'uomo con le cose.

Furono appunto i più grandi artisti del Quattrocento a promuovere a Firenze quelle dottrine: primo, l'iniziatore massimo il Brunellesco. Stabilì questi come principio essenziale agli effetti illusivi della prospettiva lineare l'unità del "punto di vista" e la giusta distanza del riguardante dalla superficie dipinta: e ne diede singolari dimostrazioni pratiche. Aveva dipinto con quei principî prospettici una veduta del battistero di Firenze su una tavoletta; ma il cielo, anziché colorarlo, lo aveva messo tutto di argento brunito a specchio: intendeva che sull'argento, agli occhi del riguardante, si riflettessero il cielo e le nuvole passanti, fondendo così la realtà con la sua pittura in una più compiuta illusione. Sul "punto principale" della prospettiva aveva praticato nella tavoletta un foro; e dal rovescio della tavoletta, attraverso quel foro - "punto di vista" fisso - il riguardante doveva osservare il dipinto riflesso in uno specchio tenuto alla giusta "distanza".

L. B. Alberti, proponendosi di scrivere più da artista che da matematico il suo De pictura, definì largamente una pratica della prospettiva lineare fondata su quei medesimi principî: il quadro, immaginato da lui come una finestra aperta sullo spazio, dev'essere come vetro in cui si presenti la sezione della "piramide" visiva culminante nel punto di vista; questo e l'"orizzonte" converrà collocarli non più alti dalla "linea di terra" che l'altezza delle figure da dipingere; al "punto principale" o "centrico" della costruzione prospettica converranno tutte le parallele perpendicolari al quadro. E per guidare, in rapporto alla visione reale, la costruzione prospettica l'Alberti ideò l'uso del velo reticolato o rete (v.), detto poi anche "graticola", che interposto fra la veduta e il pittore doveva rendergli più facile, e quasi sensibile, la sezione della piramide visiva e il trasferirla proporzionalmente sul quadro.

Nel De Prospectiva pingendi Piero della Francesca applicò la teoria a risolvere una serie di problemi pratici, di grado in grado più complessi, simili a quelli che avevano irretito nella prospettiva Paolo Uccello il cui disegilo prospettico del "mazzocchio" (cercine formato di poliedri) doveva poi trattenere anche Leonardo da Vinci e ripetersi fra i trattatisti come saggio di virtuosità.

I pittori fiorentini che da Masaccio in poi, nel Quattrocento, ponevano come necessaria preparazione a ogni opera lo schema prospettico della composizione (disegni varî del Ghirlandaio per gli affreschi di S. Trinita; disegno di Leonardo per lo sfondo dell'Adorazione dei Magi) propagarono con l'esempio la loro nuova concezione dello spazio: e dai dipinti di Andrea del Castagno e di Paolo Uccello nel Veneto, di certo, mosse Andrea Mantegna per le nitide costruzioni spaziali dei suoi affreschi che, più di qualunque trattato, volsero allo stile del Rinascimento la pittura nell'Italia settentrionale, mentre il diffondersi della teoria era segnato dai perduti trattati di prospettiva di V. Foppa, di B. Zenale e di altri.

Oltralpe, nei primi decennî del Quattrocento i van Eyck erano riusciti, per intuizione d'arte, e correggendo mediante la luce e il colore le aberrazioni prospettiche, a esprimere così forte il senso dello spazio da superare quello che sorge dalle più esatte costruzioni prospettiche fiorentine: ed è un capolavoro, anche sotto questo aspetto, la Madonna del cancelliere Rollin (Parigi, Louvre), di Giovanni. Ma la pittura oltremontana, rimasta gotica, aveva seguitato a valersi di una prospettiva ideale e soggettiva, esteticamente spesso giustificata ma in tutto aberrante quando si voglia considerare per sé, come oggettiva costruzione spaziale; e la modificò soltanto sotto l'influenza dell'arte italiana del Rinascimento, non sempre bene compresa anche nella concezione dello spazio. Il De artificiali perspectiva di Jean Pèlerin, o Viator (1505), che nell'edizione del 1521 ricorda i nomi del Mantegna, del Perugino, di Michelangelo, di Raffaello, e forse di Luca Pacioli, è informato alle teorie del Rinascimento, e formula anche la necessità dei "punti di distanza"; il Dürer, non ignaro delle ricerche di Leonardo e probabilmente nemmeno di quelle dell'Alberti, aderisce alla nuova prospettiva, anche se praticamente la modifichi, e inventa apparecchi per applicarla, come già l'Alberti il suo "velo".

Dal secolo XVI in poi furono d'uso corrente la teoria e la pratica della prospettiva lineare, mentre se ne moltiplicavano da per tutto i trattati - in Italia, dal Serlio al Barbaro (che già consiglia l'uso della camera oscura) e al Vignola, dal Bibiena al Pozzo - anche per la scenografia, per la decorazione murale, per la proiezione delle ombre. Minore sviluppo ebbe invece la teoria della prospettiva aerea, già accennata dall'Alberti e insistentemente osservata da Leonardo, perché determinata nella pratica della pittura dal senso individuale altrimenti che la prospettiva lineare; e fu anche meno studiata la teoria della prospettiva applicata alla scultura, cui pure già accennava il Gaurico nel suo De sculptura (1504), benché l'arte ne abbia tentato e risolto, specie nel periodo buono, ogni problema.

L'assetto teorico della prospettiva.

Se del passaggio della prospettiva dallo stadio pratico ed empirico a quello teorico e geometrico si vuol fissare il momento decisivo con l'indicazione di qualche opera determinata, conviene ricordare il Commentarius (Venezia 1558) di F. Commandino sui Planisferi di Tolomeo e di Giordano Nunorario, e, più ancora, i Perspectivae libri sex (Pesaro 1600) del suo discepolo Guidobaldo Dal Monte, al quale si debbono, in particolare, il concetto esatto di punto di fuga, da lui designato col nome di "punto di concorso" (precisamente punctum concursum) ancora oggi in uso presso i pittori, la prima considerazione sistematica delle prospettive delle figure giacenti sul geometrale e il conseguente metodo delle altezze. Seguono S. Stevin e G. Desargues, di cui il primo nel Traité d'Optique (in Œuvres mathématiques, Leida 1634) discute geometricamente il problema della restituzione prospettica, mentre il secondo, nella Methode universelle de mettre en prospective les objects, ecc. (Lione 1636; Œuvres, I, Parigi 1864), pone le basi della prospettiva assonometrica.

Nel sec. XVIII sorgono i primi trattati sistematici, fra cui vanno particolarmente ricordati l'Essai de perspective (L'Aia 1711) di W. J. s'Gravesande, i New principles of linear Perspective (Londra 1719; rist. con aggiunte e ritocchi da J. Colson, ivi 1749) di Brook Taylor, e la Freye Perspektive (Zurigo 1744-1759) di J. H. Lambert, che ancora oggi conserva un alto interesse.

Nel sec. XIX, la prospettiva trovò il suo assetto nella geometria descrittiva costituita in scienza autonoma per opera di G. Monge.

V. tavv. LXXIII-LXXVI. E v. anche come esempî di prospettiva: vol. VI, tavv. XXX, CXCIV; vol. VII, pag. 680; vol. XII, tav. CXXXI.

Bibl.: Antichità: R. Delbrück, Beiträge zur Kenntniss d. Linienperspektive in der griechisch. Kunst, Bonn 1899 (Diss.); W. De Grüneisen, La perspective. Esquisse de son évolution des origines (I: La perspective dans l'art archaïque oriental et dans l'art du moyen âge), in Mélanges de l'École de Rome, 1911, p. 393 segg. - Per le fonti letterarie in genere, v. A. Reinach, Textes grecs et latins relatifs à l'hist. de la peinture ancienne (Recueil Milliet), Parigi 1921, I; per le fonti monumentali: E. Loewy, Polygnot, Vienna 1929; E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung der Griechen, Monaco 1923; L. Curtius, Die Wandmalerei Pompejis, Lipsia 1929. Per lo scorcio prospettico, v. A. Della Seta, La genesi dello scorcio nell'arte greca, in Atti Accademia Lincei, Memorie classe scienze morali, s. V, XII (1906), pp. 122-242.

Medioevo ed età moderna: Principali trattati antichi: L. B. Alberti, Della architettura, della pittura, ecc., traduz. C. Bartoli, Bologna 1782; edizione recente, Lanciano 1913; P. Burgensis (Piero della Francesca), De prospectiva pingendi, Strasburgo 1899 (da un cod. della Bibl. Palatina di Parma); Viator (Jean Pèlerin), De artificiali perspectiva, Toul 1505 (ristampa: Parigi 1861); S. Serlio, Il primo (ed il secondo) libro dell'architettura, Venezia 1560; D. Barbaro, Pratica della perspettiva, ivi 1569; M. Bassi, Dispareri in materia d'architettura e prospettiva, Brescia 1572; J. da Vignola, Le due regole della prospettiva pratica, Roma 1583; L. Sirigatti, La pratica di prospettiva, Venezia 1596; G. Dal Monte, Perspectivae libri sex, Pesaro 1600; G. Troili, Paradossi per praticare la prospettiva senza saperla, Bologna 1672; F. Galli Bibiena, L'architettura civile, Parma 1711; A. Pozzo, De perspectiva pictorum et architectorum, Roma 1693 (vedi inoltre: J. v. Schlosser, Kunstliteratur, Vienna 1924, passim). Tra i trattati moderni: J. B. Cloquet, Nouveau traité de prospective, Parigi 1823; F. Cucchi, Lezioni di prospettiva, Bologna 1851; P. Vetri, La legge fondamentale della prospettiva e la teoria della visione, Napoli 1908; A. Noelli, Prospettiva per gli scultori, Milano 1917.

Sulla storia della prospettiva: M. Poudra, Histoire de la perspective ancienne et moderne, Parigi 1864; O. Wulff, Die umgekehrte Perspektive, in Kunstwissensch. Beiträge A. Schmarsow gew., Lipsia 1904; F. Burger, Die deutsche Malerei, Berlino 1913, pp. 103-120; G. Loria, Storia della geometria descrittiva, Milano 1921: J. Kerr, Die Grundzüge der linear-perspekt. Darstellung in der Kunst d. Gebr. von Eyck u. ihrer Schule, Lipsia 1904; K. Döhlemann, Die Entwicklung d. P. in altniederländ. Kunst, in Repertorium f. Kw., XXXIV (19117, pp. 392-422, 500-535; G. J. Kern, Das Dreifaltigkeit Fresko von S. Maria Novella, in Jahrbuch d. preuss. Kunstsamml., XXXIV (19137, pp. 36-45; id., Der "Mazzocchio" des Paolo Uccello, ibid., cit., XXXVI (1915), pp. 13-38; E. Sauerbeck, Aesthethische Perspektive, in Zeitschrift für Aesthethik und allgem. Kunstwiss., VI (1911), pp. 420-55; E. Panofsky, Die Perspektive als "symbolische Form", in Vorträge d. Bibliothek Warburg, Amburgo 1924-25, pp. 258-330; J. Mesnil, Masaccio, L'Aia 1927, pp. 32-38.

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