Proprietario incolpevole e principio 'chi inquina paga'

Libro dell'anno del Diritto 2016

Proprietario incolpevole e principio “chi inquina paga”

Claudio Contessa

Con la sentenza in rassegna (resa su due ordinanze per rinvio pregiudiziale ex art. 267 del TFUE adottate dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel corso del 2013) la Corte di giustizia ha reso alcuni importanti chiarimenti sugli obblighi di bonifica e ripristino ambientale che ricadono in capo al proprietario di un sito inquinato laddove lo stesso non sia in alcun modo responsabile dell’inquinamento del sito. La sentenza della Corte di Giustizia risulta di grande interesse sistematico in quanto definisce, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, i contorni sistematici del principio “chi inquina paga” e conferma l’indefettibilità del nesso causale fra attività dell’operatore ed inquinamento perché possa attribuirsi una responsabilità per danno ambientale ai sensi dell’art. 191 del TFUE. La sentenza in rassegna (che conferma i notevoli spazi decisionali rimessi in subiecta materia ai Legislatori nazionali) induce tuttavia alcune riflessioni circa le scelte di politica normativa nazionale in tema di delimitazione delle conseguenze che comunque ricadono in capo al proprietario incolpevole della contaminazione dell’area.

La ricognizione

La sentenza della C. giust., 4.3.2015, C534/13, Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare1 è stata resa su un rinvio pregiudiziale sollevato da due ordinanze “gemelle” dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (la n. 21 e la n. 25 del 2013)2 e verte sull’interpretazione e sull’applicazione, negli ordinamenti nazionali, dei principi dell’UE in materia ambientale (con particolare riguardo al principio “chi inquina paga” e ai principi di precauzione, dell’azione preventiva e della correzione in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente da comportamenti di operatori economici)3.

A sua volta, l’Adunanza Plenaria era stata richiesta dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato4 di fornire un’indicazione di carattere nomofilattico in ordine alla latitudine degli obblighi di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica di siti inquinati che ricadono in capo al proprietario il quale non sia responsabile dello stato di contaminazione.

L’Adunanza Plenaria, dopo aver ricostruito nei suoi termini generali la res controversa, ha dato atto dei due principali orientamenti giurisprudenziali formatisi sul tema i) quello – minoritario nella giurisprudenza nazionale – secondo cui le pertinenti disposizioni del diritto UE e nazionale legittimano l’imposizione a carico del proprietario incolpevole delle necessarie misure di prevenzione e riparazione anche se a fronte di contaminazioni cagionate da altri operatori; ii) quello – maggioritario – secondo cui il pertinente quadro normativo non consente di imporre al proprietario incolpevole di contaminazioni da lui non determinate l’adozione delle richiamate misure.

I Giudici di Palazzo Spada (come si chiarirà nel prosieguo) hanno ritenuto che l’esame della normativa nazionale apporti argomenti più persuasivi in favore del secondo di tali orientamenti, ma ha chiesto alla Corte di Giustizia di chiarire se la ricostruzione in tal modo operata risulti effettivamente compatibile con i principi e le disposizioni del diritto UE primario e derivato.

Con la sentenza dello scorso marzo la Corte di Giustizia, dopo aver richiamato l’ambito oggettivo e soggettivo di applicazione del principio eurounitario “chi inquina paga” (e ricollegandosi a quanto già statuito con la sentenza ERG del marzo 2010)5, ha stabilito che, in via di principio, la direttiva 2004/35/CE (la quale ha declinato nell’ambito del diritto UE derivato il richiamato principio) non osta a una normativa nazionale la quale (in caso di impossibilità di individuare il responsabile della contaminazione) non consenta di addossare al proprietario incolpevole le misure di prevenzione e di riparazione, imponendo a quest’ultimo solo il rimborso delle spese a tal fine sostenute, nel limite del valore venale dell’area.

La focalizzazione

Qui di seguito si traccerà un inquadramento sistematico delle principali questioni poste dall’Ad. Plen. con le ordinanze di rimessione del 2013 e delle indicazioni fornite sul punto dai Giudici del Kirchberg.

2.1 Il quadro normativo nazionale e le ordinanze di rimessione all’A.P. del 2013

La prima disciplina organica introdotta in Italia in tema di bonifiche di siti contaminati (si tratta, in particolare, dell’art. 17, d.lgs. 5.2.1997, n. 22)6 aveva stabilito che «gli interventi di bonifica costituiscono onere reale sulle aree inquinate» (co. 10) e che «le spese sostenute per la bonifica sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree stesse» (ivi, co. 11) all’evidente fine di fornire un’ulteriore garanzia della copertura dei costi sostenuti per la realizzazione degli interventi di bonifica7.

In questa fase dell’evoluzione normativa interna, tuttavia, non era ancora previsto che il proprietario non responsabile dell’inquinamento potesse essere chiamato a rimborsare le spese degli interventi di messa in sicurezza e bonifica, sia pure entro i limiti del valore venale del sito (tale previsione sarebbe stata introdotta solo con il “Codice dell’ambiente” del 2006).

Ciò aveva indotto parte degli osservatori a sottolineare il trattamento di evidente sfavore che in tal modo veniva comunque riservato al proprietario incolpevole della contaminazione il quale (se pure non poteva essere indotto a provvedere direttamente alla bonifica) veniva comunque costretto a subire rilevanti limitazioni dell’uso della proprietà e al rischio della sua stessa ablazione8.

All’indomani dell’entrata in vigore del “Codice” del 2006 (il quale, fra l’altro, ha recepito nell’ordinamento interno la direttiva 2004/35/CE, attuativa del principio “chi inquina paga” di cui all’art. 191 TFUE)9 la materia della bonifica di siti contaminati risulta disciplinata in modo piuttosto compiuto dalla Parte IV, Tit. V (articoli da 239 a 253).

In via di estrema sintesi, il quadro normativo che qui rileva può essere così tratteggiato:

• l’art. 242 (rubricato “Procedure operative ed amministrative”) individua gli obblighi ricadenti sul soggetto responsabile della contaminazione per ciò che riguarda (inter alia) le misure di prevenzione, di ripristino e di messa in sicurezza di emergenza dell’area. La disposizione in questione non riferisce alcun obbligo al proprietario dell’area;

• l’art. 244 (rubricato “Ordinanze”) disciplina il caso in cui la contaminazione dell’area abbia superato i valori di concentrazione della soglia di contaminazione (CSR). In tali ipotesi la provincia territorialmente competente diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi degli artt. 242 e seguenti. L’ordinanza in questione viene comunque notificata anche al proprietario dell’area “ai sensi e per gli effetti dell’articolo 253” (i.e.: al fine di rendere operative le disposizioni che impongono oneri reali e privilegi speciali sull’area);

• l’art. 245 (rubricato “Obblighi di intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione”) consente al proprietario incolpevole – ma in assenza di un obbligo specifico – di attivare gli interventi di messa in sicurezza di emergenza e bonifica dell’area. Il comma 2 fa carico al proprietario il quale abbia rilevato il supermento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) di darne comunicazione alle amministrazioni competenti e di attuare le necessarie misure di prevenzione. Lo stesso comma 2 stabilisce che è comunque riconosciuta al proprietario la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in propria disponibilità;

• l’art. 250 (rubricato “Bonifica da parte dell’amministrazione”) stabilisce che, qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti di legge ovvero non siano individuabili e non vi provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all’articolo 242 sono realizzati d’ufficio dalle amministrazioni competenti, “avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza pubblica”;

• da ultimo, l’art. 253 del “Codice” (rubricato “Oneri reali e privilegi speciali”) stabilisce che gli interventi di messa in sicurezza e bonifica sulle aree oggetto di contaminazione «costituiscono onere reale sui siti contaminati qualora effettuati d’ufficio dall’autorità competente ai sensi dell’articolo 250» e che l’onere reale viene iscritto a seguito della approvazione del progetto di bonifica e deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica. Ai sensi del successivo comma 2 le spese sostenute per gli interventi di cui sopra sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime (art. 2748, cpv. c.c.). Dal canto suo, il comma 3 stabilisce che «il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell’inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell’autorità competente che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità». Infine, il comma 4 stabilisce che «(…) il proprietario non responsabile dell’inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato (…) le spese degli interventi adottati dall’autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell’inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute e per l’eventuale maggior danno subito». Ebbene, questo essendo il quadro normativo interno (come si dirà fra breve, solo in parte di diretta scaturigine europea), la giurisprudenza nazionale si era profondamente divisa circa la possibilità (de iure condito) di imporre al proprietario incolpevole l’adozione delle misure di prevenzione e di riparazione di cui alla Parte IV, Tit. V del “Codice dell’ambiente”. Ebbene (come puntualmente ricordato dall’Adunanza Plenaria con le due ordinanze “gemelle” del settembre/novembre 2013), in base a un primo – e minoritario – indirizzo tale possibilità doveva senz’altro essere ammessa sulla base di alcuni indici normativi e sistematici10.

I fautori di tale approccio osservavano, in particolare: i) che la più ampia e rigorosa applicazione del principio “chi inquina paga” porta ad escludere (persino nelle ipotesi-limite in cui non sia identificabile il responsabile dell’inquinamento) che gli oneri di bonifica ambientale possano essere addossati alla collettività; ii) che la tradizione giuridica nazionale (nonché di altri Paesi dell’Europa continentale) ben conosce ipotesi di imposizione al proprietario dell’area di specifici doveri di protezione e custodia connessi al mero dato della relazione con la res (in base a una sorta di pura e semplice “responsabilità da posizione”); iii) che il richiamo normativo alla figura dell’onere reale (art. 253 del “Codice dell’ambiente”) testimonia la volontà del Legislatore di individuare il proprietario attuale come soggetto su cui gravano i richiamati obblighi.

Gli stessi fautori osservavano, inoltre: iv) che la più recente dottrina e giurisprudenza in ambito civilistico hanno ormai riconosciuto che il principio colpevolistico rappresenta uno soltanto dei possibili criteri di imputazione delle conseguenze del danno (ben potendosi affiancare ad esso un diverso criterio di imputazione basato sulla mera relazione con la res, al pari di quanto previsto nel caso di danno da cosa in custodia ex art. 2051 c.c.); v) che «in coerenza col fondamento stesso del principio “chi inquina paga”, il “chi” non andrebbe inteso solo come colui che con la propria condotta attiva abbia posto in essere le attività inquinanti o abusato del territorio immettendo

o facendo immettere materiali inquinanti, ma anche colui che – con la propria condotta omissiva o negligente – nulla faccia per ridurre o eliminare l’inquinamento causato dal terreno di cui è titolare»11.

I fautori di un opposto orientamento (puntualmente richiamato dalle decisioni di rimessione della Sesta Sezione e dalle stesse “ordinanze gemelle” dell’Adunanza Plenaria)12 ritengono invece che il pertinente quadro normativo nazionale osti a una ricostruzione volta a far gravare in capo al proprietario incolpevole della contaminazione gli obblighi di cui alla Parte IV, Tit. V del “Codice” del 2006.

Secondo i fautori di tale approccio: i) il principio di matrice eurounitaria “chi inquina paga” (art. 191 TFUE) deve essere correttamente inteso secondo le categorie tipiche della responsabilità personale, senza che sia possibile fare ricorso ad indici presuntivi o a forme più o meno accentuate di responsabilità oggettiva; ii) le disposizioni di cui al richiamato Tit. V impongono chiaramente al proprietario incolpevole dell’inquinamento un novero piuttosto limitato di comportamenti (come l’adozione delle misure di prevenzione di cui al comma 2 dell’art. 245), la cui individuazione sembra insuscettibile di interpretazioni di carattere estensivo, atteggiandosi quale tendenziale numerus clausus13; iii) deve essere valorizzato l’art. 245 del “Codice” il quale contempla come semplice “facoltà” quella per cui il proprietario dell’area ritenga di realizzare egli stesso le necessarie misure di ripristino ambientale; iv) deve essere parimenti valorizzato il successivo art. 250 il quale (con evidente previsione “di chiusura”) stabilisce che l’obbligo di realizzare “in ultima istanza” le misure in questione gravi sugli enti pubblici competenti e non sul proprietario dell’area (sul quale ricadranno, al contrario, le sole conseguenze di carattere patrimoniale di cui al successivo art. 253);

v) nell’ordinamento interno le ipotesi di responsabilità oggettiva per danno ambientale costituirebbero pur sempre un numerus clausus, tendenzialmente inestensibile in via interpretativa ed applicativa.

Ebbene, la richiamata divergenza di opinioni si è manifestata in tutta la sua ampiezza quando la Sesta Sezione del Consiglio di Stato è stata chiamata a decidere due appelli del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) con cui si era chiesta la riforma di altrettante sentenze del Tar della Toscana il quale aveva annullato gli atti con cui il Ministero aveva imposto specifiche misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica di alcune aree contaminate nell’ambito del Sito di Interesse Nazionale (SIN) di Massa Carrara (le misure in questione erano state imposte ad imprese che, pacificamente estranee alle condotte di inquinamento, avevano acquisito i siti inquinati dopo che la contaminazione si era già verificata).

Con le richiamate ordinanze numm. 2740 e 3515/2013 la Sesta Sezione, richiamati i contrastanti orientamenti formatisi sulla questione, ne ha investito l’Adunanza Plenaria.

2.2 Le ordinanze di rimessione dell’Adunanza Plenaria (art. 267 TFUE)

Con due ordinanze sostanzialmente “gemelle” (si tratta della n. 21/2015 e della n. 25/2015) l’Adunanza Plenaria ha esaminato in modo approfondito i contorni del richiamato contrasto giurisprudenziale e ha concluso nel senso che il pertinente quadro normativo interno debba essere inteso nel senso di non consentire alle Autorità nazionali di imporre al proprietario incolpevole l’adozione delle misure di cui alla Parte IV, Tit. V, “Codice dell’ambiente”.

D’altra parte i Giudici di Palazzo Spada (pur se convinti della compatibilità di tale ricostruzione sistematica con l’ordinamento UE) hanno evidenziato alcuni possibili contrasti con il principio “chi inquina paga”, nonché con i principi di precauzione, dell’azione preventiva e della correzione in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente da comportamenti di operatori economici.

L’Adunanza Plenaria ha quindi rivolto alla Corte di Lussemburgo il seguente quesito interpretativo: «se i principi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, [del TFUE] e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21 aprile 2004 (…) – in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245, 253 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica».

Qui di seguito si richiameranno (stante la loro notevole valenza sistematica) le ragioni poste dall’Adunanza Plenaria a sostegno della prevalenza per la tesi più favorevole alla posizione del proprietario incolpevole.

Le ragioni in questione riguardano essenzialmente i profili di diritto interno (mentre per quelli relativi al diritto eurounitario l’Adunanza Plenaria svolge considerazioni in parte diverse che saranno esaminate infra).

In primo luogo i Giudici di Palazzo Spada osservano che un’analisi testuale delle pertinenti disposizioni del “Codice dell’ambiente” induce ad escludere la sussistenza di specifici obblighi di facere in capo al proprietario incolpevole della contaminazione (fatta salva l’adozione delle misure di prevenzione di cui all’art. 245, co. 2 e la facoltà di procedere in via autonoma e volontaria all’adozione delle altre misure di cui alla Parte IV, Tit. V del “Codice”).

In secondo luogo il Collegio rinviene argomenti nel medesimo senso dalla scelta del Legislatore di configurare gli interventi del Tit. V come “onere reale” e non come obbligazione propter rem.

Viene osservato al riguardo che la scelta del Legislatore del 2006 di evocare la (invero desueta) categoria dell’onere reale risulta ispirata dalla volontà di richiamare un istituto nel cui ambito la relazione con la res non rappresenta tanto il mezzo con cui determinare la persona che deve eseguire la prestazione, ma svolge – piuttosto – un’accentuata funzione di garanzia (in tal modo consentendo al creditore di ricavare forzatamente dal fondo il valore della prestazione che gli è dovuta).

Secondo l’Adunanza Plenaria, quindi, «la scelta del legislatore di evocare la figura obsoleta dell’onere reale può spiegarsi solo ammettendo che il proprietario “incolpevole” non sia tenuto ad una prestazione di facere (di cui è gravato solo il responsabile), ma sia tenuto solo a garantire, nei limiti del valore del fondo, il pagamento delle spese sostenute dall’Amministrazione che abbia eseguito direttamente gli interventi di messa in sicurezza e di bonifica»14.

2.2.1 È ipotizzabile una “oggettiva responsabilità imprenditoriale”?

Di particolare interesse risultano, poi, gli argomenti svolti dal Consiglio di Stato per confutare la tesi di chi ritiene comunque possibile configurare un titolo di responsabilità a carico del proprietario incolpevole, stante il tendenziale superamento, nell’attuale stato di evoluzione dell’Ordinamento giuridico nazionale, dei criteri di imputazione fondati sulla sola colpa.

In primo luogo il Collegio esamina (e respinge) la tesi di chi ritiene che al proprietario dell’area sia comunque riferibile il titolo di responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. (si tratta del danno cagionato da cosa in custodia, tradizionalmente ascritto alla categoria della responsabilità cd. “semioggettiva”)15.

Al riguardo i Giudici di Palazzo Spada si limitano ad osservare che un siffatto titolo di responsabilità potrebbe essere affermato solo laddove si dimostrasse che l’attuale proprietario avesse in custodia l’area già al momento in cui la contaminazione si è verificata.

Il che, nell’ambito del casus decisus, non è.

Di interesse ancora maggiore è l’argomento relativo alla recente evoluzione dei criteri di imputazione della responsabilità civile.

Al riguardo il Collegio osserva (in modo del tutto condivisibile) che, nonostante la recente tendenza dell’ordinamento interno a enucleare forme di responsabilità le quali possono prescindere dalla verifica dell’elemento soggettivo, nondimeno resta pur sempre indefettibile l’accertamento di un rapporto di causalità tra la condotta e l’evento dannoso, non potendo rispondere a titolo di illecito civile colui al quale l’evento lesivo non sia imputabile neppure sotto il profilo meramente oggettivo16.

Ciò induce l’Adunanza Plenaria a ritenere che, laddove si seguisse l’opposta tesi (volta a riconoscere un titolo di responsabilità a carico di chi non ha neppure contribuito – sotto il profilo oggettivo – a cagionare l’evento), il proprietario non risulterebbe attinto da una semplice forma di responsabilità oggettiva, bensì da una inammissibile forma di “responsabilità di posizione”. Ciò, in quanto il proprietario incolpevole sarebbe evidentemente tenuto ad effettuare le opere di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica a prescindere non solo dall’elemento soggettivo (dolo o colpa), ma anche di quello oggettivo (nesso eziologico)17.

È qui il caso di osservare il carattere del tutto centrale di questa parte della decisione, la quale si pone su una linea di piena coerenza sistematica con quanto statuito dalla CGUE con la sentenza del marzo 2015 (la quale ha a sua volta ammesso l’attenuazione della verifica dell’elemento soggettivo, ma ha considerato pur sempre indefettibile – de iure communitario – la sussistenza del nesso eziologico fra la condotta dell’operatore economico e l’evento lesivo).

Da ultimo, l’Adunanza Plenaria esamina – e respinge – la tesi di chi ritiene che la possibilità di gravare il proprietario incolpevole degli oneri di messa in sicurezza e di bonifica deriverebbe dal principio costituzionale della funzione sociale della proprietà privata (art. 42 Cost.), il quale giustificherebbe l’imposizione di pesi e oneri in capo alla proprietà per il perseguimento di superiori interessi generali (quali quelli connessi alla tutela dell’ambiente).

Al riguardo il Collegio osserva che la tesi in questione non può in alcun modo essere condivisa in quanto la compressione del diritto di proprietà in nome della “funzione sociale” richiede pur sempre (anche alla luce del Primo Protocollo alla convenzione EDU e della giurisprudenza della Corte EDU)18 la sussistenza di una puntuale base legislativa che – per le ragioni in precedenza esposte – non è in realtà rinvenibile nel “Codice dell’ambiente”.

2.3 La risposta della C. giust.

Come si è osservato in precedenza (par. 2.2.) l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, pur se convinta dell’esattezza della tesi volta a limitare gli obblighi ricadenti sul proprietario incolpevole della contaminazione a quelli richiamati dall’art. 253 del “Codice”, ha comunque ritenuto di sollevare un rinvio pregiudiziale dinanzi alla C. giust. al fine di confermare la compatibilità dell’ordito normativo in questione con il principio “chi inquina paga”, nonché con i principi di precauzione, dell’azione preventiva e della correzione in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente da comportamenti di operatori economici.

La Corte di Lussemburgo ha risposto al quesito in modo sostanzialmente affermativo stabilendo che «la direttiva 2004/35/CE (…) sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi».

Tuttavia, la motivazione offerta dai Giudici del Kirchberg ha indotto parte della dottrina a ritenere (e in modo persuasivo) che la questione sottoposta esulasse in realtà dell’ambito di applicazione del diritto eurounitario e che gli argomenti svolti dalla Corte rappresentino, quindi, una sorta di amplissimo obiter dictum volto piuttosto a ribadire taluni principi già invalsi nella giurisprudenza della Corte19 che non a fornire elementi effettivamente idonei a risolvere il giudizio a quo20.

In effetti, gli argomenti svolti dai Giudici europei sembrano volti a delimitare – e sotto diversi profili – l’ambito stesso di applicazione del diritto eurounitario (primario e derivato) in relazione alle scelte normative degli Stati membri in tema di misure di prevenzione e riparazione del danno ambientale.

In primo luogo la Corte di Giustizia afferma (come già aveva fatto con la sentenza ERG del marzo 2010): i) che il principio “chi inquina paga” di cui all’art. 191, par. 2 del TFUE si limita a definire gli obiettivi generali dell’Unione in materia ambientale; ii) che esso è rivolto in primis a regolare l’azione dell’Unione (e solo in via mediata quella degli Stati membri); iii) che quindi «detta disposizione non può essere invocata in quanto tale dai privati al fine di escludere l’applicazione di una normativa nazionale, quale quella oggetto della causa principale, emanata in una materia rientrante nella politica ambientale, quando non sia applicabile nessuna normativa dell’Unione adottata in base all’articolo 192 TFUE»21 (il riferimento va alle previsioni della direttiva 2004/35/CE che ha declinato in prescrizioni puntuali il richiamato principio generale “chi inquina paga”).

Correlativamente, la Corte chiarisce che l’art. 192 TFUE non può essere invocato dalle autorità nazionali al fine di imporre al proprietario incolpevole misure di prevenzione e riparazione in assenza di un fondamento giuridico nazionale (e, prima ancora, europeo)22.

Tanto chiarito dal punto di vista dell’applicazione (in senso oggettivo) del diritto europeo primario e derivato in tema di prevenzione e riparazione del danno ambientale, la Corte si sofferma poi sull’applicabilità ratione temporis delle disposizioni della direttiva 2004/35/CE.

Al riguardo viene richiamato l’art. 17 della direttiva, secondo cui le relative disposizioni (e i criteri di imputazione della responsabilità per danno ambientale ivi contenuti) non trovano applicazione nel caso di attività poste in essere prima del 30 aprile 2007 (termine fissato per il recepimento della direttiva negli ordinamenti nazionali).

Anche sotto questo aspetto risulta abbastanza evidente che la vicenda di cui al giudizio a quo non potrebbe comunque risultare governata dalle disposizioni di cui alla direttiva del 2004 (venendo in rilievo contaminazioni certamente prodotte prima dell’aprile 2007).

Ad ogni modo (assumendo di non conoscere se la vicenda di causa sia o meno riconducibile all’ambito di applicazione della direttiva 2004/35/CE), la Corte ipotizza due scenari23:

• in base a un primo scenario, se il Giudice nazionale (cui spetta in via esclusiva il procedimento di sussunzione delle regole del diritto UE al caso concreto) ritiene che la direttiva del 2004 non trovi applicazione al caso in esame, allora lo stesso Giudice potrà affermare la responsabilità del proprietario incolpevole solo se ciò sia previsto dall’Ordinamento nazionale (il che, nel caso italiano, non è) ovvero risulti dall’applicazione di diversi principi del diritto eurounitario;

• in base a un secondo scenario, se invece il Giudice nazionale ritiene che la questione risulti governata dalla più volte richiamata direttiva del 2004 (il che sembra comunque da escludere), allora le relative previsioni devono essere interpretate secondo quanto chiarito ai punti da 48 a 63 della motivazione.

Da questo punto, pertanto, la Corte svolge una rilevante disamina sui principi del diritto dell’Unione in materia ambientale (disamina che, per le ragioni già evidenziate, assume la valenza sostanziale di un ampio obiter dictum) per poi concludere che, laddove pure rientrasse nell’ambito di applicazione della direttiva 2004/35/CE, la normativa italiana in tema di bonifica dei siti inquinati di cui alla Parte IV, Tit. V del Codice dell’ambiente non risulterebbe comunque in contrasto con i principi e le disposizioni del diritto europeo dell’ambiente.

Ebbene, i Giudici di Lussemburgo operano dapprima una delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione della direttiva 2004/35/CE e sottolineano che le sue disposizioni possono trovare applicazione solo a fronte di contaminazioni causate da operatori professionali. In ogni altro caso, la fattispecie non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva del 2004 e può essere autonomamente disciplinata dai Legislatori nazionali (i quali, ai sensi dell’art. 16, hanno pur sempre facoltà di mantenere e adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, «comprese l’individuazione di altre attività da assoggettare agli obblighi di prevenzione e di riparazione previsti dalla presente direttiva e l’individuazione di altri soggetti responsabili»).

In secondo luogo la Corte sottolinea che, ai sensi del diritto UE derivato esiste una rilevante distinzione fra:

• (da un lato) le ipotesi di cui all’art. 3, par. 1, lett. a), (si tratta del danno ambientale causato da una delle attività professionali “sensibili” elencate nell’allegato III). In tali ipotesi, il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale è di carattere rigidamente oggettivo e prescinde dalla necessaria verifica di una volontà colpevole da parte dell’operatore (c.d. responsabilità ambientale oggettiva);

• (dall’altro) le ipotesi di cui all’art. 3, par. 1, lett. b) (si tratta del danno alle specie e agli habitat naturali protetti causato da una delle attività professionali non elencate nell’allegato III, «in caso di comportamento doloso o colposo dell’operatore» (cd. responsabilità ambientale soggettiva).

Ebbene (richiamando ancora una volta la sentenza ERG del marzo 2010) la Corte sottolinea che, pur dovendosi dare atto del più rigido criterio di imputazione della responsabilità che attinge l’operatore nelle ipotesi di “responsabilità ambientale oggettiva”, nondimeno viene sempre richiesta – perché una forma di responsabilità sia configurabile – la sussistenza di un nesso di causalità fra la condotta dell’agente e l’evento lesivo per l’ambiente.

Non a caso, l’art. 8, par. 3 della direttiva stabilisce che «non sono a carico dell’operatore i costi delle azioni di prevenzione o di riparazione adottate conformemente alla presente direttiva se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno: a) è stato causato da un terzo, e si è verificato nonostante l’esistenza di opportune misure di sicurezza (…)»24.

L’Ordinamento UE (e segnatamente la direttiva 2004/35/CE, che ha tradotto in disposizioni puntuali il generale principio di cui all’art. 191 TFUE), quindi, non conosce alcuna ipotesi in cui la responsabilità per il danno ambientale possa essere fatta gravare su un operatore il quale non abbia cagionato – sotto il profilo causale – il danno di cui si discute.

Resta salva, naturalmente, la possibilità che il Legislatore nazionale, avvalendosi della clausola di maggior rigore di cui all’art. 16 della direttiva, decida in via autonoma di dotarsi di una normativa interna che preveda una siffatta forma di responsabilità “da mera posizione”.

Tuttavia, la Corte di Giustizia osserva che, secondo quanto è pacifico in atti (e secondo quanto statuito dall’Adunanza Plenaria in sede di ordinanza di rimessione) l’Ordinamento italiano non si è ad oggi avvalso della facoltà di introdurre le richiamate disposizioni di maggior rigore (quanto meno, per ciò che riguarda i criteri di imputazione della responsabilità per danno ambientale).

Si tratta, d’altronde, di una scelta di fatto comune a quella operata dai principali Stati membri dell’Unione (Francia, Germania, Spagna) i quali – pur nella diversità delle scelte nazionali di recepimento – hanno escluso la possibilità di coinvolgere il proprietario incolpevole in forme di responsabilità per il danno ambientale cagionato da altri sulle aree successivamente acquisite25.

I profili problematici

La sentenza della C. giust. dello scorso 4 marzo fornisce agli operatori del diritto dell’ambiente un certo numero di opportuni chiarimenti (peraltro, ponendosi sul solco di precedenti giurisprudenziali in larga parte conformi), ma non fornisce probabilmente agli operatori del diritto interno tutte le chiarificazioni che ci si sarebbe potuti attendere al momento in cui i quesiti interpretativi erano stati formulati dall’Adunanza Plenaria.

Ad avviso di chi scrive, le principali acquisizioni desumibili dalla pronuncia in rassegna sono tre.

In primo luogo appare centrale la conferma dell’assunto secondo cui il principio “chi inquina paga” (di cui, comunque, non viene revocata in dubbio la valenza generale) non trova piena e immediata applicazione nell’ambito degli Ordinamenti nazionali e non può essere invocato né dai privati (laddove una normativa nazionale di maggior rigore si ponga al di fuori dell’ambito disciplinato dal diritto UE derivato), né dalle autorità nazionali (le quali, in ipotesi, intendano supplire la carenza di un puntuale fondamento normativo nazionale al fine di imporre comunque al proprietario incolpevole specifici obblighi di messa in sicurezza o di bonifica, adducendo l’operatività di principi generali dell’Ordinamento UE)26.

Detto principio risulta invece rivolto in primis a regolare l’azione dell’Unione e può trovare ingresso negli Ordinamenti nazionali solo attraverso l’intermediazione di fonti del diritto derivato (quale la direttiva 2004/35/CE) e nei soli limiti di operatività di tali fonti.

In secondo luogo la sentenza in questione risulta di particolare interesse sistematico in quanto chiarisce le numerose limitazioni (di ordine soggettivo e oggettivo) che definiscono l’ambito di operatività della direttiva 2004/35/CE.

In tal senso risultano di indubbia importanza i puntuali richiami che i Giudici di Lussemburgo operano: i) al regime temporale di efficacia della direttiva (ivi, art. 17), ii) al suo operare unicamente nei confronti di soggetti che svolgono attività professionali (ivi, artt. 2 e 3); iii) al regime di maggior rigore (e di maggiore garanzia) che opera in favore del professionista nei settori diversi da quelli sensibili richiamati dall’allegato III alla direttiva e per il quale viene espressamente esclusa la possibilità di configurare forme di responsabilità oggettiva.

In terzo luogo la sentenza in esame risulta di notevole importanza sistematica in quanto riconferma in termini quanto mai netti che, al fine di configurare una responsabilità per danno ambientale, è sempre necessaria la sussistenza di un nesso di causalità fra la condotta dell’operatore e l’evento dannoso.

L’Ordinamento UE consente – a talune condizioni – che la sussistenza di un siffatto nesso di causalità possa essere dimostrata facendo ricorso a meccanismi presuntivi27, ma non ammette in alcun modo la configurabilità di forme di responsabilità “da mera posizione” (i.e.: scaturenti dalla pura e semplice relazione dominicale con la res), come quelle ipotizzate – peraltro, senza formulare puntuale adesione alla tesi in parola – nell’ambito delle ordinanze di rimessione della Sesta Sezione del Consiglio di Stato del 2013.

Tuttavia, come si è già anticipato, la sentenza in rassegna lascia residuare alcuni margini di incertezza per gli operatori: si tratta di profili di incertezza che, se per un verso risultano comprensibili in ragione dell’inevitabile ricorso a concetti giuridici in parte indeterminati e della non piena metabolizzazione del principio “chi inquina paga” nel dibattito nazionale, per altro verso presentano aspetti di inevitabile criticità anche in ragione della rilevanza degli interessi coinvolti e del rilevante impatto sociale ed economico della materia.

Ad avviso di chi scrive, le principali aree di incertezza che residuano anche all’indomani della sentenza della CGUE del marzo 2015 sono in particolare due.

In primo luogo, nonostante l’ormai ampio dibattito che in ambito UE e nazionale si è svolto in relazione al principio “chi inquina paga”, detto principio risulta allo stato soltanto enunciato ma non anche puntualmente definito.

È vero che il dibattito ormai pluridecennale svoltosi sul tema28 ha consentito di individuare in modo piuttosto compiuto le ragioni sottese all’enucleazione del principio, ma è anche vero che la pluralità di tali ragioni (e talvolta la difficoltà di ricondurle ad unità) presenta ancora oggi profili di difficoltà per l’interprete e richiederebbe pertanto un adeguato chiarimento al livello normativo.

Solo per fare un esempio, è noto che la ratio ultima del principio “chi inquina paga” consiste sia nell’internalizzazione dei costi e delle diseconomie ambientali a carico di chi le causa, sia nel consequenziale effetto deterrente (e quindi general-preventivo) che deriva dall’imposizione di misure di prevenzione e riparazione29, sia – infine – nell’intento di escludere che i costi in questione vengano sostenuti dalla collettività.

Tuttavia, in assenza di una compiuta disciplina del principio (nelle sue molteplici declinazioni pratiche) residuano allo stato rilevanti margini di incertezza in ordine al soggetto cui addebitare in ultima istanza i costi del ripristino ambientale per le ipotesi in cui si riveli impossibile perseguire il responsabile effettivo.

Al riguardo, ciascuna delle possibili soluzioni presenta aspetti di persuasività ma anche evidenti criticità (si pensi all’ipotesi di gravare il proprietario incolpevole a titolo di “responsabilità di posizione”, oppure la collettività attraverso il ricorso alla fiscalità generale, oppure – ancora – un limitato novero di imprese del settore attraverso forme di fiscalità selettiva).

Tuttavia, ad avviso di chi scrive, non è ammissibile che aspetti così rilevanti della declinazione del principio “chi inquina paga” restino esenti da qualunque ravvicinamento delle legislazioni al livello UE e che esse vengano rimesse in via sostanzialmente esclusiva alle variegate (e talvolta antinomiche) scelte dei Legislatori nazionali.

In secondo luogo, l’affermazione del principio “chi inquina paga” e la ribadita centralità dell’accertamento del nesso di causalità fra la condotta e l’evento rendono quanto mai opportuno un chiarimento normativo in ordine ai criteri e alle modalità con cui tale accertamento può e deve essere compiuto.

È importante sottolineare al riguardo: i) che la CGUE (la quale, pure, ha ammesso il ricorso a forme di accertamento presuntivo del nesso di causalità) non ha fornito alcun elemento sistematico al fine di orientare l’indagine in questo delicatissimo campo; ii) che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha correttamente chiarito che la materia della responsabilità per danno ambientale presenta aspetti di marcata autonomia rispetto alle omologhe categorie del diritto civile (e tale autonomia non può che estendersi anche al cruciale tema dell’individuazione del nesso di causalità).

È più che nota al riguardo la recente tendenza dell’ordinamento civilistico a discostarsi dalle tradizionali acquisizioni che, in tema di nesso di causalità, sono state enucleate in ambito penalistico (in tal senso è qui appena il caso di richiamare l’adesione delle S.U. alla teorica del c.d. più probabile che non)30.

Ma il punto è che l’accentuata autonomia e le obiettive peculiarità della materia risarcitoria nel settore ambientale non consentono una pura e semplice trasposizione delle omologhe categorie civilistiche e (al contempo) non ammettono che un aspetto così centrale della materia resti rimesso alle variegate interpretazioni della giurisprudenza.

Anche su tale aspetto, quindi, è più che auspicabile un chiarimento normativo, ove possibile al livello eurounitario.

1 Sul punto: Carrera, C., La Corte UE (de)limita l’incidenza del diritto europeo sulla disciplina delle bonifiche, in Urb. app., 2015, 635 ss.; Vipiana Perpetua, P.M., Bonifica dei siti inquinati – La soluzione ‘all’italiana’ della posizione del proprietario di un sito inquinato non responsabile dell’inquinamento: il suggello della Corte di Giustizia, in Giur. It., 2015, 1480, ss.; Viviani, C., Bonifica dei siti inquinati – Chi non inquina non paga? La Corte di Giustizia ancora sulla responsabilità ambientale, ibidem.

2 Cons. St., A.P., 25.11.2013, n. 21 (Pres. Giovannini, Est. Giovagnoli), in Giur. It., 2014, n. 4 (con nota di P.M. Vipiana Perpetua, La figura del proprietario di un sito inquinato non responsabile dell’inquinamento: la parola definitiva dell’Adunanza Plenaria sull’interpretazione della normativa italiana); Cons. St., A.P., 13.11.2013, n 25 (Pres. Giovannini, Est. Scola), in Urb. app., 2014, 432 ss. (con nota di C. Carrera, Chi non inquina deve pagare?).

3 Sul punto, v. Viviani, C., Bonifica dei siti inquinati, cit.; Nunziata, M., I principi europei di precauzione, prevenzione e “chi inquina paga”, in Giorn. dir. amm., 2014, 656, ss.; Meli, M., Il principio “chi inquina paga” nel Codice dell’ambiente, in Danno e Resp., 2009, 811 ss.

4 Si tratta di due sentenze parziali con contestuale ordinanza di rimessione all’A.P. (Cons. St., VI, n. 2740/2013, Pres. Maruotti, Est. Contessa; id., VI, n. 3515/2013, Pres. Maruotti, Est. Castriota Scanderbeg).

5 C. giust., Gr. Sez., 9.3.2010, C378/08, Raffinerie Mediterranee (ERG), in Riv. it. dir. pubbl. com., 2010, n. 6, 1607 ss. (con nota di A. Bartolini, Il principio “chi inquina paga” e la responsabilità per danno ambientale nella sentenza della Corte di Giustizia 9 marzo 2010 – procedimento C378/08). Sul punto, v. anche Lo Schiavo, G., La Corte di Giustizia e l’interpretazione della direttiva 35/2004 sulla responsabilità per danno ambientale; le nuove frontiere, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2011, 83 ss.

6 Si tratta del d.lgs. 5.2.1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio).

7 Sul punto Carrera, C., Chi non inquina deve pagare?, in Urb. app., 2014, p. 432.

8 Manfredi, G., La bonifica dei siti inquinati tra sanzioni, misure ripristinatorie e risarcimento del danno all’ambiente, in Riv. giur. amb., 2002, 667 ss.

9 Si tratta della direttiva 21.4.2014, n. 2004/35/CE, sulla Responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.

10 Sul punto si veda il parere n. 2038/2012 reso dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato all’esito dell’adunanza di Sezione del 23.11.2011.

11 Cons. St., A.P., 21/2013, punto 11 della motivazione in diritto.

12 Cons. St., VI, 9.1.2013, n. 56; id., VI, 18.4.2011, n. 2376.

13 Sul punto, l’ordinanza di rimessione della Sesta Sezione n. 2740/2013 aveva richiamato il principio di tendenziale in estensibilità degli obblighi impositivi di prestazioni personali o patrimoniali (nonché del generale principio «ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit»).

14 Punto 17 della motivazione.

15 Sul punto: Mazzon, R., Responsabilità oggettiva e semioggettiva, Padova, 2012, passim.

16 Punto 19 della motivazione in diritto.

17 Ivi.

18 Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali adottato a Parigi il 20 marzo 1952.

19 In particolare, la Corte di Giustizia richiama a più riprese i principi di diritto già espressi con la sentenza ERG del marzo 2010 (sul punto, v. retro, nota 5).

20 Carrera, C., La Corte UE (de)limita l’incidenza del diritto europeo sulla disciplina delle bonifiche, cit., 638.

21 Punti 39 e 40 della motivazione.

22 Ivi, punto 41.

23 Punti 46 e 47 della motivazione.

24 Ivi, punti 57 e segg.

25 Solo nell’Ordinamento svedese il Chapter 10 dell’Environmental Code del 1999 ha stabilito che al proprietario il quale non abbia cagionato l’inquinamento possa essere imposto l’obbligo di bonifica qualora, al momento dell’acquisto, egli sia consapevole – o avrebbe dovuto esserlo – dello stato di contaminazione dell’area (sul punto: Carrera, C., La Corte UE (de)limita l’incidenza del diritto europeo sulla disciplina delle bonifiche, cit., p. 637). É qui appena il caso di osservare che sia l’ordinanza di rimessione n. 2740/2013, sia l’ordinanza dell’Adunanza Plenaria 21/2013 si erano posti il problema di evitare che l’alienazione del sito dall’inquinatore a un terzo soggetto potesse rappresentare il comodo viatico per il primo per sottrarsi alle responsabilità connesse allo stato di inquinamento.

Del resto, se è vero che – secondo l’id quod plerumque accidit – l’acquirente incolpevole è solitamente consapevole della contaminazione dell’area, appare del tutto verosimile che questi ne tenga conto in sede di fissazione del prezzo di acquisto (in tali casi il prezzo avrà – in qualche misura – “internalizzato” il rischio dell’adozione delle misure di cui all’art. 253, Codice dell’ambiente).

26 Si tratta, del resto, di un principio che era stato già sancito nell’ambito della sentenza ERG, al punto 46 della motivazione.

27 In tal senso, la sentenza ERG del 9.3.2010, punto 57 della motivazione.

28 Come è noto, il principio in questione è stato enunciato per la prima volta dalla Raccomandazione OCSE 26.5.1972, n. 128.

29 Viviani, C., Bonifica dei siti inquinati, cit., 1481 ss.

30 Sul punto, cfr. – ex multis – Cass. S.U., 11.1.2008, n. 584, in Danno e Resp., 2008, 1011 ss., con nota di R. Simone, Equivoci della causalità adeguata e contaminazione dei modelli di spiegazione causale.

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